Kali dalla faccia nera e Jagannath senza mani

Tre settimane tra Kolkata e l'Orissa in mezzo a caos cittadino, foreste, mare e nuovi dei
Scritto da: gnappetto68
kali dalla faccia nera e jagannath senza mani
Partenza il: 24/01/2016
Ritorno il: 14/02/2016
Viaggiatori: 3

La decisione di tornare in India per la quarta volta, è stata molto dibattuta quest’anno. C’è stato un lungo scambio di messaggi tra me e Stefano (a Goa da novembre, come ogni anno degli ultimi tre) in cui lui cercava di convincermi ma la mia stanchezza unita ai casini di lavoro mi avevano orientato per il no. Anche perché l’idea di fare il Gujarat non dico “zaino-in-spalla” ma quasi, non mi attirava. Pensavo quindi che con il mio rifiuto la cosa fosse chiusa invece Stefano non si è arreso e mi ha proposto un’alternativa: l’appuntamento potrebbe essere a Calcutta e poi da lì visitare l’Orissa, due mete che da anni ci attiravano e che, per ragioni diverse, avevamo sempre messo da parte. Nonostante il parere negativo di molte persone vicine a me (“ma non puoi andar via in questo periodo dell’anno!”, “tre settimane? Ma è tantissimo tempo!”) do retta unicamente ad una che mi dice “cogli l’occasione! Non si ripresenterà…per cui…vai!” e un freddo lunedì di dicembre mi metto al pc e trovo una ghiotta occasione sul sito Emirates: volo a/r per Kolkata senza scali intermedi in India (l’ultima volta per arrivare a destinazione avevo dovuto fare scalo a Mumbai ed è stata un po’ una rottura di scatole) a 540 Euro. In 10 minuti prenoto volo e assicurazione di viaggio (Euro 56,00 con spese sanitarie illimitate e garanzia annullamento volo con AIG. Consigliata.), lo comunico a Stefano che sogghigna (“…lo sapevo che saresti venuto”) e a Manu, amica comune, espertona dell’India dove trascorre, da anni, l’inverno stando un po’ a Goa e un po’ in giro che, a sorpresa, ci “chiede” se può unirsi a noi per la parte Odishana del viaggio. Detto fatto!

Riassumendo, quindi, a Kolkata saremo in due e in Orissa in tre. Non c’è voglia (e, per quanto mi riguarda, neanche tempo), da parte di nessuno, di organizzare il viaggio per cui decidiamo di prenotare unicamente i mezzi di trasporto, le prime due notti a Kolkata e la prima a Bhubaneswar. Nel giro di quindici giorni è già tutto fatto: Stefano si prenota il treno in andata Goa-Kolkata con stop programmato a Hyderabad che visiterà da solo, il treno per due Kolkata-Bhubaneswar e l’aereo di ritorno Kolkata-Goa da dove ripartirà per l’Italia. Manu prenota il suo volo a/r Goa-Bhubaneswar. Io mi occupo delle accomodation. Un giro su Tripadvisor mi lascia alquanto perplesso sulla qualità di guesthouse e alberghi visti i commenti non proprio incoraggianti: la pecca principale è la scarsa pulizia, le cimici dei letti, gli scarafaggi e la scarsa sicurezza. Manu ci suggerisce di prenotare nella guesthouse dov’era stata anni fa, la Nextgeneration Guesthouse, un po’ fuori dal centro ma pulita e dignitosa. Contatto quindi il gentilissimo Shibadri e blocco la camera per una notte in single occupancy (1.700 Rupie) e due in double (2.200 Rupie a notte). A Bhubaneswar il discorso peggiora…nessun albergo ne nessuna guesthouse ci convince in pieno e alla fine optiamo per il Pushpak Hotel che prenoto, solo per una notte, su booking.com a 19,00 Euro. Un breve discussione prima di partire riguarda il problema malaria: l’Orissa è il secondo stato indiano per casi di malaria e quindi io decido di fare la profilassi mentre Stefano e Manu nicchiano visto che è stagione secca. La settimana prima di partire vengo colpito da un feroce mal di schiena (complici probabilmente anche le temperature costantemente sotto lo zero in questo stranissimo inverno quasi sempre mite), tanto da farmi dubitare sul viaggio: ma ormai non c’è più tempo di fare accertamenti, visite, rx e quant’altro per cui decido di fregarmene e andare non senza aver messo nello zainetto quantità industriali di antidolorifici di varia natura e tipo. Il volo Emirates mi aspetta e al grido di “Ci vediamo al Dum Dum” (nomignolo con cui è conosciuto l’aeroporto di Kolkata) parto per Venezia!

La signora dei fiori sul ponte pedonale per Lake Town

Kolkata 25-31 Gennaio

24/25 Gennaio

Dopo aver visto più volte la pubblicità di Emirates con Jennifer Aniston che chiede al personale di bordo “where’s the shower?” sono ansioso di salire sull’aeromobile Emirates da Venezia per Dubai. L’esperienza, invece, non sarà nulla di che: i sedili sono abbastanza comodi ma lo standard è quello solito di qualsiasi aereo e per la doccia…avrei dovuto prenotare in first! Atterriamo all’aeroporto di Dubai a mezzanotte e un quarto e la prima sorpresa è costituita dal lunghissimo tragitto in cobus dall’aereo al terminal che dura una ventina di minuti buoni (forse il trasferimento più lungo che io abbia mai fatto, eccetto forse a Monaco). Raggiungo quindi, dopo chilometri di corridoi, il gate da dove parte il volo per Kolkata (ho due ore scarse di tempo) ma prima di entrare nella sala d’attesa riesco a fumare quelle tre/quattro sigarette in una angusta smoking room come al solito gremita di gente (tanto che non sarebbe neanche necessario accendersi la propria: basta respirare!!!). Il mio iPhone si rifiuta categoricamente di collegarsi al wi-fi dell’aeroporto (grande delusione: immaginavo che l’aeroporto di Dubai fosse avanti in tutto e invece…neanche il wi-fi!) e quindi non mi resta che esibire la mia carta d’imbarco all’addetta ai controlli ed aspettare la partenza del secondo volo.

Partiamo puntuali alle 2 di mattina, i sedili sono un po’ più stretti e mi trovo circondato da due attempate viaggiatrici che parlano tra di loro necessariamente coinvolgendomi visto che mi trovo…in mezzo! Durante il pasto (mediocre e indian style) la signora alla mia sinistra (un inglese che ha sposato un bengalese in trasferta con tutta la famiglia) mi rovescia sui jeans il suo succo di mela: vorrei bestemmiare ma sfodero il mio sorriso migliore e tra un “don’t worry” e un “it’s ok” cerco di pulirmi al meglio bloccato dalla cintura di sicurezza e dal vassoio con la colazione che mi obbliga a contorsioni indicibili (ricordate il mio mal di schiena? Ecco…qui si è fatto sentire in tutta la sua prepotenza!). Ci prepariamo all’atterraggio al Subhas Chandra Bose e, psicologicamente, ad affrontare le lungaggini della burocrazia degli aeroporti indiani. A sorpresa, invece, il Kolkata Airport ha un’efficienza altissima: nel giro di neanche mezzora dopo l’atterraggio sono già fuori dall’aeroporto con il mio bel timbro sul passaporto ed il mio trolley giunto a destinazione (niente dinosauro al seguito – la mia samsonite – stavolta si viaggia leggeri). Mi aspettavo, come in tutti gli altri aeroporti indiani, di essere assalito da ogni genere di conducente di mezzo di trasporto invece nello spazio esterno agli arrivi c’è pochissima gente e, sorpresa, nessuno che mi aggredisce! Indosso il piumino visto che fa freddo (a Kolkata?) e pazientemente aspetto che arrivi Stefano con il taxi a recuperarmi, ma sono in abbondante anticipo e quindi trascorro una buona mezzora a guardarmi intorno e a fumare. Finalmente vedo una (mitica) Ambassador gialla con a bordo un tipo barbuto che si sta sbracciando. Dopo i baci e gli abbracci con Stefano, carichiamo i mie bagagli e partiamo alla volta di Salt Lake dove si trova la guesthouse. Stefano mi racconta che la gh è pulita e molto accogliente e che si trova in una zona davvero bellissima.

La corsa in taxi dura circa una mezzora (250 Rupie…ma il prezzo varia… si veda la fine del diario!) su una strada larghissima e stranamente quasi vuota: ok, sono le 9 del mattino ma questa è l’India e la cosa è davvero stranissima. Alti palazzoni alcuni terminati ed abitati ed altri in costruzione ci sfilano accanto, niente baracche, niente casino, niente caldo…ho forse sbagliato atterraggio? Quando imbocchiamo le piccole e tranquille viuzze di Salt Lake la cosa si fa ancora più strana: basse case, alberi a profusione, piccoli parchi, silenzio, pochi negozi. Sono attonito, cioè, siamo a Kolkata una delle città più incasinate dell’India! Arriviamo in guesthouse, un piccola palazzina a due piani, la camera è buona e mi sembra abbastanza pulita anche se la doccia non funziona. Scendiamo a piano terra dove c’è la reception molto popolata (sembra che a gestire la gh ci siano una decina di persone, molte al di sotto dei vent’anni), ci beviamo un buonissimo milk coffee e poi decidiamo di fare un giro al di là del ponte pedonale, zona che la sera prima Stefano aveva sommariamente esplorato trovandola interessante. Dopo un breve zig zag lungo stradine assolutamente tranquille e silenziose (solo qualche macchina e qualche ciclo-rikshaw) arriviamo al ponte pedonale che attraversa prima un canale e poi una trafficata strada. All’inizio del ponticello, seduta per terra, una giovane ragazza ha allestito la sua “fioreria” ed è circondata da vasetti che contengono rose, gladioli, gelsomini, dalie. Spontaneamente la guardo, le sorrido e la saluto, saluto e sorriso che lei ricambia: questo scambio diventerà il nostro rito quotidiano, mattina e sera, e a fine settimana mi regalerà una sorpresa di quelle che solo in India possono accadere. Dal ponte ammiriamo l’esatta (e inquietante!) riproduzione del Big Ben londinese che svetta in mezzo ad un incrocio caotico e che costituisce il simbolo di Lake Town, quartiere di Kolkata Nord famoso più che altro per i suoi banquet hall (simil ristoranti dove si celebrano i matrimoni indiani con centinaia di invitati). Superata la rotonda ci addentriamo, a caso lungo le strade vicine, facciamo uno stop in una farmacia per prendere uno sciroppo per la tosse per Ste (“Chemical, not ayurvedic, please!”.

I farmaci in India sono molto convenienti, ad esempio 10 pastiglie di ibuprofene possono costare 0,70 centesimi di Euro, ma bisogna sempre specificare se si vuole il farmaco tradizionale oppure quello ayurvedico) e ci immergiamo nell’India consueta con la sua inesistenza di marciapiedi occupati dalle bancarelle (in legno, ferro o formate da una semplice pezza di stoffa stesa a terra) piene di ogni tipo di merce dalla frutta e verdura ai giocattoli per bambini, da calzini e mutande a braccialetti di vetro; con i suoi food stall, micro ristoranti (senza posto a sedere!) dove sobbollono pentole, sfrigolano aglio e zenzero, friggono samosa, puri, belpuri e via di seguito; con le sue strade piene di qualsiasi tipo di veicolo a motore e non, di carretti, rickshaw a motore, a pedali e a “forza umana” (gli uomini cavallo, qui, sono famosissimi), di persone che trasportano merci, di manager che vanno al lavoro, di vacche che “te la fanno” davanti agli occhi. L’amica Danika, che ha vissuto a Bombay con Christian per due anni, direbbe “That’s real India!”. Ad un certo punto la strada che stiamo percorrendo comincia a restringersi e, in mezzo alla curiosità della gente che ci guarda stranita, arriviamo ad un passaggio a livello: attraversandolo vediamo le baracche costruite lungo le rotaie con ogni materiale possibile e immaginabile (prevalentemente plastica, eternit e cartoni), nelle quali vivono milioni di indiani incuranti di avere la porta di casa praticamente a contatto con i treni che costantemente sfrecciano lungo la linea. Qui è normale, per i bambini, giocare proprio sui binari o lavarsi rovesciandosi addosso grandi secchi d’acqua, per le donne lavare la biancheria e stenderla sul tetto della baracca, per gli uomini cazzeggiare seduti a fumare guardando i treni che passano.

Continuiamo a percorrere la strada ormai ridotta a un vicolo fiancheggiato da basse case in mattoni e percorsa da ogni genere di mezzo di trasporto eccetto quelli che ci servirebbero per dirigerci verso il centro di Kolkata: nessun taxi né OTO (così si chiamano in India i tuk tuk) ma solo gente che ci guarda incuriosita e che al nostro passaggio scoppia a ridere (sarà per la rasatura delle nostre teste, prive di capelli, cosa che in India suscita sempre molta ilarità). Scopriamo presto che stiamo percorrendo un vicolo cieco nel senso che la stradina, dopo un po’, finisce. Torniamo quindi sui nostri passi e ne imbocchiamo un’altra che ci porta all’ennesimo passaggio a livello che attraversiamo solo per scoprire che, al di là, ci sono solo altri binari del treno e altre baracche senza però nessuna strada. Non ci resta quindi che tornare sui nostri passi e dopo un bel po’ di cammino arriviamo nuovamente al centro di Lake Town dove abbiamo quella che sarà la prima di una lunga serie di contrattazioni con i tassisti di Kolkata. L’uomo con cui parliamo, ed al quale chiediamo quanto ci costa andare a Chowringee, ci chiede 400 rupie, un prezzo davvero astronomico che però, nel giro di un quarto d’ora, scende di metà. Scopriamo poi che il soggetto con cui abbiamo contrattato non è il conducente del taxi ma un tizio (evidentemente l’unico che parla inglese tra i tassisti) che ci indirizza verso una Ambassador gialla in sosta. Dopo un veloce scambio di rupie tra il vero conducente e il procacciatore (potrebbero essere state 20 o 50 rupie: evidentemente è il prezzo da pagare per il suo “servizio”) ci immergiamo in quello che nei prossimi giorni diventerà l’incubo-traffico-calcuttiano. Dopo circa 20 minuti di corsa il traffico già caotico diventa insostenibile e ci fermiamo con l’autista che addirittura spegne il motore. Aspettiamo 10 minuti dentro al taxi fermo senza che succeda nulla, tutto è paralizzato. Il tassista a un certo punto borbotta qualcosa e ci fa capire che è inutile aspettare, che rimarremo bloccati lì e quindi ci suggerisce di… andare a piedi limitandosi a qualche vaga indicazione su dove si trova Chowringee che secondo lui dovrebbe essere… poco più avanti! Paghiamo la corsa e, rassegnati, ci avviamo a piedi in mezzo alle auto ferme, in un silenzio quasi surreale. Poco più in là scopriamo il motivo del blocco improvviso: un lungo corteo di donne tutte vestite con saree di colore viola sta sfilando, protestando e alternando slogan a canti: fa una certa impressione vedere una strada di Kolkata completamente bloccata per far passare un corteo di donne, scortate da qualche poliziotto, ma anche questa è India! Camminiamo lungo una strada larghissima ed arriviamo al cuore di Chowringee, la zona costituita dall’Hogg Market e dal New Market un immenso complesso di centri commerciali, negozi, bancarelle sistemate sulla strada che vendono qualsiasi tipo di mercanzia. Il vecchio Hogg Market, costruito in mattoni rossi dagli Inglesi è davvero bellissimo, non tanto per ciò che ospita (i soliti negozi indiani pieni di cianfrusaglie) quanto per l’architettura coloniale, con le torri svettanti e le arcate.

La fame comincia a farsi sentire ma in India mangiare “comodi” può costituire un problema visto che la maggior parte della popolazione consuma i pasti o al lavoro (nei famosi “tegamini” portati in loco dai walla come nel film “Lunch Box”) oppure per strada, servendosi negli stall posti ad ogni angolo. Notiamo un ristorante “sotterraneo” con la sala che si trova nel basement di un palazzo ed entriamo: ci sembra di essere in discoteca visti i numerosi fili di luci che lampeggiano in mezzo a quadri di dubbia bellezza. I camerieri sono, come spesso succede in questo paese, fin troppo zelanti e gentili ma quando scoprono che vogliamo mangiare solo del normale fried rice un po’ ci snobbano: evidentemente si aspettavano che, in quanto turisti (anche se in giro ne abbiamo visti decisamente pochi…), ordinassimo un banchetto spendendo migliaia di rupie. Invece di rupie ne sborsiamo 500 in due e salutiamo i ragazzotti indiani che ci guardano un po’ delusi. Proseguiamo nella visita del quartiere più turistico di Kolkata, attraversando il mercato su strada di fronte all’Indian Museum ed arrivando fino a Park Street che, nei giorni seguenti, diventerà la nostra meta per quanto riguarda il cibo visto che i maggiori punti di ristoro della città sono concentrati qui insieme a decine di negozi anche di lusso. Comincia a far buio e la stanchezza si fa sentire. Decidiamo quindi di tornare verso la zona nord e una rapida occhiata alla mappa ci dice che possiamo prendere la metro, scendere a qualche chilometro di distanza dalla guesthouse e poi prendere un taxi. Chiediamo informazioni sulla fermata di Maidan che ci viene indicata da due giovani ragazzi. Ci avviamo quindi nella direzione indicataci e dopo 10 minuti di cammino troviamo finalmente l’imbocco della metro; scendiamo le scale, facciamo il biglietto (5 rupie a testa, na bazzecola! Che economica, questa metro!) e ci dirigiamo vero il binario. Parecchia gente sta aspettando il treno e quando arriva notiamo che le carrozze sono abbastanza piene.

Anche se a fatica riusciamo tuttavia ad entrare nel vagone prima che le porte si chiudano. Le successive due fermate si riveleranno come l’inizio di un incubo che difficilmente scorderemo. La metro di Kolkata funziona così: una volta che sei salito, difficilmente scendi (se non forse al capolinea!) visto che alle fermate la gente che deve salire non aspetta un secondo, limitandosi a “sfondare” il muro di passeggeri che ha davanti, schiacciandoli a dismisura, infischiandosene di quel minimo di spazio vitale necessario a… respirare! Risultato, ci troviamo praticamente compressi tra centinaia di persone, in un treno puzzolente, caldo e asfissiante, ci manca l’aria, abbiamo gomiti, ginocchia, mani, che premono in varie parti del corpo, non serve nemmeno attaccarsi ai sostegni per resistere agli scossoni del treno visto che praticamente siamo un’unica massa compatta di gente. Riusciamo a malapena a parlarci, con Stefano, ma ci diciamo che non possiamo passare le prossime cinque fermate in questo modo e quindi decidiamo di fare un’azione di forza e di cercare in tutti i modi di scendere alla prossima stazione. Quando il treno si ferma non c’è tempo né per la gentilezza, né per dire “excuse me”, né per farsi alcun riguardo: semplicemente, come dei panzer, spingiamo con forza (e anche con un po’ di violenza) tutti quelli che si trovano tra noi e l’uscita e, proprio a filo, riusciamo a scendere dal treno, anche se un po’ ammaccati. Direi che nei prossimi giorni la metro ce la potremo anche dimenticare visto l’incubo appena vissuto! Praticamente non sappiamo nemmeno dove siamo e quindi non ci resta che fermare un taxi, cosa che si rivela un’impresa visto che i pochi che passano in strada sono tutti pieni. Finalmente una gialla (le Ambassador, qui, sono tutte gialle) anima pia si ferma e per 150 rupie ci riporta a Lake Town dopo…40 minuti di tragitto in mezzo a un traffico sempre più incasinato. Due passi in zona ci portano verso una stranissima gelateria dove la materia prima viene pestata e triturata con spatole tipo cazzuole su una lastra di ferro ghiacciata insieme a frutta secca, biscotti al cioccolato, e ingredienti vari. Ne mangiamo uno in due, guardando affascinati il complesso iter di preparazione che fornisce ai ragazzi anche un ottimo allenamento e una buona alternativa alla palestra. Riprendiamo a passeggiare e completiamo la nostra cena con un pezzo di dolce ai datteri e un succo di mango acquistati in un negozietto della catena indiana “Mio Amore” dove vendono prevalentemente dolci di ogni tipo. E’ ora di tornare verso Salt Lake e quando attraversiamo il ponte che scavalca prima VIP Road e poi il canale (ritrovo la Flower Lady che saluto, ricambiato da un sorriso), ci troviamo immersi, come in un sogno, in un silenzio pazzesco che confrontato al caos, al traffico, al rumore, al casino del centro ci fa sentire leggeri ed in pace. Attraversiamo le stradine e i vari block fiocamente illuminati e senza nemmeno un auto ed arriviamo, stanchi morti, in guesthouse dove dopo una doccia (che ora funziona!), ci buttiamo sul letto e ci addormentiamo di botto.

