Transilvania, terra incantata

Un regione caratterizzata da un ricchissimo patrimonio culturale, eredità dei numerosi popoli che hanno vissuto in queste terre
Scritto da: mapko64
transilvania, terra incantata
Partenza il: 03/08/2015
Ritorno il: 16/08/2015
Viaggiatori: 4
Spesa: 1000 €
La Transilvania è una regione incantata, caratterizzata da un ricchissimo patrimonio culturale, eredità dei numerosi popoli che hanno popolato queste terre. Durante il viaggio insieme alla sua famiglia, l’autore ha presto dimenticato gli stereotipi occidentali su romeni e vampiri, per immergersi in un mondo di castelli fatati, poderose chiese fortezza e città di mercanti che sembrano strappate dal nord Europa.

Come spesso mi accade le letture invernali sono fonte di ispirazione per i viaggi dell’estate. Quest’anno sono passati tra le miei mani due libri pieni di atmosfere, racconti autobiografici di scrittori inglesi, innamorati della Romania e della Transilvania in particolare.

Nel 1934 il diciannovenne Patrick Leigh Fermor intraprese da Londra un lungo viaggio a piedi attraverso l’Europa, per raggiungere Costantinopoli (come preferiva chiamare Istanbul). Il racconto di quel viaggio si trasformò in due libri solo molti decenni più tardi: “Fra i boschi e l’acqua” narra la seconda parte del viaggio, il percorso attraverso la Grande Pianura ungherese e la Transilvania, fornendo una visione incantata, ricca di digressioni storiche, di un mondo che di lì a poco sarebbe stato travolto dalla seconda guerra mondiale e dall’avvento del comunismo.

In tempi più recenti, dopo la caduta del Muro di Berlino, William Blacker si lanciò in un viaggio in auto oltrecortina, finendo quasi per caso in Romania dove rimase colpito dalla vita tradizionale dei contadini nella remota regione del Maramures e dalla Terra dei Sassoni in Transilvania. Alcuni anni più tardi decise di lasciare tutto e andare a vivere proprio nel Maramures, adeguandosi a uno stile di vita “arcadico” immutato da secoli. I ricordi del suo precedente soggiorno lo attrassero poi più a sud, in Transilvania, dove i sassoni avevano appena abbandonato quella che era stata la loro terra per centinaia di anni e il popolo degli zingari si era insediato nelle loro case. Blacker si legò, una dopo l’altra a due sorelle zingare, diventando uno strenuo difensore di questo popolo bistrattato e cercando in tutti i modi di preservare il patrimonio architettonico lasciato dai sassoni. “Lungo la via incantata” è un libro magnifico; dopo la sua lettura non ho potuto più resistere alla tentazione di conoscere queste terre.

Per visitare la Transilvania, insieme a Stefania e ai nostri due bambini, Fabio di cinque anni e mezzo e Giulio di due anni e mezzo, siamo ricorsi alla formula, consolidata negli anni passati, degli appartamenti in affitto, dividendo il soggiorno tra Brasov e Sighisoara. Se l’appartamento di Brasov, situato dietro la meravigliosa piazza centrale, si è rivelato piacevole e funzionale, quello di Sighisoara è stato un vero sogno: Casa Mador è ospitata in un palazzo storico di inizio Novecento nella via più bella della città alta, a due passi dall’incantevole Platia Cetatii; Daniel, il suo proprietario che vive in America, e Ovidiu, che lo gestisce in loco, sono sempre stati attenti a non farci mancare nulla. Dalle nostre “case delle vacanze”, come le chiamano i bambini, abbiamo poi effettuato varie escursioni giornaliere che in due settimane ci hanno consentito di esplorare quasi tutta la Transilvania.

La Transilvania è stata in passato una terra contesa, dove l’etnia maggioritaria romena per secoli è vissuta sotto il giogo della nobiltà ungherese. La situazione si è rovesciata dopo la prima guerra mondiale, quando con la nascita della Grande Romania la comunità ungherese, separata dalla madrepatria, ha rischiato di essere sommersa dal “mare romeno”. In qualche modo queste vicende sembrano avere anticipato quanto è accaduto in tempi più recenti in Kosovo, con il conflitto tra serbi e albanesi, ricordandomi ancora una volta come la storia non sia altro che il ripetersi di situazioni sempre uguali. “Historia magistra vitae”, scriveva Cicerone, ma l’uomo sembra uno studente molto scarso, che non è in grado di imparare nulla dal passato.

La composizione etnica della Transilvania è ancora più complessa: due popoli “misteriosi”, i siculi ungheresi e i sassoni tedeschi, vi hanno vissuto per secoli, contribuendo ad arricchire il suo patrimonio culturale; la comunità zingara, la più numerosa in tutta Europa, è perfettamente integrata nella vita del paese. Tutti questi elementi hanno contribuito a creare un ricco ed eterogeneo patrimonio architettonico, come abbiamo avuto modo di scoprire durante il nostro viaggio: castelli medievali, poderose chiese fortificate, città di mercanti, edifici mitteleuropei e molto altro ancora.

Protetta a sud dai Carpazi meridionali, che la separano dalla Slovacchia, la Transilvania è un altopiano ricco di colline boscose, caratterizzato da magnifici paesaggi bucolici nei quali non si avvertono, come accade in altre regioni, le tristi eredità dell’epoca comunista. L’esodo dei romeni verso l’Italia lascerebbe pensare a una nazione povera con infrastrutture fatiscenti, ma in Transilvania la situazione ci è apparsa completamente differente: le città sono pulite e ben organizzate (almeno per quanto riguarda i centri storici), dotate ad esempio di immacolati parchi gioco per i bambini; le strade sono in ottime condizioni, i monumenti quasi tutti restaurati e curati.

Ed ora il diario di viaggio.

Lunedì 3 agosto: Roma – Bucarest – Brasov

Un volo Alitalia ci porta da Roma a Bucarest, dove sbarchiamo all’ora di pranzo. Per maggiore tranquillità decidiamo di cambiare subito un po’ di soldi nella valuta locale, il lei, nonostante il tasso poco conveniente. Tramite internet abbiamo prenotato una macchina a noleggio; alla Budget ci consegnano un’ottima Opel Astra con un grande bagagliaio, sufficiente per tutte le nostre borse e il passeggino di Giulio. Sui sedili sono montati due seggiolini, come mi ero raccomandato contattando l’ufficio dell’aeroporto per telefono.

L’aeroporto di Bucarest si trova a nord della città, proprio lungo la strada per Brasov. Per raggiungere la Transilvania, superate le sterminate distese coltivate della pianura valacca, dobbiamo valicare i Carpazi meridionali, che fino alla prima guerra mondiale segnavano il confine con l’impero asburgico. La strada prende a salire, attraversando una serie di piacevoli paesini affollati di villeggianti, tra i quali Sinaia che visiteremo nei prossimi giorni. Prima di lasciare l’aeroporto ci siamo sfamati con alcuni panini, ma la strada tutta curve mette in crisi il povero Giulio che vomita costringendoci a una sosta di emergenza: recuperata l’acqua a una fontana e la carta igienica a un ristorante, cambiamo il piccolino e smontiamo il seggiolino pulendolo alla bene e meglio.

Finalmente nel tardo pomeriggio giungiamo a Brasov. Abbiamo già contatto al telefono Daniel, il proprietario della casa affittata tramite il sito Airbnb: ci aspetta nella piazza centrale. Lasciata l’auto al parcheggio della Chiesa Nera, lo raggiungiamo davanti a KFC. Piata Sfatului ci appare subito magnifica, circondata da case coperte da pittoreschi tetti spioventi e al centro la Casa del Consiglio. L’appartamento si trova a due passi nella prima traversa della Strada Republicii, la via pedonale piena di locali che inizia proprio dalla piazza. È stato da poco risistemato in modo piacevole; in assenza di un lettino, le prossime notti io e Fabio dormiremo insieme in un letto matrimoniale, mentre Giulio dormirà con la mamma in un altro a due piazze. Unica nota negativa della sistemazione, la scarsa dotazione dell’appartamento: la carta igienica è assente, abbiamo appena due asciugamani a disposizione e anche la cucina è sprovvista quasi di tutto.

Per parcheggiare l’auto Daniel mi indirizza in un cortile, al quale si accede attraverso un vicolo da Piata Sfatului, veramente comodo ed economico (tre euro al giorno), anche se, per portare fino a casa i bagagli e il seggiolino da lavare, mi tocca attraversare più volte la vasta piazza.

Per cena scegliamo la “Keller Steak House” dove gustiamo bistecca e agnello. Giulio però, dopo il volo e il percorso in auto, è irrequieto e non vuole proprio stare seduto; dobbiamo quindi alternarci a tavola, mentre Giulio “scorazza” in piazza su una mini jeep a batteria. Dopo cena anche Fabio non rinuncia a una pedalata con le macchinette a disposizione dei bambini.

Martedì 4 agosto: Brasov

Brasov per molti secoli è stata una delle principali città dei Sassoni di Transilvania. La tedesca Kronstadt (Città della Corona), popolata da artigiani e commercianti, prosperò grazie alla sua posizione, all’incrocio delle principali vie di comunicazione tra l’impero ottomano e l’Europa occidentale. Il pericolo sempre incombente di incursioni da parte di tartari, turchi e valacchi, determinò la costruzione di imponenti fortificazioni; la cura delle varie torri era affidata ciascuna a una corporazione di artigiani.

La presenza di una popolazione germanica, così lontana dalla madre patria, ha sempre suscitato molte curiosità. Una fiaba popolare tedesca, “Il pifferaio di Hamelin” nota anche come “Il Pifferaio Magico”, fornisce un’originale spiegazione. La storia si svolge nel medioevo in Bassa Sassonia. Un forestiero con un piffero si presenta ad Hamelin, offrendosi di liberare la città dai ratti che la infestano; il borgomastro acconsente, promettendogli un adeguato compenso. Non appena il pifferaio inizia a suonare, i ratti, incantati dalla musica, si mettono a seguirlo, lasciandosi condurre fino al fiume dove annegano. La spergiura gente di Hamelin, liberata dai ratti, decide incautamente di non pagare il pifferaio, che per vendetta riprende a suonare mentre gli adulti sono in chiesa, attirando dietro di sé tutti i bambini della città. I bambini sono condotti dal pifferaio magico fino a una caverna, dalla quale fuoriescono attraverso un’altra caverna, la grotta di Almas in Transilvania. I sassoni, fondatori delle Siebenburgen (Sette Città), sarebbero i discendenti di questi bambini. Moltissime sono le opere ispirate al racconto popolare: i fratelli Grimm inclusero la fiaba nelle loro “Saghe Germaniche” e, probabilmente basandosi proprio sul loro testo, Robert Browning compose una celebre poesia “The Pied Piper”, pubblicata nel 1849.

La realtà storica è molto meno poetica: la colonizzazione della Transilvania da parte di popolazioni germaniche ebbe inizio ai tempi del re di Ungheria Geza II (1141-1162), che li chiamò a difendere i confini del regno. Benché molti parlassero un dialetto francofono e fossero originari delle regioni attorno a Lussemburgo e alla Mosella, furono indicati con il nome di sassoni, con il quale ci si riferiva probabilmente a tutte le popolazioni di lingua tedesca. La loro presenza in Transilvania si è protratta per secoli ed è veramente triste che appena qualche anno fa, dopo il crollo del regime comunista, siano emigrati quasi tutti in Germania, attirati dall’offerta della cittadinanza tedesca.

La nostra visita di Brasov non può che iniziare dall’incantevole Piata Sfatului (Piazza del Consiglio), incorniciata dalle antiche case dei mercanti sassoni. Sopra i tetti spioventi, coperti come da squame da tegole piatte, incombe il fitto bosco del monte Tampa, una visione veramente insolita per una città, con la scritta “BRASOV”, stile Hollywood, che campeggia in cima. Il lato opposto della piazza è incorniciato da una collina più bassa, sulla quale spicca la candida Torre Bianca. Il centro storico di Brasov, racchiuso come un imbuto tra queste due alture, è stato risparmiato da certe brutture della civiltà moderna forse per la mancanza di spazio.

Al centro della piazza, Casa Sfatului è dominata dalla torre dell’orologio. L’edificio attuale fu ricostruito nel Settecento in stile barocco, dopo essere stato distrutto dall’incendio provocato nel 1689 dall’esercito asburgico. La facciata è movimentata da una loggia che reca lo stemma della città, una corona poggiata sul tronco e le radici di un albero. Sopra le pareti tinteggiate di giallo, tra le tegole color terracotta si aprono numerosi abbaini.

Ci soffermiamo ad ammirare i vari edifici della piazza. La cattedrale ortodossa è stata costruita alla fine dell’Ottocento in stile bizantino; sulla piazza le fu consentito mostrare solo un sobrio ingresso, mentre la chiesa vera e propria si affaccia su un cortile. La cinquecentesca Casa dei Mercanti, Hirscher Haus, fatta costruire da una ricca famiglia, è uno degli edifici più antichi della città ed oggi ospita un ristorante. Proprio di fronte si trova il Museo della Civiltà Urbana, che propone un’interessante esposizione con oggetti di uso quotidiano nel passato, tra cui bambole e giocattoli.

Da un angolo della piazza spunta l’abside della Biserica Neagra (Chiesa Nera). La grande massa in pietra è alleggerita tra le finestre da pinnacoli sui quali sono collocate statue di santi; sopra incombe il tetto spiovente di tegole. Si tratta della più grande chiesa gotica tra Vienna e Istanbul, così chiamata per le pareti un tempo annerite dall’incendio appiccato dagli austriaci che occuparono Brasov nel 1689. Nell’alto campanile quadrato l’orologio con i quattro evangelisti costituisce una macchia di colore. Davanti si trova la statua di Johannes Honterus, rappresentato con un libro aperto in una mano e l’indice dell’altra puntato in avanti; il grande teologo e umanista sassone è ricordato per avere introdotto la Riforma luterana in Transilvania, oltre che per la sua attività di geografo e cartografo. Proprio a Brasov fondò una scuola, frequentata da giovani studiosi provenienti da tutta la Transilvania.

L’interno a tre navate della chiesa appare spoglio, fatta eccezione per i tappetini anatolici da preghiera, appesi lungo l’alta balconata e sugli alti schienali dei banchi di legno nelle navate laterali; molti risalgono al Seicento e la collezione è il frutto dei doni dei commercianti di ritorno dai loro viaggi nell’impero ottomano. L’organo, realizzato nell’Ottocento e dotato di quattromila canne, è uno dei più grandi nell’Europa sud-orientale. Al centro della chiesa, spicca lo sfarzoso pulpito barocco di legno: le sculture includono una figura di Mosè che tiene i dieci comandamenti e un albero di vita.

Sull’altro lato della strada raggiungiamo la chiesa della Santa Trinità; anche questa nasconde la sua fede ortodossa dietro un cortile. La fiancata bianca è graziosamente decorata da motivi intrecciati tra i quali sono collocati dei medaglioni.

Interrompendo la nostra visita dei monumenti cittadini, che per ora non sembra coinvolgere troppo i bambini, raggiungiamo la funicolare che porta in cima al monte Tampa, a quasi mille metri di quota. Il percorso diverte moltissimo Fabio e Giulio; dall’alto la vista sui tetti di tegole della città è affascinante. Una breve passeggiata ci porta fino al belvedere, collocato dopo le grandi lettere della scritta “BRASOV”. Ridiscesi in città, riattraversiamo la linea delle mura turrite per raggiungere di nuovo Platia Sfatului.

Il pomeriggio percorriamo tutta la pedonale Strada Republicii, occupata dai tavolini dei caffè, fino a Piata Revolutiei dominata dal grande edificio della Prefettura. Sull’altro lato sorge un cimitero dedicato alle vittime delle proteste che nel 1989 portarono al crollo del regime comunista. Lungo boulevard Eroilor si allineano alcuni edifici dell’epoca asburgica, l’ufficio postale e il consiglio municipale, davanti ai quali incrociamo la prima Lupa Capitolina con Romolo e Remo del nostro viaggio. Questo simbolo è particolarmente caro ai romeni per ribadire le loro antiche origini. Subito dopo il Parc Central è un piacevole giardino, pieno di fiori e attrezzato con un grande parco giochi per i bambini. Mentre Giulio dorme nel passeggino, Fabio può scatenarsi sugli scivoli e i percorsi sospesi. Spesso tra le mamme ascolto conversazioni in italiano: sono in vacanza nel proprio paese dopo un anno di lavoro in Italia oppure si tratta di famiglie miste? Brasov ci mostra un’immagine della Romania completamente diversa dall’immaginario collettivo: la città si è rivelata piacevole, pulita, ben organizzata, attenta ai bisogni dei bambini, ma anche degli anziani che giocano a scacchi sugli appositi tavolini nel parco.

