Canada: i sentieri selvaggi del selvatico Sasquatch

Tutto quello che il Canada Occidentale offre
Scritto da: Kingsize
canada: i sentieri selvaggi del selvatico sasquatch
Partenza il: 10/08/2012
Ritorno il: 03/09/2012
Viaggiatori: 5
Spesa: 4000 €
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Io, i canadesi, non so come siano davvero. Non dev’essere troppo chiaro neanche a loro, se è stato necessario pubblicare un libro, “How to be a Canadian”, forse per puntualizzare le idiosincrasie che li distinguono dai cugini statunitensi. “Let’s be English, let’s be French, but above all let’s be Canadian!”, si legge a Canada Place, un moderno centro congressi lungo il bellissimo lungomare di Vancouver mentre, dalle banchine, i bagagli vengono caricati su transatlantici che, se affondassero, ridurrebbero la popolazione mondiale del 2 per cento. Non li conosco bene, i canadesi, ma per tre settimane ho respirato la loro aria, percorso i loro sentieri, toccato con mano la loro storia, riuscendo perfino a evitare i loro hamburger. Azzardo quest’equazione: i canadesi stanno agli americani come gli svizzeri stanno agli italiani. Sono più ligi, quindi c’è meno controllo. Le regole sono più stringenti, ma sono state internalizzate al punto che tutto quel che si percepisce è la libertà, la libertà di essere civili tra persone civili. E si beano di questo loro essere simili ma diversi, di avere tutto quello che hanno i loro famigerati vicini ma senza la turbolenza: l’orgoglio ma non l’invasività, le risorse ma non la miscondotta, le possibilità ma non l’esibizionismo, la popolazione cosmopolita ma non il malcelato razzismo. Il territorio è meno antropizzato, quindi più indomito e potente. Al contrario dei paesi del vecchio mondo, che stanno scontando non si sa bene quale colpa, il Canada ha un futuro. E un presente altrettanto roseo: dappertutto c’è gente che si diverte – così ci siamo uniti a loro. Col consenso di tutti, la seconda parte dell’itinerario proposto da Avventure è stata cambiata per evitare alcune criticità e rendere il viaggio più vario.

Le strade larghe di Calgary, dove le automobili si fermano appena un pedone s’avvicina al bordo del marciapiede, ci avvisano che non siamo in Kansas anymore ma già over the rainbow. La risposta ritardata del cambio automatico sembra assecondare la circolazione stradale che non è, come da noi, un campo di battaglia, che non conosce parcheggi in doppia fila e che vanta arterie in ottime condizioni anche nei tratti meno trafficati. Unica, ineludibile croce sono i parcheggi, che si fanno profumatamente pagare, e dove necessariamente occorre lasciare la vettura. Fortunatamente alcune destinazioni ne sono provviste, come lo zoo di Calgary, che presenta gli animali contingentati per aree geografiche. Sorprendono alcune presenze esotiche: il condor, il capricorno del Giappone, il bue muschiato e il rarissimo leopardo delle nevi, ma l’angolo più curioso è una grandiosa riproduzione dell’ambiente al tempo dei dinosauri: rocce primigenie, stagni e boschetti di felci da cui s’affacciano sauri e ornitopodi a grandezza naturale – abbastanza perché chi fosse curioso sulle attività di un corpo celeste capisse come il nostro pianeta s’era dato da fare per, letteralmente, preparare il terreno per l’arrivo degli umani.