26 Gennaio

Dopo una bella e sana dormita, ci svegliamo con pigrizia e ordiniamo la colazione ai ragazzi della cucina che poco dopo ci viene portata nella zona comune del secondo piano. Consumiamo le nostre omelette, del pane tostato con la marmellata e un milk coffee bello forte, saliamo nella terrazza della guesthouse per una sigaretta indossando ancora i piumini (al mattino fa freddino), prepariamo lo zainetto giornaliero, cosa alquanto complessa perchè deve avere, al suo interno, un po’ di tutto: felpe per il freddo, berretti per il sole, crema solare, fazzoletti, bandane, lo sciroppo per la tosse per Ste, un cerotto per il mal di schiena per me e quant’altro ci potrebbe servire durante la lunga giornata che ci attende. Ci dirigiamo verso Lake Town dopo aver augurato il buon giorno alla Flower Lady sempre nello stesso posto, contornata da rose, gelsomini, dalie e quant’altro, e contrattiamo sempre con lo stesso “capo” un taxi per Kumartuli, un quartiere di Kolkata famoso per la fabbricazione, rigorosamente artigianale, delle statue delle divinità. Oggi è il RepublicDay in India e, in giro, c’è aria di festa ma il traffico è sempre bestiale. Il tassista ci fa scendere lungo uno stradone mostrandoci la via di accesso al quartiere che imbocchiamo trovandoci di fronte a gente che cazzeggia e che ascolta musica sparata da casse improvvisate appoggiate sopra pericolanti sgabelli. Ad un certo punto la stradina, costellata da centinaia di bandierine dell’India, è bloccata da…una partita di cricket alla quale partecipano decine di ragazzi, con tanto di spettatori e chioschi che distribuiscono bevande e dolci. L’atmosfera è davvero festosa e anche noi ci facciamo contagiare dall’entusiasmo fermandoci a guardare l’incontro (ma non capendoci un tubo visto che di cricket non sappiamo niente). Aggirando carretti, moto e gente di tutte le età, sbuchiamo in una strada che percorriamo ammirando i numerosi artigiani che stanno modellando centinaia di statue di Saraswati, la dea della conoscenza e delle arti (musica, pittura, poesia) con una tecnica che risale alla notte dei tempi: viene costruito uno scheletro con paglia e pezzi di legno che verrà poi ricoperto da morbida argilla con la quale la dea verrà modellata, lasciata ad essiccare e infine dipinta e addobbata con abiti, orpelli e finti gioielli. Ci addentriamo nei vicoli ai lati della strada principale e scopriamo dei veri e propri mondi artigianali: se sulla strada principale le statue erano centinaia, qui sono addirittura migliaia visto che ogni anfratto, ogni granaio, ogni garage, ogni porticato è occupato da uomini di varia età chi con le mani impiastricciate di argilla, chi con coltelli a tagliare paglia e legno, chi con pennelli in mano, che danno vita a queste vere e proprio opere d’arte in serie. Dietro, sopra, a fianco di questi laboratori sorgono le casette degli abitanti del quartiere e tutti vivono a stretto contatto con il lavoro: come si diceva una volta, casa e bottega. E’ bello passeggiare lungo gli stretti vicoli scavalcando (letteralmente) gli artigiani, soffermandosi a guardare il minuzioso lavoro o i bambini che giocano nei microscopici cortili incuneati fra le baracche e si ha la sensazione vera di essere in una fucina, in un gigantesco laboratorio all’aria aperta, tra mastri scultori e giovani apprendisti. Ogni tanto troviamo un minuscolo negozio che vende gli addobbi per le statue come corone, ghirlande e abiti di carta o di stoffa oppure un laboratorio dove gli addobbi vengono preparati con del polistirolo e poi colorati con degli aerografi rudimentali. In mezzo a questo mondo fatto di persone e modeste costruzioni sorgono dei palazzi di chiara epoca britannica (tipici i mattoni rossi), mezzi diroccati, mangiati dagli alberi e dalle piante che crescono sulla facciata o sul tetto, ma con un fascino davvero incredibile. Ad un certo punto ci imbattiamo in un gruppo di persone in attesa davanti ad una bottega dalla quale sta uscendo una statua (pesantissima, visto che è trasportata da una decina di uomini) della dea Kali a cavallo della sua tigre e con le numerose braccia a raggiera: la statua viene portata lungo i vicoli seguita da una processione di persone alla quale ci accodiamo, poi viene posta su un carretto trainato da una bici ma l’uomo che la conduce non ce la fa da solo a spingere sui pedali e viene aiutato da tutti. Accompagnata da una musica più allegra che spirituale, Kali si allontana diretta probabilmente a un tempio o a un’abitazione privata dove sarà collocata e venerata e noi, invece, ci addentriamo in un altro vicoletto che ci porta ad un piccolo slum pieno di colori e vita: bambini che giocano, vecchi seduti al sole con lunghi capelli bianchi, biancheria stesa ad asciugare a cavallo dei vicoli, piccole fornaci di mattoni impilati in ordine, cumuli di macerie ma anche di immondizie, pompe per l’acqua come quelle si trovavano in campagna da noi cinquant’anni fa, canaletti di scolo maleodoranti, piccoli cottage inglesi in muratura con porte dipinte in colori sgargianti, tempietti improvvisati sotto a banian addobbati con ghirlande di tagete arancioni e gialle, cani randagi che vagano senza sosta abbaiando al nulla. Questo quartiere ci è piaciuto assai e lo consigliamo vivamente. Prima di lasciare il quartiere in una minuscola bottega compriamo (dopo una trattativa estenuante sul prezzo) due piccole statue di Saraswati in terracotta dipinte con colori fortissimi e letteralmente tempestate di vetrini colorati che andranno ad arricchire la collezione di divinità indiane presenti nelle nostre case.

Ci dirigiamo, chiedendo indicazioni ai passanti tutti gentilissimi, verso la riva del fiume Hooghly dove arriviamo dopo circa 10 minuti di cammino. Ci sediamo su panchine di cemento con un pacchetto di Lays (le patatine della famosa marca sono un must quando sono in India!) e un succo al mango godendoci il traffico sul fiume fatto per lo più di vecchi barconi arrugginiti. Orientandoci con la cartina cominciamo a seguire la strada che costeggia il fiume, la vecchia Strand Bank Rd, e ci troviamo compressi tra l’Hoogly e la ferrovia: al tempo della dominazione inglese questo “viale” era il cuore pulsante di Kolkata, dove attraccavano i piroscafi che arrivavano dal mare e da dove partivano le navi cariche di spezie e di ogni tipo di merce dirette in Europa. La ferrovia che corre alla nostra sinistra è un lunghissimo ed interminabile slum composto di baracche costruite con pezzi di legno, teli di nylon, cartoni. Tra le baracche e i binari c’è uno spazio si e no di un metro (ma forse anche meno) e immaginiamo quanto sia difficile vivere con i treni che sfrecciano davanti alla soglia di “casa” ogni cinque minuti. Al di là della ferrovia vediamo parecchi vecchi palazzi risalenti al tempo della dominazione britannica, alcuni di una sorprendente integrità, altri mezzi diroccati altri quasi crollati del tutto, ma ancora con un fascino che il tempo non ha potuto cancellare. Lungo lo Strand, fiancheggiato da enormi banian o tamarindi incontriamo, ogni tanto, delle statue a grandezza naturale, alcune proprio brutte, tipo manichini di plastica con orrende parrucche sfilacciate, che rappresentano varie divinità, di fronte alle quali la gente si raduna spontaneamente a pregare guardando il fiume. Ogni corso d’acqua indiano offre la possibilità agli abitanti della zona di essere utilizzato come enorme vasca da bagno e l’Hoogly non fa eccezione anche se, come viene descritto dalla Lonely, è una vera e propria “sacra discarica a cielo aperto”: le rive, infatti, sono piene di gente (perlopiù uomini) che si immergono a più riprese nelle acque torbide, chi munito di sapone, chi di shampoo contribuendo così all’inquinamento del fiume, come se ce ne fosse bisogno. Proseguendo nel cammino ci imbattiamo, dopo cumuli di immondizie dove pascola qualche mucca in cerca di cibo, in una zona dove (letteralmente) centinaia di camion coloratissimi e vecchissimi sono parcheggiati lungo la strada in attesa, probabilmente, dell’arrivo delle merci dai battelli che navigano il fiume, così come in attesa stanno i conducenti che dormono o sotto agli alberi o, pacificamente, sopra il cassone dei veicoli. Passata questa zona di “carico/scarico”, incontriamo numerose bancarelle che vendono articoli sacri, braccialetti e collane di tutti i tipi, ghirlande di fiori di mille colori diversi, incensi profumatissimi; tutte cose da portare al vicino tempio già affollato di gente che canta inni sacri accompagnati da tabla, sitar e tamburi, anche se non abbiamo ben capito a chi è dedicato. Siamo arrivati nel frattempo vicinissimi all’Howrah Bridge, l’imponente ponte in acciaio che congiunge il cuore di Kolkata alla mitica stazione ferroviaria: non ho mai capito il perchè la principale stazione cittadina sia stata costruita dall’altra parte del fiume. Entriamo in un piccolo ma curatissimo (strano!) parco, con tanto di tornelli all’ingresso, dove ci sediamo sulle panche di pietra ad ammirare l’immensa opera ingegneristica, orgoglio dei calcuttiani. Abbandoniamo, proprio sotto le arcate del ponte, lo Strand e ci addentriamo nella zona di BBD Bagh che, insieme a Bara Bazar e China Bazar costituisce uno dei quartieri caotici e trafficati della città. Lungo e sulla strada regna letteralmente il casino: migliaia di persone che si muovono, carretti carichi di qualsiasi tipo di merce, dalle patate alle canne di bambù usate per le impalcature, dalle lattine di ghee ai palloncini colorati, vediamo perfino un walla a bordo della sua bici con sopra caricati decine di trattori-giocattolo in plastica per bambini. E, ovviamente, le immancabili vacche che girano libere per la città come si ci trovassimo in una malga d’alta montagna e che, ogni tre per due, lasciano i loro ricordini in mezzo alla strada che facciamo davvero fatica a schivare (io, che notoriamente cammino sempre con il naso all’insù, ci son caduto dentro più e più volte….). Passiamo sotto una gigantesca struttura che sembra lo scheletro di una futura strada sopraelevata (qui le chiamano flyover) o della nuova fantomatica linea della metropolitana, in costruzione da qualche decennio ma che non ha data di ultimazione prevista (dopo qualche mese i telegiornali di tutto il mondo ci racconteranno che un pezzo di questa struttura è crollato, lasciando più di un centinaio di persone sotto le macerie…), alternando zone buie, dove la copertura è già stata costruita, ad altre a cielo aperto. Giungiamo quindi nel cuore di BBD Bagh con i suoi mercati dove le persone sembrano formiche: è tutto un via vai di gente che compra, urla, gesticola, trasporta pacchi sopra la testa o sotto il braccio, venditori agguerriti che vendono mutande per 10 rupie e chili di mele, melograni, banane, cavolfiori disposti in un quasi maniacale ordine piramidale.

É ormai pomeriggio inoltrato e la fame (con la stanchezza) comincia a farsi sentire, ma trovare un posto dove sedersi e mangiare qualcosa in questo caotico labirinto brulicante di gente è praticamente impossibile, ma teniamo duro e proseguiamo verso la zona musulmana del quartiere con le sue belle ed antiche moschee di pietra rossa, le macellerie con la carne in bella vista sotto il sole e ricoperta di mosche, i negozi di spezie. Sono quasi le quattro quando, sfiniti, becchiamo un taxi al volo e ci facciamo portare in zona Park Street dove, ieri, avevamo adocchiato un baracchino che cucina i famosi momo (simili ai ravioli cinesi, cibo tipico dell’India dell’estremo nord) con alcuni tavolini sistemati alla bell’e meglio in un cortile. I ragazzi del baracchino (un camioncino con cucina attrezzata) sono molto gentili e ordiniamo due porzioni di momo con patate e formaggio davvero buonissimi (una porzione 70 Rupie), che consumiamo seduti sulle sedie di plastica non proprio nuovissime…ma almeno le nostre gambe riposano e la nostra pancia si riempie. Rinfrancati dal pasto ci dirigiamo verso Sudder Street dove sono concentrate molte guesthouse per turisti ed agenzie di viaggio: le passiamo praticamente tutte per chiedere delle due escursioni che abbiamo programmato, Bishnupur e le Sundarban, ma concluderemo il nostro giro con un nulla di fatto. Quasi nessuno conosce Bishnupur (una cittadina a circa 150 chilometri a nord di Kolkata famosa per i templi di terracotta) e chi sa dov’è ci propone dei prezzi assurdi per andarci con un taxi mentre per le Sundarban ci propongono solo il giro di due giorni, con pernottamento in mezzo alle isole nei “luxury tiger camp”: visto che conosciamo benissimo le sistemazioni indiane, non saremmo propensi a rimanere a dormire fuori in questo parco naturale bellissimo ma situato in una zona remota e inospitale visto che si trova in mezzo ad acquitrini paludosi e a foreste di mangrovie. Arraffiamo un po’ di biglietti da visita (ci penseremo) e torniamo su Park Street dove, visto che ormai è ora di cena, ci concediamo un gigantesco e piccantissimo Maharaja Mac in un Mac Donald’s affollato di giovani indiani ricchi che, con le loro carte di credito nuove fiammanti, banchettano “all’occidentale”.

Dopo una passeggiata veloce, decidiamo di tornare verso Lake Town e troviamo un tassista che senza neanche dirci il prezzo o contrattare, con una professionalità davvero unica (sarà infatti il solo che troveremo a comportarsi così in tutti i sette giorni), ci fa salire, avvia il tassametro e in meno di mezzora lungo un flyover (una sorta di tangenziale sopraelevata sgombra da traffico e assolutamente filante) per la somma di 180 Rupie ci porta sotto il big ben di Lake Town. Una lunga camminata in mezzo alle luminarie di Natale che ancora addobbano i viali di Lake Town ci porta al Big Bazaar, una specie di centro commerciale presente in tutta l’India e che avevamo visitato già a Mumbai con l’amica Danika. Qui tutti i commessi, quando ci vedono, ci vengono incontro e vogliono venderci di tutto, dalle valigie alle pentole elettriche per il riso, dalle carte di credito prepagate ai servizi di piatti in plastica. Non ci mollano un attimo! Nel reparto alimentari, compriamo un bottiglione di succo al mango per la colazione ed usciamo dirigendoci verso la pace di Salt Lake (e della nostra guesthouse), che ci accoglie come al solito silenziosa, poco illuminata e super tranquilla.

27 Gennaio

Dopo colazione, ci mettiamo a tavolino con Khamia e Shibadri perchè vogliamo confermare la nostra camera fino a sabato e prenotare anche l’ultima notte del 12 febbraio quando torneremo dall’Orissa. Come dice sempre l’amica Manu, con le donne indiane si fa una fatica bestia a contrattare e difficilmente mollano il colpo. Quella che comanda, qui, è Khamia e non c’è verso di farle accettare le 1.700 Rupie a notte che proponiamo ma dopo due caffè e più di mezzora di concitata discussione, ci dice che parlerà col proprietario (che poi, secondo noi, è il padre…) e che ci farà sapere stasera quando torneremo. Invece di andare a visitare il quartiere di Kaligat, decidiamo di raggiungere l’Ufficio del Turismo del West Bengal, in Dalhouise Square, per ottenere il permesso scritto necessario per visitare il Marble Palace che la Lonely descrive come uno dei palazzi più belli di tutta l’India. Prendiamo quindi il solito taxi a Lake Town ed arriviamo nel cuore di BBD Bagh con i suoi alti palazzi e le strade super trafficate. L’Ufficio, che si trova proprio sulla piazza, è squallidino e gli impiegati ci sembrano un tantino sonnolenti, ma nel giro di una mezzora usciamo con il permesso in tasca. Dopo aver discusso fra di noi ed aver scartato i prezzi assurdi proposti dagli agenti di viaggio, abbiamo deciso di raggiungere Bishnupur in treno: il viaggio dura tre ore ma abbiamo davvero voglia di vedere questi famosi templi e quindi ci mettiamo alla ricerca del ticket counter delle ferrovie indiane che dopo un sacco di giri a vuoto finalmente troviamo (quando chiedi indicazioni agli indiani, tutti sanno dove si trova il posto che cerchi che però, a seconda della persona, può trovarsi alla tua destra, alla tua sinistra, a 3 chilometri o a 50 metri da dove ti trovi…insomma, nessuno ha le idee chiare e tutti sembrano divertirsi a farti girovagare senza meta!). Ma i poliziotti di guardia (ad una biglietteria dei treni!!!) non ci fanno entrare perchè…non abbiano con noi il passaporto in originale! Le mie proteste e l’esibizione delle fotocopie dei nostri passaporti che ci portiamo sempre dietro, non servono assolutamente a nulla, l’ingresso rimane vietato e quindi non ci resta altro che uscire dall’androne del fatiscente palazzo con la coda tra le gambe. Iniziamo a camminare verso la direzione indicataci dall’addetto dell’Ufficio del Turismo per andare a visitare il Marble Palace, ma l’impresa si rivela tutt’altro che semplice: a sentir lui la strada era semplicissima dovevamo andare “a destra, a sinistra e poi ancora a sinistra” ma le strade di Kolkata sono davvero incasinate e non è sempre facile trovarne il nome visto che non ci sono tabelle identificative come in Europa; ma un trucco imparato leggendo un libro di un autore indiano mi facilita un po’ le cose: basta leggere le insegne dei negozi dove, solitamente, compare anche l’indirizzo con il nome della via. Dopo quasi un’ora di cammino e tante domande ai passanti, arriviamo finalmente in un vicoletto sul quale si apre una immensa cancellata dietro alla quale si trova il bellissimo palazzo fatto costruire da un Raja nella metà dell’ottocento. Esibiamo il nostro permesso alla guardia all’ingresso che ci fa passare, percorriamo i curati giardini ed arriviamo all’ingresso principale dove un’altra guardia ci dice di toglierci le scarpe ed aspettare che arrivi la nostra guida. Avevamo letto sulla Lonely che il palazzo non si può visitare da soli essendo obbligatorio l’accompagnamento di una guida che va…pagata: in altre parole, non c’è un biglietto d’ingresso e tutto è rimesso alla volontà e alle offerte dei visitatori. Dopo cinque minuti arriva un giovane ragazzo che ci fa strada tra le sale aperte al pubblico del palazzo: l’atmosfera che si respira è davvero unica nei saloni stracolmi di vecchi mobili alcuni dei quali coperti da lenzuola bianche (la guida ci dice per proteggerli dalla polvere…), lampadari bellissimi, statue di ogni materiale possibile e immaginale, dal legno al marmo, al granito, vecchi orologi, quadri immensi appesi alle pareti, addirittura un tavolo da biliardo, pavimenti in pregiato marmo dai diversi colori. Saliamo l’imponente scalone tutto in legno passando davanti a dipinti che ritraggono il proprietario ed i suoi discendenti e a vecchie fotografie e arriviamo al piano primo dove c’è una bellissima sala da ballo con due immensi specchi alle estremità che amplificano la grandezza della stanza. Anche il ballatoio esterno è pieno zeppo di opere d’arte: vecchie lampade da tavolo, mappamondi, animali imbalsamati, vasi cinesi e giapponesi. Scendiamo nel cortile interno dove sono poste numerose gabbie con uccelli provenienti da tutto il mondo che, ci dice sempre la guida, la mattina vengono lasciati liberi di volare all’esterno visto che sul tetto aperto è stata posta una rete per impedire che fuggano. Il palazzo, a dire il vero, è un po’ trascurato, soprattutto al piano superiore dove tutti i pavimenti in legno sono stati tolti perchè marciti a causa delle piogge, ma vale sicuramente la pena di venire a visitarlo. Al momento del congedo dalla guida ci atteniamo ai consigli della Lonely e gli consegniamo 200 rupie (l’equivalente di 3 Euro) ma il tizio comincia a imbastire la solita solfa, che lui ha dei figli, che questi soldi non bastano, che deve spartirli con le guardie e con quelli che si occupano della manutenzione, insomma, la tipica tiritera indiana. Siamo però abituati a questo tipo di cose per cui rimaniamo fermi e gli rispondiamo che siccome si tratta di un’offerta la deve accettare per quello che è: “an offer is an offer”, sennò devono prevedere il pagamento di un biglietto così non ci sono problemi. Di fronte a questa nostra fermezza l’indianino sembra aver capito e ci saluta con un namastè che ricambiamo, anche se notiamo, con la coda dell’occhio, che sembra un po’ seccato. Ci rimettiamo le scarpe e ci dirigiamo verso la cancellata dove però veniamo fermati dalla guardia all’ingresso che…ci chiede altri soldi! Ma come, ci chiediamo, quanto abbiamo dato alla guida non doveva poi essere diviso anche con le guardie? Le nostre tasche sono sempre fornite di pezzi di rupie da 10 e quindi estraiamo una banconota, gliela mettiamo in mano e tiriamo dritti, incuranti delle proteste del guardiano che (anche lui) vorrebbe di più. Girovaghiamo per le caotiche strade del quartiere ma cominciamo ad essere un po’ stanchi ed abbiamo anche fame per cui iniziamo a cercare un posto dove sederci e smangiucchiare qualcosa, impresa però che si rivela ardua come al solito. Dopo un po’ notiamo dietro una porta impolverata un microristorante con tavolini e sedie (miracolo!) che prepara hamburger e sandwich rigorosamente vegetariani. Farsi capire dal giovanissimo cameriere è un impresa non da poco visto che non spiccica una parola di inglese ma, grazie al menù con foto riusciamo ad ordinare due burger con verdure e una specie di polpetta di patate. Anche se il posto è vuoto (a parte noi e il cameriere seduto su una sedia) i nostri panini arrivano dopo un bel po’ di tempo, stracolmi di una specie di maionese e soprattutto pienissimi di verdure crude tipo carote e lattuga…che fare? Dimentichiamo, come spesso ci capita, tutti i soliti consigli “igienico-sanitari” e nel giro di poco facciamo sparire il cibo che si rivela non buonissimo ma comunque passabile. Sazi, ci ributtiamo nel caos cittadino facendoci largo, a fatica, tra auto, tram, carretti, vacche, uomini-cavallo che trascinano i loro risciò, il tutto in mezzo alla strada visto che in quasi tutte le città indiane non esistono i marciapiedi, eccezion fatta per Chandigar, nello stato del Punjab, visitata nel 2008, città progettata da Le Corbusier dove regna un ordine assolutamente inconsueto per l’India. O meglio, i marciapiedi qualche volta ci sono ma costituiscono una vera e propria estensione dei negozi della via che piazzano le loro merci fino al bordo della strada impedendo a chiunque di camminarci. Prendiamo un taxi che per 60 rupie (con tassametro) ci porta nella zona di Sudder Street dove in un paio di agenzie chiediamo altre informazioni sui treni per Bishnupur sperando di poter anche comprare i biglietti. Scopriamo però che i treni per Bishnupur non partono da Howrah ma dalla ben più lontana stazione di Santragachi e l’impiegato dell’agenzia ci dice che non serve che prenotiamo, basta andare lì e fare il biglietto… na parola! Comunque ci annotiamo l’orario di partenza del treno (6.24 del mattino!) e valuteremo poi se andare o meno. Decidiamo di fare un stop all’occidentalissimo Blu Sky Cafè, frequentato quasi esclusivamente da turisti, un locale assolutamente modesto ma con sedie dove riposarsi e, soprattutto, un menù “normale”. Ordiniamo due giganteschi milk coffee che ci viene servito addirittura in una mug e un pancake al cioccolato che divoriamo letteralmente. Il sole comincia a tramontare e noi ci dirigiamo verso il new market che giriamo in lungo e in largo per gli stretti corridoi invasi da mercanzia di ogni genere: negozi di casalinghi con piatti di plastica, servizi in porcellana coloratissima, soprammobili di dubbia bellezza che neanche nei negozi di souvenirs della Yugoslavia anni 70 come direbbe Madre, la nostra amica Manuela di Padova (si veda il mio diario Le Madri Caucasiche già pubblicato qui), banchi di frutta secca e spezie, venditori di valigie, zainetti e borse taroccate e via di seguito. In strada, invece, fanno bella mostra di sé distese di orsi di peluche di tutti i colori e dimensioni e piccoli banchetti che vendono giocattoli per bambini. Entriamo in un “centro commerciale” e dopo aver superato lo sbarramento dei guardiani (qui le guardie private sono dappertutto!) che quasi ci srotolano un tappeto rosso tanto sono contenti di vedere qualche turista, percorriamo i quattro piani di negozi di abbigliamento che potremmo definire “di moda giovane” con dei manichini di dubbio gusto sui quali fanno bella mostra di sé magliette attillatissime, jeans con strass e camicie dalle fantasie a dir poco bizzarre. Dal ballatoio dell’ultimo piano ammiriamo l’immensa fontana con tanto di luci colorate che ci farà ribattezzare il posto come il “La Fayette” di Kolkata. Usciamo di nuovo in strada e avendo deciso di tornare a Lake Town iniziamo a cercare un taxi. Se ieri sera ci è andata di lusso per averlo trovato subito, stasera le cose sono molto diverse: o ci chiedono cifre folli (400, ma anche 500 Rupie che vengono non sempre rifiutate educatamente visto che ci scappa anche qualche “vaffa”!) oppure ci dicono di no, che il posto è troppo lontano. Al quindicesimo taxi che perdiamo, cominciamo non dico ad essere preoccupati ma quasi rassegnati a sborsare una cifra che per gli standard indiani (ma non solo) potremmo definire ingente. Finalmente un tassista accetta di portarci “a casa” alla tariffa corretta per un turista, vale a dire 200 Rupie. Saliamo a bordo e il nostro amico, dopo aver fatto una brutale inversione di marcia su una strada a quattro corsie (!) si ferma subito vicino ad uno stall dicendo che “deve scendere un momento”. Dopo un paio di minuti torna insieme…ad un amico che si siede sul posto davanti. Non capiamo la mossa ma soprattutto non ci piace il gesto visto che non vogliamo di certo condividere il taxi con estranei. Siamo pur sempre in una metropoli! Essendo abituati da anni a viaggiare insieme, ci basta un’occhiata per intenderci e contemporaneamente alla chiusura delle portiere anteriori, quelle posteriori (cioè le nostre) si spalancano: indignati usciamo dal taxi e lasciamo il conducente, che cerca di urlarci dietro qualcosa, fermo al palo! Certe cose, qui, si capiscono davvero a fatica e se all’inizio, durante i nostri primi viaggi in India eravamo sempre molto accomodanti, ora non più. Dopo aver stoppato un’altra manciata di gialli, finalmente troviamo un taxista che accetta la tariffa standard e lasciamo quindi il centro di Kolkata in direzione Lake Town. Dopo aver corso per circa tre quarti d’ora, però, la ruota anteriore del taxi si blocca improvvisamente e non c’è verso di rimettere in marcia la macchina. Fermi in mezzo alla strada (vi lascio immaginare il casino dei clacson…), siamo costretti ad abbandonare auto ed autista (che paghiamo per metà) e a trovare un OTO che nel giro di 10 minuti e per altre 100 rupie ci porta sotto al Big Ben. E’ ora di cena e decidiamo di mangiare al piccolo ristorante Punjabo che avevamo avvistato la sera prima, dove ci sbafiamo un piattone di riso fritto con verdure prima di ritirarci, dopo la solita tranquilla e silenziosa passeggiata per Salt Lake, in guesthouse.