Dopo che Fabio si è scatenato per bene, riprendiamo la nostra esplorazione della città. Sotto la collina che chiude il centro dal lato opposto al monte Tampa, corre un tratto delle mura cittadine, a fianco di un ruscello. All’altezza del Bastionul Graft una ripida scala consente di salire in cima alla collina fino alla Torre Bianca. Anche da questo lato, sempre con il sole alle spalle, il panorama sulla città è molto bello, più ravvicinato rispetto alla vista dal monte Tampa. Fabio e Giulio si divertono a visitare l’esposizione di armi medievali, attratti in particolare dalle griglie delle caditoie dalle quali si poteva far cadere di tutto sugli assalitori.

Ridiscesi, proseguiamo la passeggiata finché le mura piegano ad angolo retto raggiungendo la Porta Schei, un tempo limite invalicabile per la popolazione romena, non autorizzata a risiedere in città. L’ingresso poteva avvenire solo in certi orari e per vendere i proprio prodotti i romeni dovevano pagare una tassa. La porta risale all’Ottocento, ma molto più affascinante è la vicina Porta di Caterina (1559), con quattro torrette angolari e una centrale, tutte a punta. Sull’arco ritorna lo scudo della città con la corona sopra un albero.

Rinunciando per oggi alla visita dell’antico quartiere romeno di Schei, rientriamo nella città sassone raggiungendo subito la Sinagoga, costruita nel 1901 ed oggi perfettamente restaurata. L’interno non si può visitare; un gruppo di israeliani ha appena terminato la visita, pranzando nel ristorante kosher a fianco. Un memoriale è dedicato all’olocausto degli ebrei, che in Romania raggiunse livelli veramente apocalittici. Un’iscrizione, intitolata “Sa nu uitam” (“non dimenticare”), ricorda che nel maggio del 1944 150.000 ebrei furono deportati dalla Transilvania Settentrionale ad Auschwitz, grazie alla complicità dell’Ungheria (tradizionale nemico dei romeni). Dall’immagine di un treno della morte si levano impronte di mani aperte.

Poco oltre Strada Sforii è la via più stretta della Romania, mentre il primato europeo non è riconosciuto da tutti. In certi punti è larga appena un metro e trenta centimetri, consentendo a Fabio di toccare entrambe le pareti con le braccia aperte. Sopraggiunge anche una sposa che vuole farsi immortalare nel vicolo.

Per la cena, dopo l’esperienza del giorno prima, scegliamo la soluzione più semplice: il Mc Donald in fondo a Strada Republicii. Mentre mangiamo seduti nei tavolini davanti al locale, sia io che Stefania veniamo punti da una vespa; in Transilvania la loro presenza si rivelerà sempre incombente ogni volta che si mangia all’aperto. Concludiamo la giornata dove la avevamo iniziata, in piazza Sfatului, che attrae molti bambini grazie ai giochi e ai chioschi di gelati.

Mercoledì 5 agosto: Prejmer – Harman – Castello di Bran

Uno degli elementi più suggestivi della Transilvania è costituito dalle chiese fortificate dei villaggi sparsi per il suo territorio, molte delle quali inserite dall’Unesco nella lista dei patrimoni dell’umanità. Nel 1241-2 i mongoli avevano devastato gran parte del regno d’Ungheria e molti insediamenti sassoni in Transilvania erano stati distrutti. La minaccia mongola incombeva su tutta l’Europa, quando la morte improvvisa del Gran Khan richiamò Batu Khan in Mongolia. Nei decenni successivi i sassoni cinsero le loro città di fortificazioni, mentre le chiese di quasi trecento villaggi furono trasformate in vere e proprie fortezze nelle quali l’intera popolazione poteva trovare rifugio. Circa la metà di queste chiese, fortificate tra il XIII e il XVI secolo, è sopravissuta fino ai nostri giorni, un patrimonio architettonico unico al mondo, ed è un vero peccato che la popolazione tedesca che le ha costruite e curate per centinaia di anni oggi sia quasi del tutto emigrata in Germania dopo il crollo del comunismo.

Nei dintorni a nord di Brasov raggiungiamo per prima Prejmer (in tedesco Tartlau), dove sorge una delle chiese fortificate più spettacolari della regione, la più grande nel sud-est Europa. I cavalieri teutonici costruirono la fortezza nel 1212, durante la loro colonizzazione della regione, mentre la città iniziò a svilupparsi accanto al castello poco dopo, costituendo l’insediamento più orientale dei Sassoni di Transilvania. Nel corso della storia Prejmer subì cinquanta assalti da parte di mongoli, tartari, ottomani, ma venne conquistata una sola volta nel 1611 da Gabriel Bathory, principe di Transilvania, solo perché i difensori rimasero senza acqua.

All’esterno si presenta come una fortezza, protetta da possenti mura bianche con finestrelle e caditoie; il fossato invece è scomparso. L’unico ingresso è protetto da un barbacane, cioè da un avancorpo fortificato. Percorsa una sorta di galleria con archi, raggiungiamo un cortile in fondo al quale si apre la vera entrata della cittadella, una galleria a volta lunga trenta metri che attraversa il recinto delle mura; la grande saracinesca scorrevole con le travi appuntite non sembra incutere soggezione ai bambini, che si fanno fotografare subito sotto. La corte centrale è una vera sorpresa: l’anello di mura bianche, alte dodici metri e coperte da tetti di tegole, ospita quattro livelli di celle collegate da scale e ballatoi di legno. In caso di attacco ogni famiglia del villaggio disponeva della sua camera; in tutto se ne contano 272. Sembra di avere davanti una versione teutonica, squadrata e numerata, di un villaggio berbero; come in Africa le stanze servivano come abitazione, ma anche come magazzini per conservare le derrate alimentari; oggi molte sono state risistemate e possono essere raggiunte arrampicandosi sulle scale di legno, con gran divertimento di Fabio. Una di esse ospita la ricostruzione di un’aula scolastica con banchi di legno e un grande pallottoliere; un’altra è arredata con mobili tradizionali. Tutti insieme percorriamo il buio camminamento coperto che corre lungo il lato esterno delle mura. Le finestrelle permettevano di colpire gli assalitori; scherzando con Fabio, gli segnalo le aperture delle caditoie da utilizzare come gabinetti, per poi scoprire che servivano anche a questo scopo! Le mura esterne erano spesse quattro metri e mezzo.

Al centro della corte sorge la chiesa evangelica, che presenta forme gotiche e un campanile esagonale nel mezzo. La pianta cruciforme fa supporre che sia stata costruita prima del 1225, quando l’Ordine Teutonico, che edificava le sue chiese secondo questo schema, fu espulso dalla Transilvania; successivamente venne affidata ai cistercensi che la allargarono nello stile gotico burgundo. All’interno, sulle bianche pareti spiccano pilastri ed archi gotici in pietra. Il pulpito è un esagono di legno con dipinti e iscrizioni in caratteri gotici; il trittico all’altare reca la rappresentazione della Passione.

Da Prejmer un percorso di pochi chilometri ci porta ad Harman (Honigburg in tedesco, il Castello del Miele), dove sorge un’altra interessante chiesa fortificata, anche questa fondata dai Cavalieri Teutonici nel Burzenland (tra il 1211 e il 1225), come i sassoni indicavano la regione di Brasov nel sud-est della Transilvania. L’anello di mura che protegge la chiesa, alto fino a dodici metri, è rafforzato da sette torri, ma in passato esistevano addirittura altri due anelli più esterni. Percorso uno stretto e lungo passaggio, sbuchiamo nella corte interna dove i due livelli di celle sono solo su un lato. Anche qui un ambiente ospita la ricostruzione di un’aula scolastica con tanto di cartine geografiche appese alle pareti (una riproduce l’Europa tra il 1789 e il 1794 ai tempi della “revolutiei burgheze”, un’altra la “formatiuni politice romanesti in secolele IX-XIII”).

La chiesa è una basilica romanica del 1293 di influenza cistercense, dominata dalla grande torre quadrata che con i suoi cinquantasei metri è la più alta del Burzenland. Si erge incorporata nella facciata, con il piano terra che forma una sorta di atrio verso la navata centrale della chiesa. Con Fabio ci divertiamo a scalarla, fino a raggiungere le campane. All’interno la chiesa conserva l’aspetto romanico a tre navate, con pulpito di legno e altare barocco. Le basse panche di legno, ricavate da tronchi di pino, sono prive di schienale ed erano destinate alle donne sposate, che non potevano poggiarsi indietro a causa del loro abbigliamento.

Nel prato tra la chiesa e le mura qualcuno ha collocato una piscina gonfiabile con un grande delfino. Mentre i bambini giocano, visito la cappella ricoperta di affreschi ospitata in una torre delle mura. I dipinti risalgono al XV secolo, ma sono stati riscoperti solo nel Novecento. Sulla parete di fondo i personaggi della Crocifissione si sono conservati solo dalla vita in su, mentre nelle volte a crociera spicca Maria con il Bambino circondata da raggi di luce; su una parete laterale i dannati procedono nudi in fila, alcuni hanno la mitra sulla testa, altri sono collocati dentro pentole. La rappresentazione più affascinante è costituita da tre personaggi con l’aureola che indossano vesti dell’epoca e reggono lunghi cartigli come fumetti.

Completata la nostra prima irruzione nel mondo dei Sassoni di Transilvania, cambiamo genere spostandoci a sud di Brasov fino a raggiungere Bran, famosa per il suo “castello di Dracula”. La cittadina è presa d’assalto dai turisti e, prima di affrontare la lunga fila alla biglietteria del castello, consumiamo il pranzo al sacco in un giardino, dove due cannoni moderni attraggono l’attenzione di Fabio.

Ci troviamo lungo quella che una volta era un’importante strada di collegamento tra Transilvania e Valacchia, a guardia della quale i sassoni di Kronstadt costruirono tra il 1377 e il 1382 un castello, in sostituzione di quello di legno edificato dai Cavalieri Teutonici. Il maniero con il suo groviglio di torri e torrette si erge su una rocca alta più di sessanta metri, ma la sua popolarità è legata al mito di Dracula. Nella creazione del suo personaggio lo scrittore irlandese Bram Stocker, che in realtà non visitò mai la Transilvania, si ispirò anche al principe di Valacchia Vlad Tepes (Vlad l’Impalatore), che tuttavia non risedette mai in questo castello e forse lo assediò soltanto nel 1460 durante la sua campagna militare contro il Burzenland. Ciononostante il castello continua ad attrarre tutti gli appassionati del Conte Dracula, poco interessati alla storia ma attratti dal suo aspetto che ben si addice alla residenza di un vampiro.

Prima di affrontare la visita del castello, facciamo un giro nel museo etnografico allestito nei prati ai piedi della roccaforte. Le case intonacate a calce, coperte da alti tetti spioventi di legno, provengono da vari villaggi contadini. Alcune sono arredate con mobili tradizionali; come nel villaggio natale di Tito in Croazia, le più semplici presentano, dietro l’atrio di ingresso, un piccolo ambiente centrale utilizzato per cucinare e due camere ai lati. La grande abitazione al centro risale al 1843 ed include le stalle e una cantina.

Con Stefania abbiamo letto che gli interni del castello sono un dedalo di scale e torrette, poco adatti al piccolo Giulio considerato anche l’affollamento di visitatori; decidiamo quindi di alternarci nella visita. Per primi tocca a me e Fabio. Gli ambienti hanno conservato l’aspetto che dovevano avere al tempo della regina Maria di Romania, che vi risedette a partire dal 1920. Maria di Sassonia-Coburgo-Gotha, nipote della regina Vittoria e dello zar Alessandro II, aveva sposato nel 1893 il principe Ferdinando, salito al trono di Romania nel 1914. Fu una personalità decisamente anticonformista: durante la prima guerra mondiale si impegnò in prima fila come infermiera rischiando la vita tra i soldati in trincea; nella conferenza di pace di Parigi fu una strenua paladina degli interessi del suo paese, annunciando che “la Romania ha bisogno di una faccia e io sono venuta a mostrare la mia”. Confiscato dai comunisti, il castello è stato restituito alla nipote di Maria nel 2009.

La visita si sviluppa in una successione di scale a chiocciola, angoli spettrali, ma anche stanze piacevolmente accoglienti. In tutto si contano circa sessanta camere, quasi tutte coperte di legno, molte collegate da passaggi, che ospitano una collezione di mobili, armi ed armature dal XIV al XIX secolo. Dalla terrazza ci affacciamo su quello che fino alla prima guerra mondiale era il confine tra la Romania e l’impero austroungarico. Il luogo più affollato naturalmente è la torre dedicata a Dracula, con cartelloni che ricordano i molti film dedicati al celebre vampiro e l’albero genealogico di Vlad Tepes. L’aspetto di Vlad, ritratto con baffoni e lunghi capelli che spuntano dal copricapo con una grande gemma in mezzo alla fronte, non ha nulla a che vedere con le immagini cinematografiche dell’azzimato vampiro, che sembra un conte da operetta in frac. Al termine del giro sbuchiamo nel cortile interno, dal quale la visione del groviglio di logge, torri, torrette, gallerie è particolarmente suggestiva. Un grande capitello funge da vera di un pozzo. Terminata la visita, tocca a Stefania, mentre io mi rilasso con i bambini nel piacevole laghetto ai piedi della rocca.

Giovedì 6 agosto: Sinaia

La stretta valle della Prahova, ai piedi degli spettacolari monti Bucegi nei Carpazi meridionali, costituisce la principale via di comunicazione tra Valacchia e Transilvania. Abbiamo già percorso questa strada al nostro arrivo in Romania per raggiungere Brasov da Bucarest, ma oggi intendiamo visitarla con più calma, concentrandoci su Sinaia, residenza reale un secolo fa. Lungo il percorso attraversiamo alcuni piacevoli paesini affollati di villeggianti, come Predeal e Busteni sui quali svettano oltre i duemila metri il monte Cairaman, sormontato da un’enorme croce memoriale di guerra del 1920, e il monte Costila, con la torre della televisione.

A Sinaia raggiungiamo subito il castello di Peles, collocato in un magnifico parco all’inglese. Un cammino attraverso il bosco ci conduce fino alla visione fiabesca, alta oltre un prato erboso, di un castello bavarese: le bianche pareti sono coperte da reticoli di legno, mentre le torri culminano in altissime cuspidi appuntite.

Nel 1859 le assemblee di Moldavia e Valacchia, nominalmente ancora parte dall’impero ottomano, avevano proclamato la loro unificazione sotto il nobile boiardo Alexander Ioan Cuza, ma negli anni seguenti la sua politica di riforme aveva scontentato i grandi proprietari terrieri, che avevano chiamato al suo posto il principe tedesco Karl von Hohenzollern. Nel 1877, dopo l’ennesima guerra russo-turca, finalmente venne proclamata l’indipendenza dall’impero ottomano, riconosciuta poi dal Congresso di Berlino, segnando la nascita della moderna Romania, anche se limitata alle regioni di Moldavia e Valacchia. Il nuovo re Carlo I non perse tempo per allinearsi ai fasti delle altre case regnanti europee: il castello di Peles fu costruito in quegli anni, con le decorazioni delle sue centosessanta stanze ispirate in larga parte dall’eccentrica regina Elisabetta. Il palazzo fu il primo edificio in Europa ad essere interamente illuminato con l’elettricità. Dopo il crollo del comunismo nel 2008 è stato restituito alla famiglia reale, consentendo all’ultimo re di Romania, Michele I, di tornare nel suo luogo natale.

Per prima raggiungiamo la corte, dove l’ispirazione germanica appare evidente nei tipici reticoli di travi lignee che ricoprono le pareti bianche; dagli affreschi di false architetture spuntano un musicista e un personaggio con armatura. Per visitare gli interni mi alterno con Stefania, ma questa volta Fabio decide di accompagnare la mamma. Ricorriamo al self-guided tour, per il quale è comunque obbligatorio l’utilizzo di una audio guida. Al pianterreno si trovano gli ambienti di rappresentanza. Salendo lo scalone d’onore, raggiungo la grande Hall, coperta da vetrate e rivestita da magnifiche decorazioni di legno; in un angolo è collocata una finta scala a chiocciola; una copia lignea riproduce la Vergine di Norimberga, protettrice della famiglia reale tedesca. Gettata un’occhiata al teatro da camera, fornito di palco reale, il giro prosegue con la Sala delle Armi, nella quale spicca tra le armature quella che riveste interamente un cavallo e il suo cavaliere armato di alabarda; un bassorilievo riproduce la battaglie di Nicopoli, combattuta nel 1396 tra i turchi e i franco-ungheresi, alla quale partecipò Mircea il Vecchio, voivoda di Valacchia e nonno di Dracula. Tornato sui miei passi e superato lo studio di Carlo I, raggiungo la Biblioteca rivestita di cuoio di Cordoba; una porta segreta nasconde una scala che consente di raggiungere il primo piano. La successione di ambienti sontuosamente arredati prosegue. Uno dei più sfarzosi è la Sala del Consiglio con belle vetrate cinquecentesche realizzate in Svizzera; nella Sala della Musica spicca un’arpa, nel Salone Fiorentino il grande camino di marmo con piccole copie delle statue delle Cappelle Medicee opera di Michelangelo; la sala da pranzo presenta un tavolo lunghissimo, mentre un armadio nasconde il carrello elevatore con il quale le vivande venivano fatte salire dalle cucine. Seguono due ambienti esotici: la Sala Moresca, ispirata all’Alhambra di Granada, con tappeti orientali, pareti coperte di cuoio lavorato e armi, e la Sala Turca interamente coperta di arazzi.

