Diario di Viaggio: Lago d’Aral, Uzbekistan

Viaggio in Uzbekistan, Asia centrale, lungo la cosiddetta Via della Seta, verso le terre dell'ex Lago d'Aral. Alla scoperta dei campi di cotone, lungo la strada da Xiva al "cimitero delle barche" dove imbarcazioni abbandonate restano, da anni, adagiate nel deserto di sabbia dove, un tempo, c'erano le acque del lago. Testimonianza di uno dei...
Scritto da: Monica Genovese
diario di viaggio: lago d'aral, uzbekistan
Partenza il: 17/08/2009
Ritorno il: 01/09/2009
Viaggiatori: 4
Spesa: 2000 €
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Siamo in quattro. Una coppia di neo sposi, Monica, campana, Riccardo, piemontese e due amici, Marco, lombardo, e Miro, toscano. Siamo stretti in una vettura a nolo dall’aspetto fatiscente, il cruscotto velato da una coperta di lana di pecora, un improbabile decoro nell’abitacolo e il climatizzatore funzionante, ma rigorosamente spento per risparmiare. Il nostro autista, proprio non ne vuol sapere di accenderlo. Ci dice, in uno stentato inglese mimico, che rallenterebbe la corsa e lui ha fretta. Oggi, per noi, deve compiere quasi 900 chilometri in una giornata, tra andata e ritorno. Partiamo alle 6 del mattino dalla splendida città di Khiva con i suoi minareti azzurri dove prevediamo di tornare stasera verso il tramonto. L’aria è già calda in questa estate che, invece secondo i locali, è abbastanza fresca. Le strade sono scorrevoli e in buono stato, vecchio ricordo del regime sovietico. Ci troviamo in Uzbekistan, Asia centrale, stato indipendente dalla Russia solo da pochi anni, lungo la mitica e suggestiva Via della Seta ai confini con Afghanistan, Turkmenistan, Tajikistan, Kazakistan. Ci decidiamo a visitare ciò che resta di un grande, imponente lago, noto oggi per il disastro ambientale, di enormi dimensioni, che lo vede tristemente protagonista. Perché questa scelta? Perché vogliamo sapere, conoscere, testimoniare. Un viaggio è anche questo, almeno per noi. Il tragitto fino al cosiddetto “cimitero delle barche” è lungo, stancante e necessita di alcune soste. La prima per fare colazione. Ovviamente, non ci aspettiamo cappuccino e brioches, quindi sappiamo che, nella migliore delle ipotesi, si beve una sorta di caffè liofilizzato macchiato da un altrettanto liofilizzato latte. Il sapore è unico e, fortunatamente irripetibile. Ad accompagnare il tutto qualche uova al tegamino, solo il tegame è di un inquietante colore nero, ma anche questo fa viaggio. Strada facendo, il nostro autista, dalla vista acuta, si accorge che, a bordo strada, c’è un uccello, grande e bello grasso, che qualche incauto guidatore ha investito. Ci fermiamo. L’animale è morto da poco, sentenzia l’autista che ne osserva gli occhi. Apre il portabagagli della vettura e deposita la carcassa all’interno. Un’ottima cena per la serata. Lo capiamo dalla sua mimica. Riprende il viaggio. Attraversiamo un ponte di barche, ovvero un ponte che si poggia su una fila di barche, da un lato e altrettante imbarcazioni all’altro. E’ po’ instabile, bisogna esse prudenti e guidare lentamente. Ore e ore di viaggio sotto il sole inclemente. Poi, finalmente la meta. Arriviamo. L’Aral era il quarto lago più vasto al mondo. Dalle descrizioni di quanti ancora lo ricordano, pare avesse acque limpide, spiagge incontaminate, fauna abbondante e persino una rete di traghetti passeggeri. Aral. Un nome che risuona in questa sorta di deserto uzbeko. Aral, o meglio ciò che ne resta. Alla frontiera con il Kazakistan, l’Uzbekistan accoglie il lago salato d’Aral. Di origine oceanica, è definito da sempre “mare” per la presenza di due immissari, ma è sprovvisto di emissari che fungano da collegamento oceanico. Un tempo faceva parte di un vasto specchio d’acqua che comprendeva il mar Mediterraneo e il Caspio. Se in passato vantava il primato di estensione, oggi purtroppo ne vanta un altro. Quello di rappresentare uno dei maggiori disastri ambientali della Terra. Un disastro perpetrato negli anni e pianificato, “a tavolino”, dall’uomo. Oggi l’Aral praticamente non esiste più. Per raggiungerlo non servono imbarcazioni. Si va in auto e si può camminare sulla sabbia, laddove fino a pochi anni fa c’erano le sue acque, sentendo scricchiolare sotto i piedi i gusci delle conchiglie. L’intera zona viveva dell’economia legata al lago, in particolare Moynaq, florido centro uzbeco di attività legate alla pesca e attivo porto come Aralsk, in Kazakistan. Il benvenuto a Moynaq, sull’istmo che collegava la penisola