Avventurieri, artigiani, aspiranti artisti, architetti e apprendisti stregoni
Villa Louis, edificata a Prairie du Chien su un’isola dove non si può più costruire a causa delle piene del fiume, è un ottimo esempio. Era il 1843, il tempo del “chi prima arriva, meglio alloggia”, ma anche di tante libertà che l’evoluzione dell’America dall’innocenza e dalle crudeltà della sua infanzia all’attuale sindrome d’onnipotenza della sua giovinezza ha tolto – a torto o a ragione (un cartello “Finnsville – Population 2” fuori la porta della propria fattoria non è prova di libertà). Hercules Dousman, commerciante di pellicce, speculatore e primo milionario del Wisconsin, ordinò una casa in grado di far dimenticare a tutti il suo passato di avventuriero. Alla faccia dei nativi americani, per i quali il luogo era stato tradizionale centro di scambi, scelse di occupare un’isola del Mississippi. L’acqua veniva pompata da un pozzo artesiano, e si credeva allora che tale provenienza le conferisse proprietà curative. Madame Dousman amava dare ricevimenti e intrattenere ospiti – e a quel tempo non si viaggiava mordi-e-fuggi come oggi: quando ci si spostava si rimaneva per settimane, a volte mesi. Una seconda casa fu costruita sulla prima nel 1870, con la ghiacciaia, il forno, gli uffici e gli alloggi della servitù tutti sparsi attorno alla casa padronale, separati da piacevoli aiole e dalla fontana della famosa acqua artesiana. Di una cosa occorre dar credito agli americani: quando s’incaponiscono su una cosa, son capaci di portarla alle estreme conseguenze, e non mi riferisco solo ai controlli negli aeroporti o alle loro prevedibili quanto discutibili donchisciottate militari. Per presentare Villa Louis com’era, hanno pelato dai muri tutti gli strati di vernice fino a identificare il colore della prima mano e hanno rintracciato la carta da parati originale negli scantinati della ditta londinese che la fornì, riuscendo a cancellare centocinquant’anni di cambiamenti e ripristinare ambienti che Mister Dousman riconoscerebbe. La visita di Villa Louis è un’immersione completa in un’atmosfera che noi, apparenti liberti del tramontante capitalismo, non riusciamo nemmeno ad immaginare per il tenore di vita all’interno e per il rigore della realtà all’esterno.
I parametri dell’esistenza testimoniati dalla Octagon House di Watertown ci sono invece più familiari. Lui, di sedici anni più vecchio di lei, promette di costruirle una bellissima casa in cambio di un “sì”. Lei, di ricca famiglia, acconsente alle nozze nonostante lui venga dalla gavetta. Lui, John Richards, ci mette qualche anno a mantenere la parola data, ma la casa ha 57 stanze – sufficienti per la prole e per i lavoratori dipendenti – e la sua curiosa pianta ottagonale, secondo la moda del 1850, contagia la sensazione d’essere sempre al centro, e che tutto il mondo giri attorno alle compassate ma amabili camere. Lei, Eliza Forbes, non protestò durante i quattro anni che ci vollero per l’esecuzione, e anche dopo non chiese aiutanti per la gestione della casa: una donna veramente eccezionale.
Nei piccoli centri, queste dimore signorili son conosciute e rispettate, motivo di vanto e fiore all’occhiello. Non così in città, dove il tumulto del profitto che cambia frequentemente origine e destinazione mette a repentaglio dei veri tesori. E’ il caso della Pabst Mansion, salvata all’ultimo momento dagli sforzi di alcuni conservazionisti che hanno vanificato il progetto della sua demolizione per far posto al parcheggio d’una banca. Non è affatto un semplice mucchio di pietre scolpite, mattoni, legno e terracotta: quella casa, contenuta ma sontuosa, ha una personalità spiccata e, appartata in cima al giardino, troneggia schiva sull’indifferenza dei passanti. L’interno è una sinfonia di aceri, betulle e querce: Capitan Pabst, abbandonate le avventure giovanili in marina per diventare magnate della birra e, prudentemente diversificando le proprie entrate, fondatore fortunato di ristoranti, teatri, banche e grattacieli, era tedesco e ai tedeschi piace il contatto solido e positivo col legno. Lo smantellamento della Pabst Mansion, un capolavoro di ebanisteria e di arti applicate, sarebbe stato un crimine contro l’umanità.