Per visitare gli ambienti al primo piano devo aggregarmi a un gruppo con guida, ma le spiegazioni sono solo in romeno. Nonostante il loro utilizzo privato gli ambienti non sono meno suntuosi e non manca un secondo teatro. La suite imperiale fu appositamente decorata per la visita di Francesco Giuseppe nel 1896. Nella camera del re, il letto è collocato in fondo, in un ambiente sopraelevato riparato da una tenda, come fosse un trono. Gli unici ambienti essenziali sono i bagni con vasche da bagno in acciaio.

Completata la visita, tocca a Stefania e Fabio mentre io mi dedico con Giulio all’esplorazione degli esterni. La selva di torri e torrette rende l’architettura molto vivace. Nel parterre una statua riproduce Elisabetta mentre cuce sdraiata su un divano, un’altra Carlo in tenuta militare; Giulio però è più interessato ai grandi leoni. Un breve percorso mi porta fino al castello di Pelisor, che potrebbe benissimo essere stato trasportato fin qui dalla Germania. Fu costruito all’inizio del Novecento per Ferdinando e Maria, eredi di Carlo. Le guide segnalano che gli interni sono di tutt’altro genere, un trionfo di Art Nouveau ma non abbiamo il tempo per visitarli.

Per pranzo raggiungiamo il boulevard centrale di Sinaia, intitolato a Carlo I; fatta la spesa in un supermercato, consumiamo i panini seduti in macchina perché comincia a piovere. Ci spostiamo poi al monastero fondato nel 1690 dal principe Mihai Catacuzino, dopo un pellegrinaggio nel Sinai. Nel complesso si trovano due chiese. Al centro di una vasta corte la Biserica Mare (Chiesa Grande), edificata nel 1846, si distingue per il bel portico e la cintura di smalto verde con il motivo a fune attorcigliata che circonda l’edificio. L’interno appare buio con un’alta cupola, un grande lampadario e Maria in trono con il Bambino nell’abside. Un passaggio conduce a una seconda corte più raccolta, caratterizzata dal contrasto cromatico tra le pareti bianche e i tetti smaltati di verde. Al centro sorge la Biserica Veche (Chiesa Antica, 1695), realizzata nel cosiddetto stile brancoveanu, che si diffuse in Valacchia tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, sotto il principe Constantin Brancoveanu. Lo stile costituisce un originale ibrido tra le caratteristiche delle chiese ortodosse e l’architettura islamica, fondendo elementi bizantini, ottomani, tardo rinascimentali e barocchi. Il portico della cappella è interamente ricoperto di affreschi: un Cristo dall’aspetto giovane benedice dall’alto con le braccia aperte, circondato da due giri di quadretti, mentre più in basso nella Dormizione di Maria l’angelo taglia le mani all’ebreo che cerca di toccare il catafalco. Nel portale in pietra una coppia di angeli circonda un aquila con due teste, che regge due spade tra gli artigli. Prima di lasciare il complesso, incrociamo un prete vestito di nero che compie un giro tutto intorno alla Chiesa Grande, portando un alto palo di legno che percuote con un martello, per poi entrare in chiesa.

Sinaia è un’apprezzata località di villeggiatura, circondata da montagne che offrono numerose opportunità di trekking agli escursionisti. Con due bambini piccoli le nostre possibilità sono molto limitate; decidiamo quindi di sfruttare le funivie che consentono di salire sopra le montagne. Per il primo tratto preferiamo la strada che, attraversando un bosco, conduce fino al grande albergo a Cota 1400. Il panorama spazia ampio, ma la seconda funivia che prosegue fino a Cota 2000 ha appena chiuso i battenti, nonostante siano appena le quattro e mezzo, impedendoci di proseguire l’ascesa.

Tornati a Sinaia facciamo una breve sosta a un cimitero militare dedicato ai caduti della prima guerra mondiale, per poi raggiungere la stazione ferroviaria. All’edificio fu dedicata particolare cura, poiché la cittadina era una residenza reale. Proprio qui nel 1933 le Guardie di Ferro, braccio armato del fascismo romeno, assassinarono il leader liberale Ion Duca, da poco nominato primo ministro. Un piccolo museo contiene un’interessante esposizione di modellini ferroviari, ma Fabio è attratto dai Lego, più che dai plastici che riproducono la città e la stazione innevata.

Concludiamo in bellezza la visita di Sinaia, raggiungendo in pieno centro il parco Dimitrie Ghica, che accoglie begli edifici in stile neo-brancoveanu, come il Casinò e l’Hotel Palace. Non mancano neppure i divertimenti per Fabio e Giulio, con un bel parco giochi e una sezione di attrezzi per la ginnastica.

Venerdì 7 agosto: Rasnov – Sighisoara

Oggi abbiamo in programma il trasferimento a Sighisoara, ma prima di lasciare Brasov ci resta il tempo per un saluto alla magnifica piazza Sfatului e una rapida visita a Schei, che raggiungiamo in auto. Piata Unirii è il cuore del piacevole quartiere residenziale, un tempo destinato alla popolazione romena a cui era preclusa la città murata; nel mezzo, la statua di un soldato che imbraccia un fucile datata 1939 e una edicola con le pareti interne ricoperta di affreschi (i volti dei personaggi sono quasi tutti senza lineamenti, altri reggono cartigli con iscrizioni). Su un lato sorge San Nicola, la prima chiesa ortodossa costruita in Transilvania dai voivoda di Valacchia, tra il 1493 e il 1564. All’esterno spiccano le snelle torri campanarie, mentre l’interno è formato da un’unica larga navata con soffitto a botte e una bella iconostasi. L’edificio di fianco ha ospitato la prima scuola in lingua romena, fondata nel XIV secolo, oggi trasformata in museo.

Le promesse vanno mantenute: così, tornati in centro, mentre io intrattengono Giulio davanti ai grandi pavoni piastrellati del Parc Central, Stefania e Fabio raggiungono il negozio di giocattoli lungo la Strada Republicii. Fabio torna trionfante con il fischietto che aveva adocchiato i giorni passati, ad orari in cui il negozio era sempre chiuso, insieme agli immancabili supereroi e una macchinetta per Giulio.

Finalmente lasciamo Brasov, dirigendoci verso la fortezza di Rasnov lungo la strada per Bran. Sotto la fortezza si trova un parco dedicato ai dinosauri che attrae frotte di famiglie. Il parcheggio è affollatissimo, come anche i trenini trainati da un trattore che risalgono il breve tratto fino al parco e alla fortezza, con gran divertimento di Fabio e Giulio.

La fortezza, collocata su una collina rocciosa sopra la città di Rasnov (Rosenau in tedesco), fu costruita dai Cavalieri Teutonici nel Duecento come protezione contro i tartari invasori e successivamente ampliata dalla popolazione sassone. Situata in una posizione strategica lungo una strada che collega Transilvania e Valacchia, fu progettata come una vera cittadella dove la popolazione poteva rifugiarsi per periodi prolungati: comprendeva ottanta case, una scuola, una cappella e altri edifici tipici di un villaggio. Il sistema difensivo si articolava in nove torri, due bastioni e un ponte levatoio. Protetta da un dirupo di oltre 150 metri su tre lati, come la chiesa fortificata di Prejmer fu costretta alla resa solo una volta, nel 1612 dal principe ungherese di Transilvania Gabriel Bathory impegnato a limitare le libertà dei sassoni, grazie al fatto che gli invasori riuscirono a bloccare l’accesso alla fonte utilizzata per rifornirsi d’acqua. Si decise allora di realizzare un pozzo direttamente entro la cittadella e, secondo la leggenda, il compito di scavare nella roccia fu affidato a due prigionieri turchi ai quali venne promessa la libertà una volta completata l’opera. I lavori per raggiungere la profondità di 150 metri richiesero 17 anni. Abbandonata dopo la rivoluzione del 1848, la fortezza è stata restaurata solo recentemente. Nel 1967, vi fu girato il film “Columna” (“La colonna di Traiano”) diretto da Mircea Dragan, con Amedeo Nazzari nei panni dell’imperatore romano.

L’ingresso nel primo recinto di mura avviene attraverso una porta che veniva chiusa da una grande saracinesca. Nella torre è stato allestita una piccola esposizione, che culmina nel ballatoio superiore con una serie di interessanti cartelli installati in occasione del centenario della prima guerra mondiale e dedicati alle varie nazioni belligeranti. La cittadella vera e propria si erge davanti a noi, protetta da un altro giro di mura turrite, sopra la collina coperta di prati. Un cartello ricorda che le origini del sito risalgono ai daci: proprio qui sorgeva infatti Cumidava, fortificata con fossati di terra e palizzate di legno per proteggere le abitazioni parzialmente scavate nella roccia. L’insediamento fu citato tra le “luminose città della Dacia” dal geografo Claudio Tolomeo di Alessandria d’Egitto. Fabio si diverte a farsi fotografare come soldato romano, infilando la testa nell’apposito spazio del cartellone.

L’ingresso nella cittadella avviene attraverso il barbacane orientale, uno spazio semicircolare racchiuso da mura con feritoie per le armi da fuoco. All’interno delle mura gran parte degli edifici sono ridotti a cumuli di rovine, anche se alcuni sono stati restaurati. Il lato opposto all’ingresso è il più suggestivo, con vicoli sui quali si allineano casette coperte da tetti spioventi. Dalla torre la vista spazia sulla pianura, con la città di Rasnov subito sotto e le montagne in lontananza. Superato il pozzo scavato dai prigionieri turchi, Fabio e Giulio si divertono a rinchiudersi in una grande gabbia. Nel punto più alto della cittadella sorgeva la cappella evangelica, ma oggi non è sopravissuto quasi nulla, anche per le devastazioni recentemente apportate dai privati al quali era stata affidata in concessione la cittadella.

Consumato il pranzo a base di panini nella fortezza, raggiungiamo a piedi il Dino Parc. In una sala sono esposti alcuni scheletri di dinosauro, tra cui un intero allosauro, ma la vera attrattiva per grandi e piccini è costituita dal parco: nel bosco sono state collocate riproduzioni a grandezza naturale di svariati dinosauri; per Fabio e Giulio è uno spasso scoprirli in mezzo agli alberi, mentre i ragazzi più grandi, legati a corde, possono avventurarsi lungo percorsi sospesi. Il giro inizia con la laguna preistorica, dove Fabio non rinuncia a infilare la mano nella prima grande bocca spalancata piena di denti aguzzi. Si prosegue poi tra mostri giganteschi e specie più piccole, come l’oviraptor sul quale Fabio si diverte a salire in groppa, fino a raggiungere un vulcano rombante: una pedana vibra ad ogni eruzione con grande divertimento dei bambini. Il diplodoco è enorme, con un lungo collo e l’incredibile coda che si prolunga in mezzo agli alberi; come per la maggior parte dei sauropodi la sua miglior difesa erano proprio la mole che scoraggiava la maggior parte dei predatori. Non può mancare uno dei dinosauri più noti, l’imponente triceratopo, inconfondibile per il suo grande collare osseo e le tre corna, una sorta di antico rinoceronte. Impressionanti le dimensioni dell’antenato dell’odierno coccodrillo. Il giro termina in bellezza con il tirannosauro: le zampe anteriori sembrano moncherini confrontate alla sua mole, con la grande testa e la spaventosa bocca piena di denti aguzzi. Come sempre Fabio si interessa anche alle funzioni fisiologiche dell’animale, non trascurate dalla riproduzione! L’euforia dei bambini continua negli scivoli del parco giochi e sul trenino di ritorno al parcheggio.

Ormai è tempo di intraprendere la strada per Sighisoara, dove ci attende il nostro nuovo appartamento. Tornati verso Brasov, proseguiamo in direzione nord-ovest addentrandoci nel cuore della Transilvania. La strada si dipana tra verdi paesaggi collinari, attraversando paesini di impronta sassone. A Rupea sopra una collina si erge una scenografica cittadella, sul sito dell’antica fortezza dacica di Rumidava, che divenne poi la Rupes romana.

Finalmente giungiamo in vista di Sighisoara, con l’antica città murata che sorge sopra una collina dominata dall’alta punta della Torre dell’Orologio. Il nostro appartamento, Casa Mador, si trova lungo Strada Scolii, la via più bella che parte da Piata Cetatii (Burgplatz), cuore del centro storico. Il suo proprietario, Daniel, vive negli Stati Uniti e mi ha già contatto più volte al telefono; la gestione in loco è affidata ad Ovidiu che ci attende sotto il cimitero sassone, dove i vigili controllano le auto autorizzate ad entrare in centro. Per i prossimi giorni ci consegna il permesso che ci consentirà di parcheggiare proprio sotto casa. Casa Mador si presenta come una bella palazzina tinta di giallo dall’aspetto antico; su uno dei due frontoni triangolari è inciso l’anno 1902. Non sembra avere nulla da invidiare al grande albergo Sighisoara proprio di fronte. Il nostro appartamento si trova al piano terra, con l’accesso da un cortile interno nel quale i prossimi giorni i bambini potranno giocare liberamente. Oltre al soggiorno, comprende due grandi camere da letto ed è dotato di tutti i confort, perfettamente attrezzato per cucinare e mangiare, con tanto di macchinetta per il caffè espresso; una bella differenza rispetto alle due misere tazze dell’appartamento di Brasov. Insieme alla WI-FI ci viene messo a disposizione anche un tablet.

Per cena non dobbiamo sforzarci molto, poiché Piata Cetatii è piena di locali. Questa sera scegliamo la pizzeria “San Gennaro”, dove Fabio e Giulio ritrovano pasta e pizza, da loro molto apprezzate.

Sabato 8 agosto: Sighisoara

Finalmente una giornata senza auto, dedicata alla visita di Sighisoara, la Schassburg dei sassoni, inserita dall’Unesco nel Patrimonio dell’Umanità. La città alta, interamente circondata dalle mura, sorge su una collina che si erge isolata lungo la valle del fiume Tarnava e costituisce un magnifico colpo d’occhio per i profili aguzzi di torri e chiese. Passeggiando nella tranquillità delle sue viuzze in mezzo a case antiche, senza l’assillo delle auto, si viene riportati alle atmosfere medievali di un borgo sassone. La città fu governata per secoli dalle corporazioni che la arricchirono di monumenti e ne curarono la difesa, occupandosi ciascuna di un bastione. L’altro motivi di celebrità, che tanto attrae i turisti moderni, è l’aver dato i natali a Vlad Tepes, ispiratore del personaggio di Dracula.

La mattina iniziamo le nostre esplorazioni raggiungendo, in fondo a Strada Scolii, la scalinata che sale verso la parte più alta della cittadella: Scara Scolii (Scala degli Studenti) è coperta da una tettoia di legno che risale al 1642. Subito oltre sorgeva la Bergschule, Scuola sulla Collina: un’aula è stata restaurata e sui banchi di legno non mi sfugge un’antica edizione di Puskin. Proseguendo la salita, raggiungiamo in cima la spianata dove sorge la Chiesa sulla Collina, costruita nel 1345 ma ampiamente rifatta in epoche successive. La sua massa gialla domina la città; nel semplice interno a tre navate si distinguono alcune pale d’altare e lastre tombali (una con tracce di colore ritrae un personaggio con una lunga barba e baffi bianchi, che tiene un bastone in una mano e un fazzoletto con tre fiori nell’altra). Oltre la chiesa le tombe del cimitero sassone sono ombreggiate da alberi secolari. Le iscrizioni in caratteri gotici non sono tutte così lontane nel tempo e il posto trasmette una sensazione di grande serenità: risposate in pace antenati di una comunità cancellata dai tempi moderni!

Tornando sui nostri passi, raggiungiamo Piata Cetatii, luogo di passaggio obbligato e vero cuore del borgo. Le antiche case che la circondano, coperte da tetti spioventi di tegole, sono tutte perfettamente restaurate e tinteggiate con vivaci colori. Uno degli edifici più caratteristici è la Casa del Cervo, così chiamata per i due animali dipinti attorno all’angolo che condividono la testa sporgente con un bel paio di corna ramificate. Dalla piazza si raggiunge subito Piata Muzeului, dominata dalla mole della Torre dell’Orologio, eretta nel 1676 e simbolo cittadino. Alta 64 metri, è una possente (per la verità, un po’ tozza) torre quadrata, che culmina nella guglia centrale, circondata da quattro più piccole, tutte coperte da tegole di ceramiche policrome smaltate. Sul lato interno presenta un popolare carillon con vari personaggi, ma con grande delusione di Fabio allo scoccare delle ore suona soltanto il tamburino. All’interno della torre, nelle sale ai vari piani, è ospitato il Museo Storico. L’eterogenea raccolta non manca di celebrare Hermann Oberth, uno dei padri della missilistica e dei viaggi nello spazio: nato a Sighisoara, lavorò a Berlino tra le due guerre e poi in America dove fu coinvolto nei programmi spaziali. Sbirciando da una finestrella possiamo vedere da vicino le figure del carillon: un personaggio regge in mano un sole dal volto umano che sprigiona lunghi raggi. Il vero motivo di interesse è rappresentato comunque dal panorama che si gode dalla cima, con lo sfondo delle colline boscose della vallata: nel groviglio di tetti di tegole dai quali spuntano i camini, riconosciamo il cortile di Casa Mador, mentre subito di fianco incombe la massa della Biserica Manastirei con il grande tetto spiovente. Fabio con il binocolo si diverte a scrutare un piccione appollaiato su una guglia.