28 Gennaio

Dopo colazione facciamo un vero e proprio briefing con quasi tutto lo staff della guesthouse sulla nostra escursione a Bishnupur. Shibadri, Anup e Tuhin ci spiegano che per andare da lì a Santragachi ci si mettono 45 minuti di taxi quindi converrebbe partire alle 5.30. La cosa non ci esalta ma non abbiamo alternative. Visto che a quell’ora del mattino può essere difficile trovare un taxi (soprattutto in questa zona di Salt Lake che sembra quasi bandita alle auto) fanno un paio di telefonate per reperirci un tassista privato che, a quanto pare, ci chiede 700 Rupie, una bella sommetta se consideriamo i chilometri da percorrere. Alla conversazione si aggiunge Khamya, arrivata in guesthouse col suo elegante saree rosso, che però ci consiglia, prima di confermare il taxi, di acquistare i biglietti del treno. Salta fuori (ma perchè non ce l’hanno mai detto prima????) che nel sector II di Salt Lake (e quindi a cinque minuti dalla guesthouse) c’è un ticket counter delle ferrovie e quello che crediamo essere il proprietario della guesthouse nonché padre di Khamya (un signore sulla sessantina sempre molto ossequioso con noi, che arriva però sempre in tarda mattinata e va via quasi subito) ci affida al suo autista per farci portare in loco. Solo quando avremo i biglietti in mano, ci dice Khamya, ci prenoteranno l’auto. Tutto ciò ci sembra fantastico! Partiamo quindi con l’auto privata del capo che ci fa scendere, dopo neanche cinque minuti di corsa, davanti ad un complesso di cemento armato posto vicino ad una rotatoria. Sotto le arcate del complesso vediamo cinque sportelli con parecchia gente in fila. Ci spiegano che dobbiamo passare dal primo sportello per fare una sorta di “pre-prenotazione”. Ci affacciamo alla finestrella e spieghiamo all’impiegato delle ferrovie che il giorno dopo vorremmo andare a Bishnupur, gli passiamo gli orari e lui si mette a picchiettare sulla tastiera del pc. L’esito della ricerca, però, non è dei migliori visto che sul treno in andata c’è posto ma su quello di ritorno saremo in waiting list: vale a dire, se c’è posto si torna, se non c’è posto bisogna tornare il giorno dopo! Vorremmo chiedere altre informazioni all’impiegato, o meglio, vorremmo chiedere come possiamo fare per essere sicuri di tornare a Kolkata ma le nostre domande rimarranno senza risposta visto che un indiano abbastanza presuntuoso e maleducato che si trova in fila dietro a noi, ci sposta malamente dicendoci “non avete capito? C’è la waiting list! Punto!”. Rimaniamo lì come due imbecilli, incapaci di reagire…non ne vale la pena e così la nostra escursione a Bishnupur sfuma nel nulla. Pazienza, l’India è così, non puoi lasciare nulla al caso, a meno che tu non abbia mesi di vacanza e ti possa permettere, quindi, di tornare altre 10 volte al ticket counter per provare, provare, provare. Ma noi non abbiamo così tanto tempo, visto che oggi a vorremmo visitare il quartiere di Kaligat, con il famosissimo tempio dedicato alla dea Kalì e quindi contrattiamo con un taxi per farci portare in zona. Solite 200 rupie e si parte. Ci mettiamo quasi un’ora ad arrivare e scendiamo di fronte ad un grande vialone semi-pedonale che conduce al tempio, fiancheggiato da migliaia di bancarelle e negozi che vendono perlopiù offerte da portare alla dea: fiori, statue di varie dimensioni, drappi rossi ricamati, bracciali, collane fatte con i semi degli alberi. In uno di questi negozietti veniamo attirati da una bella statuina di bronzo di Kali, dipinta con colori vivaci e dalla caratteristica faccia nera (solo la Kali di Kolkata ce l’ha!) che sappiamo già finirà negli zaini ma non subito, no: la tipica frase di Ste è “I’m thinking about” che tradotta in italiano significa ne più ne meno che… ci deve pensare!

Proseguiamo quindi in mezzo alla bolgia di gente ed arriviamo al tempio che, da fuori, non è nulla di che: piuttosto piccolino, con quattro cupole bianche, non è esattamente come ce lo immaginavano. Accediamo da uno degli ingressi ma appena entrati subito ci viene incontro un bhramino che ci dice essere una delle guide del tempio, presenza obbligatoria per poter effettuare la visita (lo sapevamo già dalla Lonely…). Il prete ci snocciola la storia del tempio come se stesse recitando un rosario, senza passione, senza enfasi e un po’ annoiato, e nel giro di 10 minuti ci fa vedere i vari padiglioni compreso il “mattatoio” all’aperto: i seguaci di Kalì sono soliti offrire alla dea sacrifici animali che vengono sgozzati in una stanza con una grande statua su cui viene spruzzato il sangue fresco delle bestie. Certo, comparato al tempio di Dashinkali in Nepal che abbiamo visitato più di dieci anni fa, questo veramente non è nulla: ricordo ancora quel tempio in una profonda gola di montagna con centinaia di persone, ognuna con un animale, bufali, galline, capre, pecore, e i fiumi (letteralmente) di sangue che finivano sull’altare. Oggi non sono previsti sacrifici e quindi ci risparmiamo il cruento spettacolo ma ammiriamo il bellissimo ed antico banian ornato di offerte con i rami praticamente conficcati nei muri del tempio. Entrare nel sancta è praticamente impossibile visto che è gremito di gente e allora il bhramino ci porta lungo un corridoio dove, da una piccola finestra, riusciamo a scorgere, in mezzo alla calca dei fedeli, la sacra statua di Kali con il suo volto nerissimo sul quale spiccano i tre occhi arancioni e la collana di teschi umani in mezzo alle corone di fiori freschi…a vederla così fa davvero paura. Usciamo quindi dal tempio, sempre con il bhramino alle calcagna, che ci accompagna alla vasca sacra e dice una preghiera di fronte alla statua di Khrisna per i nostri familiari. Alla fine della preghiera, con molta non chalance, ci dice che la visita è finita e che dobbiamo consegnarli un’offerta che quantifica in 100, 200, 300 rupie… Ma perchè non 1000, mi chiedo! Anche stavolta mi dimostro fermo e metto nelle sue mani qualche banconota da 10 rupie. Lui rimane quasi scandalizzato e allora, con la mia santa pazienza, spiego anche a lui che…un’offerta è un’offerta, soprattutto in un luogo religioso e sacro come questo, e che come uomo di fede è chiamato ad accettare qualsiasi offerta senza offendersi né mercanteggiare, siamo un tempio, cavolo! Non so se l’ho convinto ma lui abbassa gli occhi e tra un namastè e l’altro mi dice che in effetti ho ragione. I denari spariscono dentro al doti e lui in mezzo alla calca di gente. Per i soldi, è sempre una guerra in India! Continuiamo per conto nostro ad esplorare i dintorni del tempio e, percorrendo una stradina lungo la quale sono stati eretti piccoli tempietti che ritraggono la cattivissima dea arancione dalle forme indistinte (Kali viene a volte raffigurata come una sorta di figura di plastilina, di un arancione vivissimo) omaggiata da gelsomini, tagette e lampade che bruciano ghee, arriviamo ad un grande portale dipinto a colori vivaci oltre al quale una scalinata scende al putrido Tolly Canal, un corso che più d’acqua sembra di fango. Un ragazzino in mezzo al canale, a cavallo di una sorta di zattera fatta con bottiglie di plastica, sembra smuovere il fondo con una lunga canna, facendosi largo in mezzo a rifiuti di ogni tipo. La scalinata va verso un ponte formato da tre barche di legno in disuso e mezze marcite che decidiamo di attraversare, incuranti del cane morto che galleggia, gonfio come un palloncino, proprio sotto i nostri piedi. Al di là del canale c’è un agglomerato di case e baracche e si gode una bella vista del tempio ma la strada sembra non portare da nessuna parte. Riattraversiamo quindi il canale, ci imbattiamo in un gruppetto di indiani allegri che festeggiano la celebrazione di un matrimonio (sposa e sposo sono degni di un quadro di Botero tanto sono paciocconi e colorati), entriamo in qualche negozio per paragonare la prima statua di Kali con altre che ci fanno vedere ma che non ci piacciono, ci sbafiamo un pacchetto di Lays come aperitivo e riapprodiamo al primo negozio visitato in mattinata dove, dopo la solita contrattazione furibonda, riusciamo a portarci via due bellissime statuette di Kali in bronzo per 400 rupie l’una. E’ ormai pomeriggio inoltrato ma di posti “decenti” dove mangiare qualcosa neanche l’ombra. Veniamo però attirati dal Novelty Dhaba, un modesto posto di ristoro per pellegrini con tavoli e sedie di ferro, e ordiniamo prima un caffè e poi, visto che il posto ci sembra tutto sommato pulito e i piatti invitanti, decidiamo di ordinare palak paner con patate e riso fritto con l’uovo. Pranziamo tra la curiosità degli avventori del ristorante che ci guardano (e ridono!) e la simpatia dei camerieri che, praticamente, abbiamo tutti per noi. Soddisfatti del pranzo, ci avviamo alla scoperta del quartiere di Kalighat nella sua parte più lontana dal tempio. Subito ci troviamo a camminare per strette viuzze ordinate e pulite con tanto di marciapiedi sgomberi da mercanzie e paccottiglia, inciampando, ogni tanto, sugli uomini-cavallo che dormicchiano appoggiati ai loro risciò favoriti dal silenzio quasi irreale ci circonda vista l’assenza di traffico. Piccole casette di colore blu si susseguono una dopo l’altra, alternate da bei caseggiati in puro stile coloniale, alcuni letteralmente invasi da alberi e piante, altri mezzi diroccati, altri ancora ben restaurati. Ci fermiamo incuriositi di fronte ad un uomo che sta…stirando su un banchetto fornito di ruote: praticamente lui si sposta con la sua “stireria viaggiante” fermandosi dove la gente gli chiede di stirare un paio di pantaloni, lenzuola, camice. Idea che potrebbe essere rubata e trasferita in Italia! Poco più in là una stretta bottega di due sarti attira la nostra attenzione, circa 3 metri quadri quasi interamente riempiti da un bancone, una macchina da cucire e rotoli di tessuti di tutti i colori. I due tailors sono seduti sul bancone (non c’è altro spazio!) e, con i loro metri intorno al collo, cuciono, rammendano e si mettono in posa per una bella foto.

Stiamo cercando di trovare il Saraswati Mandir, quello che dovrebbe essere un tempio dedicato alla dea, ma per quanto giriamo, chiediamo, curiosiamo, del tempio neanche l’ombra. Svoltiamo in una stradina e sbuchiamo di fronte a un bel parco pieno di ragazzi che giocano a cricket. Poco più avanti veniamo attirati da una bella palazzina con, al primo piano, un caffè con tanto di terrazzino e tavolini in ferro battuto. Saliamo per le strette scale e veniamo accolti dai proprietari del caffè che in realtà è anche un negozio: la coppia si è suddivisa i compiti, lui lavora nel piccolo caffè mentre lei vende stoffe, cuscini, magliette tutti fatti confezionare da giovani donne che abitano in villaggi sparsi per l’India. I due, che si rivelano appassionati viaggiatori, quando girano l’India avviano, soprattutto nelle zone più remote, piccoli progetti di lavoro, commissionando vari manufatti che poi vendono sia nel negozio-caffè sia in internet. Passiamo un po’ di tempo a chiacchierare con la simpatica coppia e a guardare le loro foto di viaggio e ci lasciamo con la promessa di scriverci e di tenerci in contatto. Purtroppo nel corso del viaggio ho smarrito il biglietto da visita e quindi non sono in grado di dare le coordinate esatte né il nome del caffè store. Tutto quel che ricordo è che si trovava di fronte al Desapriya Park in Motilal Nehru Road…se ci passate lo vedrete subito perchè il terrazzino del caffè con i tavolini fuori non può passare inosservato: fateci un salto! Facciamo quindi una bella passeggiata lungo Rash Behari Avenue con l’imponente Priya Cinema, i negozi di abbigliamento di lusso che vendono saree di mille colori, un marciapiedi praticabile. Entriamo in un negozio di ottica perchè dovrei cambiare le lenti dei miei vetusti occhiali da sole ma il commesso mi spara una cifra talmente esagerata anche per noi italiani che lascio perdere. Man mano che proseguiamo la strada si restringe e il marciapiedi viene di nuovo invaso da bancarelle che vendono cianfrusaglie: ormai si è fatta sera e quindi decidiamo di prendere un taxi per tornare verso la guesthouse (1 ora, 220 rupie). Ci facciamo una doccia e terminiamo la serata cenando con un pezzo di torta del Mio Amore a Lake Town. Sicuramente tornerò dimagrito!

29 Gennaio

Stamattina decidiamo di visitare il famoso cimitero inglese di South Park Street e quindi ci facciamo portare in taxi in fondo all’omonima strada. Ma abbiamo bisogno di un altro caffè per svegliarci e quindi ci avviamo a piedi in mezzo alla solita confusione. Dopo un’eternità, finalmente troviamo un baracchino con tavolini all’aperto dove gustiamo un fantastico Nescafè guardando la gente che, pigramente, passeggia lungo la strada trafficata. Torniamo quindi sui nostri passi ed entriamo nel cimitero, non prima di esserci registrati su un grande librone dove bisogna annotare nome, cognome, nazionalità, numero di persone e ora di entrata di fronte al militare che sorveglia tutta l’operazione. Nessun biglietto di ingresso ma se lo si desidera, all’uscita si può lasciare un’offerta per la manutenzione. Il cimitero è una vera oasi di pace, pieno di alberi giganteschi e di vecchissime tombe dove sono sepolti unicamente inglesi che morivano a Kolkata durante il primo periodo dell’occupazione britannica. Impressionante come la maggior parte di questi britannici siano morti molto giovani, per lo più di malaria (sulle tombe è anche incisa la causa della morte!). I monumenti funebri sono davvero imponenti ed affascinanti, con le pareti ricoperte di muschio, e passeggiare lungo i viottoli tenuti in maniera ordinata, è davvero piacevole. Stefano viene punto da una zanzara e tra di noi pensiamo subito ad un “insetto fantasma” uscito da una tomba e portatore di malaria, scoppiando a ridere come due deficienti. Terminata la visita (che consigliamo assolutamente) torniamo quindi a percorrere Park Street e ci fermiamo a pranzare in un baracchino anche questo con tavolini fuori (che lusso oggi!) dove ci sbafiamo dei momo alle verdure e un sandwich al pollo grigliato e formaggio per poche rupie. Ci dirigiamo quindi verso il maidan visto che abbiamo intenzione di visitare il Victoria Memorial. Dopo una lunga passeggiata e dopo aver fotografato la statua di Indira Gandhi, arriviamo alla imponente cancellata (l’ingresso ai giardini costa 10 rupie ma con un biglietto separato si può visitare anche l’interno del palazzo che ospita varie opere d’arte) e ci perdiamo in questo paradiso fatto di prati tenuti in maniera impeccabile e laghetti sui quali si riflettono le bianche cupole del memoriale dedicato alla “vecchia” regina Vittoria. Ogni tanto ci sediamo su una panchina a rilassarci e a goderci questo momento di vera pace con il traffico caotico di Kolkata che sembra lontano anni luce. Dopo un paio d’ore, ci avviamo verso l’uscita dove ad aspettare i visitatori ci sono decine di carrozze trainate da cavalli che sembrano uscite direttamente dalle favole: colori sgargianti, specchietti colorati, tessuti che sventolano, pezzi di metallo dorato e argentato. Vorremmo tentare di andare al famoso Acropolis Mall, un immenso centro commerciale fuori Kolkata, ma i tassisti che fermiamo o non sanno dov’è o ci chiedono uno sproposito (500, 600 rupie!) quindi desistiamo e visto che ormai il sole sta per tramontare ci facciamo riportare a Lake Town. Qui facciamo una bella passeggiata e nella zona dei banquet hall (ristoranti che fungono da sale per ricevimenti) ci imbattiamo in ben due matrimoni indiani: la prossima ora verrà trascorsa in mezzo al delirio più totale con le wedding band che picchiano duro sui tamburi, parenti che ballano e sposi che arrivano, uno più “moderno” in un’auto immacolata e l’altro, invece, più “tradizionale” a bordo del cavallo bianco sotto a un ombrello decorato di specchietti e lustrini. Delle spose, invece, nessuna traccia: loro aspettano all’interno, dimesse e nascoste dai loro veli rossi. Ancora frastornati da tutta questa confusione, ci rifugiamo, per cena, nella vicinissima Domino Pizza dove una pizza filante di formaggio fuso come piace a noi ci attende. Anche oggi la giornata è finita e pigramente attraversiamo il ponte pedonale che ci porta alla tranquillità della nostra guesthouse.