Poche decine di chilometri a est, a Brooks, quale è stato il piacere di poter scavare le ossa di veri dinosauri nel parco provinciale a loro dedicato! In una valle dall’aspetto davvero primordiale in cui sono confluiti i fossili di molti animali, si scava, sotto la guida di un ranger, alla ricerca di nuovi reperti. Per ore martello e scalpello battono a vuoto, poi improvvisamente la roccia si apre svelando una falange o una costola. Il ranger provvede a imbevere d’un liquido fissante i fragilissimi ritrovamenti, che vedono la luce dopo decine di milioni di anni. Quest’emozionante contatto diretto permette di apprezzare pienamente il magnifico museo di Drumheller, onorato dall’irreprimibile Elisabetta coll’appellativo di “Royal”. Oltre una grande vetrata, i tavoli dei ricercatori sono ingombri di attrezzi e macchinari dedicati, e nelle gallerie l’allestimento di originali e di calchi è ugualmente avvincente sia per i tanti bambini che le affollano che per i genitori che li accompagnano. Il museo offre anche visite guidate ai calanchi circostanti: piccole, spoglie e accidentate colline di argilla striate da sedimenti di metalli e di sali che, friabili come sono, portano segni di dilavamento. Le forme a fungo – in italiano romanticamente soprannominate “i camini delle fate” – si ritrovano in vari punti delle Montagne Rocciose canadesi, mente le colline a budino ricordano, in piccolo, le Badlands del Nord e Sud Dakota, labirinti desertici da dove più di un carro di pionieri non riuscì a riemergere. Della storia di quel tempo il West canadese rivela i particolari nelle piccole collezioni cittadine (deliziosa quella di Agassiz) e in alcuni musei all’aria aperta. L’Heritage Park Historical Village di Calgary ha un’affascinante collezione di automobili e di pompe di benzina d’epoca tirate a specchio. Le case e i negozi, salvati dalla demolizione e traslati nel villaggio, presentano mercanzie e arredi originali: perfino il personale veste abiti dell’Ottocento. La panetteria sforna delizie salate e dolci come allora, e occasionali sessioni per apprendisti impediscono agli attrezzi del falegname e del pellettiere di arrugginirsi, rafforzando i legami col passato e cementando una storia fatta di difficoltà, di successi e di tenaci individui il cui nome ancora si ricorda nei musei e nella topografia. Nella via principale, alcune comparse in costume ne rappresentano le tragicommedie; più in là si può venir a sapere tutto sulla fattoria, sulla chiesetta, sull’ufficio di polizia e sul fortino dei commercianti di pelli, che era ristorante, albergo con le comodità possibili al tempo e punto di baratto con le tribù dei Piedi Neri. Un curioso tratto ricorrente in queste abitazioni temporanee è la segregazione, con tanto di rete da pollaio, tra scapoli e ammogliati. E’ tutto molto ruspante e in netto contrasto con l’immacolato museo del centro città, che vanta una bella collezione di armi, una di artefatti nativi e una, davvero spettacolare, di rocce, cristalli e minerali.

E rocce, foreste, laghi e sentieri riempiono gli occhi e le giornate dedicate alle Montagne Rocciose. A Banff la disposizione amichevole dei canadesi contagia tutti i villeggianti: quelli che vanno in crociera sul Lago Minnewanka, quelli che salgono la Sulphur Mountain colla funivia – qui peculiarmente chiamata “gondola” – arrivando alla storica stazione meteorologica, e quelli che s’incamminano lungo i numerosi sentieri del circondario. Il cielo terso, l’aria frizzante, il verde delle foreste e lo spettacolare paesaggio fanno di ogni giorno a Banff un giorno di festa. Ecco, lungo il sentiero Tunnel Mountain Meadows & Hoodoos, un ampio prato fiorito sul bordo del torrente glaciale e il Monte Rundle a sentinella: sembra di essere entrati in una cartolina. Acqua e roccia si sfidano anche a Johnston Canyon, che percorriamo nel freddo pungente della mattina, prima che il fitto pellegrinaggio dei turisti lo assalga. La levataccia e l’impegno sono più che ripagati dalla perfetta solitudine in cui ci gustiamo lo spettacolo del torrente, delle cascate e dei pini sulle pendici scoscese. Dopo la mole maestosa della Castle Mountain, ci impressiona la meraviglia inaspettata del Marble Canyon, che l’omonimo torrente ha scavato come una profonda ferita nella pelle della terra, in una cornice di prati in fiore e di pini recentemente bruciati da un incendio. La politica dell’Ente Parchi canadese è cambiata con l’evoluzione della filosofia ecologica, e permette ora agli incendi di svolgere il loro ruolo nel ciclo di rinnovamento della natura, che ha tempi ben più lunghi della microscopica dimensione umana. Fuoco e acqua disegnano il paesaggio, favorendo di volta in volta gli abeti, i pini, i pioppi e i larici o gli insetti e gli uccelli che li abitano. Attualmente è il mondo animale a dominare, e le vittime, cadute o rinsecchite ai lati dei sentieri, mostrano i buchi, i labirinti e i danni causati dai loro piccoli ma inarrestabili ospiti. Gli elicotteri ricevono l’ordine di arginare le fiamme solo quando un incendio minaccia una zona abitata o un’installazione: l’ecologia ha finalmente scoperto il terzo incomodo della trinità: a Brahma il creatore e Vishnu il protettore mancava Shiva, il distruttore, doloroso ma necessario. Persa l’ombra degli abeti, i prati al sole scoppiano di fiori e diversi animali vi trovano cibo e rifugio. E al sole, quello del pomeriggio, ci rigeneriamo anche noi nelle acque termali di Radium Hot Springs. Una vedova attacca bottone, ma non rientra nella mia fascia di mercato, perciò la lascio con un sorriso al suo doposole. Vasca calda, vasca fredda, bella affluenza: i canadesi, come dicevo, sanno divertirsi. La piscina non sarà panoramica come quella di Banff, affacciata com’era quella ad una sventagliata di montagne innevate, ma qui c’è il sole, che invece lì s’era fatto rubare il posto da nuvole pioggerelle.