Nella piazza davanti alla Torre dell’Orologio si trova la casa dove nel 1431 sarebbe nato Vlad Tepes. Una targa precisa che tra il 1431 e il 1435 vi abitò suo padre Vlad Dracul, figlio del celebre voivoda Mircea il Vecchio. Esternamente, l’edificio tinteggiato di giallo, si presenta piacevole, ma non risale certamente a quei tempi. Vlad Dracul fu ordinato cavaliere dell’Ordine del Drago dall’imperatore Sigismondo di Ungheria e da ciò deriva il patronimico Dracula (figlio del drago) con il quale era conosciuto Vlad Tepes (“drac” nel romeno moderno significa invece diavolo e ciò ha portato all’errata interpretazione di Dracula come “essere diabolico”). All’epoca della nascita del figlio, Vlad Dracul era un oscuro comandante, ma nel 1436 si impossessò del trono di Valacchia, trasferendosi con la famiglia alla corte di Targoviste. Alcuni anni più tardi tuttavia, per guadagnarsi i favori del sultano, dovette consegnare come ostaggi i figli Vlad e Radu (quest’ultimo sarebbe diventato poi l’amante di Maometto II). Il giovane Vlad visse nel terrore, ma poté apprendere le più “raffinate crudeltà” che avrebbe poi utilizzato contro i suoi nemici e i turchi stessi. Quando si profilò la possibilità che la Valacchia passasse in mano ungherese, gli ottomani liberarono Vlad e lo aiutarono a riprendere il trono del padre, ma nel corso della sua vita le alleanze mutarono di continuo. In Romania è considerato un eroe per le sue lotte contro i turchi.

La presunta casa natale di Dracula oggi ospita un ristorante, dal quale una scala porta al primo piano. In una sala buia, con le pareti coperte da tendaggi rossi e neri, è stata collocata una bara nella quale giace disteso un uomo. Faccio in tempo a scattare una foto, che il “manichino” si anima sollevandosi e gridando: per poco non mi viene un infarto, ci sono cascato in pieno! Si tratta di una attore in attesa dei turisti. Nella sala successiva, sempre con le stesse ambientazioni, spicca un busto dorato di Vlad Tepes.

Dopo essermi ripreso dallo spavento, insieme a Stefania e i bambini visitiamo la Biserica Manastirei, sull’altro alto della piazza. La chiesa è citata per la prima volta da documenti che risalgono ai tempi di papa Bonifacio VIII, quando faceva parte di un monastero domenicano oggi scomparso. Con la Riforma divenne luterana, ma nel 1676 fu distrutta da un incendio e subito dopo ricostruita. La facciata ha semplici linee, mentre all’interno il bianco delle pareti e il noce dei banchi sono rallegrati, come nella Chiesa Nera di Brasov, dalle macchie colorate dei preziosi tappeti orientali, donati dai mercanti che commerciavano con l’impero ottomano. Dietro la chiesa, il monumentale edificio neoclassico con guglie gotiche, risale all’Ottocento ed ospita il Municipio; la sua massa bianca domina la città bassa.

Per pranzo ricorriamo a un fast food in Piata Cetatii: salendo al primo piano di un edificio, Stefania raggiunge direttamente la cucina di una casa dove una signora le prepara al volo dei panini, che consumiamo in piazza seduti sulle panchine. Riprendiamo poi le esplorazioni, raggiungendo subito, viste le minuscole dimensioni della città alta, la Chiesa Romano Cattolica, costruita a fine Ottocento per la comunità ungherese. Siamo a ridosso del lato settentrionale delle mura e decidiamo di seguirne un tratto. Le fortificazioni risalgono in gran parte al Trecento, dopo le distruzioni operate dai mongoli nel 1241, e coprono un perimetro di circa un chilometro, punteggiato di torri e bastioni, affidate un tempo alle corporazioni dei mestieri. La Torre dei Calzolai, tra le più pittoresche, si trova proprio nell’angolo nord-occidentale; la sua struttura esagonale è sormontata da un alto tetto piramidale, con una scala esterna di legno protetta da tettoia che porta fino al primo piano. Proseguendo verso sud sul lato occidentale, incrociamo prima la Torre dei Sarti e poi salendo la Torre dei Pellicciai. Mentre Stefania visita l’esposizione all’interno, mi godo lo scorcio pittoresco, completato dal passaggio di una carrozza.

Ormai fa decisamente caldo e siamo giunti sotto la collina della chiesa sassone, spingendo a fatica il passeggino sulle viuzze acciottolate. I bambini hanno bisogno di un momento di gioco e riposo: Stefania torna quindi a casa con Fabio, mentre io proseguo il giro con Giulio nel passeggino, sperando che il dondolio dei ciottoli gli concili il sonno. Il piccolo mostra una bella resistenza: raggiunta prima la Torre dei Lattonieri, sul lato opposto sotto la collina, devo passare sotto la Torre dell’Orologio e scendere fino alla città bassa prima che si addormenti.

Abbiamo letto in una guida che un sentiero corre esternamente lungo le mura, così il pomeriggio decidiamo di percorrerlo. La passeggiata inizia dalla Torre dell’Orologio, ma risulta deludente, perché le torri sono spesso nascoste dagli alberi e il sentiero si rivela fatiscente. Durante il giro possiamo almeno apprezzare la visione, nella città moderna oltre il fiume, della grande Cattedrale Ortodossa costruita nel 1937 in stile neobizantino, con le sue candide linee movimentate. Decidiamo poi di raggiungere la città bassa: passando sotto la Torre dell’Orologio, sbuchiamo in Piata Hermann Oberth, piena di ristoranti e caffè. Il giardino al centro tuttavia è malmesso e frequentato da cani randagi, uno scenario ben diverso dall’immacolata cittadella. È sabato ed i negozi lungo Strada 1 Decembrie sono quasi tutti chiusi; nonostante alcune belle case e una Lupa Capitolina su un alto piedistallo, la passeggiata fino al fiume risulta quindi triste. Dopo aver fatto la spesa, ci affrettiamo a tornare nel borgo antico, ammantato di ulteriore fascino dalla luce della sera. A fianco della Chiesa del Monastero è stata collocata una statua bronzea che riproduce il volto di Vlad Tepes; per Giulio è uno spasso divertirsi a “fare capolino”, nascondendosi dietro l’alto piedistallo.

Domenica 9 agosto: Alba Iulia – Calnic

Per raggiungere Alba Iulia da Sighisoara, superata Medias lasciamo la strada che prosegue verso Sibiu, dirigendoci verso ovest. La città ha segnato due momenti storici particolarmente importanti per i romeni: la breve unificazione dei principati di Valacchia, Moldavia e Transilvania sotto Michele il Bravo nel 1599 e la nascita della Grande Romania dopo la prima guerra mondiale. Gli ungheresi preferiscono invece ricordare il suo ruolo di capitale del principato ungherese di Transilvania tra il 1542 e il 1690.

I motivi di interesse si concentrano nell’enorme Cittadella, sopra una collina fortificata già ai tempi dei romani. La sistemazione attuale risale al Settecento, ad opera dell’imperatore asburgico Carlo VI, in onore del quale i sassoni battezzarono la città Karlsburg: le fortificazioni progettate dall’architetto italiano Giovanni Morando Visconti, secondo i dettami dell’architettura militare dell’epoca, si estendono per una lunghezza di dodici chilometri con una forma a stella che comprende sette bastioni angolari.

Parcheggiata l’auto sotto un bastione, un lungo giro tra le due cinta di mura ci porta fino all’ingresso occidentale della cittadella, che raggiungiamo grazie a un moderno ponte sospeso. Il portale reca bassorilievi con l’aquila bicefale asburgica. Attorno al viale centrale, strada Mihai Viteazul (Michele il Bravo), che attraversa tutta la vasta spianata, appaiono subito le due cattedrali, testimonianza delle anime ungherese e romena della città. La cattedrale romano cattolica di San Michele è molto più antica; nonostante successivi rifacimenti mantiene l’impianto romanico duecentesco, al quale più tardi si sono aggiunti il coro gotico e il campanile realizzato nel Settecento. La facciata ha un aspetto insolito, quasi di fortezza, con la grande rientranza nella quale si apre il portale d’ingresso; la torre campanaria quadrata ha finestre diseguali ad ogni livello. Il candore della pietra si accentua all’interno, nelle tre slanciate navate. All’inizio di quella destra si trovano le tombe della famiglia Hunyadi, tra le quali spicca quella di Janos Hunyadi (Iancu de Huneodara per i romeni): la figura distesa sopra il sarcofago è quasi del tutto nascosta dalle numerose corone, tutte con i colori della bandiera ungherese eccetto una che reca quelli romeni.

Nella navata sinistra si trovano altre importanti sepolture: la regina Isabella Jagellona e suo figlio Giovanni Sigismondo, protagonisti della storia transilvana e ungherese.

Per passare dal mondo ungherese a quello romeno ci basta attraversare il viale centrale e raggiungere la cattedrale ortodossa, costruita per ospitare la cerimonia di incoronazione di Ferdinando e Maria a sovrani della Grande Romania e concepita come una sorta di continuazione della Cattedrale Metropolitana di Michele il Bravo, demolita dagli Asburgo. Nella nuova cattedrale il 15 ottobre 1922 Ferdinando e Maria furono incoronati monarchi della Grande Romania. I busti del re e della regina, che ci accolgono davanti all’ingresso, sono stati collocati nel 2008, a ricordo di quell’avvenimento. Il complesso fu costruito ispirandosi all’architettura tradizionale romena, adattata ai gusti moderni. Attraversata la torre campanaria color crema, alta 58 metri, entriamo in una vasta corte rettangolare, con gallerie ad arco che collegano i padiglioni angolari. Al centro sorge la chiesa dedicata alla Santa Trinità e agli Arcangeli Michele e Gabriele, ispirata all’architettura brancoveanu e preceduta da un portico con archi. L’interno presenta una grande cupola ed è coperto da affreschi che riprendono l’iconografia tradizionale bizantina, senza trascurare personaggi di rilevanza storica e religiosa.

La nostra visita prosegue raggiungendo la piazzetta dietro la bella abside gotica di San Michele. Al centro sorge la statua equestre di Michele il Bravo, inaugurata nel 1968 non a caso proprio di fronte al Palatul Princiar, il palazzo cinquecentesco sede dei principi ungheresi di Transilvania ma anche residenza di Michele durante la breve unione dei tre principati romeni sotto il suo scettro. Lo storico evento, dall’alto valore simbolico per i romeni, è ricordato da un grande bassorilievo bronzeo sulla parete esterna, nel quale il principe di Valacchia appare con la corona e lo scettro, avvolto da lungo mantello, mentre nobili e dignitari gli rendono omaggio.

Sull’altro lato del viale, uno di fronte all’altro sorgono due grandi palazzi. In quello di destra si trova la Sala Unirii (Sala dell’Unificazione), dove il 1 dicembre 1918 il parlamento transilvano ratificò l’Atto di Unione con la Romania. La grande sala marmorea oggi ospita alcuni cimeli legati all’avvenimento: il tavolo dove venne firmata l’adesione, un giornale dell’epoca con il titolo “Proclamarea Romaniei mari”, un grande quadro con Ferdinando in uniforme militare. Nelle altre sale del palazzo, costruito nel 1898 come sede del circolo ufficiali, visitiamo un’esposizione etnografica con costumi tradizionali e foto di contadini.

Di fronte, l’imponente palazzo Babilon, eretto nell’Ottocento per ospitare la guarnigione austro-ungarica della cittadella, oggi è la sede del Museo dell’Unione, che ripercorre la storia della Romania dalla preistoria alla seconda guerra mondiale. Questo genere di esposizioni sono particolarmente istruttivi, perché presentano la visione della storia dal punto di vista, parziale e spesso non obiettivo, di una sola delle parti in causa, aiutandoci a capire i lati oscuri del pensiero di un popolo. Purtroppo però la visita di un museo non è mai un’impresa semplice con due bambini piccoli, specie per una lunga esposizione che si sviluppa su più piani: mentre Giulio se ne sta buono nel passeggino, i miei tentativi di trovare spunti interessanti per Fabio ottengono quest’anno meno risultati che in passato. La visita si trasforma quindi in una sorta di volo d’uccello su millenni di storia romena.

Dopo le sezioni dedicate al paleolitico e al neolitico, al primo piano ampio spazio è dedicato alla cultura geto-dacica, nata attorno alla metà del I millennio a.C. a seguito delle ondate migratorie indoeuropee di tribù di traci. L’esposizione racconta la storia delle cittadelle daciche, con particolare riferimento alla capitale Sarmizegetusa, situata a sud di Orastie non lontano da Hunedoara. Tra le monete d’argento appartenute a un tesoro dacico, scoperto a Lupu vicino Alba lulia e risalente al I a.C., spicca quella che reca una curiosa figura in gonnellino con due specie di ali e corna di ariete.

La conquista della Dacia ad opera di Traiano, completata nel 106 d.C. e raccontata nei bassorilievi della celebre colonna ai fori imperiali di Roma, segnò per sempre la storia del paese. Tra i molti reperti dell’epoca, mi colpisce il bassorilievo che raffigura Mitra che uccide il toro, con la stessa iconografia dei mitrei di Roma. La provincia della Dacia Felix prosperò per centosessantaquattro anni, finché la sua difesa dalle incursioni delle popolazioni nomadi proveniente dall’Asia divenne insostenibile. L’imperatore Aureliano decise quindi di sgomberare la provincia, riportando il confine dell’impero al Danubio.

La sezione seguente del museo, intitolata “continuità romana dal III al XIII secolo”, racconta un passaggio molto importante per l’identità nazionale, secondo il punto di vista romeno: nel 271 d.C. i romani avrebbero ritirato solo le legioni, mentre la popolazione, formata da coloni romani e indigeni daci ormai romanizzati, sarebbe rimasta sul posto. I romeni di oggi sarebbero i loro diretti discendenti, come dimostrerebbe la lingua derivata dal latino. Gli ungheresi sostengono invece che la Dacia fu sgomberata totalmente dai coloni romani e i pochi daci rimasti furono dispersi o annientati dai goti; molti secoli dopo l’occupazione magiara della Transilvania, iniziata intorno al Mille, avrebbe incontrato poche resistenze in una terra popolata solo da genti slave. Secondo gli ungheresi, i romeni sono menzionati in Transilvania solo dal 1222 e sarebbero pastori nomadi romanizzati (valacchi) provenienti dalla Macedonia e dall’Illiria; il loro arrivo sarebbe quindi addirittura successivo a quello dei sassoni, chiamati dal re d’Ungheria a proteggere i confini del regno. La questione potrebbe limitarsi ad accese discussioni accademiche, se non fosse legata alla disputa secolare tra romeni e magiari circa il possesso della Transilvania.

L’esposizione prosegue con i grandi principi romeni, protagonisti della storia nazionale: Mircea il Vecchio, Vlad Tepes e Michele il Bravo per la Valacchia, Iancu de Huneodara per la Transilvania e Stefan cel Mare per la Moldavia. Al secondo piano spicca un’iconostasi da Blaj del XVIII secolo; alcuni plastici riproducono Alba Iulia, mentre le rappresentazioni delle esecuzioni seguite alla rivolta contadina del 1784 sono veramente impressionanti. Le vicende proseguono nell’Ottocento con il risveglio della coscienza nazionale, culminando il secolo successivo con la nascita della Grande Romania.

Proseguendo l’esplorazione della cittadella, raggiungiamo Piata Cetatii, dietro la Sala dell’Unione. Il vasto spazio ospita alcuni interessanti monumenti: un obelisco è dedicato ai militari austriaci e romeni caduti nella battaglia di Custoza, combattuta nella Terza guerra d’indipendenza italiana, ed è curioso per un italiano vedere i memoriali di quelli che furono i grandi nemici nel Risorgimento; una campana con un profonda spaccatura ricorda invece chissà quale avvenimento. Un intero lato della piazza è occupato dall’Academicum Collegium, che ospitò la prima università di Alba Iulia, fondata nel 1622 dal principe protestante Gabriel Bethlen, protagonista della fioritura artistica e culturale della città nel Seicento.