Umanità che, non si sappia in giro, non si cura abbastanza di quel che la differenzia dagli animali: tanti di questi gioielli sopravvivono e sono fruibili solo per la disponibilità di volontari e di entusiasti pensionati. Così è per il villaggio svizzero di New Glarus e del suo bel centro per i visitatori, in cui i pannelli, corredati da fotografie, raccontano l’epopea di alcune dozzine di artigiani svizzeri che nel 1845, trovatisi disoccupati in seguito a mutate condizioni di mercato, cercarono nel nuovo mondo la soluzione al problema di cosa mettere in tavola. Intorno al centro, trapiantati dalle vicinanze, una baita contadina, un laboratorio meccanico, una falegnameria, una tipografia, un emporio, una scuola e una chiesa. La foto di Pasqua 1900 ritrae l’intera comunità artigiana vestita a festa: tutto sommato, nonostante le difficoltà e alcune false partenze, gli immigrati erano riusciti a creare un modus vivendi soddisfacente e remunerativo. Loro, tessitori di mestiere, s’erano improvvisati contadini ma avevano finito col ricorrere a quel che era tipico della loro terra d’origine: l’allevamento bovino e il formaggio. Altre comunità pure avevano fatto leva sulle proprie tradizioni: i pionieri della Cornovaglia nelle miniere di zinco e piombo di Mineral Point, così economicamente importante da figurare, ad un certo punto, nella lista delle località candidate a capitale dello stato. Quasi nulla rimane ora di Pendarvis e della Miniera del Buon Natale, così chiamata per la scoperta di un filone avvenuta il 21 dicembre 1905. Solo un paio di case in tronchi e cemento e attrezzi e macchinari arrugginiti testimoniano il fervere dell’attività di quegli anni. Se il bed and breakfast di Appleton sfoggiava il bon ton piccolo-borghese, Casa Cothren di Mineral Point – una tenuta storica, nientemeno! – è deliziosamente contadina, ma contadina benestante. E’ incredibile come le semplici linee d’una fantasia scozzese, dipinte su un banale tavolinetto o un cassone, possano farli diventare degli objet d’art, e sia la villetta che l’adiacente baita sono state aggiornate con le comodità moderne: il bagno e la doccia, ad esempio. Quelle che, per noi, sono necessità primarie, venivano soddisfatte, solo centocinquant’anni fa, quando la casa fu costruita, in maniera non dissimile dall’uomo primitivo. Old World Wisconsin è una magnifica presentazione di come i coloni vivessero. Gli emigranti di ogni paese portavano le proprie peculiarità e tradizioni, evidenti nella progettazione delle case, dei fienili, delle stalle, dei magazzini, delle falegnamerie e, nel caso dei finlandesi, delle saune. Ci si passa la giornata, scarrozzati dal trenino che fa la spola tra il centro visitatori e i villaggi tedesco, svedese, norvegese e slovacco. Guide in costume d’epoca illustrano le attività svolte in quelle stanzette di assi di legno, tra quei modesti mobili, da artigiani che dalla loro fatica – e la giornata era lunga – traevano giusto quel che bastava per sfamare la famiglia. Ogni casa – originale e trasportata a Eagle dal luogo di costruzione – viene presentata col nome e la storia dell’antico proprietario, compresa una scuola, una chiesa e una casa comunale. I sacrifici di quegli espatriati hanno creato la ricchezza di cui godono adesso gli Stati Uniti. Anche il Museo Pubblico di Milwaukee presenta le strade della città come si offrivano cent’anni fa, oltre a portare il mondo intero in Wisconsin con una moltitudine di oggetti, un laboratorio, la ricreazione di una foresta pluviale e tantissimi diorami, in miniatura e a grandezza naturale, realizzati con una cura e un senso artistico senza limiti.