30 Gennaio

Dopo la solita colazione e la sigaretta fumata sulla spaziosa terrazza della guesthouse (terrazza semi abbandonata… che peccato! Con una vista così, due tavolini e la colazione servita qui farebbero la differenza), scendiamo a prenotarci il taxi che domani mattina ci porterà in stazione dove prenderemo il treno per Bhubaneswar. Decidiamo, quindi, di andare a visitare il Mullik Gath Flower Market, il mercato dei fiori più grande di Kolkata, situato lungo le rive dell’Hoogly. Il nostro tassista ci lascia lungo una strada senza darci nessuna spiegazione ma limitandosi a fare un cenno in direzione dell’Howrah Bridge. Guardando la cartina ci incamminiamo lungo la ferrovia e, trovato un varco, la attraversiamo passando in mezzo all’ennesimo slum fatto di baracche costruite con cartoni, pezzi di legno, teli di nylon e altro materiale di scarto. Dopo cinque minuti di cammino iniziamo ad addentrarci in una vera e propria esplosione di colori: centinaia di bancarelle lungo la stretta via vendono ogni tipo di fiore soprattutto gelsomini e tagete gialle ed arancioni, intervallate ogni tanto da venditori di “verde” ossia felci, foglie di palma, foglie di banano. Per terra sono ammassati immensi sacchi pieni zeppi di freschi boccioli che i venditori, armati di bilance, pesano e insacchettano come se fossero arance, mandarini e mele. La maggior parte di questi fiori sono destinati ai templi e quindi vengono acquistati dai proprietari delle bancarelle che affollano le strade dei mille santuari di Kolkata. E’ difficile farsi strada lungo la via e più di qualche volta urtiamo le immense ceste pieni di fiori trasportate da uomini e donne in precario equilibrio sopra la testa. Il mercato continua su piattaforme coperte da teloni di nylon, che scendono verso il fiume; ci addentriamo in questi labirinti camminando su un vero e proprio tappeto di foglie, steli, petali dove si stanno svolgendo delle contrattazioni accanite, ma l’umidità, il caldo, il tanfo di sudore che si mischia al profumo dei fiori, ci fanno ben presto decidere per tornare all’aperto lungo la via principale per…respirare. Arriviamo sotto le arcate dell’Howrah Bridge e saliamo sul ponte. Il colpo d’occhio, dall’alto, è davvero incredibile: migliaia di persone che si muovono come formiche in mezzo ad immense ceste di fiori coloratissimi sui quali spiccano prevalentemente i gialli-arancione delle tagete. Se c’è un posto che mi ricorderà per sempre Kolkata, sarà questo. Lasciamo il mercato e ci dirigiamo lungo BBD Bagh, una delle strade più trafficate del centro di Kolkata, ammirando i bei palazzi inglesi, una sinagoga ben conservata e la solita “vita da strada” con milioni di persone che si muovono in contemporanea a bordo di ogni mezzo possibile e immaginabile, trasportando le merci più disparate su biciclette, carretti, camion. Oggi fa caldo (ci siamo finalmente liberati anche delle felpe) e camminare in mezzo a questa bolgia non è affatto facile: possiamo solo immaginare come debba essere questa città nel periodo premonsonico quando la temperatura sfiora i 40 gradi e l’umidità supera il 100%…Con molta fatica (guardando e riguardando le mappe) troviamo finalmente la vecchia Chinatown oramai priva di cinesi, dove sorge il “tristemente” famoso slum della plastica: in mezzo a cumuli di immondizia alti fino a due metri vivono, letteralmente, centinaia di persone che si sono scavate qui in mezzo le loro abitazioni…questo sicuramente è il lato triste di Kolkata ma ne costituisce parte integrante. Passiamo di fronte a quello che, in epoca coloniale, era il più famoso ristorante cinese della città, frequentato da gente ricca e benestante, oggi ridotto ad un edificio mezzo diroccato e alquanto decadente che ospita un tempio buddista. Ci addentriamo nelle stradine laterali trovandoci in una autentica oasi musulmana, piena di macellerie “all’aperto”, capre e pecore legate a corde che aspettano solo di essere macellate, case basse e palazzoni che minacciano di crollare da un momento all’altro, negozi che vendono spezie e verdure con i tipici sacchi bianchi pieni di merce che si vedono in ogni suk mediorientale. Ci dirigiamo quindi a piedi verso Park Street, dopo aver tentato di riprendere la metro rinunciando immediatamente alla vista dei vagoni come sempre stipati di gente. Una lunghissima passeggiata ci porta in zona New Market dove facciamo una sosta al Big Bazar per acquistare un paio di pantaloni indian style per Ste in offerta a 100 rupie (!) e un lunch break con i soliti ravioli al “nostro” momo corner. Torniamo quindi verso Sudder Street dove ci concediamo un caffè come si deve e un pancake al cioccolato al Blu Sky Cafè, gironzoliamo un po’ a caso in zona e visto che ormai si è fatto buio, decidiamo di tornare verso Lake Town. Solita guerra dei tassisti ma alla fine ne troviamo uno che accetta di portarci verso casa con il tassametro attivato: dopo circa mezzora di corsa il traffico si blocca improvvisamente e ci metteremo circa due ore per arrivare a destinazione con continui stop addirittura a motore spento. Nell’attraversare il foot bridge e vedendo la mia “amica” dei fiori, sussurro a Ste “Adesso mi fermo e le compro una rosa”: mi preparo dieci rupie in mano e mi accuccio di fronte a questa giovane donna con la quale, per tutta la settimana, ho scambiato mattina e sera saluti e sorrisi, le faccio un cenno verso un fiore e lei prontissima, senza neanche che io apra bocca, prende una bella rosa, taglia gambo e spine e me la porge. Io faccio il gesto di passarle la banconota ma lei subito si fa scura in volto e in un inglese stentato mi dice “No money. Is for you!” e mi sorride. Io, imbarazzatissimo e commosso, la ringrazio ricambiando il sorriso. Queste, come direbbe l’amica Manu, sono le cose ti fanno amare l’India nonostante tutto, nonostante la confusione, gli odori, lo sporco, il traffico. Cammino nel silenzio di Salt Lake diretto verso la guesthouse con la mia preziosa rosa in mano che finirà essiccata dentro la Lonely a perenne ricordo della Lady dei fiori, con un sorriso ebete stampato sulla faccia. Dopo una doccia torniamo verso Lake Town dove ci sbafiamo, per cena, un buonissimo gelato al butterscotch con nocciole, mandorle e anacardi caramellati dai nostri “amici” della gelateria armati di cazzuola che sbattono la materia prima sul bancone di marmo. Ma è l’ora di tornare di nuovo verso casa visto che la stanchezza sta prendendo il sopravvento e domani ci aspetta un lungo viaggio.

31 Gennaio

Dopo aver fatto un salto a Lake Town a far scorta di viveri per il viaggio (crackers, biscotti, acqua e frutta) torniamo in guesthouse ad impacchettare i nostri bagagli. All’una salutiamo i ragazzi della gh e saliamo sul nostro taxi diretto all’Howrah Station. E’ domenica mattina, a Kolkata, e il traffico sembra essere quasi inesistente. Bene, ci diciamo, così arriveremo in tempo per prendere il nostro treno. Ma non abbiamo fatto i conti con il tassista: appena partiti, già si perde a Salt Lake e chiede informazioni ogni due minuti; ad un certo punto della corsa, prende uno straccio e copre il tassametro; di fronte alle nostre domande sul perchè di tale gesto, risponde a monosillabi facendoci intendere che non capisce l’inglese ma poi lo straccio, dal tassametro, lo leva: evidentemente il tono della nostra voce è stata sufficiente a convincerlo; dopo quasi un’ora arriviamo in zona Maidan (abbiamo quindi già superato l’Howrah Bridge) che circumnavighiamo per un paio di volte; chiediamo di nuovo spiegazioni sul perchè stiamo girando a vuoto e l’atmosfera si scalda; gli facciamo presente che dobbiamo prendere un treno e che non possiamo assolutamente perderlo; lui ci fa cenno di “stare calmi”, ma calmi non possiamo stare visto che l’orario della partenza si avvicina e questo ci fa fare il giro turistico di Kolkata; finalmente dopo aver alzato la voce, imbocchiamo l’Howrah Bridge ed arriviamo in mezzo al caos della stazione. Il tassametro indica la ragguardevole cifra di 275 rupie (il tragitto gh-centro di Kolkata si aggira, con tassametro, tra i 180 e i 200), mi preparo i soldi contati che però non consegno subito all’irascibile tassista al quale chiedo di scendere ed aprirci il portabagagli per tirar fuori i nostri trolley (mica sono scemo…). Recuperato il tutto, gli consegno la cifra ed il tipo si mette a sbraitare usando parole a me incomprensibili; ne nasce una disputa ma è un dialogo fra sordi visto che lui non capisce quel che dico io e io, men che meno, capisco quel che vuole lui. Posso solo intuire che voglia più soldi, ma il tassametro indica quella somma e io non ho intenzione di tirar fuori una rupia in più, anche considerando il “largo” giro che ci ha fatto fare con l’evidente intento di lucrare sulla corsa. Ad un certo punto Ste prende l’iniziativa, mi prende per un braccio e mi trascina via di peso lasciando il taxista ad urlare al vento! Bye bye amico e a mai più rivederci. Non abbiamo davvero capito l’atteggiamento di questo tipo: se non voleva azionare il tassametro, doveva prima dirci l’importo da pagare, come hanno sempre fatto tutti gli altri; se invece ha deciso di mettere il tassametro, quello gli si doveva dare! Che cosa voleva? La mancia? Beh, direi proprio che se la può scordare. Archiviata questa ultima esperienza coi tassisti di Kolkata, ci buttiamo in mezzo al turbinio di persone che affollano la più grande stazione della città: migliaia di persone con relativi bagagli al seguito a volte più grandi di un baule, sacchi, scatoloni, attrezzi da lavoro, pentole con cibo per il viaggio…insomma una vera e propria babele! La stazione all’interno sembra, stranamente, molto piccola e, visto che il nostro treno non è ancora annunciato, ci sediamo fuori a fumare e a mangiare un mandarino. Rientriamo e finalmente il diretto per Puri viene annunciato al binario 23. Diamo una scorsa e scopriamo che…Howrah non è affatto piccola ma si compone di più “capannoni” immensi con decine e decine di binari. Da dove siamo scesi con il taxi (vicino al binario 2) dobbiamo camminare per circa un quarto d’ora per raggiungere il binario 23 e, una volta individuato, troviamo la carrozza dove abbiamo riservato i posti (all’esterno del treno è affisso un foglio con i nomi di tutti i viaggiatori…alla faccia della privacy!) e scopriamo che il treno è davvero luxury! Niente cuccette maleodoranti trasformate in sedili ma posti comodi, tipo poltroncina, addirittura con lo schienale reclinabile e il tavolinetto stile aereo. Dopo l’esperienza di due anni fa sul treno per Hampi, Margao-Hospet, ci aspettavamo una vera e propria latrina viaggiante ma questo è davvero un treno rivoluzionario per l’India! Scopriamo anche di avere i pasti inclusi (strana usanza indiana) che comprendono snack, acqua, merenda e cena, e degli inservienti che passano ogni due ore a pulire la carrozza (e che a fine corsa chiederanno la solita mancia, anche se sulle scritte delle tovagliette dei vassoi dei pasti l’ente ferroviario indiano proibisce categoricamente ed espressamente di dare mance al personale…mah!). Il viaggio è assolutamente piacevole e lo trascorriamo ad ascoltare musica, leggere, dormicchiare sotto la coperta (l’aria condizionata è, come al solito, a palla), e guardare il paesaggio che scorre fuori dal finestrino mai monotono e sempre diverso. Alle 20.40, con una puntualità che ha dell’incredibile, il treno entra nella stazione di Bhubaneswar e noi mettiamo i piedi in terra Odishana. Dopo esserci orientati ed aver imboccato l’uscita corretta (il nostro albergo dovrebbe trovarsi sul retro della stazione, lungo la trafficata Cuttak Road), essendo stanchi e non sapendo esattamente a quanta distanza sia il Pushpak hotel (prenotato per una notte su booking.com, Euro 19,00 inclusa colazione), scegliamo uno dei tanti conducenti di OTO che ci viene incontro e ci chiede 100 rupie per la corsa. Ci pare, sinceramente, un’esagerazione visto che la distanza non dovrebbe essere superiore ad un chilometro e quindi contrattiamo per 50. Carichiamo i nostri trolley e subito il conducente ci proporne di portarci al Mango Hotel che dice essere “nuovo e bello”. Gli facciamo presente che abbiamo già una prenotazione al Pushpak e che quindi ci porti lì. Un po’ contrariato, imbocca l’incasinata via principale di Bhubaneswar e dopo neanche 10 minuti di corsa ci fa scendere di fronte a quello che ci appare come un vero e proprio luxury hotel (dopo il luxury train ci pare davvero il massimo!). Il Pushpak, da fuori, sembra davvero un hotel di categoria superiore ma sappiamo che non dobbiamo farci ingannare dalla facciata, anche perchè è buio e, come si sa, al buio ed illuminate le cose appaiono sempre più belle di quel che in realtà sono. Dopo aver fatto il check in il ragazzino ci accompagna alla camera 101 che ci appare come “super luxury”: immensa, pulita e spaziosissima, con un enorme letto che sembra super-comodo! Ma… in stanza fa abbastanza caldo, cosa a cui non diamo, al momento, troppo peso. Avevamo scelto la stanza senza aria condizionata vista la stagione “fresca” ed il prezzo più abbordabile, ma col passare dei minuti il caldo aumenta sempre di più così decidiamo di aprire la finestra ma scopriamo che dà… sulla cucina dell’albergo! Impossibile, quindi, far circolare l’aria. Inoltre la puzza di naftalina, unita al caldo, rende l’aria della stanza davvero irrespirabile. Tra le cose che odio di più dell’India è la mania di cospargere le stanze degli alberghi con la naftalina: certo, lo fanno più che altro per tener lontani gli insetti (o almeno così dicono) ma è un odore che davvero non sopporto. Dopo una doccia e un quarto d’ora in camera, capiamo che sarà praticamente impossibile dormire in questo forno: è addirittura difficile camminare a piedi scalzi visto che il pavimento quasi scotta. Scendiamo alla reception e, dopo aver spiegato la situazione, chiediamo di cambiare stanza. Nessun problema, ci dicono, e ci fanno portare al quarto piano in quella che ci appare come…una stamberga! Stanza piccola, sporca e mal tenuta, con tanto di scarafaggi in bagno, sembra quasi di essere in un altro albergo… Rifiutiamo il cambio e, per stanotte, ci adatteremo nel nostro forno. Il problema è che a Bhubaneswar abbiamo intenzione di starci almeno tre notti; inoltre domani arriverà la nostra amica Manu e dobbiamo pure trovare una stanza per lei; eravamo convinti che ci saremmo trovati bene al Pushpak (da casa sembrava il migliore albergo) e che avremmo confermato sia per noi che per Manu. Ma l’idea di trascorrere tre notti in questo forno non ci alletta. Pur essendo le dieci di sera, decidiamo di uscire a cercare un’alternativa e ci incamminiamo lungo Cuttak Road dove sappiamo esserci moltissimi hotel. Inizia quella che ricorderò per sempre come una delle esperienze più incredibili mai vissute in India. Visitiamo una dozzina di alberghi e ci troviamo di fronte a… tutto. Dall’albergo con la “discoteca-night” situata in mezzo alle camere con tanto di donnine discinte che ballano di fronte ad un gruppo di anzianotti bavosi (all’interno della quale il concierge ci “spinge” a tutti i costi!) a quello con tende al posto delle porte; da quello con luci rosse al posto delle normali lampadine a quello con “bagni” alla turca dall’aspetto assolutamente indescrivibile. E’ quasi mezzanotte e siamo rassegnati a trascorrere tutto il nostro tempo a Bhuba nella stanza-microonde del Pushpak, quando ci tornano in mente le parole del conducente di OTO: il Mango hotel, nuovo e bello. Proseguiamo lungo Cuttak Road in cerca a quella che ci è stata dipinta come un’isola felice e finalmente ci arriviamo: già da fuori la situazione ci sembra davvero allettante ma quando entriamo nella hall la realtà supera l’immaginazione: pulitissimo, impeccabile, pavimenti lucidi, profumo di nuovo, praticamente un sogno! Il ragazzino della reception ci sorride e ci fa vedere una camera che, se possibile, è ancora meglio della zona comune: se dico “lenzuola bianche” a chiunque sia stato in India potrà suonare strano visto che qui, come dice Manu, il bianco è un colore che praticamente non esiste; se dico letti soffici, anche questo è strano, per l’India; se dico camere profumate, il controsenso, per essere in India, è ancora più evidente. Eppure questo è. Scopriamo che l’albergo è praticamente appena stato aperto (ha un paio di mesi di vita) ed è anche…vuoto. La ragione, evidentemente, è il prezzo: 3.800,00 rupie per una stanza (per fare i confronti, al Pushpak la notte ci è costata 1.500 rupie…). Decidiamo seduta stante che questo sarà il nostro albergo a Bhuba ma non possiamo permetterci di spendere quella cifra…abbiamo davanti due settimane di viaggio e i soldi sono preziosi! Cerchiamo di convincere Arun, il ragazzino, a confermarci una camera per 2.000 rupie ma, con un sorriso triste, ci dice che non è possibile che al massimo può vendercela a 2.500 oltre alle tasse. Insistiamo e cerchiamo di traviarlo con mille complimenti all’albergo ed alla sua professionalità: alla fine ci dice di tornare domani mattina, che proverà a parlare con il manager dell’hotel per vedere se possono accordarci questo sconto quasi del 50%. Con un filo di speranza salutiamo il gentilissimo Arun e torniamo verso il Pushpak. La notte si rivelerà un vero incubo, soprattutto per me (Ste ha una capacità di adattamento che a volte sfiora l’incredibile): il caldo soffocante e l’odore di naftalina rendono la camera davvero insopportabile. Mi sveglio più volte durante la notte e sono costretto a scendere in strada per respirare aria “pulita” ma in qualche modo arriverò al mattino….

Manu e il Ray Charles di Biddha Nagar

Bhubaneswar 1-2 Febbraio

1° Febbraio

Con gli occhi ancora mezzi chiusi vista la notte quasi insonne e desiderosi di abbandonare la stanza, scendiamo a far colazione e decidiamo di trasferirci al Mango anche se la camera costerà 2.500. Impacchettiamo i nostri bagagli che però lasciamo in camera (non si sa mai), diciamo al tipo della reception che torneremo per il check out di mezzogiorno riservandoci di confermare la stanza per un’altra notte (non ci crediamo neanche un po’ ma è meglio lasciare una porta aperta…) e ci dirigiamo a passo spedito al Mango Hotel per conoscere il prezzo finale. Di giorno l’albergo sembra ancora più bello della sera prima; al banco non troviamo Arun ma un altro ragazzo al quale spieghiamo la situazione e chiediamo, se possibile, di parlare con il manager. Alle nostre spalle compare il giovanissimo Hemanta, che si qualifica come il direttore, e che ci dice che sa già tutto e che è disposto a darci la camera per 2.000 Rupie! I nostri sorrisi, come dice una celebre pubblicità, non hanno prezzo. Subito ci porta di sopra e ci fa scegliere la camera che ci appare in tutto il suo splendore luminosa e pulitissima. Ci dirigiamo di corsa al Pushpak, prendiamo le nostre cose, paghiamo la stanza, salutiamo tutti e armati di bagagli ci presentiamo dopo mezzora al nostro nuovissimo albergo. Felici, dopo aver fatto una bella doccia ed aver testato i letti (ribadiamolo: morbidissimi e profumati), usciamo a cercare la stanza per Manu che arriva stasera. Il suo budget massimo per la singola è 1.000 rupie e le camere del Mango sono più costose. Poco lontano, troviamo il Park Resort, sistemazione molto spartana nonostante il nome decisamente fuori luogo ma che ci sembra la migliore di tutte quelle viste la sera prima. Confermiamo quindi la notte per Manu a 1.000 Rupie e torniamo al Mango dove chiediamo informazioni al travel desk (ogni albergo ha una specie di ufficio che organizza escursioni e giri in tutta l’Orissa) sulle destinazioni dei nostri prossimi giorni. Quel che ci propone l’addetto, tuttavia, non ci convince: ci fornirebbe una macchina con autista ad un prezzo non propriamente economico sia per il nord che per il sud mentre per quanto riguarda le zone tribali ci dice che è molto difficile organizzare dei trip anche perchè alcune zone sono off limit visto che il Governo non concede i permessi; se vogliamo visitarle, comunque, lui ci fornirà la macchina e poi, una volta arrivati lì, potremmo andare all’ufficio della polizia e farci rilasciare il permesso…la cosa ci lascia un po’ basiti, visto che ci eravamo documentati e tutti i siti (Lonely compresa) raccomandavano di affidarsi ad agenzie sicure che fossero in grado di procurare i permessi. Raccolte le informazioni, lasciamo l’addetto con un classico “we think about that” ed andiamo al ristorante dell’albergo per pranzare con riso e noodles (ristorante XO; nota positiva: prezzi buoni, cibo buono, servizio veloce; nota negativa: troppi camerieri a gironzolarci intorno, eccesso di servizio…). Andiamo quindi a fare un giro alla stazione dove troviamo aperto l’ufficio del turismo Odishano presidiato da un annoiato impiegato che ci consegna una voluminosa brochure con le escursioni organizzate da loro. Ci facciamo un giro nei dintorni e poi decidiamo di prendere un OTO per andare all’Ufficio dell’Alternative Tours, agenzia che avevamo trovato su Tripadvisor con ottime recensioni, specializzata nell’organizzare giri nelle zone tribali. Sere fa avevo mandato una mail e l’addetto mi aveva subito risposto dandomi l’indirizzo e le indicazioni per raggiungerli: avremmo discusso a voce del nostro giro. Spieghiamo quindi al conducente dove ci deve portare (non conosce né l’agenzia, né la zona…cominciamo bene…) e ci avviamo in direzione aeroporto visto che l’Alternative è in zona. Arriviamo in un piccolo agglomerato di case basse e, in un posto che senza indicazioni non avremmo mai trovato, ci fermiamo di fronte alla minuscola sede dell’Alternative Tour. Il giovane impiegato che ci riceve chiama al telefono Ashish, il proprietario, che poco dopo arriva insieme al padre Shrikant, la vera anima dell’agenzia. Ci sediamo con loro e discutiamo della possibilità del giro nelle tribe areas: i mercati delle tribù locali si svolgono in giorni fissi, il mercoledì a Chatikona, il giovedì a Onkadelli e il venerdì a Kundali; visto che oggi è lunedì dovremmo organizzare tutto in frettissima tenendo conto che la strada per arrivare in zona è davvero lunga e impervia. Shrikant però ci dice che la zona di Chatikona è off limits ma che per il resto non ci sono problemi. Ci suggerisce di partire mercoledì in modo da poter vedere i due mercati e di tornare a Bhuba la domenica. Gli facciamo presente che per noi andrebbe meglio tornare su Puri visto che abbiamo intenzione di trascorrere qualche giorno lì e per lui non c’è nessun problema. Il costo stimato si aggira sui 300 Euro a testa, più o meno quello che avevamo intenzione di spendere visto che la Lonely stimava come costo tra i 50 e i 100 USD al giorno tutto compreso. Ci lasciamo con Shrikant dicendogli che in serata arriva la nostra amica Manu, che ne parleremo con lei e che domani ci rivedremo per fare il punto della situazione. Con questo bel progetto in tasca torniamo dal nostro conducente di OTO che ci ha aspettato e invece di farci riportare in città, decidiamo, visto che c’è ancora luce, di farci un giro a Bindu Sagar, il luogo più sacro di Bhuba con la città vecchia e i numerosi templi sui quali troneggia il maestoso Lingaraj Mandir. L’OTO ci lascia al bordo dell’immenso bacino d’acqua sacra sul quale, alla luce del tramonto, si riflette l’imponente torre del Lingaraj; percorriamo la stradina che costeggia la vasca fiancheggiata da numerosi piccoli templi all’interno dei quali pregano i bramini; in fondo, la strada si allarga in una grande piazza occupata dalle alte mura del tempio al quale, però, possono accedere solo gli hindu (qui, come dice la Lonely, fu addirittura negato l’ingresso a Indira Gandhi perchè suo marito era un parsi…). C’è tantissima gente che si accalca all’entrata del tempio, organizzato con transenne e poliziotti che “dirigono” il traffico umano. Dopo aver sbirciato l’interno del tempio appoggiati ad una transenna, popolato da centinaia di persone tutte accalcate con offerte in mano da portare a Tribhuvaneswar, la divinità alla quale il tempio è dedicato, seguiamo le mura ed arriviamo ad un bellissimo ed affascinante mercato serale, dove si vendono esclusivamente frutta e verdura: le merci sono esposte davvero in maniera ordinata, raggruppate per colore, in alte piramidi composte da cavolfiori, carote, pomodori, zucche, piselli, melograni, arance, lime, mele, caschi interi di banane, il tutto illuminato dalle fioche lampadine che pendono dai tendoni, un vero trionfo per gli occhi. Sono le sei di sera e Manu ci comunica, via messaggio, che arriverà non più alle otto come previsto ma in ritardo. Rispondiamo che non ci sono problemi, che la stanza è prenotata e che l’aspetteremo. Decidiamo quindi di tornare verso l’albergo e un OTO, per 40 rupie, in venti minuti scarsi, ci scarica di fronte al Mango. Riceviamo una telefonata da Manu che…ha perso il volo da Mumbai per Bhuba a causa del ritardo del primo volo da Goa e ci comunica che arriverà…domani sera! Questo è un bel guaio perchè il giorno dopo avevamo appuntamento da Shrikant per definire il giro nelle tribe areas ma Manu si dichiara in anticipo d’accordo su quanto decideremo noi e quindi ci dà carta bianca: sarà una sfacchinata per lei visto che mercoledì dovremmo partire all’alba! Dopo la doccia, passiamo al Park Resort per avvisare che Manu non arriverà stasera ma domani (camera disdettata all’ultimo momento…ma per loro non c’è nessun problema…) andiamo a cena allo Yum Yum, ristorante all’aperto di fronte al Pushpak hotel dove Ste ordina un rotolo vegetariano tipo piadina e io patate fritte e butter naan (accoppiata vincente: pane e patate!). Mentre mangiamo buttiamo l’occhio alla fiancata dell’hotel dove sappiamo esserci la famigerata stanza 101 e scopriamo che…è stata praticamente costruita sopra i forni del ristorante che sono giusto in coincidenza con il pavimento della stanza! Ecco spiegato il motivo del caldo soffocante! Ci mettiamo a ridere come dei pazzi, felici di essere nella nostra comoda camera e ancor più felici dopo che Manu ci comunica che è riuscita a combinare dei voli notturni e che, attraversando mezza India e passando per Delhi, arriverà domani mattina alle 8. Così avremo il tempo per fare tutto con calma. Arrivare nella immacolata camera del Mango ci sembra davvero un sogno e dormiamo come ghiri, lasciandoci alle spalle il caldo soffocante della notte precedente.