Da pochi mesi nel grande spazio della piazza è stato inaugurato il Muzeul Principia, dedicato ai ricordi romani di Alba Iulia: la romana Apulum si sviluppò nella regione popolata dalla tribù dacica degli Apuli, intorno al grande castrum della XIII Legio Gemina, diventando il principale centro urbano dell’intera Dacia. Sotto una grande copertura con pareti di vetro, l’esposizione include le rovine del comando della legione, oltre a repliche di attrezzature militari, ma preferiamo rinunciare alla visita, convinti che sia troppo impegnativa per i bambini. Subito davanti è stata collocata una statua dell’imperatore Settimio Severo.

I ricordi romani proseguono lungo strada Mihai Viteazul, con resti di colonne e ambienti antichi, fino a raggiungere l’ingresso principale della cittadella, una porta monumentale a tre archi, stile arco di trionfo romano, coperta da esuberanti bassorilievi. Nel piazzale esterno, un obelisco ricorda la rivolta contadina del 1784, con un grande angelo che tiene in mano una corona di fiori su un lato e un bassorilievo che raffigura i tre capi Horea, Closca e Crisan sull’altro. I contadini romeni si sollevarono contro i nobili possidenti ungheresi, ai quali erano ancora soggetti come servi della gleba, ma sedata la rivolta, i loro capi furono traditi, catturati e condannati a morte. Crisan riuscì a impiccarsi, mentre i poveri Horea e Closca dovettero subire il supplizio della ruota, nel quale il condannato era legato a una grande ruota e con una mazza gli venivano rotte le ossa, lasciandolo vivo per ore esposto al pubblico, prima di essere ucciso (il luogo dove avvenne il supplizio, subito fuori dalla cittadella, è segnalato da un memoriale).

Dal piazzale, strada Mihai Viteazul piega a sinistra scendendo verso la città bassa e attraversando altre due porte ad arco; noi invece proseguiamo nella direzione opposta, costeggiando le mura fino alla chiesa della Trinità, trasportata nel 1990 dal Maramures nel sito dove sorgeva la cattedrale Metropolitana edificata da Michele il Bravo. Per me è emozionante contemplare la sua architettura tradizionale, sognando un futuro viaggio in quella sperduta regione; al centro del tetto spiovente si leva la torre culminante in un’appuntita cuspide stile cappello di strega.

Per tornare a Sighisoara seguiamo una strada alternativa, che a Sebes ci consente di prendere l’autostrada per Sibiu. Dopo alcuni chilometri però usciamo per visitare la chiesa fortificata nel paesino di Calnic. Racchiusa da un giro di mura con una torre a sud e la torre d’ingresso a nord, l’imponente fortezza resistette a diversi assedi turchi. Le sue origini risalgono al XIII secolo; residenza di nobili sassoni, nel 1430 fu venduta alla comunità contadina. Nel prato verde all’interno dell’anello di mura spiccano un pozzo, la piccola cappella e la possente torre Sigfrido. La cappella si presenta esternamente come una semplice casa in muratura dal tetto spiovente, mentre all’interno l’unico ambiente è occupato dai banchi di legno. La torre Sigfrido, simbolo della fortezza, è alta cinque piani e con Fabio ci divertiamo a scalarla fino a raggiungere le campane. Alcuni ambienti ospitano una piccola collezione di arte medievale, che include anche strumenti musicali. La visita alla chiesa fortificata risulta una delle più suggestive del nostro viaggio, per la calda luce del pomeriggio e la semplicità delle costruzioni. Giulio tuttavia non può apprezzarla, perché dorme tutto il tempo nel passeggino. All’esterno della fortezza stazionano vari gruppi di zingari, che sicuramente si saranno insediati nelle case del paese abbandonate dai sassoni.

Per tornare a casa riprendiamo l’autostrada fino a Sibiu, da dove la fedele statale ci conduce prima a Medias e poi a Sighisoara.

Lunedì 10 agosto: Valea Viilor – Cisnadje – Transfagaras Road

Tra le attrattive più particolari delle Romania figura senza dubbio la Transfagaras Road, classificata nel 2009 dalla trasmissione televisiva di motori “Top Gear” della BBC come la strada più bella del mondo (superando la statale italiana dello Stelvio). Per raggiungerla effettuiamo un “giro largo” che ci consente di visitare lungo il tragitto un paio di interessanti chiese fortificate.

Superata Medias, una breve deviazione ci porta a Valea Viilor, la sassone Wurmloch, dove la chiesa fortificata è stata inserita nel Patrimonio dell’Umanità. Costruita nel 1263 in stile gotico, fu fortificata nel Cinquecento con un imponente giro di mura alte quasi otto metri, oggi perfettamente conservate insieme a quattro torri. La chiesa, che occupa quasi per intero lo spazio recintato, emerge dalle mura come una vera fortezza, dominata dalle torri sopra l’ingresso e l’abside. All’interno l’unica navata, coperta da una volta con maglia a rete, presenta due strette balconate di legno lungo le pareti laterali e l’organo su quella d’ingresso; il baldacchino ligneo sopra il pulpito riproduce una grande corona colorata. Con Fabio scaliamo la torre sopra l’ingresso, fino a raggiungere le campane. Affacciandoci sotto di noi a precipizio le mura sembrano piccole, mentre le case del paese sono una successione ordinata di tetti di tegole. Volgendo lo sguardo in alto possiamo esaminare l’ossatura di travi lignee che regge la cuspide di tegole sopra la torre.

Ripresa la marcia, aggiriamo Sibiu da sud fino a imboccare la valle che si addentra nei monti Cindrel, fermandoci a Cisnadie. Al centro della cittadina si erge la chiesa, fortificata nel Cinquecento sulle rovine di una basilica romanica costruita dai sassoni nel XII secolo, per proteggere la popolazione dalle incursioni dei turchi. Il complesso appare come un gigante che si erge sopra la città, caratterizzato dal contrasto cromatico tra il biancore delle pareti, un po’ annerito dal tempo, e la terracotta dei tetti. I vari edifici sembrano poggiare uno sopra l’altro; su tutti svetta la possente torre campanaria quadrata, che culmina in un’altissima cuspide centrale, coperta di piatte tegole e racchiusa da torrette angolari (l’orologio installato nel 1868 da allora non si sarebbe mai fermato). Le possenti fortificazioni si articolano in due cinte rafforzate da torri, come apparirà più chiaro dal modellino in esposizione. Entrando nella chiesa le sue architetture ci appaiono tardogotiche: il semplice interno presenta tre navate e un’ampia abside al termine di quella centrale, nella quale l’altare ligneo mostra una statua di Maria con il Bambino. Con Fabio non possiamo esimerci dalla scalata della torre, alta circa sessanta metri. L’ascesa è una successione di scale vertiginose fino alle campane. Dall’alto la vista a picco sulla corte con i tetti rossi è impressionante, mentre sullo sfondo si ergono i monti Cindrel. Fabio è entusiasta e vuole tornare sulla torre con la mamma. Nel frattempo con Giulio faccio un giro della corte; nella mura il cammino di ronda coperto corre ininterrotto sopra una fila di archi. Anche il piccolino ha la sua passione: gli organi delle chiese sembrano incantarlo. Con la mamma ha scoperto il piccolo organo proprio nella navata e pretende assolutamente di rivederlo. Lo accontento, immortalandolo con il suo sorriso solare mentre è seduto alla tastiera. Prima di lasciare il complesso, faccio una puntata in una stanza che ospita il Museo del Comunismo; tra i cimeli esposti, foto di un giovane Ceausescu, una bandiera rossa con le lettere PCR sopra falce e martello. Usciti dalla chiesa, troviamo subito un cambio per rimpolpare i lei nelle nostre casse e un forno per completare il pranzo al sacco; Cisnadie sembra ben attrezzata per le esigenze dei suoi villeggianti.

Finalmente ci dirigiamo verso la Transfagarasan, percorrendo la statale che da Sibiu conduce a Brasov, per poi lasciarla puntando a sud verso i monti Fagaras nella catena dei Carpazi meridionali. La strada venne fatta costituire da Ceausescu negli anni Settanta, preoccupato che i Sovietici potessero ripetere in Romania l’invasione della Cecoslovacchia del 1968. Il progetto megalomane fu realizzato in soli quattro anni e mezzo e costò la vita a molti lavoratori e soldati (quaranta secondo le fonti ufficiali, probabilmente molti di più). Sul versante settentrionale, quello che percorreremo, furono utilizzati sei milioni di chilogrammi di dinamite, per aprire un ulteriore valico tra Transilvania e Valacchia, senza dubbio il meno agevole, chiuso di solito da ottobre a maggio per le condizioni meteorologiche. Il percorso di 35 chilometri sale dalla vallata fino ai 2034 metri del lago Balea, dove gli ingegneri si convinsero che non era possibile proseguire ancora e scavarono un tunnel per raggiungere il versante valacco.

Lasciata la statale, dopo una dozzina di chilometri iniziamo a salire attraverso un fitto bosco. Al chilometro ventidue un affollatissimo parcheggio segnala che abbiamo raggiunto la cascada, in un’area attrezzata con bancarelle di souvenir, un ristorante e un grande albergo. Da qui parte la funivia che porta fino al lago, ma non vogliamo certo perderci l’emozionante guida lungo il tratto più spettacolare. Proseguiamo quindi senza fermarci, con il precipizio appena oltre il ciglio della strada, circondati dalle montagne, mentre gli alberi iniziano a diradarsi ed emergono le rocce. Improvvisamente di fronte a noi si erge una parete scoscesa, che un progetto ragionevole avrebbe attraversato con un tunnel ma invece si decise di scalare con la strada, realizzando un’interminabile successione di zig zag. Dal basso la visione non si concilia troppo con la natura, per i continui ponticelli in cemento che scavalcano i dirupi. Procediamo lentamente lungo i tornanti con Stefania alla guida, fermandoci un paio di volte per volgere indietro lo sguardo. Ormai gli alberi sono scomparsi e solo l’erba copre il pendio roccioso; sopra di noi passa una cabina rossa della funivia.

In cima la prima impressione non è certo positiva: un grande parcheggio accoglie le frotte di gitanti, poco prima del tunnel lungo 887 metri che conduce in Valacchia. È sufficiente però percorrere poche decine di metri per ritrovare tutto il fascino della natura, grazie al magnifico specchio d’acqua del lago Balea, circondato da montagne ammantate di prati. A riva io e Fabio ci togliamo le scarpe per bagnarci i piedi; la giornata è piacevole e l’acqua non è fredda, eppure d’inverno il clima è talmente gelido da consentire la costruzione di un albergo di ghiaccio. Dopo il lungo percorso in auto, non c’è posto migliore per la merenda e il gioco dei bambini. Il lago assume colorazioni meravigliose, che cambiano a secondo del punto di osservazione: dal basso prevale il verde, riflesso dei prati, ma arrampicandosi più in alto l’acqua diventa di un intenso cobalto, con sprazzi di turchese lungo le rive. Sul lato opposto la “Balea Lac Cabana”, sembra uno chalet svizzero sospeso sulle acque, nelle quali la sua immagine si riflette come in uno specchio. Poco oltre, in cima a una collinetta, si erge un’originale costruzione a punta: la struttura poligonale a vetri prosegue con travi metalliche che sorreggono una croce. Il belvedere è stata inaugurato da poco, proprio nel punto in cui si domina dall’alto tutta la successione dei tornanti della Transfagarasan. All’interno Stefania e i bambini si fanno immortalare insieme al grande orso bruno; le Alpi Transilvane sono frequentate da una notevole popolazione di questi animali ed il bear watching è una delle attrattive turistiche della regione. La visione sulla strada ha dell’incredibile: sembra di avere di fronte una pista per corse automobilistiche disegnata da un folle. Le macchine procedono lentamente, come formiche incolonnate, mentre oltre la spaccatura tra le montagne sullo sfondo si scorge la grande vallata da cui siamo saliti. Tornando verso il parcheggio, costeggiamo il lago; le persone su una striscia sottile ci appaiono perfettamente riflesse nelle acque.

Ormai sono quasi le sei del pomeriggio ed è tempo di prendere la strada di casa. Raggiunta la statale, seguiamo un percorso diverso dall’andata, proseguendo in direzione di Brasov, per poi deviare verso nord e raggiungere Sighisoara lungo strade secondarie che attraversano paesaggi e paesini resi ancora più affascinanti dalla luce del tardo pomeriggio.

Martedì 11 agosto: Viscri – Biertan – Richis – Malancrav

Sighisoara si trova proprio al centro delle Terra dei Sassoni, circondata da innumerevoli villaggi, ormai abbandonati dalla popolazione germanica, ma nei quali forte è rimasta l’impronta della loro presenza secolare. Il fascino della regione è completato da paesaggi incantevoli, colline ondulate coperte di boschi, l’eldorado promesso dal Pifferaio Magico ai bambini rapiti.

Dalla città riprendiamo, in direzione opposta, la statale già percorsa venendo da Brasov, finché una deviazione lungo una strada dissestata ci porta a Viscri, la sassone Weisskirch (Chiesa Bianca). Attraversato tutto il paese, imbocchiamo una via in salita e parcheggiamo davanti a una bella casa tradizionale tinteggiata di un celeste pastello, con frontone e tetto di tegole squamate. Subito davanti si trova l’ingresso del recinto della chiesa, inserita dall’Unesco nel Patrimonio dell’Umanità, che si leva, percorso un sentiero tra gli alberi, come una vera fortezza in cima alla collina oltre un prato erboso. La visione sembra quella di un castello turrito, non certo di un edificio religioso, un’incantevole combinazione di tre sole tinte: il bianco delle possenti mura, il noce delle balconate in legno e la terracotta delle squame sui tetti. Differentemente dalle altre chiese della regione fu fondata intorno al 1100 dalla popolazione sicula, per poi passare ai coloni sassoni. Questo spiega alcune caratteristiche peculiari della chiesa gotica, come il soffitto piatto invece che a volta. Le prime mura fortificate con torri furono aggiunte molto più tardi. Entrati nella corte ci viene incontro un’anziana signora, una delle poche a non essere emigrata in Germania, alla quale è affidata la custodia della chiesa. Se non fosse per le torri, l’anello fortificato visto dall’interno assumerebbe l’aspetto di un cascinale di campagna, coperto da immensi tetti spioventi sopra bassi muretti di pietra. Molti ambienti giacciono in stato di abbandono, ma le tegole dei tetti sono tutte al loro posto. Lo spazio è quasi intermente occupato dalla chiesa, con le pareti candidamente intonacate a calce. L’interno stretto e lungo è di una semplicità estrema, proprio per questo ammantato del fascino di una chiesa contadina. La struttura è quella che stiamo imparando a conoscere: un’unica navata con due file di semplici banchi lignei senza schienale, balconate di legno lungo tutte le pareti laterali, dall’aspetto poco rassicurante e decorate con motivi tinti di rosso, un arco che separa l’ambiente destinato all’altare, sotto il quale è collocato il pulpito anch’esso di legno. L’organo si trova insolitamente dietro l’altare, invece che sulla parete corta dal lato opposto (l’ingresso avviene da una fiancata). Mentre i turisti tedeschi si aggirano nella chiesa, per un attimo cerco di immaginarmi l’austero pastore protestante che recita la sua predica dal pulpito, davanti a una folla di robusti contadini dai capelli biondi.

Alcuni ambienti delle mura e di una torre sono stati sistemati per ospitare un’interessante esposizione dedicata alla comunità sassone: culle, carrozzine e bauli dipinti sono tutti rigorosamente di legno, esposti insieme a effetti personali e costumi tradizionali donati dalla gente che ha abbandonato il villaggio. Nella Torre del Lardo ogni famiglia doveva riporre un porzione di lardo, in vista di un eventuale assedio.

Insieme con Fabio scalo la tozza torre quadrata che funge da “facciata” della chiesa; in cima raggiungiamo la bertesca, l’impalcatura di legno sporgente che nel medioevo veniva posta alla sommità di mura e torri per fornire ai difensori un camminamento più esterno, protetto da un parapetto e da una tettoia. I tetti subito sotto appaiono in tutta la loro larghezza, mentre la vista spazia sulle verdi colline della campagna. Terminiamo la visita mentre spunta il sole a rallegrare i colori delle bianche pareti della fortezza.

Attraversando di nuovo in auto il paese, possiamo notare come oggi esso sia abitato principalmente da una popolazione zingara. Le case dei sassoni però sono rimaste al loro posto e molte facciate sono state restaurate: robuste costruzioni recano nei frontoni iscrizioni a caratteri gotici con l’anno di fondazione e finestre chiuse da persiane colorate. Un grande contributo alla preservazione di questo prezioso patrimonio nei villaggi sassoni è stato fornito dalla fondazione “Mihai Eminescu”, finanziata anche dal principe Carlo e diretta per un periodo da William Blacker.