Per tanti, il Wisconsin è stato un purgatorio, con orari di lavoro di quindici ore giornaliere nelle miniere, nelle officine, nelle fabbriche, nelle campagne. Oggi le strade offrono un panorama paradisiaco: campi coltivati a granturco, erba medica e grano, filari tanto ordinati da parer dipinti, e nessuno a lavorare: sembra che, come nell’Eden, tutto cresca rigoglioso senza richiedere alcun sudore della fronte. Sì, alcuni trattori ancora si vedono per strada, con le motoseghe o altri esoterici attrezzi da contadino al traino, ma potrei davvero credere che fossero comparse per dare una parvenza di credibilità a quelle perfette distese verdi. Purgatorio e paradiso, ma anche Wisconsin inferno, soprattutto per i nativi americani. Diverse tribù popolavano queste pianure, a volte aiutandosi e a volte osteggiandosi, bande tradizionalmente seminomadi, divenute stanziali in seguito ai mutamenti introdotti dall’uomo bianco e confinate infine in riserve sempre più ridotte a causa degli interessi, degli intrighi e degli imbrogli perpetrati ai loro danni dai coloni e dai loro governi. E’ la legge del più forte, e i più forti, come hanno dimostrato di essere dovunque nei cinque continenti, sono i bianchi. Non che gli altri siano più tolleranti delle minoranze o più comprensivi delle civiltà, basti considerare quel che succede attualmente in Africa e in Asia. Ma il primato dello sterminio fisico e culturale spetta ai bianchi. I nativi americani ancora ne soffrono le conseguenze: una visita a Waswagoning, un villaggio che gli Ojibwe, la tribù di Lac du Flambeau, ha costruito per presentare e preservare le proprie tradizioni, è illuminante. Il nocciolo della questione è che i due stili di vita sono mutualmente esclusivi: l’uno basato sulla rapacità, l’altro su una gestione equilibrata delle risorse, l’uno fondato sulla proprietà privata, l’altro su una concezione comunitaria del territorio, i bianchi dipendenti da un’inarrestabile spirale di evoluzione tecnica, gli indiani liberi grazie ad una perfetta conoscenza del proprio habitat. L’odio non è ancora finito: alcuni anni fa Waswagoning è stato incendiato, e a fatica gli attuali Ojibwe stanno rientrando in possesso di alcuni territori tradizionalmente loro e difendendo i diritti loro riconosciuti da vecchi trattati che i bianchi preferiscono dimenticare. L’atteggiamento degli americani rispetto agli indiani è ipocrita: riconoscono che la diversità è una ricchezza e, in occasione delle feste, si vantano di occupare terre che hanno storia e tradizioni, ma vorrebbero che tutto questo appartenesse al passato per non disputare diritti di pesca, di proprietà e d’ambito civile cogli indiani. Li presentano come le “Prime Nazioni”, per poi negare loro il passaporto, visto che gli indiani non tengono un registro delle nascite. Curioso è il caso di atleti nativi americani che dovevano concorrere in un torneo in Inghilterra (http://abcnews.go.com/US/iroquois-lacrosse-team-cleared-fly-us-state-department/story?id=11162607), ma non poterono parteciparvi per problemi di passaporto. Nonostante abbiano combattuto nelle guerre come cittadini americani, perdurano per loro i tratti di una minoranza emarginata e oppressa.
Ad alcuni bianchi, però, gli indiani piacevano, tanto che hanno finito per metter su famiglia con loro – tipicamente, i commercianti di pellicce con donne native, come il francese Toussaint Charbonneau con la famosa Sakajawea, l’indiana che aiutò gli esploratori Lewis e Clark a mappare il West – o come Frank Smith, che li apprezzava perché, a detta sua, erano “dannatamente svegli”. Frank Smith è l’artefice del Wisconsin Concrete Park di Phillips. Evidentemente era un’idea che circolava per le reti inconsce del globo, perché nella prima metà del Novecento diversi aspiranti artisti si sono dati alla scultura utilizzando materiali riciclati. A Nieu Bethesda, in Sudafrica, intriga la Owl House (1945), enigmatico giardino ingombro di animali e personaggi biblici, creato da Helen Martins, una solitaria anziana. In Wisconsin è stato probabilmente il reverendo Matthias Wernerus a dar l’avvio alla moda delle sculture in cemento. Forse, giusto prima di partire per le lontane Americhe nel 1904, era arrivata notizia, nel suo villaggio in Renania, dell’inizio del cantiere di Casa Batlló a Barcellona (1904-6). E Casa Vicens era già stata completata da Gaudí nel 1890. Fatto sta, accanto alla sua Chiesa dello Spirito Santo a Dickeyville, padre Matthias costruì una cappella per un’immagine della Vergine, procedendo poi a ricoprirne la superficie con mattonelle, pezzi di vetro, rocce di vari colori, sassi, legno petrificato, conchiglie… tutto quel che era colorato faceva al caso, e non un centimetro