2 Febbraio

Sono le sette di mattina e la colazione nel luminoso ristorante del Mango è decisamente all’altezza dell’hotel: marmellate, pane tostato, cereali al cioccolato, succhi freschi e un buon caffè forte. Fra poco arriva Manu quindi dobbiamo sbrigarci per andare ad accoglierla. Ma proprio mentre stiamo finendo il nostro pasto mattutino ci arriva un messaggio che il volo è per l’ennesima volta in ritardo e quindi arriverà alle 10.00. E’ un’odissea che sembra non finire mai! Ce la prendiamo quindi con molta calma e ci riposiamo in camera fino all’ora x quando ci presentiamo di fronte al Park Resort con tanto di biglietto di benvenuto con su scritto “Emagnuela Bollotto”. Quasi puntuale arriva Manu col taxi, sfinita dopo ore di attesa notturne negli aeroporti di Mumbai e Delhi e dopo una ventina di caffè e tipo quattro pacchetti di sigarette. La accompagniamo in albergo e prende possesso della sua stanza non senza prima aver contrattato il prezzo a 900 rupie ed essersi fatta cambiare le lenzuola (come al solito non pulitissime!). La lasciamo riposare per una mezzora e poi via, tutti e tre in OTO all’Alternative Tours per gli accordi definitivi. Ad attenderci troviamo sia Ashish che Shrikant che entra subitissimo in sintonia con Manu: praticamente lasciamo fare tutto a lei che si dimostra molto entusiasta dell’avventura che ci aspetta e strappa anche un ottimo prezzo per il pacchetto. Prezzo che però varia di 1.000 rupie a seconda dell’auto che sceglieremo (poi capiremo il perchè). Shrikant si offre di farci vedere le macchine e quindi ci carica sulla sua Suzuki Maruti portandoci al garage dove, un po’ impolverato, è parcheggiato un fuoristrada: andando con questa auto pagheremo meno visto che è di sua proprietà mentre se vogliamo una più “lussuosa” Toyota Innova dovremo pagare di più. Noi non abbiamo dubbi e non tanto per risparmiare 1000 rupie ma perchè non c’è nessuna differenza tra le due auto, anzi, il fuoristrada ci dà più fiducia! Concordato quindi che utilizzeremo il fuoristrada, ci porta a casa sua dove ci fa conoscere la moglie che ci offre un caffè con biscotti: la casa di Shri è molto bella e grande con un giardino curatissimo; il suo studio è letteralmente stipato di statue e ornamenti delle varie minoranze etniche indiane delle quali è davvero espertissimo, e di libri fotografici i cui autori sono stati da lui accompagnati nelle zone più impervie dell’India, dalle colline dell’Orissa alle montagne del Nagaland. Parlando con lui di fronte al forte caffè, scopriamo che è laureato in antropologia e si rivela subito una persona davvero eccezionale, profondo conoscitore del suo paese, delle tribù, degli stili di vita delle minoranze. Abbiamo davvero scovato una miniera di informazioni e siamo felici che sia lui ad organizzarci il nostro giro. Alla fine del coffe-break addirittura ci dice che se riuscirà ad organizzarsi con il figlio, ci accompagnerà lui! Non possiamo credere alla fortuna che ci sta capitando: visitare le tribù dell’Orissa con Shrikant sarà un’esperienza davvero incredibile. Torniamo in ufficio dove scansionano i nostri passaporti per i permessi e ci fanno delle foto con il cellulare da inviare alla polizia. Poi fissiamo l’itinerario che prevede la partenza il giorno dopo all’alba per arrivare a Jeypore nel tardo pomeriggio, giovedì mercato di Onkadelli, venerdì Baliguda, e due giorni di trekking leggero in mezzo ai villaggi, ritorno di domenica a Puri con una breve tappa anche al Chilika Lake, il più grande lago salato dell’Asia. Meglio di così non poteva andare. Shrikant ci saluta con una vigorosa stretta di mano e ci fa accompagnare in città dal figlio a bordo della sua VW Golf. Pranziamo tutti e tre al ristorante del Mango e finalmente arriva per Manu il momento di rilassarsi un po’ in camera sua. Alle cinque ci ritroviamo, riposati e pronti, per andare ad esplorare per bene tutti i templi della zona di Bindu Sagar. Prendiamo un OTO e ci facciamo portare al Raja Rani Mandir, un tempio posto sotto la tutela dell’Archaeologic Survey of India (per questo motivo si paga un ingresso di 100 rupie) con l’alta torre in pietra finemente lavorata e i giardini curatissimi e ben tenuti, poi a piedi andiamo fino ad un altro complesso di templi ancora “in uso” (l’entrata è quindi libera) con i bellissimi Parsurameswar Mandir e Mukteswar temple, anch’essi ben tenuti, tutti in pietra marron scuro intagliata in maniera impeccabile con decine di statue soprattutto dedicate a Ganesh (una, dipinta di rosso, ha fatto da sfondo al desktop del mio cellulare per tutta la durata del viaggio…Ganesh, notoriamente, porta prosperità e fortuna e protegge i viaggiatori, quindi porta bene!). A piedi nudi attraversiamo un prato fino al Siddheswar temple (fate attenzione perchè sull’erba è facile camminare ma sul ghiaino…un po’ meno…occhio ai piccoli sassi aguzzi!) che all’interno, lugubre e scuro, presenta un lingam sormontato da un cobra di fronte al quale un bhramino sta pregando. Recuperate le nostre scarpe (finalmente!) visitiamo quindi il misticissimo Kedargauri Mandir, con la sua torre bianca, i piccoli santuari dipinti di rosso, la bella anche se piccola vasca sacra: qui ci sono moltissimi fedeli che pregano, meditano, si bagnano nella vasca, incensi accesi dappertutto, candele, offerte costituite da fiori e frutti, si respira un’aria davvero particolare e io e Manu in più di un’occasione ci fermiamo in ascolto di una campana o di un canto quasi sussurrato. Incantati da quest’ultima visita, recuperiamo Ste che si è fermato in uno shop a caccia di statue ed ammennicoli religiosi e ci dirigiamo verso il Biddu Sagar dove ripercorriamo la strada lungo il bacino sacro fatta la sera prima fino ad arrivare al Lingaraj che, illuminato, è se possibile ancora più bello. In fianco al tempio c’è una piccola piattaforma dalla quale si può ammirarne l’interno (come già detto, l’ingresso ai non Hindu è vietato) e quindi rimaniamo per un po’ a guardare le centinaia di persone che affollano il cortile interno pieno di tante torri in pietra illuminate da lampade che danno al tutto un tocco quasi irreale. Discutiamo con i ragazzini che, a guardia della piattaforma, chiedono soldi (e, come al solito, non si accontentano mai…), consegniamo loro qualche banconota da 10 rupie e ci dirigiamo al mercato che vogliamo far vedere a Manu. Con grande delusione, però, lo spazio che la sera prima era occupato da decine e decine di coloratissime bancarelle, stasera è totalmente vuoto: evidentemente il mercato non si tiene sempre ma solo in determinati giorni (il lunedì sicuramente e il martedì no, quindi tenetene conto!). Girovaghiamo a caso per la Old Town con i suoi stretti vicoli e i mille “shop” che vendono qualsiasi cosa e ci fermiamo in un baracchino dove il proprietario sta friggendo pakora in mezzo ad un fumo densissimo sprigionato dalle padelle; ci sediamo sulla scassata panchina di legno e Manu ordina un chai “garam garam garam” (cioè caldo caldo caldo…Manu è ossessionata dal garamismo e se il tè o caffè non è bollente, lo restituisce e se lo fa riscaldare finchè non raggiunge una temperatura da ustione!) attirando l’attenzione di tre vecchietti seduti sugli sgabelli anche loro intenti a bere: uno dei tre (il più anziano) assomiglia incredibilmente a Ray Charles, con tanto di occhiali scuri (anche se praticamente è già notte). Comincia uno scambio di battute, più che altro a gesti visto che i nonnetti non parlano inglese e Manu abbandona la nostra panchina e va a sedersi in mezzo a loro, instaurando subito un bel contatto con il Ray Charles di Bhubaneswar! Il gruppetto di anzianotti insiste per pagare il chai di Manu e, dopo infiniti ringraziamenti e qualche foto, salutiamo i nostri “nuovi” amici tornando sulla strada principale dove con l’OTO di turno ci facciamo riportare al Park Resort dove lasciamo una Manu comprensibilmente distrutta ritirarsi nella sua luxury single room mentre noi andiamo al Mango per una doccia e poi a mangiare qualcosa allo Yum Yum dove, come ieri sera, lo sguardo ci cade sui bollenti forni che fanno da pavimento alla famigerata 101…questa cosa non smetterà mai di farci ridere a crepapelle. Torniamo al Mango e, prima di ritirarci nei nostri comodi letti, prepariamo i bagagli visto che domani mattina la sveglia suonerà alle 6.30.

Vecchi palazzi, mercati e capanne di fango

Jeypore, Onkadelli, Kunduli, Gopalpur 3-6 Febbraio

3 Febbraio

Dopo colazione, salutiamo i ragazzi del Mango e confermiamo la nostra stanza allo stesso prezzo per la notte dell’11 Febbraio quando torneremo dal nostro giro Odishano. Sul piazzale dell’albergo già ci aspetta la nostra jeep con un attempato ma simpaticissimo autista che parla poco inglese ma sorride in continuazione mentre ci carica i bagagli in macchina. Passiamo a prendere Manu al Park Resort e poi, invece di dirigerci fuori città, andiamo in zona aeroporto per recuperare Shrikant che alla fine ha deciso di accompagnarci con nostra grande felicità. Caricato il nostro uomo, imbocchiamo quindi “l’autostrada” che, attraversando tutta l’Orissa parallelamente alla costa (e anche un pezzo di Andra Pradesh) ci condurrà ai piedi delle colline sulle quali ci inerpicheremo fino ad arrivare a Jeypore: tempo di viaggio previsto una decina di ore di macchina. Quando, da casa, studiavo l’itinerario e i posti da visitare Jeypore e tutta l’area tribale mi sembrava davvero lontanissima e difficile da raggiungere; considerato che non avevamo un mese a disposizione non pensavo di riuscire a visitare queste zone e invece, grazie anche all’ottima organizzazione e alla perfetta coincidenza dei tempi, quello che era un sogno sta diventando realtà. L’atmosfera in auto è molto rilassata e tranquilla, un po’ di chiacchiere tra di noi, un po’ Shrikant ci racconta della sua vita, delle sue esperienze e del viaggio che ci aspetta, mentre Jaga, l’autista dal sorriso più grande del mondo, è impegnatissimo alla guida senza mai distrarsi. Facciamo uno stop in un bellissimo “bed and breakfast” che sorge proprio ai bordi dell’autostrada, con un grande giardino disseminato di tavoli e sedie, dove prendiamo un bollente nescafè accompagnato da biscotti al butterscotch offerti da Shrikant. Dopo qualche ora lasciamo lo stato dell’Orissa per addentrarci in Andra Pradesh con le sue distese di campi coltivati, minuscoli villaggi, strade di campagna fiancheggiate da immensi alberi di tamarindo e boschetti di manghi. Ci fermiamo quindi per pranzo in una cittadina dove Shrikant ci indica l’unico “ristorante” del luogo situato al primo piano di un complesso di edifici un po’ pericolanti. Neanche a dirlo, siamo gli unici turisti. I camerieri (un gruppo di ragazzi giovanissimi) sono molto simpatici e ci portano del riso fritto con verdure e paneer che basterebbe a sfamare sei persone. In uno dei tavoli vicino al nostro si sta festeggiando un compleanno e quando i camerieri tagliano la torta vengono anche da noi ad offrircene una generosa fettona (pura panna, confettini colorati e, forse, un po’ di pan di spagna…ma forse). Mentre aspettiamo di ripartire, Manu si fa attirare da una pasticceria molto invitante dove si sbafa un gelato come dessert. Ripartiamo per la nostra meta, rientrando in Orissa e cominciando, pian piano, a salire sulle colline dell’estremo sud dello Stato. Il paesaggio cambia e iniziamo a vedere immense distese di foreste, strade con tornanti che corrono in mezzo a veri e propri boschi, nessuna città, nessuna industria, nessun capannone. Dopo qualche stop per fumare una sigaretta in mezzo a questi luoghi sperduti, alle sei arriviamo finalmente a Jeypore e al nostro albergo dall’altisonante nome di Apsara che si trova in un vicoletto vicino alla strada principale della caotica (e scopriremo poi discretamente sporca) cittadina. Di fronte all’hotel troviamo una coppia di italiani che, insieme ad altri due nostri connazionali, sta praticamente girando il mondo a bordo di una specie di casa viaggiante (un 4×4 furgonato attrezzato, sul retro, come una piccola roulotte). Ci intratteniamo con loro che ci raccontano di essere in viaggio da mesi e di essere pariti dall’Italia attraversando, fra l’altro, Afghanistan e Pakistan fino ad arrivare in Nepal e poi in India. Preferiscono non dormire in hotel vista anche la qualità delle sistemazioni alberghiere, salvo qualche notte giusto per farsi una doccia come si deve, e neanche mangiare nei ristoranti locali: sono partiti dall’Italia con scorte di pasta e pomodoro in scatola! Anche questo è un modo di viaggiare ma credo che ben pochi si possano permettere di stare via non settimane ma addirittura mesi interi. Fortunati loro! Salutiamo questi intrepidi viaggiatori e prendiamo possesso delle nostre camere di certo non paragonabili a quelle del Mango ma meno peggio di quel che pensavo. L’unica nota stonata è costituita dalla finestrella del bagno senza zanzariera…ne pagherò le conseguenze la seconda notte! Manu si ritira immediatamente vista la stanchezza mentre io e Ste dopo una doccia usciamo alla scoperta di Jeypore: niente di particolare, solito centro abitato indiano caotico che si sviluppa lungo la strada principale, pieno di negozi, palazzi pericolanti e mal tenuti, canali di scolo “a vista”, cani randagi che circolano liberamente. Ma c’è una sorpresa: quasi alla fine della strada c’è un vecchio palazzo bellissimo, con tanto di torrette e balconcini in pure stile moresco: sembra quasi uno dei palazzi del Rajastan (infatti la città si chiama Jeypore che si pronuncia come la quasi omonima Jaipur). Oggi ospita una scuola ma una rapida occhiata a Google ci dice che questo era, in antichità, il palazzo del sovrano del regno di Koraput, potente stato Indiano. Facciamo un rapido giro intorno al palazzo (non è facile trovarlo: alla fine della strada principale si apre, sulla sinistra, un grande ed anonimo arco superato il quale ci si trova davanti al palazzo che però è parzialmente nascosto alla vista dai palazzoni costruiti di fronte) ammirandone le facciate e poi torniamo sul viale principale per visitare un piccolo tempio dedicato al dio scimmia Hanuman dove un gruppo di fedeli sta celebrando una puja con tanto di tamburi e tabla. Facciamo uno stop in uno stall dove acquistiamo un paio di succhi di mango (niente cena…non ne abbiamo voglia…) e al momento di buttare la confezione faccio cenno al proprietario se posso usare un bidone posto all’esterno del negozietto. Lui mi sorride e mi dice di no, di buttare pure il tetrapak direttamente nel canale di scolo…queste sono le cose che più mi fanno arrabbiare degli indiani…forse pensano che buttando l’immondizia in strada, nei fiumi, sui marciapiedi passi miracolosamente una fatina dei rifiuti a raccoglierli? Mah! Mi consolo comprando un pacco di biscotti fatti a forma di fiore (si tratta in realtà di una pastella di farina di riso fritta) che diventeranno il dolce Odishano per eccellenza (ne consumeremo a pacchi nei prossimi giorni) e torniamo verso il nostro hotel dove crolliamo sul letto sfiniti.

4 Febbraio

Stamattina ci concediamo una lunga e rilassata colazione con un bel termos di caffè very garam, marmellata e pane tostato che Manu chiede “well done, crispy, BROWN” sperando, al contempo, che non glielo portino bruciato, e alle otto siamo pronti per partire per il mercato di Onkadelli. Il percorso per arrivare in questo minuscolo paesetto è davvero bellissimo: la strada si snoda in mezzo a colline di fitta boscaglia e ci costringe, una volta diventata sterrata, a parecchie deviazioni posto che, in vista della prossima stagione delle piogge, i locali stanno rinforzando i ponticelli che rischiano, altrimenti, di essere trascinati via dalle forti correnti dei corsi d’acqua. La nebbia mattutina conferisce al paesaggio un aspetto davvero magico, con il sole basso che si riflette sulle risaie totalmente secche e di color marrone scuro eccetto qualche rettangolo dove il riso giovane è appena stato piantato e spicca, col suo verde brillante, in mezzo alla terra brulla. Passiamo sotto volte di altissimi e folti tamarindi, interrotti ogni tanto da un bellissimo flame tree, senza foglie e con i fiori rossi che spiccano sui tronchi. Incrociamo dei boschetti di eucalipto e nell’aria si diffonde immediatamente il profumo pungente e balsamico delle piante.

Ci fermiamo per un chai in un piccolo villaggio dove le donne locali, lungo la strada, hanno organizzato un mini mercato e vendono i prodotti dei loro orti disposti su coperte stese a terra. Dopo un paio d’ore arriviamo finalmente alla nostra meta. Il mercato di Onkadelli, pur essendo il più bello dell’area, non è immenso né, secondo me, particolarmente suggestivo: le donne Bonda che lo popolano sono molto belle, con le loro collane di perline rosse, gialle e arancioni indossate a mo’ di vestito, ma parecchio “ostili”; ufficialmente sono lì per scambiare i prodotti dei loro villaggi con altre merci ma in realtà vengono per i turisti, per vendere le loro collanine e, occasionalmente, per farsi offrire dagli occidentali qualche dolce venduto nelle bancarelle. Non si possono fotografare per espresso divieto del governo e, forse per questo motivo, sono diventate un po’ indifferenti non potendo più trarre un sostentamento dalle loro pose. Ce ne sono poche che circolano nel mercato, ne avremo viste forse una decina, sembrano molto anziane, con la pelle rugosa, magrissime, rasate completamente, scalze, con due o tre collane di ferro intorno al collo e una vera e propria cascata di collane di perline sul petto e intorno al capo (sostituiscono abiti e capelli!). Alla lunga sono anche un po’ insistenti e non sempre gentili. Gironzoliamo per il mercato dove sono in vendita un sacco di prodotti freschissimi, dalla frutta alla verdura, al pesce essiccato, ma quel che più ci colpisce sono gli stall dove vengono venduti i dolci fritti e poi passati nel miele tipici della zona: montagne di “frittelle” (potremmo definirle così) ben impilate su grandi vassoi di ferro. Ne assaggiamo un paio e non sono niente male! Manu vorrebbe acquistare una collana in ferro da un’anziana Bonda che se la toglie dal collo e la allaccia, non senza fatica, a quello di Manu. Ma non le sta affatto bene addosso e quindi rifiuta l’acquisto: togliere la collana dal collo di Manu diventa un’impresa ma la donna Bonda sembra che stia manovrando non su una persona umana ma su un pezzo di tronco e, rischiando di strangolare la nostra preziosa amica che a stento trattiene esclamazioni di dolore, a forza di tirare e tirare riesce infine a levagliela con grande sollievo di tutti noi! Arriviamo fino alla fine del mercato, nella zona dove gli uomini Bonda (senza costumi tradizionali, vestiti con pantaloni e camice) vendono un liquore molto alcolico fatto in casa: sono tutti accucciati di fronte a otri di ferro e aspettano i clienti che già cominciano ad arrivare. Ci racconta Shrikant che al pomeriggio la zona del mercato si svuota e questa si riempie, tutti sbevazzano alla grande e tutti si ubriacano: per loro il giovedì è come se fosse la domenica! Lasciamo Onkadelli e percorriamo in auto strette strade davvero suggestive e magnifiche, con belle vedute sul paesaggio circostante, fino ad arrivare ad un altro piccolo centro abitato dove Shri e Jaga acquistano il cibo che consumeremo, a mo’ di picnic, sulla terra di proprietà della nostra guida dove ha in progetto di costruire dei bungalows per turisti. Risaliamo in macchina e dopo una mezzora percorsa lungo uno sterrato arriviamo alla proprietà di Shrikant, un grande spiazzo erboso con immensi alberi di mango e alti bambù, circondato da basse colline: ci spiega che vorrebbe far edificare cinque o sei bungalows in muratura, molto spartani ma accoglienti, per dar modo ai suoi clienti di passare una o due notti in mezzo alla foresta in tutta tranquillità. Ai margini dell’appezzamento ci sono due o tre casupole dove abitano alcune famiglie che sorvegliano la proprietà e che, quando i bungalows saranno terminati, lavoreranno a tempo pieno: Shrikant in questo modo aiuta i locali e dà loro un lavoro in modo che possano rimanere in questi bellissimi posti senza trasferirsi nelle città magari a fare la fame. Nel giro di cinque minuti viene collocato un grande tavolo all’ombra dei tamarindi e sui piatti viene sistemato il cibo acquistato poco prima: riso bianco, verdure fritte (fantastici i cavolfiori e le melanzane in pastella), spinaci piccantissimi, parata e puri molto unti ma gustosissimi. Il pic nic ci piace assai e trascorriamo la successiva ora a mangiare e a chiacchierare con Shrikant che ci illustra i suoi progetti e i suoi sogni, sotto l’ombra e con una piacevole arietta che ci rinfresca. Il pranzo termina con chai e biscotti in totale relax.