Presa la strada di ritorno verso Sighisoara ci fermiamo a Saschiz, ma la chiesa, situata proprio lungo la statale, è chiusa e dobbiamo rimandarne la visita. Superata Sighisoara percorriamo ancora una volta la strada che conduce a Medias e Sibiu, forse la più bella del nostro viaggio per i paesaggi e i paesi che attraversa. Davanti ai nostri occhi scorrono file di case dalle tinte pastello, rallegrate da aiole fiorite. La loro visione rappresenta una vera sorpresa, poiché mi ero immaginato paesi in disfacimento, ormai abbandonati dai sassoni; evidentemente qualcosa dell’ordine germanico si deve essere trasmesso agli zingari e ai romeni che si sono insediati nelle loro antiche case. Lungo il percorso, sempre nello stesso tratto, incroceremo tutte le volte rom caldarari che vendono i loro caratteristici recipienti di rame.

Una trentina di chilometri dopo Sighisoara, deviamo verso sud incuneandoci in una verde vallata ricca di vigneti, fino a raggiungere Biertan, Bithalm in tedesco, dove sorge la più famosa fra tutte le chiese sassoni della Transilvania, anch’essa Patrimonio dell’Umanità. Prima di visitarla, plachiamo i nostri appetiti all’Unglerus, un ristorante con ambientazioni medievali (ma noi pranziamo all’aperto) proprio ai piedi della collina della chiesa. Interrompendo la dieta a base di carne, riesco a gustare una trota.

La chiesa sorge su un poggio, affacciato proprio sulla piazza del villaggio, e costituisce una vera roccaforte, come se nella costruzione di un castello l’architetto si fosse sbagliato e avesse collocato in mezzo alle fortificazioni un edificio religioso invece del palazzo nobiliare. Contadini e mercanti del borgo, sempre minacciati dalle razzie, prima dei mongoli e poi dei turchi, decisero di proteggersi fortificando la chiesa e dotandola di magazzini e depositi, in modo che all’interno delle mura potesse trovare posto l’intera popolazione. Nel corso dei secoli la crescita demografica spinse gli abitanti di Biertan a circondare il complesso con ben tre cinte murarie, alte fino a dodici metri e dotate di porte e torri, rendendo inespugnabile la chiesa. Il colpo d’occhio dalla piazza è magnifico: la chiesa con i suoi tetti quasi verticali si leva altissima sopra le mura, circondata da molteplici torri che sembrano sorvegliarla come sentinelle.

L’accesso avviene attraverso una scalinata coperta di legno, simile a quella di Sighisoara. Purtroppo la visita al complesso si rivela invece un po’ deludente, per lo stato di abbandono in cui giacciono molte sue parti e per l’impossibilità di accedere agli interni. L’unica eccezione è costituita dalla chiesa, costruita intorno al 1500 in stile tardogotico e sede del vescovado protestante fino al XIX secolo, benché si trovasse in un villaggio agricolo. L’interno ha una classica struttura gotica a sala, con la volta stellata percorsa da un intricato intreccio di costoloni. Il grande polittico dell’altare, realizzato da artigiani di Vienna e Norimberga, è il più grande in Transilvania: comprende ventotto pannelli con scene della vita della Madonna e al centro un gruppo della Crocifissione, che sostituì la statua di Maria con il Bambino dopo la Riforma. Una particolarità è costituita dalla porta della sacrestia dotata di un’incredibile meccanismo di chiusura, comprendente diciannove chiavistelli attivati da un’unica chiave (nel 1900 fu esposta e vinse un premio all’Expo di Parigi). Belli anche il pulpito in pietra, con scene in rilievo del Nuovo Testamento, e gli stalli del coro di legno intarsiato.

Attorno alla chiesa, all’interno della prima cinta di mura si dispongono svariate torri, che fungevano anche da depositi e magazzini. Nella Torre dei Vescovi si trovano le pietre tombali di vescovi evangelici sassoni. Le coppie intenzionate a separarsi venivano rinchiuse nella Torre della Prigione, dove avevano due settimane di tempo per risolvere le proprie questioni, vivendo a stretto contatto in una stanza; il metodo si rivelò molto efficace, perché una sola coppia in quattrocento anni decise alle fine di divorziare! Purtroppo tutte le torri sono chiuse e possiamo solo sbirciare nella cappella della Torre Cattolica, riservata ai fedeli che non vollero aderire alla Riforma: negli affreschi del XV secolo riconosco i Magi che portano i doni al Bambino (ma stranamente sono solo due) e l’angelo dell’Annunciazione che regge un lungo cartiglio. Altre torri si trovano più in basso negli anelli esterni, ma i lavori in corso bloccano l’accesso a molte aree.

Usciti dal complesso facciamo un giro intorno alla collina, ammirando la chiesa da altre angolature anche se la visuale migliore rimane quella dalla piazza. Lungo il percorso incrociamo un’eterea vecchietta che cammina curva poggiandosi su un bastone; chissà quante cose potrebbe raccontarci se conoscessimo il tedesco. Quasi tutti i suoi connazionali sono emigrati in Germania e magari vivranno oggi in qualche condominio nella grigia periferia di una città, rimpiangendo la terra dei loro padri. Abbiamo visitato in sequenza le due chiese fortificate più famose della Terra dei Sassoni, ma la mia preferenza va senza alcun dubbio alla semplicità rustica di Viscri rispetto all’imponenza monumentale di Biertan.

Proseguendo alcuni chilometri nella valle raggiungiamo Richis, dove in mezzo al paese sorge un’affascinate chiesa di pietra risalente al XIV secolo. La ragazza del negozietto a fianco ci accompagna nella visita, aprendo la chiesa per noi ed illustrandoci la sua architettura. Il suo sangue è misto, avendo un genitore romeno e uno sassone. La chiesa ha un aspetto antico; nella semplice facciata spicca il bel portale di pietra. Il nudo interno appare di impronta romanica, con tre strette e lunghe navate, ma il grande altare con colonne a tortiglione tinteggiate di rosso tradisce l’epoca barocca.

Completata la visita della vallata, torniamo sulla statale, percorrendo un tratto verso Sighisoara, per poi deviare nuovamente verso sud fino a raggiungere Malancrav, collocata alla fine di una stretta valle boscosa. Il pittoresco villaggio è uno dei pochi che ha conservato buona parte della sua popolazione sassone: attraversandolo in macchina non mi sfuggono i volti nordici e i capelli biondi dei suoi abitanti. Il suo motivo di interesse è costituito dalla chiesa fortificata, collocata sopra una collinetta. Al nostro arrivo ci accoglie un’anziana signora dal volto dolce, che sta conversando in tedesco con un turista. Nella corte circondata dall’anello di mura, la chiesa di pietra, costruita nel XIV secolo, è vegliata da un’alta torre. La vera sorpresa si ha all’interno, dove le pareti della navata centrale e dell’abside sono ricoperte di affreschi, risalenti al XIV e XV secolo. Un libretto illustra il significato delle varie scene, disposte in file ordinate, ma la sua lettura è impossibile con Fabio e Giulio scatenati; nella parete nord riconosco comunque alcuni episodi della Vita di Cristo. Il polittico sopra l’altare ritrae al centro Maria incoronata con il Bambino.

La nostra incursione nel mondo dei villaggi sassoni ci ha riportato ormai a pochi chilometri da Sighisoara e non c’è niente di meglio, per chiudere in bellezza la giornata, che godere un’altra volta, arrivando in auto, l’incantata visione del borgo sulla collina.

Mercoledì 12 agosto: Sibiu

Giornata dedicata alla visita di Sibiu, in passato principale città dei Sassoni di Transilvania con il nome di Hermannstadt. Fondata nel 1191 prosperò a lungo grazie ai commerci e alle professioni artigianali, con le gilde dei mestieri centri di potere economico e politico, tanto che ad esse era affidato il compito della difesa della città. Sotto gli Asburgo la città fu per lunghi periodi la sede del governatore austriaco della Transilvania. Ai nostri giorni, Sibiu si è estesa con vasti sobborghi e i sassoni sono emigrati in Germania, ma il centro storico con le sue tre piazze (Piata Mare, Piata Mica e Piata Huet) conserva il suo fascino, grazie alle case tinteggiate con colori pastello, alle antiche chiese e ai magnifici edifici monumentali, tanto da essere stata designata nel 2007 capitale europea della cultura.

Quando, attraversato un arco, iniziamo la nostra visita da Piata Mare (Piazza Grande), davanti a noi si apre uno spazio vastissimo, facendoci intuire la sensazione di chi raggiungeva in passato piazza San Pietro a Roma prima dell’apertura di via della Conciliazione. La piazza pedonalizzata, come gran parte del centro storico, è circondata da caratteristiche case con alti tetti spioventi, nei quali si aprono curiosi abbaini che ricordano un occhio socchiuso. Molti sono anche i palazzi monumentali: uno dei più ricchi, tinteggiato di giallo, è Banca Agricola che volge verso la piazza una fronte curvilinea ed oggi ospita il municipio e l’ufficio turistico al piano terra. Il palazzo alla sua sinistra fu la residenza del barone Samuel von Brukenthal, governatore della Transilvania dal 1777 al 1787 e finanziatore di Samuel Hahnemann, uno dei fondatori dell’omeopatia, che nei suoi studi si avvalse della ricchissima biblioteca del barone. Il palazzo fu progettato da un architetto viennese in stile barocco; il portale in pietra sembra interrompere la linea della facciata, sormontata da un triplice tetto spiovente di tegole. Rimandando per ora la visita del museo d’arte, uno dei più importanti in tutta la Romania, raggiungiamo la cattedrale Romano Cattolica, subito a destra della Banca Agricola. Il campanile con la cupola a cipolla e la fiancata ricca di finestre, come fosse un palazzo, sono tinteggiati di giallo e dominano il lato settentrionale di Piata Mare. Costruita nel Settecento, la chiesa segnò il ritorno in città dei gesuiti dopo la Riforma, sotto l’egida degli Asburgo. Al semplice esterno, privo di facciata, fanno da contrappunto i ricchi arredi barocchi all’interno, in particolare il pulpito che combina marmi di svariati colori. L’abside mancante è simulata da un grande affresco. Tornati in piazza, non ci sfugge la statua che ritrae la romantica figura di Gheorghe Lazar, fondatore nel 1818 a Bucarest della prima scuola superiore nella quale si insegnava in romeno.

Nell’angolo nord-orientale della piazza, il passaggio sotto la candida Turnul Sfatului (Torre del Consiglio) consente di raggiungere Piata Mica. Tutti insieme, incluso il piccolo Giulio, decidiamo di scalare i 111 gradini della torre, ricostruita nel 1588 sul sito di una più antica che faceva parte del secondo anello di fortificazioni. Fabio, in assenza di campane, si consola con la visione degli ingranaggi dei grandi orologi. Dall’alto la vista spazia sui tetti di tegole della città, ma la visione può avvenire solo attraverso i vetri. Lo scorcio più bello, rovinato in parte dalle macchine parcheggiate, è costituito dagli edifici di Piata Mica che formano un semicerchio dietro il quale si levano i tetti colorati e il campanile della Biserica Evangelica. Curiosa una casa, stretta e alta, che si staglia sopra le altre, con il tetto quasi verticale.

Piata Mica (piazza Piccola) è divisa in due dal solco della strada proveniente dalla città bassa, scavalcato dal Ponte dei Bugiardi, così chiamato per la leggenda popolare secondo la quale l’elegante ponte in ferro crollerà quando qualcuno racconterà una bugia standoci sopra. Con Fabio ci divertiamo a spararle grosse, ma non accade nulla! Le case della piazza risalgono al XV-XVI secolo: sotto gli altissimi tetti spioventi di tegole, nei quali gli abbaini sembrano occhi che scrutano i passanti, corre un piano di finestre e un giro di portici su arcate. Nel settore orientale della piazza si trovava una delle prime farmacie aperte a Sibiu, intorno al 1600, fedelmente ricostruita nel Museo di Storia della Farmacia, nel quale possiamo ammirare scaffali scolpiti in legno di noce, insieme a strumenti e vasi antichi. Devo però astenermi dallo scattare foto per l’esorbitante prezzo richiesto. Il museo ricorda Samuel Hahnemann, medico fondatore dell’omeopatia, che visse a Sibiu tra il 1777 e il 1779. Nell’angolo successivo della piazza una ripida scalinata conduce verso la città bassa. Con il passeggino sarebbe un impresa percorrerla, per cui scendo solo io fino alla pittoresca Piata Auralilor (Piazza degli Orefici), dove staziona un gruppo di zingari. In Piata Mica subito dopo, sul lato settentrionale, sorge isolata Casa Artelor. Il grande edificio porticato, candidamente tinteggiato di bianco, era la sede della corporazione dei macellai, mentre oggi ospita il museo di etnografia sassone Emil Sigerus, che rinunciamo a visitare. Scavalchiamo quindi il Ponte dei Bugiardi, dal quale, guardando in direzione opposta alla piazza, si scorgono casette popolari ma pittoresche, coperte da alti tetti spioventi con i soliti strettissimi abbaini. È un vero peccato che la mancanza di tempo ci impedisca di esplorare le viuzze della città bassa.

Pochi passi ci portano in Piata Huet, la terza del centro storico. Nel mezzo sorge quello che è sicuramente il più bell’edificio cittadino, la Cattedrale Evangelica di impianto tardogotico. All’esterno l’elemento dominate è la macchia di colore formata dai tetti spioventi e dalla grande cuspide della torre, circondata da quattro più piccole. Come nel caso della chiesa cattolica, manca una facciata; l’accesso avviene da una fiancata, caratterizzata da una curiosa sequenza di tetti spioventi, con i timpani che conferiscono un profilo seghettato nel quale si aprono i grandi finestroni gotici. Davanti all’ingresso si erge la statua bronzea del vescovo luterano Teutsch, che poggia una mano su una pila di fogli, mentre con l’altra regge la Bibbia. All’interno la nostra visita è accompagnata dal potente suono dell’organo, il più grande in tutta la Romania. Le tre navate gotiche sono meno slanciate che in altre chiese; sulle pareti di quella centrale, sopra gli archi ogivali, spiccano una serie di esuberanti bassorilievi (immagino che siano monumenti funebri; uno, datato 1694, raffigura un guerriero in armatura che schiaccia un pesce, in un altro con cartigli in latino due scheletri reggono un bastone al quale è legato per le zampe un cervo). Sulla parete sinistra del coro, il grande affresco della Crocifissione, opera di Johannes von Rosenau (1445), tradisce influenze italiane e fiamminghe: i personaggi ai piedi delle tre croci, tra i quali si distinguono re e vescovi, indossano vesti ricchissime, magnifici i mantelli broccati delle donne. Passando di fianco alla parete dell’organo, si accede a un ambiente nel quale sono conservate decine di lastre funerarie scolpite; tra le tante mi colpisce un personaggio barbuto dalle spalle quadrate che indossa una camicia dalle larghe maniche. A questo punto con Fabio affrontiamo l’impegnativa ascesa alla torre, alta settantaquattro metri; per raggiungere la cima dobbiamo percorrere una sequenza di scale vertiginose. Dall’alto la visione è magnifica, superiore a quella della Torre del Consiglio, anche se Piata Mare è nascosta dalla mole della chiesa cattolica. Affacciandoci dalle quattro torrette angolari, proprio sotto di noi i tetti della cattedrale appaiono come un tappeto colorato a disegni geometrici, mentre molto più in basso i tetti della città bassa formano un groviglio confuso. Nella parte monumentale della città spunta un altro elemento caratteristico, la Cattedrale Ortodossa con la sua cupola stile Santa Sofia e i due campanili. Prima di lasciare la chiesa chiedo alla biglietteria dove si trovi la cripta, nella quale è segnalata la presenza della tomba di Mihnea il Cattivo, il figlio di “Dracula” assassinato proprio di fronte alla cattedrale; mi rispondono confusamente che non si può visitare.

Per pranzo scendiamo alla Strada Turnului, subito sotto la cattedrale: dai tavolini all’aperto del “Pasaj”, si gode una bella vista sull’altissima torre che spicca sopra i tetti delle case. Girato l’angolo, il Pasajul Scarilor (Passaggio delle scale) fornisce uno degli sorci medievali più caratteristici di Sibiu, con una sequenza di archi di mattoni che scavalcano la strada, come contrafforti, in modo analogo a quanto si vede a Roma sul colle del Celio. Tornati verso piazza Huet, gettiamo un’occhiata alla corte del Vecchio Municipio, senza visitare il Museo Storico. Imbocchiamo poi Strada Mitropolei, dirigendoci verso la Città Nuova. Nell’Ottocento Sibiu fu un importante centro di rinascita per la cultura romena e il primo congresso dell’ASTRA (Associazione per la Propagazione della Cultura Romena in Transilvania) si tenne proprio in questa strada, dove non a caso all’inizio del Novecento fu costruita la Cattedrale Ortodossa in stile neobizantino. All’esterno, con file di mattoni alternati gialli e rossi, spiccano i due campanili intorno alla facciata e la cupola arretrata. L’interno, come sempre molto ricco, è ricoperto di affreschi e mosaici; al centro del grande ambiente, sotto la cupola pende un bel lampadario. Per tornare a Platia Mare percorriamo poi Strada Nicolae Balcescu, pedonalizzata e dedicata allo shopping. L’ottocentesco hotel Imparatul Romanilor, il più antico di Sibiu, ospitò Johann Strauss and Mihai Eminescu, il più noto poeta romantico romeno.