Il navigatore satellitare picchietta incessantemente la musica dello stereo con i suoi sgraziati avvisi di superamento della velocità consentita – e quale che sia la musica, è sempre fuori tono. La Highway 95 costeggia le Montagne Rocciose attraversando sporadiche fattorie – ideali per misantropi ed eremiti. Tanto isolamento deve aver acuito i sensi e i pensieri di chi ci vive, tant’è che il gestore dell’ostello mi fa trasalire con un “No shoes!” allarmatissimo mentre sto per mettere piede nel soggiorno, calzando le mie fide Timberland. Peccato non avere le blue suede shoes per il classico diner che, tra poster di Elvis, James Dean e Marilyn, ci euforizza stasera mentre, seduti su vinilpelle rosso bacio, facciamo sparire bisteccone e patatine quasi abbagliati dall’acciaio cromato del bancone del bar, mentre fuori stazionano i TIR e i treni merci si susseguono sgranando lentamente il loro infinito seguito (al 50° carro ho perso il conto).

Dall’esemplare ostello di Golden sono venti minuti all’appuntamento per il rafting. Una muta rossa e nera, stivali di gomma, le inutili raccomandazioni sulla sicurezza… tanto inutili che vengo sbalzato fuori bordo alla prima, timida rapida. Questo battesimo dell’acqua allerta tutti i partecipanti che le indicazioni del capo-gommone sono, invece, essenziali. Mai vista tanta foga nell’obbedire! “Team, hold on!”, e tutti si aggrappano alle corde. “Team, down!”, e tutti scivolano sul fondo prima di essere investiti da una gigante secchiata d’acqua che ci fa rimanere senza fiato. E’ fun, come dicono qui: tra gli spruzzi d’acqua gelida, i mulinelli rabbiosi e i cavalloni, ci scambiamo sorrisi estatici. Dopo aver cavalcato il Kicking Horse River, solo rapide di 4° e 5° grado ci potranno emozionare. Esaltati dall’adrenalina, ci chiediamo come sarebbe provare ad affrontare in gommone le Wapta Falls nonostante la loro portata maestosa, il dislivello importante e uno sbarramento roccioso giusto di fronte al salto. Morte sicura, certo, ma ci sono così tante stupende cascate, qui, che l’iniziale reverenza lascia il posto all’ammirazione e alla familiarità. Son di casa, qui; in Canada è la natura a tessere l’habitat dell’uomo, mentre in Italia viviamo in ambienti artificiali, tanto che ci si rallegra davanti ai pochi alberi d’un viale. E’ un’assurdità che ci pare invece normale: neanche ci rendiamo conto di quanto ci siamo allontanati dalla nostra vera natura e nemmeno realizziamo quanti guai son dovuti a questa distanza. La sfrontata bellezza di Emerald Lake, poco più a nord, nello Yoho Park, induce uno stato di pace e armonia che, invece di essere una parentesi fuggevole, dovrebbe essere la costante della vita, circondati come siamo da meraviglie come le Takkakaw Falls: un lunghissimo nastro splendente ai raggi del tramonto che, a terra, si polverizza in un arcobaleno tutto nostro.