Dopo aver aiutato a sparecchiare, riprendiamo le nostre visite e ci dirigiamo verso un piccolo villaggio dove vivono circa un centinaio di persone, sperso in mezzo alle colline e difficile da raggiungere. L’ingresso al villaggio è davvero spettacolare visto che lo si raggiunge camminando su uno stretto viottolo in mezzo alle risaie qui di un verde brillante. Le casupole sono per lo più costruite con mattoni irregolari, fango e paglia pressati insieme e pur essendo molto povere sono davvero dignitose. Passeggiamo ammirando la vita quotidiana del villaggio con i bambini che giocano liberi, capre, mucche, galli e galline che scorrazzano lungo le stradine sterrate, giovani donne che stendono il bucato o che trasportano otri di ferro pieni d’acqua in equilibrio sulla testa, vecchi seduti all’ombra degli alberi a chiacchierare, minuscole gabbiette appese all’esterno delle capanne che ospitano verdi parrocchetti. Alla fine del villaggio ci ritroviamo in un immenso spazio aperto dominato dalle risaie: la luce del tardo pomeriggio che inonda il paesaggio è davvero particolare e ci farà ricordare questo villaggio come uno dei posti più belli che abbiamo visto. Torniamo quindi verso il “centro” del villaggio dove la gente si è radunata intorno ad un cerchio di pietre (la loro religione è una sorta di animismo contaminato dall’induismo) che, si dice, incarnino delle divinità dai poteri molto forti. Salutiamo gli abitanti di questo sperduto luogo mentre il sole sta tramontando e ci dirigiamo alla nostra jeep non senza gettare un ultimo sguardo alle risaie alle nostre spalle che riflettono colori incredibili. Arriviamo al nostro albergo che è già buio, ci facciamo una rapida doccia e torniamo a fare un giro in paese, scoprendo un bel mercato serale al centro del quale troneggia un’imponente e altissima statua di Hanuman: belle e ordinate bancarelle di frutta e verdura, decine di interi caschi di banane in vendita per poche rupie, banchetti che vendono saree in tessuti non pregiati ma dai colori sgargianti, sarti improvvisati con le loro Singer che stringono pantaloni e fanno orli a gonne. Per cena ci mangiamo un gelato al butterscotch delizioso e ripassiamo dal bel palazzo del Rajà visto la sera prima. Faccio un vero e proprio book fotografico ai venditori di frutta lungo la strada, con i loro banchetti su ruote fiocamente illuminati da una lampadina (chissà dove attaccano il filo per l’elettricità…). Ci spingiamo, quindi, verso il limitare del paese dove scopriamo altre meraviglie: un bellissimo e antico arco in muratura che, originariamente, costituiva l’accesso alla città ed al palazzo; un immenso terrapieno con, al centro, un baldacchino in pietra finemente lavorato che ospita la statua del Rajà; ma soprattutto un altro antico palazzo che poi scopriremo essere stato quello della moglie del Rajà, anch’esso contornato da un alto muro con piccole torrette merlate, totalmente in disuso e mezzo diroccato, ma con un fascino d’altri tempi. Di ritorno facciamo uno stop in un negozio dove Manu mi regala un bellissimo orsetto di peluche arancione che andrà ad aggiungersi alla mia collezione. Si è fatto tardi e torniamo in albergo a fare le valigie visto che domani abbandoneremo Jeypore per addentrarci ancora più nella foresta.

5 Febbraio

La notte l’abbiamo trascorsa non dico in bianco ma quasi ad ammazzare zanzare che, improvvisamente, hanno invaso la nostra stanza. Sono pieno di punture soprattutto sulle mani dove le maledette hanno abbondantemente banchettato con il mio sangue. Per fortuna sto facendo la profilassi e, anche se la cosa un po’ mi preoccupa, cerco di mettermi tranquillo: Jeypore è uno dei posti più sporchi che abbia mai visto (proprio ieri sera un paio di topi morti facevano bella mostra di sé proprio di fronte all’albergo) e la zona è notoriamente malarica, anche se la stagione è secca. Dopo colazione, carichiamo i bagagli in macchina e partiamo per la nostra meta giornaliera: il mercato di Kunduli. Imbocchiamo una ripida strada che si inerpica lungo le basse colline in mezzo al solito, affascinante paesaggio fatto di tamarindi, palme, flame tree, contadini che trasportano otri di ferro o plastica tenendoli in precario equilibrio sopra le loro teste o agganciati a lunghe canne di bambù, qualche bambino con la divisa che va a scuola, donne avvolte in colorati saree cariche di fasci di legna.

Arriviamo a Kunduli e parcheggiamo l’auto vicino ad un immenso spiazzo dove si sta svolgendo il mercato del bestiame, pieno di gente che contratta in mezzo a capre e vacche. Più su, lungo la strada principale, ci sono decine e decine di venditori alcuni ben organizzati con banchetti in legno, altri semplicemente con, davanti a sé, uno scampolo di stoffa colorata ove sono ammonticchiati in cumuli ordinati, fagiolini, patate, pomodori, cipolle, peperoncini. I colori sono davvero incredibili e le foto si sprecano. Siamo gli unici occidentali ma devo dire che, forse per la prima volta, non veniamo né importunati né “stressati” con proposte di acquisto o richiesti di mance. Un gruppo di uomini vende dei bellissimi recipienti di terracotta dal lungo manico e due di questi finiscono nei nostri zaini per poco più di 20 rupie l’uno (riempiti d’acqua, con qualche fiore galleggiante, faranno bella mostra di sé sopra le nostre tavole qualche tempo dopo); contrattiamo quattro scialli di lana di pecora dai colori naturali e molto caldi; ci compriamo i soliti dolci fritti che sgranocchiamo ammirando un gruppo di uomini che vendono attrezzi agricoli come piccole falci, coltelli, roncole, asce; veniamo travolti dall’odore pungente delle cipolle che una giovane donna sta pelando e mettendo in bacinelle colme d’acqua e attirati da venditrici di braccialetti di vetro colorato esposti ordinatamente su una tovaglia appoggiata a terra; ammiriamo incuriositi un’altra bancarella con decine di cestini di bambù ricolmi di diversi tipi di granaglie, riso, ceci, miglio e altre sementi che non riconosciamo; fotografiamo dei giovani ragazzi che vendono galli da combattimento, alcuni lasciati liberi a scorrazzare, altri rinchiusi in gabbie di bambù; perdiamo Manu, che si lancia in cerca di un chai garam garam; incrociamo giovani donne che trasportano sulla testa immense ceste di verdure; ci facciamo largo tra le vacche che circolano liberamente e si fermano a smangiucchiare avanzi di ortaggi. Questo mercato è decisamente molto più bello di Onkadelli ma, da quel che ci dice Shrikant, anche molto meno conosciuto: ci resteranno impressi i mille colori, i mille odori, la moltitudine di gente semplice e mai invadente, una bellissima esperienza da mettere tra i nostri ricordi.

Ripartiamo in macchina attraversando fitte foreste e bellissimi paesaggi. Ci fermiamo per pranzo in una cittadina nell’unico ristorante disponibile fra l’altro in corso di ristrutturazione: quando entriamo nello stanzone con decine di tavoli in legno un penetrante odore di vernice invade i nostri nasi e quindi la prima cosa che facciamo (molto antipatica agli indiani!) è spalancare la finestra vicino al nostro tavolo per fra entrare un po’ d’aria fresca. Riso e pollo masala soddisfano i nostri palati e dopo un po’ ripartiamo alla volta di Baliguda, un piccolo centro amministrativo con molta confusione e il solito traffico caotico. Ci fermiamo a mangiare un gelato al butterscotch in un baretto posto lungo la strada dove ci intratteniamo a lungo a chiacchierare (un po’ in inglese un po’ in lingua locale tradotta da Shrikant) con la proprietaria, una donna magrissima abbigliata con un saree azzurro che subito diventa “intima” amica di Manu che non lascia un secondo, tenendogli le mani, accarezzandole la schiena, in piena confidenza fra donne. Le due si lasciano dichiarandosi “sorelle”: anche questi sono ricordi che porteremo sempre con noi, la gente semplice, senza pretesa, senza necessariamente doverti spennare perchè sei turista, che qui, in questi luoghi lontani dalle città e dalla confusione, è ancora possibile trovare. Lasciamo il paesetto alle nostre spalle e continuiamo a salire lungo una strada sterrata in mezzo ad una folta vegetazione evidentemente arsa e assetata d’acqua visto che qui non piove da mesi e la terra dovrà aspettare ancora un po’ per essere inondata dai monsoni, incontrando ogni tanto qualche minuscolo villaggio costituito da quattro o cinque baracche. E’ già quasi buio quando arriviamo al nostro campo: le prossime due notti, infatti, dormiremo in bungalow di terracotta “attrezzati” per i turisti occidentali e, quello che ci si para davanti, pare proprio un mini villaggio con una decina di costruzioni edificate intorno ad un cortile. L’area è recintata (Shrikant ci dice che è per tenere lontani gli animali selvatici) e le nostre sistemazioni molto molto spartane: l’interno del bungalow, col pavimento in pietra, è arredato con due letti di ferro muniti di zanzariere e null’altro; il “bagno” annesso è dotato di lavandino e wc appoggiato alla bell’e meglio sul pavimento; insomma tutto molto molto basic ma la “camera” ci pare molto più pulita di altre stanze che abbiamo visto nei giorni scorsi. Dopo esserci sistemati ci ritroviamo nella cucina-sala da pranzo senza né porte ne finestre (una stanzetta quasi open air) dove chiacchieriamo di fronte a caffè e biscotti con Shrikant discutendo anche del programma di domani: decidiamo, insieme a lui, di andare verso Gopalpur On Beach e di trascorrere una notte vicino al mare, invece che fermarci qui al campo anche il giorno successivo. L’idea ci elettrizza molto visto che Gopalpur era una delle mete che avevamo deciso di visitare ma che avevamo scartato per la lontananza. Per cena mangiamo qualche banana ma nulla più, nonostante il nostro ineffabile Shri si fosse offerto di farci cucinare qualcosa dalle donne che gestiscono il campo, ma, educatamente, rifiutiamo visto che non abbiamo molto appetito e che siamo stanchini. Dopo altre chiacchiere sul senso della vita, sulla differenza tra europei e indiani, sui matrimoni e sui divorzi, sull’educazione dei figli, sulle difficoltà che le tribù incontrano con il governo Indiano, ci ritiriamo prestissimo (sono appena le nove di sera) nelle nostre camere dove abbassiamo le zanzariere ed apprezziamo il totale silenzio che ci circonda.

6 Febbraio

Mi sveglio alle sei e mezza con i rumori della foresta che penetrano dalle sottili pareti del bungalow, dopo una notte tranquilla e un sonno senza interruzioni. Una veloce lavata alla faccia e, facendo attenzione a non svegliare Ste, esco a godermi il sole di prima mattina e la natura che circonda il campo. Fa freddo e devo indossare il pile ma sugli scalini del suo bungalow trovo Manu con una grande tazza di caffè forte e caldo in mano che mi offre in condivisione: Manu gira sempre con uno strano aggeggio, una specie di spirale di ferro collegata ad un filo con spina, che immerge nell’acqua fino a farla bollire e che poi mescola con caffè in polvere…la nostra amica è organizzatissima e se le date un bicchiere d’acqua ed una presa elettrica, lei si prepara un caffè garam garam in quattro e quattrotto! Seduti insieme vicini ci gustiamo il caffè in pace. Poco dopo si alza anche Ste e andiamo a fare colazione nella cucina-sala comune, con altro caffè, pane tostato marmellata e…formaggini! Recuperiamo i nostri bagagli che non abbiamo nemmeno aperto se non per tirar fuori le magliette per la notte e salutiamo le donne e i ragazzi che gestiscono il campo. Saliamo sulla Jeep perfettamente pulita a lavata da Jaga durante la notte e partiamo alla volta di un villaggio abitato dai Konda, altra minoranza etnica che vive in piccoli gruppi. Il minuscolo agglomerato è costituito da un gruppetto sparuto di baracche di fango pressato, muratura e paglia, povere ma sempre molto dignitose; per strada solite scene di vita rurale con animali e persone che vivono in totale simbiosi. All’interno del villaggio incontriamo parecchi simboli della religione animistica, dei pali appuntiti sui quali vengono eseguiti i sacrifici animali, e a farne le spese sono soprattutto bufali e capre; un tempio mezzo diroccato con colorati disegni alle pareti; casette basse tutte rigorosamente con le porte aperte; alla fine del villaggio un immenso albero di tamarindo segna il limitare del centro abitato e davanti a noi si spalanca un paesaggio da mozzare il fiato: le risaie, illuminate dal sole del mattino, sono davvero incredibili, punteggiate ogni tanto da gruppetti di persone che vi lavorano con i piedi immersi nell’acqua bassa o da ragazzini a bordo di pesanti ed ingombranti biciclette che non arrivano nemmeno a toccare terra e che corrono in equilibrio precario sugli stretti sentieri che dividono le risaie. Incrociamo un paio di anziane donne Konda, con il tipico viso tatuato a righe verticali in modo da assomigliare a delle tigri (l’usanza è stata concepita per difendersi da questi animali o meglio, nella “credenza” di difendersi da questi animali), con le orecchie forate da decine e decine di piccoli anelli d’argento e i loro otri di ferro pieni d’acqua in equilibrio sulla testa o appoggiate all’anca. Tornando verso il villaggio la nostra presenza deve essere divenuta di pubblico dominio visto che numerosi bambini sono appostati sull’uscio delle case, con i loro abitini colorati e le manine sollevate in un timido saluto. Shrikant ci propone di fare un mini trekking in mezzo alle colline, passando per i villaggi, niente di impegnativo, un’oretta di cammino. Accettiamo di buon grado e partiamo in mezzo a sentieri appena accennati passando in mezzo ad una natura quasi incontaminata. Ad un certo punto notiamo dei movimenti in mezzo alla foresta ai lati del viottolo e poco dopo di fronte a noi sbucano gruppi di scimmie che si rincorrono e giocano, pur tenendosi ad una certa distanza. Ci fermiamo nel cortile di una capanna abitata da persone amiche di Shrikant e nel giro di dieci minuti veniamo letteralmente circondati da una grande famiglia (vivono tutti insieme, nonni, genitori, figli sposati, nipotini): ci riposiamo seduti sui vecchi charpoi sotto i maestosi ed onnipresenti alberi di mango e tamarindo accanto ai quali vengono coltivati anche alberi di papaya colmi di frutti non ancora maturi. Questa famiglia, come quasi tutte quelle della zona, vive di agricoltura, l’elettricità c’è solo per un paio d’ore alla sera ed alimenta una sola lampadina in tutta la casa, niente acqua corrente, niente frigoriferi, televisori o altri elettrodomestici, vivono come una volta si viveva nelle nostre campagne. Potrà sembrare strano ma ho quasi invidia: non hanno niente eppure sui loro visi si legge una serenità e un pace che qui da noi è solo un pallido e vago ricordo. Riprendiamo il cammino accompagnati da uno dei ragazzi più giovani della famiglia, 16 anni e già promesso sposo con cerimonia da celebrarsi fra un paio di mesi con una ragazzina del villaggio vicino. Passeggiamo sempre in mezzo alla natura e ci togliamo pile e piumini visto che il sole comincia a scaldare; ogni tanto incrociamo qualche capanna modesta ma sempre ordinata con tanto di steccato di legno, piccolo orto e alberi di papaya; ragazze che camminano veloci avvolte nei loro saree colorati; uomini con gli attrezzi da lavoro che si recano nei campi; bambini con un pacco di libri che si dirigono a scuola; una giovane mamma con due figli che attinge acqua da un pozzo profondo; un gruppetto di donne che si lava in un piccolo bacino d’acqua circondato da palme…siamo tutti e tre rilassati, contenti ed entusiasti di questo tempo che ci è stato concesso e ci spiace che sia arrivata l’ora di lasciare questa terra così dignitosa, affascinante e quasi magica. Ma la strada fino a Gopalpur è lunga e dobbiamo metterci in cammino. Arriviamo quindi alla nostra Jeep e iniziamo la discesa verso le pianure dell’Orissa centrale. Dopo un paio d’ore di macchina facciamo sosta a Berampur per mangiare qualcosa ma di “ristoranti” nemmeno l’ombra: lungo la strada troviamo un locale molto simile a una tavola calda per camionisti non proprio pulitissima ma accessibile dove purtroppo, però, non hanno né menù né padronanza con la lingua inglese. Ci sediamo e pasteggiamo con patatine in sacchetto (le onnipresenti Lays), una bibita fresca e una specie di creme caramel che solo Manu si fida a mangiare. Riprendiamo il cammino verso il mare e a pomeriggio inoltrato arriviamo a Gopalpur on Beach, un paesotto costituito da una strada lunga 500 metri che corre parallela al mare con una decina di alberghi che, dall’esterno, non lasciano presagire niente di “comodo” o “decente”. Non avendo prenotato chiediamo consiglio a Shrikant (lui stanotte la trascorrerà nella casa che ha qui a Gopalpur….) che ci porta al Mermaid, un immenso albergo che appare quasi in stato di abbandono, dove appena entrati scorgiamo la proprietaria che sta dormendo pigramente distesa per terra ma che, nel sentire la voce di Shrikant, si alza immediatamente e ci viene incontro. Ci accompagna quindi al primo piano (l’albergo è completamente vuoto) dove accediamo alle nostre camere: immense, squallide e anche un filino sporche, con il bagno che al posto del pavimento ha una piscina d’acqua alta tre centimetri (acqua che non defluirà neanche dopo che una ottuagenaria signora delle pulizie avrà cercato di sturare il buco di scarico con un bastone dal dubbio colore…). Parlottiamo velocemente fra di noi e chiediamo a Shrikant se non sia possibile cambiare albergo. Lui ci dice che questo è lo standard medio e che pochi alberghi a Gopalpur accolgono stranieri visto che la registrazione è lunga ed estremamente complicata ma ci dice che ha un suo conoscente che affitta stanze un po’ più nuove. Carichiamo quindi i bagagli e copriamo il poco spazio tra il Mermaid e il Sound Of the Sea, direttamente sul mare. L’alberghetto non è nulla di che ma ci sembra molto migliore dell’altro, con comodi balconi affacciati sulla spiaggia giusto in fianco al famoso faro dipinto a strisce rosse e bianche, per cui decidiamo di prendere le stanze qui: la camera è più piccola ma più pulita, anche se le lenzuola “bianche” hanno dei grossi cerchi lasciati da tazze e piatti utilizzati dai precedenti occupanti (gli indiani usano le stanze degli alberghi anche come ristoranti, mangiando e bevendo direttamente sul letto, con tutto ciò che ne consegue). Chiamiamo il proprietario dell’albergo e gli chiediamo di cambiare le lenzuola al che lui ci guarda meravigliato e ci dice che quello non è “sporco” ma sono solo residui di cibo! Senza discutere più di tanto, insistiamo e al nostro ritorno troveremo delle lenzuola a fiori in puro acrilico dove, per lo meno, lo sporco, se c’è, si confonde! Consegniamo i nostri passaporti al ragazzo della reception e accettiamo l’invito di Shrikant di farci vedere casa sua che si trova a qualche centinaio di metri ed è un vecchio cottage che l’ex proprietario inglese gli ha venduto anni fa. La casa è piccola ma con una bella stanza che Shrikant ha fatto costruire sul tetto da dove si gode una fantastica vista sul mare, e un giardino ben curato. Dopo avergli augurato una buona serata, io me ne vado in camera mentre Manu e Ste decidono di fare una passeggiata. La nostra stanza non è nulla di che ma ha una particolarità che ce la farà ricordare (oltre alla lampadina “rossa” in bagno…): la parte superiore della grande finestra che dà sul terrazzino affacciato sul mare è senza vetro (ma munita di zanzariera! Meno male!) e quindi il rumore delle onde che si infrangono è onnipresente e molto, molto piacevole. Una sigaretta in terrazza a guardare il tramonto poi una doccia e un po’ di riposo finchè aspetto che torni Ste. Manu non uscirà, questa sera, e quindi noi due andiamo a farci una bella passeggiata sul lungomare rischiarato solo da qualche lampione e praticamente deserto visto che le bancarelle, anche qui onnipresenti, stanno chiudendo. L’unico ristorante del posto è il SeaShell, una vera e propria “rotonda sul mare” con tavoli di plastica mezzi consumati e impiastricciati (anche se una zelante cameriera pure lei ottuagenaria – ci chiediamo dove siano i giovani! – li pulisce costantemente con una pezzuola umida che però…non risciacqua mai!). Ci sediamo in mezzo agli altri avventori del posto, tutti locali, e ordiniamo pesce e paneer fritto con patate pure fritte, tutto buonissimo. Durante la nostra cenetta con il fresco che arriva dal mare, ci raggiunge il proprietario, giovanissimo e ciccionissimo, che si chiama Raoul ed è di una simpatia unica, col quale chiacchieriamo del più e del meno. Ci dice che Gopalpur in questa stagione è pressochè deserta ma anche in piena stagione è una meta poco raggiunta dai viaggiatori stranieri. In effetti, per chi non è pratico dell’India, dobbiamo dare delle spiegazioni: pur essendo praticamente circondata dal mare, l’India non ha spiagge attrezzate se si eccettua lo stato del Goa e qualche tratto di costa del Kerala, per cui quando si parla di cittadine di mare non bisogna mai pensare al relax sotto l’ombrellone con un cocktail in mano! Oltretutto l’Orissa è uno degli stati più poveri dell’India e quindi le spiagge non sono tenute bene, né sono molto pulite, senza considerare comunque che il mare è…il Golfo del Bengala, non proprio dalle acque cristalline e comunque governato da correnti fortissime ed anche pericolose. Tuttavia può risultare piacevole passare una notte in una di queste cittadine anche per immergersi nell’atmosfera del posto che è tutt’altro che turistica. Con la panza piena, salutiamo e facciamo un selfie con il simpatico Raoul, e dopo una breve passeggiata “fino in fondo alla strada” ci ritiriamo nella nostra stanza dove ci addormentiamo col rumore del mare. Apro una parentesi sulla “burocrazia” indiana: dopo aver consegnato i passaporti alle sei, compilato pagine di moduli, esserci fatti fare delle foto con il cellulare, l’impiegato della reception ci restituisce i passaporti solo alle nove e mezza di sera! Ben tre ore e mezza per registrarci, mandare fax alle autorità, inviare i file con le nostre foto, e via di seguito! Ti credo che pochi alberghi, qui, accettano stranieri! Roba da indiani!