Ush Say alla terraferma, è offerto da un cartello stradale che raffigura un pesce, un tempo simbolo del florido commercio ittico della località. Il prosciugamento dell’Aral è stato pianificato dalle autorità russe prima dell’indipendenza dell’Uzbekistan (avvenuta nel 1991) e ottenuto deviando i due immissari del lago. Obiettivo: creare nuovi campi di cotone in zone desertiche e coltivare riso trasformando il lago in un vero e proprio acquitrino. Ma l’Aral si prosciuga molto in fretta. IL DECLINO DELL’ARAL La storia inizia negli anni Cinquanta quando il lago raggiungeva 400 chilometri di lunghezza e quasi 300 di larghezza, per una superficie totale di 66 mila chilometri quadrati. I suoi due immissari, i fiumi Syr-Darya e Amu-Darya, gli fornivano mediamente 55 chilometri cubi di acqua all’anno. Dal 1960 in avanti, l’intervento sovietico ha “chiuso i rubinetti” prelevando 90 chilometri cubi di acqua annualmente per l’irrigazione delle piantagioni di cotone. Negli anni Ottanta il flusso annuo delle acque immissarie verso l’Aral è calato ulteriormente, riducendosi a meno di un decimo rispetto agli anni Cinquanta. Certo, la produzione di cotone si è sviluppata molto, ma a un prezzo elevatissimo per l’ecosistema. Tra il 1966 e il 1993 il lago si è ritirato perdendo oltre 16 metri di livello: un abbassamento impressionante. Le spiagge meridionali hanno subito un arretramento di 80 chilometri, lasciando posto al deserto. La popolazione locale, circa sessantamila persone tra i due Stati coinvolti, ha iniziato un vero e proprio esodo in cerca di lavoro, portandosi dietro il solo ricordo delle ventimila tonnellate di pesce che si pescavano annualmente. Adesso che l’Aral è solo una pallida ombra di quel che era restano, al suo posto, due laghi, uno piccolo settentrionale e uno più grande meridionale: la divisione è avvenuta nel 1987. Addentrandosi a Moynaq si scorgono solo fabbriche ittiche abbandonate, case e capanne fatiscenti, qualche edificio amministrativo e la scuola. Davanti al palazzo del governo, su un piedistallo approssimativo, qualcuno ha posto una vecchia barca da pesca in rovina, a testimoniare lo scempio. Al di là della strada principale e lontano dalle abitazioni, è possibile visitare il cimitero delle barche arenate. Da una collina, su cui si erge un monumento alla tragedia e da cui si godeva la vista del lago, si presenta dinanzi agli occhi uno spettacolo raccapricciante. I pescherecci della flotta di Moynaq giacciono arrugginiti su piccole dune nel deserto. Sembrano caduti dal cielo e finiti lì per caso, quasi come se, durante la navigazione, all’improvviso si fossero trovati in un’altra dimensione senza una goccia d’acqua. L’atmosfera è spettrale. Intrisa di silenzio. Quel genere di silenzio che fa rumore. Quasi come un’eco sottile e acuta che sembra provenire da ogni luogo e perdersi in lontananza. Carcasse di imbarcazioni sotto l’estivo sole cocente. Fantasmi che vogliono narrare, silenti, la loro storia. Qui non c’è più niente, sembrano dire, e a testimoniarlo sono anche i pochi ragazzi che vivono a Moynaq. Figli del disastro ambientale. La popolazione è in costante diminuzione (ottomila persone) e solo i migliori studenti, magari quelli inclini a imparare le lingue, possono andare a studiare a Tashkent, capitale uzbeca, ben distante da qui. Alcuni giovani parlano inglese e, pazientemente, aspettano qualche viaggiatore che, intenzionato a vedere con i propri occhi l’Aral, si reca sul posto, così da scambiare qualche parola e chiedere com’è il mondo al di fuori di Moynaq. Nel nulla di Moynaq resta però ancora una speranza: l’idea che l’Aral settentrionale, a oltre cento chilometri dalla città, possa aumentare il suo livello d’acqua, come sembra stia facendo grazie a tentavi di recupero internazionali. La cooperazione mondiale sta infatti progettando il miglioramento di almeno parte del lago prevedendo, entro il 2025, di raggiungere l’equilibrio su una superficie di 3.500 chilometri quadrati. Per ritrovare una parvenza di normalità il lago nord avrebbe bisogno dell’apporto idrico dei suoi immissari in maniera esclusiva, interrompendo l’irrigazione indotta dei terreni per qualche anno, almeno, con inevitabili modifiche all’economia del Paese. Nessuna possibilità, invece, per il lago sud, scollegato tramite una diga da quello nord per evitare a quest’ultimo ulteriori perdite idriche. Nonostante gli sforzi, la sentenza di condanna all’ecosistema è stata emessa e l’Aral non tornerà mai più quello di una volta. A