E’ a Lake Louise che ci troviamo a condividere il lago e i sentieri con un assortimento internazionale di barbari, ma nella selezione del ricordo rimane solo la vista sublime del lago, della casa da tè che si specchia in Lake Agnes, del paesaggio dalla cima del Big Beehive e l’esplorazione in canoa del lago Moraine, circondato da un fotogenicissimo drappello di vette. Nel lago Herbert sono le piramidi asserragliate della catena Bow Range a specchiarsi, uno dei tanti “momenti Kodak” lungo i 230 chilometri della Passeggiata dei Ghiacciai. Hector Lake, Crowfoot Glacier, Bow Lake, Peyto Lake, Sunwapta River and Falls e Athabasca Falls formano un’eccezionale raccolta di paesaggi montani che affianca il ghiacciaio Columbia, dove una guida ci affascina con la storia delle morene, degli andirivieni del ghiacciaio e delle sue impronte sulle rocce. Com’è che non avevo pensato ad iscrivermi a Geologia, all’università? Se mi ci fossi messo, forse avrei potuto risolvere il mistero di una delle zone carsiche più estese del mondo: il lago Medicine non ha emissario, si sa da dove vengano le sue acque ma non si sa dove vadano. Questo poco importa alle pecore bighorn che sostano nella piazzola del parcheggio, attraendo commenti, foto e biscotti. Al ritorno dal giro in barca e dai cervi quasi domestici del Maligne Lake le incrociamo di nuovo, in fila indiana verso casa, stanche dopo una lunga giornata passata ad intrattenere i turisti.

Con una passeggiata nella serena Valle dei Cinque Laghi ci congediamo dalle Rockies, dalle foreste, dall’Alberta e mettiamo l’orologio indietro di un’ora. Il percorso attraverso la British Columbia, di nostra ideazione, ci porterà dalle montagne all’oceano toccando i luoghi salienti del presente e del passato. Ci danno il benvenuto nella nuova regione i salmoni, i primi della razza Chinook, la più grande del Pacifico che, dopo parecchi anni in mare e aver risalito 1.200 chilometri, tentano di fendere le impetuose cascate Rearguard per raggiungere le acque native in cui riprodursi. Sgusciano dal fiume Fraser librandosi eroicamente per un attimo sopra la corrente poderosa, per esserne subito travolti. Riprovano, cambiando il punto di lancio – i loro tentativi ipnotizzano noi e un altro gruppo di italiani, una delle rare volte in cui abbiamo incrociato nostri connazionali. Salmone uguale orso, ma finora ne avevamo visto solo uno, piccolo, che ci aveva attraversato la strada all’entrata del parco Kootenay. Per rivalsa andiamo a completare i nostri avvistamenti allo zoo di Kamloops. I grizzly sono ghiotti delle melucce rosse della grandezza d’un dattero con cui gli alberi del giardino zoologico tappezzano il prato. E’ uno spasso vedergliele arraffare cogli unghioni, con insistenza paziente ma implacabile, tutta animale. Invece il falco, liberato dal cappuccio, sembra prestarsi di malavoglia a giocare a “agguanta il pulcino”, il povero morticino legato a una corda che la ranger fa volteare per tentarlo. Pare concedersi solo perché, per lo show del pomeriggio, il prato dell’esibizione è fitto di famigliole in libera uscita con i pargoli. E, mentre il suo compagno siede, impeccabile, su un ramo, girando con aria sdegnata la testa ora di qua, ora di là, un condor alto come un bambino sta a terra, tutto attaccato al vetro, certo impensierito dalla gabbia nella quale ci vede agitarci. Mancherà la parola, agli animali, ma hanno modi sottili per farsi capire, e si intuisce, provando un peculiare senso di appartenenza, che l’esperienza del vivere ci accomuna più di quanto le differenze macroscopiche indurrebbero a credere.