Due dei senza mani e una dea senza braccia

Puri – Konark – Chilika Lake 7-11 Febbraio

7 Febbraio

Mi sveglio alle sei e mezza, mi vesto in silenzio ed esco a fare una lunga passeggiata in spiaggia, sedendomi a guardare un gruppo di donne che stanno facendo il saluto al sole, confezionando offerte con gusci di noce di cocco, fiori e frutta che, proprio quando il disco luminoso emerge dal mare, fanno scivolare sull’acqua immergendosi per le abluzioni mattutine. Torno in albergo dove trovo Ste e la Manu che mi aspettano al tavolo della colazione allestito nel grande “ristorante” dell’albergo praticamente deserto (uno stanzone con tanti tavoli che di notte funge da dormitorio per gli addetti dell’albergo…). Ordiniamo omelette, pane tostato (sempre più crispy, sempre più brown!), marmellata e caffè forte che consumiamo chiacchierando rilassati. E’ ora di dirigerci verso la nostra prossima meta, Puri, dove abbandoneremo Shrikant e Jaga e trascorreremo qualche giorno. Riprendiamo l’autostrada fatta all’andata e ci fermiamo nello stesso b&b a prendere i soliti caffè e biscotti. Ma invece di puntare su Bhuba, tagliamo verso il mare e facciamo una sosta al Chilika Lake, la più grande laguna salata dell’Asia, un immenso lago diviso dal mare solo da una sottile striscia di sabbia, habitat di migliaia di specie di uccelli che qui vengono a passare l’inverno. Arriviamo ad uno scalcagnato molo dove ci aspetta una barchetta dal fondo basso con a bordo già il rematore e la “guida”, un omino che conosce a memoria tutte le specie di volatili che ci indica prima col dito “dal vivo” e poi sul consunto libro che tiene tra le mani. Passeremo un’oretta a navigare sulle base e paludose acque del Chilika ammirando centinaia di aironi, sterne, oche dorate, e via di seguito. Ogni tanto incrociamo una barchetta lunga poco più di un metro con a bordo un pescatore che raccoglie reti piene di gamberetti e molluschi. Il silenzio sembra quasi irreale e gli unici rumori sono lo sciabordio della pertica che affonda nell’acqua bassa, o lo sbattere d’ali gli uccelli acquatici che si rifugiano tra la bassa vegetazione della palude formata per lo più da canne e da fiori di loto. Totalmente rilassati, quando arriviamo al piccolo molo di legno scalcinato, quasi ci rifiutiamo di scendere dalla nostra barchetta, ma la strada per Puri è ancora lunga e dobbiamo rimetterci in moto. Passiamo in mezzo ad altri bellissimi paesaggi, con splendide risaie qui molto più verdi rispetto a quelle viste in collina, corsi d’acqua pieni di piante acquatiche, viali di palme, piccole lagune attraversate da ponti di legno. Ci fermiamo in un paesino per pranzo in un “ristorante” dal tetto di paglia, dall’aria un po’ squallida e frequentato dai soliti camionisti, con tanto di cucina a vista dove Manu, che in India si sente “di casa” ovunque, si avventa letteralmente sulle pentole assaggiando le varie pietanze. Ocra fritte (una specie di zucchine), verdure, riso e chapati ci riempiono in fretta e dopo una mezzora riprendiamo la strada verso la costa. Quando entriamo a Puri chiediamo a Shrikant se ci può accompagnare con la jeep a cercare l’albergo e lui si dichiara subito disponibile. Proviamo prima al Gandahara che avevo puntato fin dall’Italia ma che si rivelerà un po’ una delusione: le stanze non sono nulla di che e costicchiano (2.800 rupie) a meno che non si scelgano i due piccoli bugigattoli “fronte strada” a 1.500 la doppia e 1.000 la singola. Passiamo quindi allo Z Hotel, un heritage d’atmosfera ma con un’unica stanza libera (fra l’altro immensa e dispersiva) che costa 3.500 rupie a notte, decisamente troppo caro. Su consiglio di Shrikant andiamo al Nareem Palace, tipico albergone indian style dove ci fanno vedere due super-deluxe room al terzo piano, ben tenute e con tanto di balcone che dà sul piccolo villaggio di pescatori di fronte al mare, il tutto a 2.200 rupie. Per non lasciar nulla di intentato andiamo anche al Lee Garden, anche questo puntato fin dall’Italia, che però si rivela una delusione già dalla hall (angusta e buia) tanto che non ci facciamo neanche mostrare le stanze. A questo punto, dopo un veloce conciliabolo, decidiamo per il Nareem Palace determinati, però, a contrattare il prezzo. Nella hall dell’albergo facciamo le ultime chiacchiere con Shrikant di fronte ad un caffè bollente e salutiamo il nostro amico (tale è diventato negli ultimi cinque giorni) che non dimenticheremo. Lui, prima di partire, ci affida alle cure di Jagannath, il simpatico concierge dell’albergo che nei prossimi giorni stresseremo per tutto, dal prezzo della stanza, agli asciugamani non pulitissimi, dal taxi per Bhuba, alla camera da rifare. Ormai si è fatto buio e Manu decide di ritirarsi in camera sua per rilassarsi mentre noi, dopo una doccia, usciamo a fare una passeggiata lungo Chakra Thirta Rd. Ceniamo in una fantastica mini-pizzeria, la Honey Bee, “composta” da due tavolini al piano terra vicini al forno e alla cucina e da una suggestiva terrazza “open air” alla quale si accede da una scala senza balaustra e di cemento grezzo che sembra non portare da nessuna parte: non è altro che un lastrico solare con quattro tavolini di legno grezzo e sedie di plastica, ma fiocamente illuminata solo da qualche lampadina, praticamente deserta e ben arieggiata è molto rilassante. In questo stato di grazia divoriamo, letteralmente, due pizze con mozzarella, pomodoro e basilico davvero deliziose! Soddisfatti del pasto (dopo giorni e giorni di riso e cibo indiano, non ci sembra vero di poter mangiare un po’ all’occidentale..tanti storceranno il naso però è cosi…), continuiamo la nostra passeggiata ed arriviamo fino all’incantevole Chanakya BNR Hotel, il vecchissimo e primo albergo costruito a Puri dove alloggiavano i viaggiatori che arrivavano col treno da Kolkata. Il palazzo, interamente bianco, con un lunghissimo e spettacolare ballatoio con feritoie in bambù è davvero bellissimo: la hall con l’immenso scalone pieno di fotografie d’epoca che ritraggono capi di Stato, personalità politiche, attrice e attori di tutto il mondo, che qui hanno alloggiato; il ballatoio sul quale si affacciano le camere (ce ne facciamo mostrare una, grandissima e arredata in maniera spartana ma con mobili d’epoca…sublime!); il bellissimo giardino con piscina; il bar sempre arredato con mobili d’epoca. Insomma, un sogno. Il prezzo della camera è decisamente fuori dalla nostra portata, visto che al massimo arrivano a farci 4.500 Rupie a notte, prezzo che, normalmente, vorremmo pagare per due notti e mezza! Lasciamo questa isola felice passando attraverso i rigogliosi giardini e torniamo, distrutti, al nostro Nareem sicuramente meno affascinante ma comunque comodo e discretamente pulito.

8 Febbraio

Nei nostri programmi era previsto uno stop di 4 giorni a Puri per “rilassarci”. Sapevano che nemmeno qui c’erano spiagge attrezzate ma speravamo che qualche shak (leggi ristoranti sulla spiaggia con lettini e/o sedie comode) ci fosse e di trascorrere se non altro qualche pomeriggio distesi al mare senza fare nulla, sogno che però verrà presto infranto… Per adeguarci al clima di “rilassatezza” che ci eravamo imposti, ci svegliamo con calma, ci facciamo un caffè in camera che beviamo seduti sulle sedie della nostra terrazza guardando la vita del villaggio di pescatori sotto di noi che pian piano si sta svegliando e, all’orizzonte, la distesa blu del mare con le barche dei pescatori che stanno rientrando dopo una notte di lavoro. Scendiamo a fare colazione e, dopo aver contrattato il prezzo delle camere con il mitico Jagannath (spunteremo 1.900 per la doppia e 1.500 per la singola, con uno sconto più che onorevole visto che le stanze non sono affatto male), ci avviamo decisi a trovare un posto “rilassante” e a battere un po’ di agenzie di viaggio dove informarci sia sul trasporto per Konark, che vorremmo visitare in giornata, sia sul taxi per Bhubaneswar dove dobbiamo rientrare l’11 Febbraio. Prima facciamo un salto al villaggio dei pescatori e alla spiaggia prospiciente che però si rivela piena di immondizia e totalmente impraticabile anche per una semplice passeggiata, senza nemmeno l’ombra di uno shak non dico con lettini ma almeno con comode sedie sulla sabbia. A ben guardarci intorno (e soprattutto, a ben guardare la sabbia…) anche se ci fossero delle favolose poltrone, non potremmo di certo rimanere lì vista la sporcizia che ci circonda… Girovaghiamo quindi per le stradine interne del piccolo villaggio e, risbucati sulla strada, vediamo un’insegna che indica un ristorante dal nome suggestivo, Pink House, che si rivela proprio quello che cerchiamo: tanti tavolini con sedie abbastanza comode sotto a dei gazebo e un menù pieno di cibi “all’occidentale”. Subito ci accomodiamo e ci beviamo caffè e tè allo zenzero e limone, chiacchierando col rumore del mare che non si riesce a scorgere vista l’alta siepe che divide il ristorante dalla “spiaggia pattumiera”. Qui si sta davvero benissimo e mi sa proprio che ci ritorneremo. Dopo la sosta riprendiamo la passeggiata ed entriamo in un paio di agenzie per conoscere i prezzi dei taxi per Bhuba (decisamente alti) per poi dirigerci al Mayfair, l’albergo sulla spiaggia più lussuoso di Puri: vogliamo, infatti, chiedere quanto ci costa passare una giornata nella loro piscina visto che in India è usuale che gli alberghi di lusso facciano accedere alla sun area anche i non ospiti. L’albergo è molto bello con le camere che si affacciano sui giardini ben curati e la piscina è davvero incantevole, anche se totalmente vuota: prezzo 350 rupie per un giorno. Bisogna però obbligatoriamente pranzare nel ristorante dell’albergo e questo implicherebbe portarci abiti di ricambio e pagare un bel po’ di soldini visto che il ristorante è decisamente luxury. Ci penseremo. Torniamo quindi con un OTO al nostro albergo dove ci rilassiamo a letto, leggendo, chiacchierando e dormicchiando. Alle due torniamo al Pink House dove, sotto un gazebo al fresco, pranziamo con un delizioso purè di patate al formaggio, omelette e sandwich, per finire con un pancake al cioccolato diviso in tre.

A metà pomeriggio prendiamo un altro OTO per dirigerci alla vera bellezza di Puri e all’unica ragione per cui tanta gente viene qui, il favoloso Jagannath temple. Arrivati in prossimità del tempio ci immergiamo in una vera e propria bolgia di persone che vanno tutte ad onorare Jagannath, la divinità a cui il tempio è dedicato. La storia di questo dio è davvero interessante: pare che, nell’antichità, un monarca locale avesse dato incarico ad uno scultore di “inventare” delle nuove divinità, scolpendo le relative statue; l’artigiano accettò l’incarico ma chiese al re di non visionare per nessuna ragione il lavoro finchè lo stesso non fosse stato concluso; ma la curiosità vinse il signorotto che, una notte, entrò nel laboratorio dello scultore e vide tre statue incomplete, due prive di mani e una senza addirittura le braccia che colpirono immediatamente la sua attenzione; avendo però infranto il patto, lo scultore si rifiutò di portare a termine il lavoro. Ebbene, queste statue “monche”, da allora, sono diventate le divinità più amate e adorate dell’Orissa: la triade formata da Jagannath, dal fratello Balbhadra e dalla sorella Subhadra è rappresentata in maniera molto semplice, sembrano quasi dei cartoni animati, coloratissimi, monchi di braccia e mani, ma davvero unici nel panorama delle divinità hindu. Durante la festa annuale del Rath Yatra, quando Puri viene invasa dai fedeli, tre giganteschi carri, ognuno dedicato a un fratello, vengono trainati a mano dai depositi fino al tempio percorrendo chilometri lungo la larghissima strada che ora stiamo percorrendo. Ecco perchè è così vasta: il carro di Jagannath supera i 14 metri di altezza ed è dotato di 16 ruote ciascuna delle quali ha un diametro superiore ai due metri, immaginatene tre così ed avrete una idea concreta di cosa si sta parlando. Oggi non è giorno di festa ma la folla è davvero impressionante. Dopo aver dato un’occhiata alle migliaia di bancarelle che vendono offerte, statue, giocattoli e cibo (abbiamo già adocchiato tre statuette in bronzo che raffigurano la triade ed abbiamo anche provato a contrattare ma senza esito…ci riproveremo più tardi), arriviamo finalmente all’immenso tempio, anche questo vietato ai non Hindu. Su consiglio della Lonely cerchiamo la “famosa” biblioteca cittadina, dotata di terrazza che si affaccia sul tempio utilizzata dai turisti per ammirarne l’interno. Saliamo le scale conciate malino ed arriviamo al primo piano dove, in un enorme stanzone, ci sono vecchi e maltenuti scaffali pieni di polverosi libri. Subito il custode ci viene incontro e ci spiega che ci vogliono molti soldi per mantenere la biblioteca (ci chiediamo come possa parlare di manutenzione visto che tutto, qui, sembra pericolante: crepe sui muri, polvere ovunque, scaffali che sembrano chiusi da un’eternità…) e che, per salire sulla terrazza a vedere il tempio, dobbiamo fare un’offerta. Nessuno problema, lo sapevamo, e tiriamo fuori 100 rupie per tutti e tre. La faccia del bibliotecario (ma era veramente tale?) si oscura e ci dice che è troppo poco che vuole di più perchè, ripete, i costi per la manutenzione sono altissimi. Al che io gli chiedo da quanto tempo la manutenzione non viene fatta, visto che il palazzo sembra cadere in pezzi; lui rimane un po’ attonito e poi dice che per questa volta si accontenterà, che le rupie offerte sono sufficienti, e ci conduce alla terrazza dello stabile salendo per una scala senza parapetto e tutta scrostata. Da lassù la vista sul tempio è davvero incredibile e spazia su tutti i cortili interni posti dietro alle grandi mura che circondano il santuario: ammiriamo la folla di gente che, diligente, si accoda lungo le transenne e passa attraverso i metal detector sorvegliati dalla polizia; i fedeli che percorrono i corridoi dei vari padiglioni, alcuni esterni tipo ballatoi, altri che si incuneano all’interno dei vari edifici; i tabelloni luminosi sui quali scorrono scritte elettroniche che suggeriscono offerte da fare, quanti visitatori accoglie il tempio in quel momento, quanti biglietti sono ancora in vendita per accedere al tempio durante una festa che si terrà prossimamente; le due grandi torri bianche sopra le quali svetta quella principale, il sikkhara di colore più scuro alto 58 metri e con in cima la sventolante bandiera e la ruota di Vishnu; le belle mura merlate di color giallo che circondano l’intero tempio. Non possiamo continuare ad ammirare questo spettacolo incredibile poiché il custode è nel frattempo risalito e ci dice che la biblioteca sta per chiudere e che dobbiamo scendere: facciamo in fretta qualche foto con noi tre di fronte al tempio (incarniamo la moderna triade divina! I tre fratelli in carne e ossa ma, per fortuna, con braccia e mani!) e scendiamo le pericolanti scale per rituffarci in mezzo al caos della strada. Facciamo il giro completo del tempio, costeggiando le mura, e quel che ci colpisce è la quantità impressionante di carretti e botteghe che vendono dolci di ogni tipo e forma: rotoli di pasta frolla fritti e imbevuti nel miele, piccole palline colorate anch’esse fritte e ricoperte di miele, semplici schiacciate (tipo piadina), tutti impilati in grandi piatti di ferro a formare piramidi altissime. Manu ovviamente si fa tentare (impazzisce per i dolci fritti indiani) e compra un “malpuà” (una sorta di frittella schiacciata morbida, fritta e ricoperta di miele) che, secondo lei, è uno dei più buoni che abbia mai mangiato.

Ci addentriamo quindi negli stretti vicoli della città vecchia, molto caratteristici, affollati di gente e di botteghe (anche qui la maggior parte sono di dolci) ed arriviamo alla bellissima cisterna d’acqua, il bacino posto vicino ad ogni tempio Hindu che si rispetti ma, in questo caso, ben nascosta in mezzo agli edifici della città vecchia. E’ buio ma la vasca è ben illuminata così ci sediamo sugli scalini ad osservare gruppi di pellegrini che fanno le abluzioni immergendosi nell’acqua sacra (ognuna di queste vasche pare sia alimentata con acqua del Gange…visto che si trovano praticamente in tutta l’India è difficile crederlo però di questo sono convinti i devoti). Torniamo quindi sui nostri passi e sulla strada principale dove lanciamo Manu (letteralmente) all’interno di una bottega per contrattare le famose statue della triade, vista la sua famosa fama (non molla mai ed è capace di rimanere interi quarti d’ora a discutere per abbassare il prezzo…una vera e propria indiana!). La nostra amica, dotata di un bastone colorato acquistato in un’altra bancarella che, quasi minacciosamente, agita davanti a se, spiega al venditore quelle che sono le nostre finanze e quel che possiamo spendere. Dopo quasi mezzora, otterrà per noi uno sconto anche se non altissimo, e ci porteremo via due set di statue a 1.800 rupie (un altro negozio ci aveva chiesto 2200 a set!). Contrattiamo con un autista di OTO la cifra per farci riportare in albergo visto che siamo sfiniti ed è sera e mentre percorriamo le buie strade di Puri, Manu si accorge di non aver più il suo souvenir, il bastone colorato che aveva acquistato poco prima e che aveva utilizzato come “arma” per la contrattazione. Probabilmente lo ha lasciato da qualche parte… dispiaciuta non tanto per il valore in se (era stato pagato 10 rupie) ma per un qualcosa che era destinato ad arricchire la sua già immensa collezione di pezzi raccolti durante i precedenti viaggi, si rassegna a doverne comprare un altro magari la prossima volta che passeremo dal tempio. Manu non intende uscire ma andare direttamente a letto (non cena quasi mai), noi due invece ci facciamo una doccia e torniamo all’Honey Bee: la pizza ci era davvero piaciuta tanto e cenare sulla bella terrazza è davvero rilassante. Facciamo quindi il bis di pizza margherita, poi una bella passeggiata, cambiamo un po’ di Euro in rupie (il cambio a Puri non è buono…ci sono parecchie agenzie di cambio ma sono tutte standardizzate e fanno cartello, per cui il cambio che vi dirà il primo sarò lo stesso per quelli a seguire…ma senza rupie non si può stare e quindi accettiamo un importo al di sotto del tasso ufficiale, con grande incazzatura di Ste!), infine, crolliamo distrutti sul nostro gigantesco letto della super-deluxe room del Nareem.