Tornati in Piazza Grande, mentre Stefania intrattiene i bambini, io mi dedico a una rapida visita del museo Brukenthal, nato nel 1817 (prima del Louvre) grazie ai lasciti del barone. Le opere più famose sono concentrate in poche sale: l’Ecce Homo di Tiziano, una donna velata che prega di Memling e un uomo con turbante blu che tiene un anello tra le dita di Van Eyck, simbolo del museo. È una sorpresa scoprire come sia piccolo quest’ultimo quadro, nel quale l’espressione dell’uomo, con il viso ombreggiato dalla barba e gli occhi un po’ strabici, risulta veramente affascinante. Il Massacro degli Innocenti di Brueghel è ambientato in villaggio sotto la neve, mentre sopraggiunge un plotone di cavalieri in armatura, armati di lance. Attraverso poi a volo d’uccello la lunga sequenza di sale dedicate all’arte romena e ritorno in piazza, dove trovo i bambini che si divertono a correre tra gli spruzzi intermittenti della fontana.

Per completare la visita del centro facciamo una puntata a sud di Piata Mare, dove si conserva un tratto delle mura; le torri erano affidate alle varie gilde dei mestieri, ma oggi sono chiuse e non è possibile visitarle. Lo scorcio con il lungo camminamento di legno è comunque pittoresco. Fabio è attratto dai cannoni davanti alla vicina Sala Thalia, sala da concerti.

Recuperata l’auto, raggiungiamo alla periferia sud di Sibiu il museo all’aperto dedicato alla cultura popolare. Nel grande parco, vicino a un lago e in mezzo a un bosco, sono state trasportate innumerevoli strutture da villaggi di tutto il paese. La maggiore attrazione sono i mulini: mulini a vento di legno dalle grande pale che avrebbero tratto in inganno Don Chisciotte, uno con le pale di stoffa, e mulini ad acqua con ruote di legno. Il percorso si sviluppa tra case dagli alti tetti di paglia o legno, con annessi laboratori artigianali; non manca neppure una cappella anch’essa tutta di legno. Unico punto negativo il fatto che tutti gli edifici siano chiusi e quindi non sia possibile visitarne gli interni. Mentre Giulio dorme, Fabio è impressionato dal destino dei poveri animali impiegati per azionare le mole, in particolare dagli asini che a lui ricordano i monelli del paese dei balocchi. Alla fine del percorso circolare si sveglia anche Giulio, in tempo per la merenda e sgambettare nel prato tra i mulini.

Giovedì 13 agosto: Sebes – Huneodara (castello dei Corvino)

Per visitare il castello di Corvino a Huneodara, ai margini occidentali della Transilvania, ci attende un lungo tragitto. Di nuovo percorriamo l’affascinante statale 14, che attraversa il cuore della Terra dei Sassoni, questa volta facendo una rapida sosta ad Axente Server. La chiesa fortificata sorge proprio a fianco della strada; la tozza torre quadrata con orologio spunta dal giro circolare delle mura. Mi affaccio all’ingresso, ma i secchi della spazzatura e la lunga strada che ci aspetta mi fanno desistere dalla visita. Prima di Sibiu imbocchiamo una delle poche autostrade della Romania, che ci consente di procedere molto più veloci.

Facciamo tappa a Sebes, a pochi chilometri da Alba Iulia, in passato con il none di Malembach capitale dell’Unterwald, la regione più occidentale degli insediamenti sassoni. La piazza centrale è un ampio quadrilatero allietato da un giardino fiorito, circondato da palazzi antichi. Su un lato sorge la grande Chiesa Evangelica, ma la bella abside è nascosta dall’edificio che ospita l’Unicredit. La chiesa, luogo di culto della comunità sassone, è un curioso connubio di stili, frutto di distinte fasi costruttive: alla severa basilica romanica, si aggiunse più tardi il maestoso coro tardogotico dai contrafforti ornati di statue, mentre la torre campanaria, culminante in una cuspide colorata, fu completa solo nel Seicento. All’interno il contrasto tra le massicce navate romaniche e gli slanciati pilastri a fascio del coro appare ancora più evidente. In fondo alla navata centrale, coperta da basse volte a crociera, spicca l’organo, mentre nel coro sul lato opposto il grande altare di legno è ricco di figure policrome intorno a Maria con il Bambino (si tratta della più grande pala d’altare in tutta la Transilvania). Durante la visita i bambini giocano tranquilli sui banchi della chiesa, quando Giulio vomita improvvisamente, costringendo il custode a pulire il pavimento e noi a cambiarlo nel prato. Prima di lasciare Sebes, facciamo un giro in auto attorno alla cerchia di mura. La Torre dello Studente, ricorda l’assedio turco del 1483: l’ultima resistenza avvenne proprio in questa torre e i pochi sopravissuti, ridotti in schiavitù, furono portati a Istanbul. Tra di essi vi era un giovane studente sedicenne, che venti anni più tardi riuscì a fuggire raggiungendo la Germania. Divenuto frate, sotto lo pseudonimo Anonimo di Sebes pubblicò il libro “Della religione, degli usi e delle scelleratezze dei turchi” che per oltre un secolo fu una sorta di best seller (ebbe quarantuno edizioni).

Ripresa la marcia verso occidente, lasciamo l’autostrada prima di Deva raggiungendo Hunedoara alle due del pomeriggio. La città ci mostra, per la prima volta durante il nostro viaggio, il lato oscuro dell’epoca comunista, con le grandi fabbriche che giacciono dismesse in stato di abbandono. Alla periferia sopra uno sperone roccioso sorge invece il magnifico castello dei Corvino (appellativo della nobile famiglia Hunyadi, derivato dal corvo nel loro stemma), la fortezza più grande di tutta la Romania. La sua immagine corrisponde perfettamente all’immaginario di un castello delle favole: la selva di torri e torrette dalle forme e dimensioni svariate, con beccatelli e caditoie, è sormontata dalle cuspidi dei tetti conici coperti di tegole. Neppure l’immaginazione di Walt Disney avrebbe potuto creare un simile castello! Al nostro arrivo il sole abbagliante e frontale, rende difficile apprezzarne la visione. Consumato il pranzo al sacco nel prato all’ombra di un albero, anche questa volta ci alterniamo per la visita degli interni. Tocca prima a Stefania e Fabio, mentre io rimango con Giulio. Con il passeggino mi spingo fino al precipizio: il lungo ponte di legno scavalca il dirupo, profondo una trentina di metri, sospeso sopra altissimi pilastri di pietra. Con Giulio mi aggiro alla ricerca di scorci suggestivi e angolature che consentano di scattare qualche foto senza il sole frontale. Le possibilità tuttavia sono limitate dai molti sbarramenti, che impediscono ad esempio l’accesso al torrente sotto il castello. Le sue mura sembrano uscire in modo naturale dalle rocce, proiettandosi verso il cielo.

Il castello, fondato nel XIV secolo, venne ricostruito in forme gotiche nel 1441-53 da Iancu de Hunedoara, Giovanni Hunyadi per gli ungheresi, mentre suo figlio Mattia Corvino aggiunse un’ala rinascimentale; le successive addizioni barocche furono opera nel Seicento di Gabriel Bethlen, principe di Transilvania e condottiero di parte protestante nella guerra dei Trenta Anni. Il dibattito sulle origini di Giovanni/Iancu è al centro di accese dispute tra ungheresi e romeni: entrambi lo considerano un eroe, rivendicandolo come loro connazionale. Secondo gli storici romeni, il padre Vajk (Voicu) sarebbe stato un valacco; quello che è certo è che si distinse al servizio di Sigismondo, re d’Ungheria e poi imperatore del Sacro Romano Impero, dal quale fu ricompensato con il titolo di conte di Hunyad e la signoria sul locale maniero; fu così che Voicu divenne Vajk Hunyadi. Secondo gli ungheresi Giovanni in realtà era il figlio illegittimo di Sigismondo, mentre Voicu era solo il padre nominale. Noto come il “Cavaliere Bianco”, divenne famoso per le sue vittorie contro i turchi: nell’impresa più celebrata, nel 1456 riuscì a rompere l’assedio di Belgrado da parte di Maometto II, fresco conquistatore di Costantinopoli. Nominato voivoda di Transilvania, divenne reggente di Ungheria; suo figlio Mattia Corvino, considerato il più grande re di Ungheria, avrebbe tenuto prigioniero per sette anni nel castello Vlad l’Impalatore, ma probabilmente si tratta solo di una leggenda.

Nel frattempo Stefania ha completato la visita e tocca a me. Percorro il ponte sospeso che s’infila nella grande massa di mura e rocce, come un lungo palo tra le fauci di un drago; il piccolo ingresso è collocato alla base di un’alta torre quadrata, sormontata da una bertesca di legno e culminante nella grande cuspide di tegole dall’aspetto di un cappello di strega. Subito dopo si accede alle prigioni e alla camera di tortura, la cui visione è sconsigliata ai bambini. La corte interna appare uno spazio quasi confuso, circondato da edifici di forme e stili svariati, alleggeriti da loggiati. Il percorso della visita si articola attraverso una serie di sale numerate, nella quale gli arredi sono molto limitati a causa dei passati incendi. La cappella, costruita da Iancu de Hunedoara in stile tardogotico, ospita al centro dell’abside, in fondo all’unica navata, un grande sarcofago con la figura distesa di un nobile personaggio. L’incisione nel cuscino, Johannes Hunyadi, mi consente di identificarlo; osservando meglio mi accorgo che si tratta della riproduzione della sua sepoltura già ammirata nella cattedrale di Alba Iulia. L’ala a sinistra dell’ingresso, con logge sui due piani, fu aggiunta da Mattia Corvino. Subito dopo posso salire in cima alla torre d’ingresso, la più alta del castello: dalla bertesca di legno la vista spazia su torri e tetti spioventi quasi verticali. Sopra il cono della Turnul Buzdugan (Torre della Clava) è collocato un guerriero con elmo piumato che regge uno stendardo con la data 1873. Iancu/Giovanni trasformò la fortezza in una sontuosa residenza principesca: sceso dalla torre, sbuco al piano superiore dell’edificio principale, occupato dalla grande Sala della Dieta, un magnifico ambiente diviso da una linea di pilastri rosa dai quali si dipartano i fasci delle volte a crociera, come rami di una palma. Il giro prosegue con la Torre di Capistrano (dedicata al frate francescano amico del voivoda Giovanni). Una galleria retta da nove pilastri collegati da archi si spinge dal corpo principale della fortezza fino all’isolata Torre Neboisa (“Non avere paura”), posta a protezione del lato meridionale del castello. Tornando sui miei passi raggiungo la torre orientale; l’interno è un unico ambiente circolare, altissimo e coperto da travi di legno che reggono il tetto conico a punta. Le sale dell’edificio sul lato opposto all’ingresso ospitano una mostra con reperti provenienti da una necropoli medioevale, tra cui uno scheletro di donna con un orecchino ad anello decorato da un piccolo riccio (X-XII sec.). Il pozzo dietro la cappella ha ispirato una leggenda: sarebbe stato scavato da tre prigionieri turchi ai quali Iancu/Giovanni aveva promesso la libertà una volta completata l’opera. Dopo 15 anni raggiunsero l’acqua a 28 metri di profondità, ma nel frattempo Iancu/Giovanni era morto e la moglie Elisabeth Szilagyi non rispettò la parola del marito e li fece giustiziare. Come ultima volontà espressero il desiderio di incidere in una pietra del pozzo la scritta “Puoi avere l’acqua, ma non l’anima”. Raggiungo poi la terrazza dell’artiglieria, dove non mi sfuggono i doccioni a forma di corvo, simbolo della famiglia Hunyadi, e infine completo il giro nella Sala dei Cavalieri, subito sotto la Sala del Consiglio della quale ripete la pianta e le forme tardogotiche con pilastri di marmo rosati.

Mentre lascio il castello una sposa si avventura nel ponte levatoio per un servizio fotografico. Prima di intraprendere la lunga strada di ritorno verso Sighisoara, proseguiamo per un breve tratto in auto per ammirare il castello da un’altra angolazione con il sole finalmente alle spalle. Dopo la visita, il groviglio di torri e torrette mi appare più chiaro: riconosco le finestre della Sala della Dieta che si aprono nelle mezze torrette ottagonali rette da altissimi contrafforti, gli archi ciechi che reggono la lunga galleria fino alla Torre Neboisa, le svettanti guglie della torre d’ingresso e della Torre della Clava. Le mura si levano quasi indistinguibili dalla roccia, come se il castello sorgesse direttamente dal fondo del baratro.

Venerdì 14 agosto: Cluj

La nostra esplorazione della Transilvania ci porta oggi ai suoi confini nord-occidentali per visitare Cluj-Napoca, la città più popolosa della regione, terza in tutta la Romania. Le sue architetture mitteleuropee ricordano il passato dell’ungherese Kolozsvar, anche se la fondazione di Klausenburg fu opera dei sassoni. A Cluj ritroviamo quindi ancora una volta tutte le componenti della storia transilvana. A cavallo tra Ottocento e Novecento il processo di magiarizzazione fu particolarmente pesante, mentre durante il regime comunista alla città fu aggiunta la denominazione Napoca, per sottolineare la continuità con l’antico abitato dacico, poi municipio romano. Oggi la comunità ungherese, scesa a meno di una quinto della popolazione, ricorda ancora con rimpianto i caffè e l’intensa vita culturale dei tempi passati, mentre le onnipresenti bandiere romene ribadiscono il punto di vista nazionalistico della maggioranza. Per fortuna ai nostri giorni le relazioni tra le due comunità sono tranquille, anche se la vita scorre su due binari paralleli con scuole e teatri separati. Cluj nel 1556 è stato anche il luogo di fondazione della chiesa unitariana, che rifiuta la dottrina della Trinità (e quindi la divinità di Cristo), promuovendo un approccio al cristianesimo tollerante e non dogmatico basato sulla ragione.

Per raggiungere Cluj da Sighisoara ci aspetta un lungo tragitto. Puntando verso nord, raggiungiamo prima Targu Mures, dove il traffico della periferia industrializzata rallenta notevolmente la nostra marcia. Pieghiamo poi verso occidente, ma Giulio anche oggi non sembra sopportare l’auto e mentre attraversiamo un paese vomita ancora una volta. Ci fermiamo per pulirlo davanti a una casa e subito un paio di donne ci offrono il loro aiuto. Le ringraziamo, ma ormai siamo attrezzati con acqua in abbondanza. Nei pressi di Turda, imbocchiamo finalmente l’autostrada che ci porta fin quasi a Cluj, dove giungiamo all’ora di pranzo.

Parcheggiata l’auto lungo il centralissimo Bulevardul Eorilor, dove la Lupa Capitolina, sopra un alto piedistallo con l’effige di Traiano, sembra volerci dare il benvenuto, raggiungiamo subito l’immensa Piata Unirii, cuore della città. Al centro del grande spazio vuoto pedonalizzato, si staglia l’immensa mole della cattedrale romano cattolica di San Michele, preceduta dal monumento a Mattia Corvino. Fabio e Giulio tuttavia, come molti altri bambini, sono attratti dai getti intermittenti delle fontane e, dopo una mattina in auto, non possiamo certo trattenerli mentre corrono tra gli spruzzi. Ne approfittiamo per pranzare al sacco, seduti su una panchina di fronte, godendo comunque della magnifica visione della fiancata gotica della cattedrale: lunghi finestroni si aprono nelle alte pareti di pietra chiara, mentre più in alto incombe il tetto spiovente di tegole e dal lato opposto spunta la guglia del campanile aggiunto nell’Ottocento. La chiesa fu costruita tra il 1349 e il 1489 dai sassoni, che a quei tempi controllavano la città; si tratta di una delle più grandi in Transilvania, seconda solo alla Chiesa Nera di Brasov della quale ricorda anche le forme. Dopo la Riforma cambiò più volte confessione: fu luterana, calvinista e per centocinquanta anni unitariana, prima di essere restituita alla comunità romano cattolica.

Calmati i nostri appetiti, in un angolo della piazza gettiamo uno sguardo al memoriale dedicato ai caduti della rivoluzione del 1989, sette “shot pillars” di bronzo, raggiungendo poi il monumento dedicato a Mattia Corvino, realizzato nel 1902. Il re a cavallo, sopra un candido piedistallo a forma di torre con la scritta “Mathias Rex”, brandisce la spada circondato da due coppie di personaggi, generali e nobili alleati che gli rendono omaggio sollevando stendardi (molto bella la cotta di maglia di uno di loro che reca un elmo con due piume, stile mitico Thor). Durante il suo regno, dal 1458 al 1490, riportò grandi successi militari, arrestando l’avanzata dei turchi ottomani, ai quali solo trentasei anni più tardi l’Ungheria doveva soccombere sconfitta nella battaglia di Mohacs. Mattia si fece promotore di una grande fioritura culturale, grazie anche alla moglie Beatrice di Napoli che lo introdusse alla cultura del Rinascimento italiano. Dopo la morte la sua figura ha assunto caratteri leggendari nella cultura popolare ungherese.