La condivisione con questi compagni di viaggio, pennuti o pelosi, deve essere stata ben chiara agli indiani, la cui cultura sembra attenersi all’idea chiave di trarre il massimo beneficio per la tribù causando il minor danno possibile all’ambiente. Siamo arrivati giorni dopo la conclusione di un importante pow-wow e lo stadio del Secwepemc Museum and Heritage Park di Kamloops è vuoto, ma ci hanno ben informati il filmato di presentazione degli Shuswap, le sale con le foto della generazione “rubata”, forzata dai bianchi ad abbandonare luoghi, lingua e lavori per integrarsi forzosamente nella società dei coloni, e la visita al vasto parco circostante. Quattro abitazioni tradizionali e un riparo estivo sono stati ricostruiti nel sito di un villaggio stagionale risalente a 2000 anni fa. Sono stati riprodotti anche i diversi habitat in cui i nativi vivevano, collegati da un sentiero lungo il quale numerosi cartelli offrono esaustive spiegazioni sulle piante e sui loro usi tradizionali. Non si può che rimanere stupiti da tanta ingegnosità, chiedendoci quanto ci sia voluto per comprovare l’effetto di quella bacca, di quel decotto o di quella radice. Gli indiani avevano tutto sperimentato, tutto catalogato, e per tutto avevano trovato in natura una risposta, un rimedio, una soluzione o un uso adeguato. Coi millenni, la loro padronanza delle risorse del territorio era diventata assoluta. La loro cultura era una seconda pelle, una via, sempre uguale, sempre perfetta, lungo la quale i padri avviavano i figli, con naturalezza e senza conflitti generazionali. Le tecniche venivano tramandate in pillole, come morali di miti archetipici, così come la storia della tribù o di un individuo veniva condensata in un totem o nei dipinti all’esterno e all’interno delle longhouse, grandi abitazioni per l’intero clan. Lo stile di queste sculture celebrative, che avevano spesso anche una funzione propiziatoria, ricorda quello dei cugini Athabasca dello Yukon e degli Inupiaq, Tsimshian e Slingit dell’Alaska e – anche se da lontano – quello degli altri nativi delle Americhe, rivelando anche nell’arte il fil rouge che unisce quelle che attualmente vengono chiamate le first nations, i primi ad avere diritti sulle terre d’America. Diritti costati sangue perché, dovendo i clan spostarsi con le mandrie di bisonti dalle quali dipendevano per la sopravvivenza, le liti sui territori di caccia erano continue. L’altro motivo per le lotte tra tribù erano – sorpresa! – le donne, un po’ come, da noi, Elena di Troia e le Sabine. Di tutto rimangono le testimonianze scolpite, le storie tramandate, la lingua di nuovo in uso, le tecniche che ormai solo pochi anziani possono insegnare, e soprattutto un orgoglio di appartenenza, vivissimo nei più vecchi, che trova espressione nelle celebrazioni periodiche, occasioni imprescindibili di affermazione della propria identità, nonostante non si veda alcun Shuswap vivere in un teepee o raccogliere bacche per curarsi o per sfamarsi. E, in effetti, gli scampoli di questa civiltà che la British Columbia ci ha ripetutamente offerto, a Kamloops, a Cache Creek, al Tuckkwiowhum Village e a Whistler, sanno d’un’irrimediabile nostalgia, d’un mondo perduto del quale non resta che l’archeologia, come le ossa dei dinosauri che abbiamo scavato: prova che, sì, sono esistiti, ma non ci sono più, e quel che resta ci si sbriciola tra le dita, nonostante le proteste e le opere d’arte di denuncia dei musei di Calgary e di Kamloops. Ed è quasi un paradosso che la cultura occidentale abbia infiltrato queste terre, imponendosi con l’invasività e la pervasività che la caratterizza, iniziando con ambasciatori indigenti e ignoranti come commercianti di pellicce e coloni in cerca di rifugio dalle persecuzioni politiche, dalle intolleranze religiose o dalla morsa della povertà.