9 Febbraio

Dopo colazione andiamo con un OTO fino alla stazione dei bus dove, in mezzo alla folla, cerchiamo quello diretto a Konark: oggi, infatti, vedremo finalmente la super-attrazione dell’Orissa, il magnifico tempio del sole. Il bus è vecchio, stretto e molto affollato ma, fortunatamente, trovo posto vicino a un finestrino così mi posso godere il paesaggio. Appena usciti da Puri la strada diventa molto bella, con paesaggi verdissimi e, quando arriviamo in prossimità della costa, ci addentriamo in una rigogliosa pineta che va dalla strada fino al mare. La nota negativa è che il fitto boschetto è praticamente invaso da immondizie: piatti e bottiglie di plastica, cartacce, sacchetti e via di seguito. Evidentemente la zona viene usata per i pranzi all’aperto e la gente, piuttosto che portarsi i rifiuti a casa, preferisce lasciarli lì… Come si sa, l’immondizia in India è un problema molto serio ma è comunque un peccato vedere un paesaggio così bello deturpato in questa maniera anche se, dopo tante volte in India, ci sono un po’ abituato. Arriviamo a Konark dopo mezz’ora di viaggio e imbocchiamo a piedi la strada che porta al tempio, come al solito invasa dalle bancarelle (qui però niente statue, con grande sollievo di Manu che non deve contrattare per noi!). Alcune vendono frutta secca, soprattutto anacardi stipati in grandi sacchi: poiché ne siamo ghiotti (quelli di Goa sono famosissimi e buonissimi) ne compriamo un paio di sacchetti che sgranocchiamo durante la passeggiata. Arrivati di fronte al tempio facciamo i biglietti (il sito è patrimonio Unesco e quindi si deve pagare: 250 rupie gli stranieri e 10 rupie gli indiani) ma al momento di entrare una gruppo di persone esagitate esce di corsa dal tempio quasi travolgendoci: i militari di guardia bloccano l’ingresso e ci spiegano che c’è un grande nido di calabroni nel tempio che deve essere stato stuzzicato da qualcuno con conseguente fuoriuscita di centinaia di insetti furiosi. Avere un nido di calabroni o di vespe qui in Orissa è considerato un portafortuna e distruggerlo è impensabile a meno che non si vogliano attirare le ire degli dei, quindi se uno se lo ritrova in casa deve imparare a conviverci. Aspettiamo per un quarto d’ora che la situazione si tranquillizzi e finalmente la polizia ci dà il via libera per entrare. Il tempio è davvero bello come raccontano le guide e le fotografie viste sul web: edificato nel XIII secolo pensando al carro cosmico del dio del sole è costituito da un immenso blocco di pietra finemente cesellato, pieno di statue scolpite nelle migliaia di nicchie, che poggia su 24 ruote anch’esse tutte intagliate e “trainato” da un gruppo di 7 cavalli impennati decorati all’inverosimile. Visto da lontano dà proprio l’immagine di un immenso carro che viene trainato. Pieno di simbologie (i cavalli rappresentano i giorni della settimana, le ruote le ore del giorno, la posizione del santuario posto sopra il carro è orientata in modo tale da far penetrare il sole all’alba) e di dettagli così minuziosi da sembrare finti, il tempio ci conquista fin da subito e trascorriamo molto tempo a compiere il giro completo facendo foto, ammirando le famose scene erotiche intagliate nella pietra (praticamente è un kamasutra su pietra), ma soprattutto le gigantesche ruote con i “raggi” che sembrano quasi raccontare delle storie. Certo, col senno di poi forse sarebbe meglio avere una guida (all’ingresso un paio di guide autorizzate ci aveva abbordato, ma abbiamo declinato il loro invito…) per spiegare tutti i dettagli del tempio, quindi se ci doveste andare, magari pensateci. Arrivati sul retro del tempio ci riposiamo su alte panchine di ferro poste sotto un gigantesco albero di mango: oggi fa parecchio caldo e stare sotto il sole non è il massimo. Il posto è strapieno di locali e più di qualcuno di loro ci chiede di fare delle foto insieme, richiesta alla quale noi non sappiamo dire di no. Dopo aver completato il giro ed aver ammirato anche gli edifici e le statue minori poste ai lati (bellissimi i due elefanti a guardia sul lato nord, intagliati nell’atto di calpestare dei soldati), lasciamo il tempio del sole e, vista l’afa, ci rifugiamo nel desolatissimo ristorante Getanjali, gestito dall’OTDC (l’ente del turismo Odishano) e praticamente in stato di quasi abbandono, oltrechè totalmente deserto. E’ un peccato perchè la struttura, inserita in un bel giardino anche se non troppo curato, potrebbe davvero essere sfruttata meglio. Dopo un pakora paneer, chips e un buon caffè bevuto all’esterno del ristorante sotto un ombrellone sbrindellato, andiamo verso il bus stand per tornare a Puri. Il mezzo, stavolta, è semi vuoto e quindi il viaggio molto più piacevole e rilassante anche grazie al mare che si vede dal finestrino (prima di arrivare alla pineta dei rifiuti!). Arriviamo a Puri verso le quattro del pomeriggio e decidiamo di tornare al Jagannath Mandir per immergerci nuovamente tra la folla di fedeli. Ripassando al negozietto dove abbiamo acquistato le statue proviamo a chiedere se per caso hanno trovato il famoso “bastone” che Manu ieri sera aveva dimenticato. Come per miracolo, il proprietario…lo tira fuori da sotto i cuscini! L’aveva conservato e lo restituisce ad una sorridente e meravigliata Manu che esclama “L’India ti dà così tanto…queste cose possono succedere solo qui!”. In effetti ha ragione anche se, a volte, amare questa terra con tutti i suoi difetti risulta davvero difficile. Dopo aver fatto una bella e lunga passeggiata, aver mangiato un altro malpuà e aver comprato per 100 rupie un fantastico pupazzo in gomma piuma a forma di Ganesh (che Jagannath il concierge mi invidierà più tardi!) riprendiamo un OTO, stavolta col motore elettrico (pare sia un progetto dell’amministrazione per ridurre l’inquinamento) per tornare in albergo. Poiché siamo tutti stanchissimi, usciamo solo per smangiucchiare una pizzetta al solito Honey Bee (si, lo so, siamo noiosi…ma siamo stanchi di riso…e la pizza qui è davvero buona!) e poi a letto.

10 Febbraio

La giornata di oggi, l’ultima a Puri, sarà dedicata al relax e quindi non abbiamo programmi particolari. Abbiamo rinunciato alla piscina del Mayfair e preferiamo dedicarci all’ozio più totale e magari, verso tardo pomeriggio, faremo un salto a Marine Parade, la grande e lunghissima spiaggia di Puri. Per colazione ordino la mia solita omelette e, quando arriva, mi accorgo che l’uovo non è proprio cotto benissimo: mangio, quindi, solo il bordo evitando il centro, poco cotto. Dettaglio, questo, che dopo qualche ora non mi sembrerà poi così trascurabile… Dopo colazione ci trasferiamo direttamente al Pink House dove prendiamo posto sotto il nostro gazebo con libri, sigarette e caffè e trascorriamo le ore successive nella tranquillità più totale. Oggi fa anche parecchio caldo ed è molto piacevole stare senza far niente come i cani che, poco lontano da noi, dormono rannicchiati sotto l’ombra degli alberi. Dopo pranzo torniamo in camera per una pennica, riesco a dormire una mezzoretta e quando mi sveglio… non mi sento bene: pesantezza di stomaco, un po’ di nausea, giramenti di testa. Attribuisco tutto alla stanchezza ed al caldo e spedisco Ste a fare un giro con Manu per starmene tranquillo. Quando tornano verso le sei sto così così non proprio benissimo ma un po’ meglio per cui, con il mio solito entusiasmo, propongo di andare a farci un giro a Marine Parade. Prendiamo un OTO che ci fa scendere proprio all’inizio della lunga e stranamente pulita spiaggia, affollata di locali che passeggiano mangiando un gelato, facendo volare aquiloni, comprando zucchero filato in una delle tante bancarelle lungo la strada. Cerchiamo una farmacia e visto che ho di nuovo nausea, mi faccio dare delle pastiglie per digerire, una roba effervescente e di un arancione quasi fastidioso che ingoio in mezza bottiglietta d’acqua. Un po’ arrancando, continuo a passeggiare cercando di non dare retta ai segnali che lancia il mio corpo. Arriviamo di fronte allo spettacolare Fort Mahodani, altro heritage hotel risalente all’epoca britannica. Se il BNR Hotel è tutto bianco, il Fort Mahodani è dipinto di rosso scuro e giallo e molto meno lussuoso ma sicuramente affascinante. Il concierge ci porta a visitare prima il bel ristorante sulla terrazza del primo piano e poi l’incredibile bar con arredi d’epoca (e oserei dire anche “bottiglie” d’epoca, vista la polvere che ricopre praticamente gli scaffali a specchio). L’unica bruttura di tutto l’hotel sono i bungalow in legno prefabbricati appoggiati direttamente…sulla terrazza! Ma io dico, come si fa a rovinare un posto così pieno di storia e di fascino con una roba del genere? Tre casette di legno stile “capanno degli attrezzi” semplicemente appoggiati su un lastrico solare! Solo gli indiani possono arrivare a tanto, solo gli indiani! Non so se ho pensato a tutto questo, quando l’ho visto, so solo che ho dovuto sedermi in una poltroncina del british bar, non tanto per lo sgorbio quanto perchè ondate di nausea mi salgono dallo stomaco, mi gira la testa e faccio fatica a stare in piedi. Cerco di riprendermi, accompagno Manu e Ste a mangiare un gelatino (la sola vista mi fa salire i succhi gastrici…) ma oltre non vado e così decidiamo di tornare in albergo con un autista di OTO che corre come un pazzo (ma non sto mica morendo!!!). Il resto della sera (e della notte) ve lo risparmio…diciamo solo che ho buttato fuori tutto quel che c’era da buttare…quel maledetto uovo crudo che ho mangiato stamattina aveva qualcosa che non andava… eh sì… decisamente.

11 Febbraio

Mi sveglio all’alba e mi bevo una limonata caldissima, anche se devo dire che va molto meglio di ieri pur essendo ancora un po’ sottosopra. Per colazione mi accontento di un tè ed è già ora di impacchettare le valigie e caricarle sulla lussuosa auto con i sedili ricoperti da asciugamani (!) che per 1.500 rupie ci riporterà a Bhubaneswar. Ma la nostra avventura Odishana non è ancora finita visto che nel “pacchetto” trasporto abbiamo contrattato anche due stop. Il primo lo facciamo a Pipli, un piccolo paesino dove vengono fabbricati dagli artigiani ombrelli e lampade in tela e specchietti, tipici souvenir acquistati dai locali. Nulla di che, una serie di negozi tutti uguali lungo la strada principale che vende questi articoli scadenti, di brutta fattura, e assolutamente incomprabili. Si può tranquillamente evitare anche di passare per questo che la Lonely, con troppo ottimismo, dipinge come un “borgo degli artigiani”. Riprendiamo il back-trip e con il nostro autista totalmente muto (non ha spiccicato parola per tutto il viaggio) cerchiamo la strada per Hirapur, dove si trova lo Yogini Temple, un piccolo santuario quasi unico nel suo genere (ne esistono solo 4 in tutta l’India). Ci fermiamo di fronte ad un grande lago ed accediamo ai minuscoli giardini ben curati del tempio che si erge esattamente in centro: di forma circolare, senza tetto, passando sotto un architrave bassissimo si arriva nel cuore del tempietto circondato da 64 nicchie che contengono altrettante statue in clorite nera. Un brahmino sta celebrando un rito e ci soffermiamo per qualche minuto, nel silenzio più totale, ad ammirare i suoi gesti. Lasciamo l’ultima attrazione Odishana con un po’ di tristezza e nostalgia e trascorriamo gli ultimi chilometri che ci separano da Bhuba in totale silenzio. Arriviamo al Mango (che sollievo dormire in un letto comodo, pulito, profumato, soffice e bianco!) dove anche Manu ha deciso di fermarsi per la notte (si regala una coccola, come dice lei) e veniamo accolti con sorrisi dallo staff. Manu e Ste decidono di fare un salto al Lingaraj Temple io invece mi sento ancora molto debole e dopo una doccia bollente mi ficco sotto le coperte e tra un po’ di lettura e un sonno non proprio profondo ma ristoratore, scende la sera e tornano i mie compagni di viaggio. Non resta altro tempo che fare una breve passeggiata lungo Cuttak Road, qualche chiacchiera con Manu che domani mattina presto ripartirà per Goa, un paio di messaggi ai nostri cari a casa e impacchettare i bagagli visto che il nostro treno, domani, ci riporterà a Kolkata.

Doppio ritorno a casa

Kolkata – Venezia – 12/14 Febbraio

12 Febbraio

Stamattina mi sento meglio e quindi mi concedo una colazione non proprio abbondante ma un po’ più “solida”, approfittando anche dei croissant che sono comparsi sul buffet del Mango (non smetterò mai di ringraziare questo albergo per le continue coccole che ci ha regalato). Dopo aver salutato i ragazzi dello staff, ci incamminiamo con trolley al seguito verso la stazione dove passiamo la prossima ora con un po’ di ansia visto che il nostro treno non viene annunciato se non a cinque minuti dalla partenza, treno del quale, a quanto pare, nessuno conosceva orario, binario e composizione. Quando arriva l’Hyderabad-Kolkata express, troviamo la nostra carrozza e le nostre cuccette (niente sedili reclinabili, niente treno pulito, niente sollievo per questo nostro ultimo pezzo di viaggio). L’impiegato del treno ci consegna cuscini, federe e lenzuola che sistemiamo sulle cuccette: pur essendo giorno, l’avere i due posti, sopra e sotto, vicino al finestrino è un vantaggio perchè puoi startene disteso senza dover per forza alzare il sedile per far sedere altre persone. Trascorriamo le sette ore di viaggio dormicchiando, ascoltando musica, mangiucchiando il pasto compreso nel prezzo del biglietto (sostanzialmente riso e dahl….). Dalla mia cuccetta inferiore ammiro il bel paesaggio che scorre dietro il finestrino, le bestioline che percorrono la parete vicinissima alla mia testa (che nostalgia del treno dell’andata!), la varia umanità che popola il vagone: chi mangia in continuazione, chi chiacchiera, chi dorme con i piedi non esattamente lindi che sporgono dalla cuccetta, un’anziana che avrà fatto una cinquantina di passeggiate avanti e indietro urtandomi ogni volta (il mio posto è vicino alla porta di fine vagone). Dopo il pasto servito dagli addetti, il pavimento della carrozza diventa una sorta di gigantesca pattumiera visto che i viaggiatori non si tengono sulle ginocchia il vassoietto in attesa che venga ritirato ma lo poggiano per terra, rovesciando salse e intingoli vari con tutto quel che ne consegue.

Alle quattro e mezza il treno entra finalmente alla Howrah Station e ci ritroviamo catapultati nel grande caos di Kolkata. Prendiamo un prepaid taxi per la guesthouse e rivediamo le strade che due settimane prima abbiamo percorso in lungo e in largo. Ad accoglierci alla NextGen ci sono Anup e Tuhin che ci assegnano una stanza al primo piano molto più grande di quella che avevamo anche se un po’ troppo ingombra di mobili totalmente inutili (a cosa possono servire…TRE armadi?). Dopo una bella doccia (e in questo caso ci voleva proprio, post treno-pattumiera) andiamo a Lake Town, dove ritroviamo la Lady dei fiori, il mitico babu-babu accovacciato per terra che chiede l’elemosina sul ponte pedonale (salvo alzarsi scattante e perfettamente in forma quando finisce il turno alle nove di sera! Visto con i miei occhi!), il “capo dei tassisti”: sembra quasi di essere tornati a casa! Ci fermiamo di fronte ad un banchetto improvvisato ai bordi della trafficata rotonda che vende…”articoli per San Valentino”: cuori, orsetti, mazzi di fiori finti, tutto rigorosamente di colore rosso vivo. Non posso fare a meno di comprare un altro piccolo orso scarlatto destinato ad arricchire la mia collezione, con grande entusiasmo delle ragazze che gestiscono la bancarella. Visto che siamo praticamente a digiuno da stamattina ci facciamo prima una pizza al Domino (si…pizza…ancora pizza…non ci stancheremo mai!) e poi un gelato dai nostri amici dell’Icy Fusion che subito ci riconoscono e ci chiedono come è andato il nostro viaggio Odishano. Ma è ora di tornare in guesthouse: domani è giorno di partenza e dobbiamo sistemare per bene i bagagli per il lungo viaggio fino in Italia.

13/14 Febbraio

Sveglia alle sette per fare colazione con Ste che, poco dopo, prende un taxi per andare all’aeroporto dove lo attende il volo per Goa, una notte a Vasco da Gama e un aereo per l’Italia via Parigi il giorno successivo all’alba. Io invece, che ho il mio volo Emirates alle otto di stasera, chiedo ai ragazzi della gh se possono lasciarmi la camera fino alle cinque del pomeriggio: nessun problema, posso rimanere finchè ne avrò voglia, un late check-out che ho molto apprezzato.

Trascorro la mia mattinata a dormicchiare e a leggere, poi faccio una lunga passeggiata a Lake Town e alle quattro e mezza carico le mie valigie sul taxi, saluto i ragazzi della gh e via in aeroporto (il percorso dura mezzora e pago 160 rupie…quello di Ste, fatto qualche ora prima, ha avuto la stessa durata ma il costo è salito a 250 rupie! Misteri dei tassisti di Kolkata!). Il viaggio di ritorno è stato lungo, soprattutto per le quasi 10 ore trascorse all’aeroporto di Dubai: normalmente Emirates dà gratuitamente, per chi ha più di otto ore di coincidenza, una camera in un hotel ma nel mio caso mi era stato detto che avevo pagato troppo poco il biglietto, prendendo la classe più bassa, e quindi non ne avevo diritto! Arrivo a Dubai a mezzanotte e un quarto e dopo un veloce giro tra i mille negozi mi approprio di una siege-longue in un angolo discretamente buio e silenzioso dell’aeroporto e non mi muovo da lì fino alle sette di mattina (riuscendo anche a dormicchiare) quando vado al Costa Caffè per fare colazione sfruttando il voucher che gentilmente mi ha regalato Emirates (niente albergo ma si a un buono pasto!). Alle 9.40 di mattina, totalmente sfinito, prendo posto sulla mia poltrona in classe economica del volo per Venezia, mi guardo qualche film, mangio un pasto all’occidentale (finalmente! Non ne potevo più di cucina indiana…eccetto la pizza!) e alle tre del pomeriggio finalmente tocco il suolo italiano. Il tempo di tornare a casa, farmi una doccia, sistemare il caos che ho in valigia e riposarmi un po’ e si son fatte già le dieci: devo prendere la macchina e tornare in aeroporto a prendere Ste che arriva da Parigi con il volo AirFrance. Lo scarico a casa e poi, finalmente, mi approprio del mio letto dopo tante notti incredibili passate in terra indiana.

Epilogo

Le considerazioni da fare, alla fine di questo viaggio, sarebbero tantissime, ma non voglio annoiare. Innanzitutto Kolkata non è la città che spesso viene descritta in libri, reportage o film: l’ho trovata molto più pulita e libera da mendicanti di tanti altri posti in India. Una settimana in città ci sta tutta, anzi, forse un paio di giorni in più non sarebbero guastati viste anche le grandi distanze che bisogna percorrere per andare da un quartiere all’altro. Armatevi di pazienza con il traffico (potreste trascorrere anche due o più ore per andare da una parte all’altra della città) e, soprattutto, con i tassisti. Non ascoltate tutti quelli che dicono “Fate mettere il tassametro”: si, glielo potete chiedere, ma se vi dicono di no non c’è verso e anche se ve lo mettono vi fanno fare il giro dell’oca per farvi pagare di più. La cosa migliore è capire, più o meno, quanto vi costano le corse e contrattare in anticipo, così non avrete sorprese.

Piuttosto che avere un albergo o guesthouse nel centro caotico della città, scegliete un quartiere tranquillo, anche perchè comunque le cose da vedere sono dislocate in parti diverse della città che dovrete per forza raggiungere in taxi: per noi è stato fondamentale tornare ogni sera in un luogo silenzioso e senza confusione. Evitate la metropolitana, non provateci nemmeno: il costo è davvero irrisorio ma ne pagherete le conseguenze. Per quanto riguarda l’Orissa, sicuramente è uno stato che vale la pena di essere visitato ma non aspettatevi né comodità, né un po’ di relax. Le condizioni igieniche non sono buone, soprattutto nelle città. Ma con un po’ di attenzione ce la si fa. Assolutamente da non mancare un giro nelle zone tribali: la vera Orissa è qui. Puri e Bhubaneswar da visitare sicuramente con i templi immensi e affollati di gente. Konark vale la visita anche se sinceramente mi aspettavo qualcosa di più in termini di atmosfera e clima. Gopalpur si può anche saltare mentre il Chilika Lake vale uno stop di un paio d’ore. Siate molto accorti nello scegliere la sistemazione: qui vale la pena di pagare un po’ di più per avere una camera buona anche se la contrattazione è assolutamente d’obbligo, come d’altronde in tutta l’India. Riuscirete a spuntare, con un po’ di pazienza, anche un 50% di sconto (ovviamente non nei periodi in cui le città sono invase da gente per le grandi feste). Fate attenzione alle mille cacche di mucca che ricoprono le strade: ho passato intere sere a lavare le mie scarpe e non è passato giorno senza che ci cadessi (letteralmente) dentro. Gennaio e Febbraio sono i mesi ideali, addirittura a Kolkata può fare freschetto (i primi tre giorni ho girato, soprattutto di mattina e di sera, con il piumino leggero), ma il clima è ottimo e senza pioggia.

Voglio infine ringraziare Stefano, compagno di tanti viaggi in giro per il mondo e con il quale ho condiviso avventure bellissime (e qualche rarissima volta orrende!): anche stavolta ce l’abbiamo fatta, nonostante le bestemmie, nonostante gli scatti d’ira con i tassisti, nonostante le camere d’albergo indian style, nonostante il treno-pattumiera! E ringraziare anche Manu, amica da una vita ma per la prima volta in viaggio insieme: abbiamo diversità di vedute sull’India e sugli Indiani, ma questo non ci ha impedito di vivere un’avventura che ricorderemo, ognuno con i propri tempi, i propri spazi, le proprie manie e abitudini.

Un’ultima considerazione su questa terra incredibile: l’India, come ho già detto in altri miei diari, o ti travolge completamente o la odi. Io ho sempre fatto parte della prima categoria. Anche se però devo dire che questo viaggio è stato, pur se bellissimo, molto difficoltoso e impegnativo. Di certo l’Orissa non è uno degli stati più semplici da visitare, offre sistemazioni di basso livello e non è sempre agevole da girare. Quindi, personalmente, lo consiglio a chi ha già una certa esperienza. Certo, da casa tutto assume un altro aspetto e scrivendo questo diario ho rivissuto con occhi diversi quella che lì, magari, mi è sembrata una cosa catastrofica. Ma viaggiare è sempre e comunque arricchente e appagante, anche se un viaggio è difficile. Ora mi aspetta il Sudafrica e vi saprò dire come andrà!

Al prossimo diario e come al solito per qualsiasi informazione, scrivetemi.

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Victoria Memorial - Kolkata



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