Finalmente visitiamo la cattedrale. All’interno le tre navate presentano spoglie ma magnifiche architetture gotiche, con i fasci degli alti pilastri che continuano nelle nervature delle volte. Il pulpito di legno è arricchito da una fioritura di sculture barocche. Rinomata per la sua acustica, la chiesa ospita spesso concerti del grande organo. Davanti all’ingresso non mi sfugge la statua bronzea dedicata a Marton Aron, vescovo siculo ungherese della chiesa cattolica di Transilvania nei tristi periodi della seconda guerra mondiale, durante la quale si oppose strenuamente alla deportazione degli ebrei, e del regime comunista, che lo tenne a lungo imprigionato o sottoposto agli arresti domiciliari.

Intorno alla piazza si allineano molti edifici suntuosi: uno ospita un museo dedicato alla farmacia, mentre il barocco Palazzo Banffy è sede del museo nazionale, che le guide dicono offrire la migliore collezione di arte romena nel paese. Non abbiamo però il tempo per visitarli, anche perché i bambini non sarebbero molto interessati. Ci dedichiamo quindi a un giro per il centro, durante il quale, mentre Fabio batterà la fiacca nel passeggino, Giulio, che si è perfettamente ripreso, camminerà quasi tutto il tempo, tenuto per mano dalla mamma. A nord della piazza, raggiungiamo per prima Piata Muzeului. Su un lato si erge la chiesa Francescana. L’alto campanile occupa quasi tutta la facciata, mentre nell’interno barocco si distingue l’altare centrale nel quale ai lati di Maria con il Bambino si trovano le statue di due grandi re ungheresi santificati: San Ladislao e Santo Stefano, il fondatore dello stato ungherese che ricevette la corona reale dal papa nell’anno mille. Al centro della piazza, sopra gli ombrelloni di un caffè spunta un obelisco; l’iscrizione in latino ricorda che fu collocato a Claudiopolis nel 1817, in occasione della visita di Francesco I, imperatore d’Austria, re di Boemia e Ungheria, principe di Transilvania, e Carolina Augusta, imperatrice serenissima.

Tornando verso Piata Unirii, passeggiamo tra vicoli pieni di locali fino a raggiungere la casa natale di Mattia Corvino, che purtroppo non può essere visitata. Sulla bianca facciata si distinguono due targhe: a fianco di quella ungherese, apposta dalla comunità locale, il “sindaco pazzo” Gheorghe Funar, famoso per la sua politica nazionalista antiungherese, ne ha fatta apporre un’altra in romeno e inglese, in modo che sia comprensibile a tutti. In essa si legge: “The romanian Matthias Corvinus is considered the greatest of all hungarian kings”. L’iscrizione non si preoccupa certo di citare la principessa ungherese madre di Mattia, ma sottolinea che suo padre era il romeno Iancu de Hunedoara, voivoda di Transilvania, Giovanni Hunyadi per gli ungheresi.

La nostra passeggiata prosegue raggiungendo l’area universitaria a sud di Piata Unirii. L’università Babes-Bolyai, dalla sua fondazione nel 1581, ha sempre rappresentato un importante polo culturale, ma anche un motivo di oppressione e scontro. Per lungo tempo vi fu proibito l’insegnamento in romeno, ma dopo il passaggio della Transilvania nella Grande Romania la situazione si invertì e fu vietato l’ungherese. Nel dopoguerra furono create università separate nelle due lingue, seguite da una fusione forzata che portò al declino dell’ungherese. Con il crollo del comunismo, sembra si sia finalmente approdati a un’istituzione multiculturale, seconda università del paese per numero di iscritti. Per prima visitiamo la settecentesca chiesa barocca dell’ordine dei Piaristi. Di fronte all’edificio principale dell’università non mi sfuggono le statue di Samuil Micu, Gheorghe Sincai e Petru Maior, personalità di spicco della Scuola di Transilvania, i cui studi a Blaj alimentarono nell’Ottocento il rinascimento culturale romeno, ispirando la successiva “generazione del 1848”, incluso Avram Iancu, che frequentò l’università di Cluj come studente.

Proseguendo la passeggiata raggiungiamo la calvinista Chiesa Riformata, costruita ai tempi di Mattia Corvino. Davanti alla semplice facciata in pietra con alto timpano triangolare, si trova una riproduzione di una delle più celebri statue equestri al mondo: il San Giorgio che uccide il drago del castello di Hradcany a Praga. L’interno non può essere visitato per i restauri in corso. Poco dopo si conserva un breve tratto delle antiche mura; davanti alla Torre dei Sarti si erge una statua bronzea di Baba Novac che regge un grande scudo, datata 1975. Nella seconda metà del Cinquecento il ribelle serbo si distinse nelle lotte contro i turchi, che da ragazzo lo avevano punito per un crimine strappandogli i denti: celebrato come eroe nazionale dai serbi, è altrettanto amato dai romeni. Nelle sue imprese fu infatti alleato del voivoda Mihai Viteazul nel tentativo di liberare la Valacchia dagli ottomani, riportando numerose vittorie. Preoccupati dei successi di Novak e Michele, gli Asburgo decisero però di sbarazzarsi di loro. Accusato di tradimento, Novak venne catturato e consegnato ai turchi che lo condannarono al rogo. L’iscrizione del monumento ricorda che Novak fu giustiziato proprio a Cluj il 5 febbraio 1601 tra atroci tormenti: bruciò sul rogo per oltre un’ora (il corpo venne tenuto bagnato per prolungare il supplizio), poi venne impalato e lasciato in pasto ai corvi.

Nella nostra passeggiata raggiungiamo un altro punto di riferimento nel panorama cittadino: Piata Stefan cel Mare e Piata Avram Iancu, che costituiscono in realtà un unico spazio. Su un lato sorge il Teatro Nazionale, costruito all’inizio del Novecento da architetti viennesi con il tradizionale accostamento dei colori bianco e giallo tanto apprezzato in quell’epoca. In mezzo alla piazza, per ribadire il dominio romeno il sindaco Funar ha fatto edificare un monumento dedicato ad Avram Iancu, protagonista delle lotte ottocentesche contro gli ungheresi. Il “Principe delle Montagne”, avvocato originario della Transilvania, giocò un ruolo fondamentale nella rivoluzione del 1848, per il largo seguito di cui godette tra i contadini locali, ancora soggetti come servi della gleba ai grandi proprietari terrieri ungheresi, e per la sua alleanza con gli Asburgo in opposizione al tentativo ungherese di inglobare la Transilvania (analoghi avvenimenti spinsero i croati, guidati da Josip Jelacic, ad allearsi con gli austriaci contro gli odiati ungheresi). Dopo il fallimento della rivolta ungherese di Kossuth, del quale sia i croati che i romeni si attribuiscono gran parte del merito, negli anni successivi l’Austria amministrò direttamente la Transilvania con un governo militare, ma nel 1867 con la creazione della monarchia duale austro-ungarica, la regione fu inglobata nell’Ungheria. La figura di Iancu si erge su un altissimo pilastro in mezzo a una fontana, che con i suoi spruzzi fa impazzire dal divertimento il piccolo Giulio.

Il lato opposto della piazza è chiuso dalla cattedrale ortodossa, costruita dopo la prima guerra mondiale per celebrare l’annessione della Transilvania alla Grande Romania. L’edificio propone una classica architettura ortodossa con cupola centrale, che sembra esaltare la dimensione verticale per la sua grande altezza confrontata alla stretta facciata. Le candide pareti e le calotte scure delle cupole formano un bel contrasto cromatico; l’interno, completamente coperto di affreschi, appare imponente ma buio, con un’enorme iconostasi.

Per tornare in Piata Unirii percorriamo tutto boulevard Eroilor, al termine del quale si trova un altro memoriale commissionato da Funar, per la verità per nulla aggraziato ed infatti popolarmente soprannominato “La Ghigliottina”, dedicato ai romeni autori nel 1892 di un Memorandum di protesta contro la tracotanza ungherese. Prima di ripartire alla volta di Sighisoara, concediamo ai bambini un altro momento di divertimento sfrenato in piazza tra gli spruzzi intermittenti delle fontane.

Per il ritorno decidiamo di evitare l’attraversamento di Targu Mures, scegliendo una strada alternativa che tra bei paesaggi collinari ci consente di raggiungere Medias, evitando il traffico e facendoci risparmiare molto tempo.

Sabato 15 agosto: Targu Mures

Per completare il quadro multietnico della Transilvania non ci resta che un’incursione nel modo dei siculi ungheresi. La loro incerta origine è oggetto di discussione, anche per le implicazioni politiche nell’eterno contenzioso tra romeni e ungheresi sulla Transilvania. L’ipotesi più accreditata considera i siculi discendenti degli ungari, come gli ungheresi, attribuendo le loro differenze culturali alla separazione dal ceppo principale (molte usanze e costumi dei contadini siculi sono analoghi a quelli dei contadini romeni).

Oggi abbiamo in programma la visita di Targu Mures, principale città dei siculi, caratterizzata oggi da una popolazione per metà romena e per metà ungherese, oltre a un’importante comunità zingara. Durante il regime di Ceausescu era una “città proibita”, nella quale era consentito stabilirsi solo ai romeni, nel tentativo di diluirne la componente magiara. Dopo il crollo del comunismo fu teatro di scontri sanguinosi tra le due comunità, ma ai nostri giorni tutto appare tranquillo e si assiste a una sorta di rinascita culturale ungherese. Speriamo che l’ingresso nell’Unione Europea di Ungheria e Romania abbia definitivamente posto fine a questi conflitti. Durante la nostra visita incontreremo anche molti zingari, riconoscibili per le gonne vivacemente colorate delle donne; ci appariranno ben vestiti e perfettamente integrati nella società, a differenza da quanto accade in Italia.

Per raggiungere Targu Mures da Sighisoara impieghiamo circa un’ora. In città i punti d’interesse si concentrano attorno a Piata Trandafirilor, che forma una sorta di grande viale con un giardino nel mezzo e palazzi stile Secessione sui lati. Gli edifici più interessanti, la Prefettura e il Palazzo della Cultura, si trovano uno a fianco dell’altro e riportano alle architetture di inizio Novecento, allo stile “secessionista ungarico” che accompagnava la politica di magiarizzazione imposta alla Transilvania. Nel giardino della piazzetta ritroviamo la Lupa Capitolina; la Prefettura ci appare dominata dall’alta torre dell’orologio, con i tetti coperti da maioliche policrome, mentre il Palazzo della Cultura, ornato da bassorilievi bronzei e un grande mosaico, ha un tetto spiovente “quadrettato”.

All’estremità meridionale di Piata Trandafirilor, la cattedrale cattolica di rito greco è coperta da una cupola dal sapore occidentale; è in corso la messa e i fedeli riempiono tutta la chiesa. Più tardi visitando il suo interno, lo scopriremo simile a quello delle chiese ortodosse: a pianta centrale con cupola, senza panche per sedersi e pieno di icone. Dietro la chiesa un memoriale, cinque croci di legno collegate tra di loro, ricorda le vittime della rivoluzione del 1989, uccise sul posto.

Tornando sui nostri passi, percorriamo Piata Trandafirilor verso nord. Superata piazza Teatrului, dove la torre isolata è tutto ciò che resta di un monastero francescano, raggiungiamo all’estremità settentrionale la cattedrale ortodossa neo-bizantina, costruita tra le due guerre come risposta romena alla chiesa cattolica sul lato opposto della piazza. Davanti alla chiesa, come a Cluj, ritroviamo Avram Iancu; la sua statua equestre ribadisce il punto di vista romeno.

Allontanandoci per un breve tratto, raggiungiamo la graziosa palazzina gialla residenza del conte Samuel Teleki (1739-1822), il cancelliere austriaco che raccolse una ricca biblioteca, donata poi alla città ed oggi conservata in un museo. Di fianco sopra una collina si erge la Cittadella, protetta da mura turrite. Oggi è giorno di matrimoni e una lunga limousine è parcheggiata proprio davanti. Una coppia di sposi si sta facendo fotografare sulla scalinata della chiesa calvinista, costruita dai domenicani nel 1430 e dominata dalla torre con l’alta cuspide centrale circondata da quattro più piccole negli angoli. I molti invitati dai capelli biondi tradiscono l’etnia ungherese della coppia. La cittadella è stata da poco risistemata e la passeggiata tra le antiche caserme, nella grande spianata erbosa racchiusa dalle mura, risulta piacevole. Prima di lasciarla ci affacciamo in chiesa: è in corso un altro matrimonio e le bandiere ungheresi rivelano anche questa volta in modo inconfondibile l’origine degli sposi.

Per pranzo torniamo in Piata Trandafirilor, dove io consumo un kebab in un fast food, mentre i bambini preferiscono McDonald, dove ci sediamo accanto a un gruppo di zingari con le donne vivacemente abbigliate.

Oggi è ferragosto e, il pomeriggio a Sighisoara, Piata Cetatii ospita balli di gruppi in costume. Gli uomini indossano pantaloni bianchi e gilet neri sopra camicie strette in vita da un cinturone, mentre i calzari con pompon propongono i colori della bandiera romena; le donne ripetono gli stessi accostamenti di colori con ampie gonne bianche e sopragonne nere. In piazza sono parcheggiate alcune auto storiche, sulle quali si legge la scritta “Julius Verne Experience, round the world trip, greatest pre-war car event ever”. Fabio e Giulio sono incantati e tutti vogliono farsi immortalare davanti alle vetture. Di ritorno in Italia, scoprirò su internet che si tratta della promozione di un tour in undici tappe attraverso il mondo, previsto per il prossimo anno e destinato ad auto precedenti la seconda guerra mondiale. Dopocena concludiamo in bellezza il nostro soggiorno a Sighisoara con un giro in carrozza. Il cocchiere ungherese sfoggia una lunga barba bianca ed occhi azzurri; Fabio si siede al suo fianco dietro la coppia di cavalli.

Domenica 16 agosto: Sighisoara – Saschiz – Bucarest – Roma

Il nostro viaggio volge al termine e questa sera ci aspetta il volo di ritorno dall’aeroporto di Bucarest. Completati i bagagli e caricato tutto in auto, lasciamo Sighisoara alle dieci del mattino. Dopo tanti giorni ci dispiace lasciare la suggestiva visione delle casette colorate in Platia Cetatii.

Lungo la strada per Brasov ci fermiamo a Saschiz, per visitare la chiesa che avevamo trovato chiusa qualche giorno prima. La possente torre quadrata ricorda la Torre dell’Orologio di Sighisoara, ma è percorsa da preoccupanti crepe. Affacciandoci dalla porticina accostata, le scale ci appaiono buie e Fabio, con grande delusione, si convince a rinunciare all’ultima scalata. La chiesa evangelica, costruita tra il 1493 e il 1496 da coloni sassoni, impressiona per la sue dimensioni. È priva di altre fortificazioni, perché era talmente possente da fungere lei stessa da fortezza. All’interno è in corso la messa domenicale: dal pulpito il prete predica in tedesco, ma solo pochi fedeli siedono nei banchi; a Saschiz sopravvive una piccola comunità sassone. Prima di ripartire non ci sfuggono, lontani in cima a una collina boscosa, i resti della fortezza sassone; per la sua lontananza dal paese fu presto sostituita dalla possente chiesa come rifugio in caso di attacco.

Raggiunta Brasov, il suo aggiramento si rivela più lungo del previsto, fino all’imbocco della strada per Sinaia che troviamo bloccato dai vigili. Non ci resta quindi che seguire un percorso alternativo che raggiunge Ploiesti superando i monti Ciucas. Al passo ci fermiamo per consumare i panini; da qui sembrano partire molti percorsi escursionistici, ma il posto è pieno di spazzatura, incluse vecchie paia di scarpe abbandonate. Superato il paese di Cheia, proseguiamo lungo la valle del Teleajen, affollata di campeggiatori. In confronto a Sinaia e alle valle della Prahova, questa regione sembra destinata ai vacanzieri meno abbienti, con gli scenari naturali deturpati purtroppo dall’incuria dei villeggianti. Il nostro cammino è rallentato dal traffico e dai lavori in corso, ma alle quattro finalmente raggiungiamo Ploiesti, dove ritroviamo la E60 che ci porta rapidamente fino all’aeroporto.

Riconsegnata la macchina a noleggio, all’aeroporto Fabio ci ricorda i regali che gli avevamo promesso all’arrivo, quando aveva adocchiato un negozio di giocattoli, e così le nostre ultime spese sono un’astronave Lego di Star Wars e l’ennesima macchinetta per Giulio.



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