A Cache Creek è sopravissuto lo storico Hat Creek Ranch, una delle tappe nella lunga strada della corsa all’oro. Il grande casale che forniva ristoro ai cercatori e ai cavalli è stato restaurato e mostra quali fossero le comodità nel XIX secolo nella regione del Cariboo. Un tentativo dal fabbro del villaggio comprova come non sia affatto facile fare un chiodo dritto – e a quei tempi tutto si faceva a mano! Una passeggiata in una carrozza d’epoca completa la visita. Troviamo altri reperti nel vicino villaggio storico di Ashcroft. La sera, forse ispirati dalle tradizioni che ancora vi si respirano, e nonostante la pioggia torrenziale del pomeriggio, accendiamo il fuoco fuori la nostra baita. Se i cercatori d’oro erano disposti ad affrontare disagi inenarrabili, accecati dalla speranza, Bill Miner aveva scelto una soluzione più facile, e la corsa sul treno a vapore a Kamloops è completa di assalto al treno da parte di quattro banditi a cavallo. Adagiata sul suo dolce pendio, Kamloops risplende alla luna piena e i fuorilegge ci tengono colle mani in alto lanciando minacce a destra e a manca, mentre le increspature delle acque del fiume Thompson denunciano le attività notturne dei castori: uno dei momenti perfetti di questo viaggio. Un altro, anch’esso memorabile, è la passeggiata sul lungolago a Kelowna. Tutta la città sembrava essersi data appuntamento lì, chi a passeggiare il cane, chi a fare sci d’acqua, chi una crociera sul lago e chi a prendere il sole, un gelato o un oggetto d’artigianato al mercatino domenicale. Una città disimpegnata perfino sul fronte cultura: basti dire che la mostra temporanea al museo presentava le varie fogge degli abiti da sposa del secolo scorso! Noi approfittiamo della bella giornata per visitare un paio di cantine. La Okanagan Valley, infatti, è benedetta da un clima appropriato per i vigneti, e le sponde del lago sono segnate da filari pettinati, quasi dipinti. La Nk’Mip appartiene alla tribù indiana degli Osoyoos che, dopo trent’anni di lavoro su questa terra, si sono avventurati in prima persona nel difficile mercato dei vinificatori. Ci fanno assaggiare il prezioso ice wine, le cui uve vengono raccolte in una notte d’inverno affiché ogni acino dia una, una sola preziosa goccia che è già essa stessa la quintessenza dell’uva. Grazie a questa azienda, non c’è un indiano della zona che sia rimasto senza lavoro. La Mission Hill Winery, sull’altra sponda del lago, è, senza esagerare, faraonica, e il tour si conclude con un assaggio ragionato dei loro migliori vini. Nel loro negozio fanno bella mostra di sé libri d’arte sulla campagna toscana, ceramiche preziose, cristalli e ogni genere di gadget: qui il vino ha il profumo dei soldi e s’accompagna alle ville e ai panfili dell’odierna corsa all’oro. Ma Bill Miner, ladro gentiluomo, dopo ogni colpo andato a segno invitava tutto il paese a festeggiare a sue spese: una tradizione che andrebbe ristabilita…

Sempre in tema di oro, a Hedley un bus, tornante dopo tornante, ci porta in cima ad uno strapiombo, nella viscere nel quale era stato scoperto un filone. La visita è un’affascinante immersione nella realtà centenaria di tunnel scavati mille metri sopra la vallata, nei quali si lavorava ventiquattr’ore su ventiquattro. Gli sposati dovevano abitare a valle e affrontare due ore per salire e due per scendere. Nonostante l’alcool fosse proibito, hanno trovato uno strato di vetri di bottiglia alto mezzo metro. Se il paesaggio da lassù non fosse stato mozzafiato, avrebbero provveduto quei 589 scalini, recentemente restaurati, che collegano le costruzioni per i minatori.

