Umbria secondo natura
Sono le dieci meno cinque del mattino e si sente il suono lungo e prolungato della sirena che annuncia il rilascio dell’acqua della cascata: – “Se vi sbrigate potete vedere quando aprono l’acqua!” ci avvisa l’impiegata della biglietteria del belvedere inferiore. Fede si mette a camminare di buona lena perché non vuole assolutamente perdersi lo spettacolo del filino trasparente –sembra appena appena un rubinetto dimenticato aperto- che va ingrossandosi fino a diventare una spumeggiante massa bianca dalla quale si sollevano nuvole di acqua polverizzata. Di pari passo con l’aumentare del flusso anche il fragore cresce e si moltiplicano gli arcobaleni. Fede filma, finché non comincia a bagnarsi. A poche centinaia di metri di distanza vendono impermeabili a due euro, ma tanto è estate, ci si può pure fare la doccia senza beccarsi una polmonite. Sotto a una loggia si accalcano i turisti per scattare foto a zii, bambini, mamme e papà con il salto di 165 m sullo sfondo. Passato un ponte, sotto il quale l’acqua trasparente che scorre sulle rocce scure contrasta con il bianco della spuma che si forma in superficie, ci ritroviamo a salire per il sentiero n. 1, percorso spettacolare, che porta dal belvedere inferiore a quello superiore, ora sfiorando le cascate, ora allontanandosene leggermente. Dopo poco deviamo per goderci gli spruzzi della cascata sulle passerelle del sentiero n. 2. Fede ed io avremmo bisogno del tergicristalli per mantenere puliti gli occhiali (e magari anche l’obiettivo della macchina fotografica, che è già tutto schizzato). In mezzo alla nebbiolina avanziamo con notevole sforzo antigravitazionale e ovviamente ci viene un languorino… Propongo la sosta su una panchina per rifocillarci alla svelta, ma ecco che arriva subito l’immancabile vespa, attratta dall’odore di una pesca nettarina. – “Mamma, aiuto!” Per fortuna l’insetto molesto si toglie dai piedi rapidamente. Arrivati a metà strada del sentiero n.1 entriamo nel gelido tunnel degli innamorati (‘sti poveri innamorati devono essere imbacuccati in abiti invernali, perché sembra di aver spalancato la porta di una cella frigorifera). Riemergere in fondo, sul cosiddetto “punto panoramico”, è impossibile, dato che lì “piove” tutto il tempo, per cui sembra di uscire sul balcone col temporale. Fede, infatti, si rifiuta di muovere un passo oltre e di sguazzare come un’oca in mezzo a quel diluvio, perciò torniamo indietro, dove ci aspettano alcune piccole grotte attraverso le quali passiamo. Per raggiungere il belvedere superiore, oltre a guardare dove si mettono i piedi e cercare di evitare i turisti che scendono –lamentandosi del fatto che non hanno messo delle scale mobili-, bisogna far uso di molte risorse energetiche, dato che il sentiero, verso la fine, ha un’impennata brutale. Difatti arriviamo ansimando e sudando nel punto in cui il Velino comincia a precipitare. Lì c’è un bar con un po’ di ressa e un casottino detto “La specola”. Cerchiamo il sentiero n. 5, ma all’inizio nemmeno l’ombra. Ma da dove passa? Poi ce la facciamo a inforcarlo, ma il fatto che sia deserto indica già la sua poca rilevanza rispetto al precedente percorso. Infatti di qui le cascate non si vedono, eccetto in qualche raro scorcio. Ne approfittiamo per pranzare al sacco (tanto gli insetti sono sicuramente tutti di sotto, dove ci sono bar, bidoni dell’immondizia e la calca dei turisti). Due scatolette di tonno e qualche mela dopo cominciamo la discesa, con lo zaino alleggerito e la pancia piena. Ci resta ancora la forza di fare una deviazione per il sentiero n. 3 prima di tornare al parcheggio del belvedere inferiore. Sul fiume Nera, adesso, ci sono dei tipi pazzoidi che si calano lungo le rapide con un canotto giallo, però stranamente non li vediamo precipitare a valle (sospettiamo che il canotto sia legato saldamente con delle funi e che per questo non sia inghiottito dal risucchio del vortice come le cimici quando le buttiamo giù per lo scarico del water). Questo che ho descritto è il nostro secondo giorno in Valnerina e forse il più eccitante (per via del panorama straordinario delle cascate), ma anche il giorno precedente, sabato, abbiamo avuto una giornata movimentata, cominciata con una sbiciclata lungo una strada bianca che costeggia il fiume Nera. Siamo riusciti a percorrerne una quindicina di km prima che Fede -boccheggiante e con il pollice dolorante a forza di cambiare rapporto-, giunti all’altezza di Sambucheto, ci implorasse di tornare indietro per la statale asfaltata fino ad Arrone, dove avevamo parcheggiato l’auto. Infatti qui era tutto un saliscendi, con ciottoli anche grossi da scansare. Per di più la temperatura era tale che stavamo per evaporare. A distanza abbiamo scorto il complesso monastico di San Pietro in Valle, la cui parte abbaziale è stata trasformata in un Relais & Châteaux, con camere ricavate nelle celle dei monaci (c’era venuta una mezza idea di pernottare là, ma i prezzi erano proibitivi e quindi abbiamo ripiegato su un B&B confortevole dai prezzi abbordabili denominato La porta della Valnerina a tre km dalle cascate), e non solo l’abbazia abbiamo visto, ma anche qualche castello. Per piluccare qualcosa ci siamo seduti sul bordo di un fontanella in una zona ombreggiata e dopo pranzo, quando eravamo allo stremo delle forze, ci siamo accoccolati sulla sponda e anziché ascoltare il cinguettio degli uccelli, ci siamo gustati una sosta “letteraria” (io leggevo a voce alta un giallo che aveva come protagonista Montalbano, di Camilleri) accanto alle limpide e rapide acque del Nera, che scorrevano verso valle. Una volta riacquistate le energie sufficienti ci siamo rimessi in pista e siamo rientrati alla porta della Valnerina dove, oltre a disfare ulteriormente il letto, abbiamo intinto qualche pezzetto di torta avanzato dalla colazione in una camomilla fumante. Ciò significava che adesso non c’erano più scuse: dovevamo essere pronti per affrontare la visita guidata di Narni sotterranea. A Narni abbiamo varcato la soglia della biglietteria-bookshop e ci siamo tuffati nel mistero. Accompagnati dalla spiegazione di una guida molto coinvolgente ci siamo addentrati in un dedalo di ambienti che si snodavano nel sottosuolo: era come stare al fresco in una cantina, si percepiva nel naso un forte odore di umidità e dopo poco ci sembrava di vivere chissà quale avventura! Accanto a cunicoli un po’ lugubri, c’erano anche ampie cisterne poi convertite in cripte o spaziosi locali sotterranei, per esempio quelli dell’antico complesso conventuale di San Domenico con annessa una chiesa ipogea che si trovava praticamente all’inizio della parte da esplorare. Tuttavia il fulcro di Narni underground era una sala sotterranea illuminata solo da qualche candela, in cui campeggiava un agghiacciante strumento di tortura: balzava evidente agli occhi che l’obiettivo era quello di stroncare sul nascere le eresie. La mia mente già immaginava la scena degli interrogatori: le atroci sofferenze che dovevano aver patito gli inquisiti dal Santo Uffizio mentre gli maciullavano le ossa e ho provato un brivido nella pancia. Con un certo sollievo ne sono uscita… Per infilarmi, a fianco dell’aula del tribunale, nella penombra di una cella tappezzata di graffiti, scarabocchi incomprensibili che ricoprivano sia i muri sia la bassa volta del soffitto. A quanto pare si trattava dei simboli cabalistici-alchemico-massonici lasciati da alcuni prigionieri dell’Inquisizione nella seconda metà del Settecento. Ho passato in rivista i geroglifici senza raccapezzarmi sul loro significato. Però, be’ si riconosceva un monogramma di Cristo (IHS), un sole, una luna, qualche uccello. La densa narrazione ascoltata riguardo alle ricerche d’archivio che hanno portato gli studiosi sulle tracce di Giuseppe Andrea Lobardini, un condannato che ha trascorso qui tre mesi, passandosi il tempo a incidere le pareti con un coccio appuntito, mi ha lasciato dentro un senso di precarietà che mi ha fatto pensare alla morte. Fortunatamente il sole abbacinante all’esterno ha cancellato qualsiasi sensazione sgradevole: bastava affacciarsi al belvedere per ammirare l’Abbazia di San Cassiano sul colle di fronte e sotto le profonde gole del fiume Nera. Una volta rientrati al nostro alloggio abbiamo setacciato il freezer alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Per miracolo abbiamo scovato un sacchetto di patatine fritte e bocconcini di carne impanati, pronti da far saltare in padella; il saccheggio si è concluso con l’asportazione degli ultimi residui di gelato alle nespole che incrostavano un barattolo di plastica e di alcuni scacchetti di cioccolato bianco scaduto da due anni. Tutto questo in provincia di Terni, nel finesettimana del sei, sette, otto luglio 2007, terminato in maniera piuttosto spiacevole: quando ormai eravamo già all’uscita di Ferrara sud la nostra Renault Laguna –in particolare la solita navigatrice con voce suadente- ha cominciato a segnalare un guasto agli iniettori. Siamo ammutoliti di colpo, sconvolti dall’imminenza di un evento ineluttabile. C’è stato un saettare di sguardi fra Leo e me. Ho sentito il mio consorte biascicare una bestemmia tra i denti. Poi ha proseguito tirando giù madonne fino a Gualdo, ma lì il fumo che usciva dallo scappamento e un’ulteriore segnalazione allarmante da parte della solita vocina ci hanno costretto a fermarci. Fortunatamente un collega di mio marito che abita nei paraggi ci ha offerto un servizio taxi immediato anche se la nostra macchina è rimasta parcheggiata a Gualdo fino al giorno dopo, quando l’ho vista portar via con il carro attrezzi.
Ripongo accuratamente i ricordi di questo viaggio nella fodera della mente. X. Chiudo il file.