tutto questo si aggiunge un altro duro colpo. L’isola lacustre Vozrozhdenia, ora terraferma a causa del prosciugamento dell’Aral, abbandonata nel 1992, ex sede del poligono militare sovietico, ha rappresentato a lungo il luogo dove, in nome della guerra biologica, sono stati testati i virus dell’antrace e della peste. Fortunatamente nel 2002, quando ormai era facilmente raggiungibile dalla strada, è stata bonificata. Ma le conseguenze di tutta questa situazione sono anche altre. LE CONSEGUENZE DEL DISASTRO AMBIENTALE Le temperature estive sono aumentate notevolmente, il numero dei giorni di pioggia è calato, l’aria è più arida, secca, intrisa di salsedine. Sabbia e polvere, trasportati dal vento per chilometri, provocano problemi alle vie respiratorie, tumori alla gola e all’esofago. La carenza di acqua potabile causa dissenteria, tifo ed epatite. Delle 173 specie animali insediate originariamente nel sito ne sono rimaste 38. Flora e fauna sono ormai inesistenti. L’isola di Barsakelmes, eloquentemente definita il “luogo del non ritorno”, era una riserva naturale per l’antilope saiga e per l’onagro selvatico, molto raro. Oggi è invivibile per chiunque. Questo, per la gente del posto, è il deserto di sabbie bianche. Bianche come il sale un tempo disciolto nell’Aral. KHIVA, LA CITTA’ D’ARGENTO L’ex Unione Sovietica l’ha resa un museo a cielo aperto e così si presenta oggi. Ricca di suggestioni azzurre e turchesi nel centro storico. Una gemma asiatica sotto la luce lunare. Nel XIX secolo il suo stesso nome incuteva timore. E’ meta di carovane di schiavi e teatro di atti barbarici. Circondata dalla inclemente steppa e da deserti rocciosi abitati solo da tribù selvagge e predatrici. E’ Khiva, in usbeko Xiva. Città centroasiatica nello stato dell’Uzbekistan, confinante, tra i vari Paesi, con l’Afghanistan, oggi accogliente e suggestiva, avvolta da frutteti e da campi di cotone, la cui coltivazione forzata è voluta dai sovietici, durante gli anni del governo di Mosca. Il suo millenario fascino è ben conservato all’interno della mura, dove si trova il centro storico cittadino che esprime tutta la sua bellezza e la sua grandiosità negli edifici, soprattutto nel minareto turchese. Un vero omaggio allo sguardo del viaggiatore. Il clima di questa regione è decisamente freddo d’inverno e assolutamente torrido d’estate. La calura, di solito, inizia ad essere insopportabile verso il mese di giugno, ma agosto e settembre non sono da meno con i loro quasi quaranta gradi. Khiva, per volontà e spirito di conservazione dell’allora Unione Sovietica, è un museo a cielo aperto. Interamente ricostruita per rispecchiare ciò che rappresenta un tempo. L’immaginazione deve sforzarsi di vedere quello che, in passato abitava a Khiva, ovvero la sua semplicità, la sua povertà, la sua atmosfera caotica e disordinata che caratterizza la Via della Seta. Ovunque si vada c’è qualcosa da ammirare, ma sempre sotto forma di museo. Sono pochi gli edifici che restano fedeli al loro scopo iniziale. In ogni caso, vale la pena passeggiare all’interno della città vecchia, detta Ichon-Qala. Qui, piccole botteghe espongono, in bella mostra, oggetti di vario tipo, solitamente ceramiche blu. Colore predominante in questa terra beige, tinta dalle tonalità della sabbia del deserto e della steppa. Qualche venditore ambulante propone i suoi cappelli in pelle di animale. Simili a colbacchi, leggeri e coprenti. Inutile dire che, sul capo di un occidentale, si presentano come torri di lana, alte e pompose. Il centro storico è un dedalo di vicoli e di stradine, abbracciate dalle antiche mura e al cui interno si svolge la vita vivace e le attività commerciali turistiche. Se si ha la fortuna di visitare Khiva a fine agosto, può capitare, nella piazzetta alle spalle del minareto, di assistere alle prove di danze femminili tipiche per commemorare il giorno dell’indipendenza (1991). Il 1 settembre. Il momento migliore per apprezzarla è verso sera, dopo l’ora del crepuscolo. La luce della luna fa brillare le mille piastrelle colorate del minareto, delle colonne, della fortezza Kuhna Ark, residenza dei sovrani (che custodisce l’harem, la zecca, le scuderie, l’arsenale, le caserme, la moschea e la prigione), e delle medresse, le scuole coraniche. Tutto è simile ai bagliori che i raggi lunari disegnano riflettendosi sul mare. E’ il momento migliore per apprezzare Khiva. E’ il momento in cui la città si veste d’argento.


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