Un’altra cittadina fiorita e scomparsa con il boom dell’oro è Yale. Difficile credere che, nel 1870, questo ridotto slargo nel canyon del fiume Fraser potesse ospitare 8000 persone. Adesso ce ne vivono 200 e, a parte un’atmosfera da cospiratori e la speranza di una grande fortuna che sembra permanere lungo il fiume, la documentazione e gli oggetti rimasti occupano giusto le poche stanze del museo. Le barche a vapore potevano arrivare fino a Yale, dopodiché il canyon diventa poco praticabile, a tal punto che Simon Fraser, il primo esploratore bianco ad avventurarsi qui, scrisse: “Siamo dovuti passare dove nessun uomo dovrebbe avventurarsi, perché queste sono senza dubbio le porte dell’inferno”. La Hell’s Gate, adesso, è un’attrazione turistica con una funivia e un ponte che attraversa il punto in cui la travolgente corrente – 750 milioni di litri d’acqua al minuto – è arginata dalle rocce a picco del canyon. Più a valle un altro ponte, l’Alexandra Bridge, del 1926, che dava accesso alla strada carrozzabile, è ora archeologia industriale, tanto quanto gli Othello Tunnels, vicino a Hope, una serie di tre trafori scavati circa un secolo fa nel canyon Coquihalla per la ferrovia Canadian Pacific. Al tempo costituirono un successo ingegneristico senza precedenti ed erano così impressionanti che i treni ci passavano di notte per non spaventare i viaggiatori. A causa delle frequenti chiusure per neve e frane, la linea ferroviaria dovette cambiare percorso, ma il forte impatto visivo dei tunnel viene sfruttato nelle numerose scene di film che vi vengono girate.

In cerca d’una manifestazione naturale più gentile, chiedo al gestore cinese del motel come raggiungere una cascata che ho letto trovarsi vicinissima. Non lo sa. I cinesi non cessano di sconcertarmi: son così indifferenti che potrebbero vivere sulla luna e non mi saprebbero indicare il cratere più vicino. Ne visitiamo allora un’altra, una delle più scenografiche delle tante che abbiamo visto lungo il viaggio: le cascate del Velo da Sposa. Dopo un breve sentiero che s’addentra in una foresta i cui rami sono interamente coperti di muschio e da cui pendono altre forme di vita vegetale – un bosco incantato, insomma – s’arriva ad un rilievo di roccia sul quale si adagiano i mille scintillanti rivoli nei quali si moltiplica la cascata. Assecondiamo la disposizione pastorale che ci ha pervaso e passiamo un paio d’ore tra gli stupendi colori dei Minter Gardens a Chilliwack, mentre a Kilby ci diverte la lingua rasposa sul palmo della mano delle pecore della storica fattoria, alle quali offriamo quelle che pensiamo siano leccornie ovine ma che forse sono solo croccantini per gatti. Il Kilby Store and Farm è una capsula del tempo: entrando nell’emporio si trovano esemplari dei prodotti del 1920 e 1930 grazie alla mania di conservare tutto del sig. Kilby e dei suoi figli. Alla guida, una bianca sposata ad un nativo, chiediamo circa il Sasquatch, un mistero che è diventato il leitmotif di questo viaggio. Dappertutto ne fanno menzione, a Yale avevano allestito una mostra completa di video, documentazione e calchi di orme. Sta sulle magliette, organizzano spedizioni per avvistarlo… “Ma lei, che conosce sia la tradizione di Bigfoot, sia le leggende indiane sullo Sasquatch, che ne pensa?”. Ci guarda di sottecchi, con l’aria di chi sa ma non può parlare e risponde che lei crede. Forse ha visto male attraverso il fumo dei falò degli accampamenti: certo è che Bigfoot è dappertutto, lo hanno avvistato dal Canada alle Russie e, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo: l’umanità ha bisogno di un fratellone stupido. Perfino il villaggio che viene allestito ogni estate allo Stanley Park a Vancouver ha quest’anno a tema il Sasquatch! Lo cerchiamo nell’ultima foresta della giornata, al Lynn Canyon Park: il tramonto può indurlo a farsi vedere, ma non c’è traccia di lui né sul ponte sospeso né nel torrente 50 metri più sotto.

All’Allevamento del Fiume Capilano vediamo invece i salmoni, e i pannelli esplicativi ci danno una panoramica completa del ciclo vitale e delle peculiarità delle varie specie. Visto che siamo in zona, e nonostante ne abbiano fatto un parco a tema, non snobbiamo il Capilano Suspension Bridge, una delle maggiori attrazioni turistiche di Vancouver. Più impressionante del Lynn Canyon, la foresta circostante è stata attrezzata con passerelle, ponti sospesi e un’ardita passeggiata su una mensola sporgente fissata allo strapiombo del canyon. Dopo essere stati ragguagliati sulla storia del ponte e sulle caratteristiche della foresta e dei suoi abitanti, mangiamo un boccone al divertente Lonsdale Quay Market, il centro commerciale di North Vancouver affacciato sullo stretto, e via verso il Britannia Mine Museum. In questa miniera di rame, che fu la più grande dell’impero britannico, veniamo a contatto – fuggevolmente, per fortuna – con la vita durissima dei minatori. La guida mette in funzione i martelli pneumatici di quel tempo per darci una dimostrazione delle loro dimensioni, della forza fisica necessaria per lavorarci e soprattutto del rumore che facevano. Un trenino ci porta lungo i tunnel, aggiungere “freddi e bui” è una banalità, era però una cosa seria per quelli che ci dovevano passare una vita di lavoro. Le vetrine allestite nei tanti edifici di questo grande complesso presentano le foto, gli oggetti e le storie della vita di quella comunità, un caleidoscopio di nazionalità che si intrecciarono per sopravvivere e che si disgregò quando la strada da Vancouver lo raggiunse.

A Whistler, la Cortina della British Columbia, si prende la funivia per salire su di un monte, poi se ne prende un’altra, la “Peak 2 Peak”, per attraversare la valle e atterrare su quello vicino. La neve, il vento gelido, i bei sentieri e i paesaggi alpini si stampano nella memoria. E’ il 30 agosto, il cielo è grigio e per un quarto d’ora, mentre l’Italia cuoce al solleone, qui nevica: è una soddisfazione sottile, quasi perversa. Altro piacere del luogo è volare da una cima d’albero all’altra. Una delle linee della magnifica zipline di Whistler è addirittura più lunga del doppio dell’altezza della Tour Eiffel: si sfreccia per 50 indimenticabili secondi sospesi, letteralmente, tra cielo e terra. Dalle montagne al mare: dopo il nuovissimo Squamish Lil’wat Cultural Centre – stando al quale è in corso una rinascita della cultura indiana – ci congediamo dalle foreste e dalle cascate alle Brandywine Falls, ed esploriamo la Horseshoe Bay su un gommone sparato sull’acqua da due motori fuoribordo da 300 cavalli ciascuno. La tuta con la quale ci hanno bardato è stata essenziale, vista la velocità, la temperatura dell’acqua e la propensione del nostro capitano per salti, impennate e mulinelli che inclinavano i fianchi fino al pelo dell’acqua! Tra la zipline e il safari nautico, questo viaggio è terminato davvero coi fuochi d’artificio.

Vancouver, dunque: bella, moderna, tutta cemento, acciaio e vetro, si affaccia sul mare ma è protetta da insenature ed allietata dal grande polmone verde di Stanley Park. Il giardino cinese intitolato a Sun-Yat Sen, il Garibaldi cinese, è delizioso e la visita guidata ne mette in risalto le squisitezze. Ad esempio, i tetti terminano con ceramiche a punta, così che le gocce di pioggia, cadendo, assomiglino a perle. Come dicevo, in male o in bene, i cinesi non cessano di sconcertarmi. E non solo cinesi, ma da tutto il mondo sono le maschere in mostra al Museo Etnologico, che vanta una collezione superba e spettacolare di artefatti indigeni provenienti da tutto il mondo. Totem, canoe, gioielli, vestiti, ceramiche, ceste, armi – ogni cosa l’uomo abbia creato per sopravvivere prima, e per vivere meglio poi, vi è rappresentata. Me è con le ore passate all’acquario, tra uno show di delfini e uno dei beluga, entrando nella zona pluviale delle farfalle del Costa Rica o nel cinema a 4D (la “quarta dimensione” sono gli effetti speciali di cui non parlerò per non rovinare la sorpresa!), perdendoci tra pinguini, serpenti, lontre e pesci piccoli da acquario casalingo e grandi da Giona e la balena, è con le ore di quel pomeriggio all’Acquario di Vancouver che si conclude questa vacanza.

Vi tormenta un dubbio sull’albertasauro? Non ricordate i percorsi e gli eroi delle corse all’oro? Volete essere messi a parte del segreto dei Piedi Neri per una capigliatura folta e denti bianchissimi? O sapere quante cascate ci sono nelle Canadian Rockies? Chiedetelo a noi: le abbiamo fotografate tutte. E il Sasquatch? Ci eravamo così affezionati che lo abbiamo portato a casa con noi, se non di persona, almeno nelle magliette!



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