quadrato è stato lasciato vuoto. Ai lati di questo “Grotto”, come lo chiamano, due colonne esaltano le virtù archetipiche dell’America a quel tempo in formazione: religione e patriottismo. Un muro concavo, come quello di un’esedra, celebra Cristoforo Colombo con Lincoln e Washington, lo scopritore e i padri della patria; un tempietto a quattro colonne onora il Sacro Cuore, l’attiguo cimitero ha un’edicola nello stesso stile e anche i recinti delle aiole sono di cemento incastonato (1925-30). Prendendo l’esempio, nel 1937 un profugo austriaco, Nick Egbert, ricoprì le pareti esterne della sua casa a Hollandale con pezzi di maioliche, vetro, valve, perline e bottoni modellando, nei successivi quindici anni, più di quaranta personaggi nel suo giardino, che battezzò Grandview. Per lui era un gioco: al lato dei tre mitologici fondatori della Svizzera c’è un palo coi rami popolati da scimmie – ognuna in rappresentanza d’un membro della sua famiglia –, sotto un albero un ubriaco colla bottiglia in mano, più oltre un’aquila calva, l’omino con l’organetto e la scimmietta, un pavone, un elefante, un leone… Quando un uragano danneggiava una scultura, Nick la ricostruiva tale e quale, o la cambiava, o ne faceva un’altra, diversa. Diceva che chi non trovava la felicità in una piccola fattoria in Wisconsin non l’avrebbe trovata mai. Se il Grotto di Dickeyville è essenzialmente decorativo e Grandview a Hollandale stramba e giocosa, la realizzazione di Phillips (1948) è compulsiva ossessiva. Esteticamente è la più rozza – sul nudo cemento Frank ha incollato catarifrangenti, cocci di bottiglie, bicchieri, vetri e specchi, tanti ormai già divelti dalle intemperie – ma il colpo d’occhio è formidabile, non dissimile dall’esercito di terracotta di Xi’an. Quella folla muta, presente e testimone, misteriosamente santifica quel prato, e dà adito a pensare che davvero Dio si sia messo un giorno a modellare l’uomo, visto che quell’inclinazione si è contagiata così irresistibile alla sua creatura.
Costruire è evidentemente la natura del genius loci. Ardite e controverse come l’autore, le realizzazioni di Frank Lloyd Wright, nativo di qui, si ergono a simbolo non solamente di innovazione, ma di immaginazione, di ambizione e di distinzione: Taliesin, la sua “villa italiana d’ispirazione giapponese”, si nasconde tra le verdi colline di Spring Green, e l’imponente Monona Terrace testimonia ogni giorno l’amore di Madison per il lago nel quale si specchia. A differenza del suo tratto spavaldo, spesso sfacciato, le sue case non dominano il paesaggio ma vi siedono con sereno, aristocratico garbo. Adorato o osteggiato per l’esuberante personalità e scarsa diplomazia, non si può negare che Wright – l’architetto del Guggenheim di New York, per intenderci – abbia dotato i suoi edifici d’un’anima e un’individualità uniche, grazie ad una chiarezza di concezione – evidente nella pulizia dei progetti anche più articolati – posta al servizio dell’eleganza. Per non essere da meno, per il suo museo d’arte moderna Milwaukee – la città più importante dello stato, governato dalla più centrale Madison – s’è affidata ad un altro architetto dallo stile inconfondibile, Santiago Calatrava, realizzandone il futuribile progetto, certo più memorabile delle opere che ospita, mentre la piccola Racine, anch’essa affacciata sul Lago Michigan ma più vicina a Chicago, ha acquistato, alla Fiera Mondiale di New York del 1964-65, il Golden Rondelle Theatre, una platea di velluto rosso dentro un dorato disco volante in perenne fase ascensionale.
Ma la palma della stranezza va alla House on the Rock, nata come rifugio privato di Alex Jordan Jr., un ragazzo senz’arte né parte ma pieno d’inventiva e di ardore, e cresciuta a dismisura fino a comprendere intere collezioni di tutto – letteralmente tutto, dalle lampade simil Tiffany alle case di bambole, dagli attrezzi da lavoro alle statue cinesi, dalle armi a ogni cosa nautica. Dopo un labirintico percorso tra ambienti, strade e vetrine che mostrano in modo piuccheperfetto l’intero scibile umano, si sbuca in uno spazio alto quattro piani che ospita la scultura, anch’essa molto probabilmente in cemento (ancora! Ma questa è mastodontica: 61m!) di una piovra che cattura una balena. Procedendo, in un’altr’area ugualmente immensa gira la più grande giostra del mondo. E stanze intere sono dedicate a teatri di robot musicali davanti ai quali si resta cogli occhi sgranati per la meraviglia e a bocca aperta per l’assurdità. Curiosa e insieme mostruosa all’ennesima potenza, quattro ore bastano appena, e se ne esce col cervello ridotto in poltiglia. Sarebbe davvero da spedire la House on the Rock nello spazio per rendere partecipi gli alieni delle storie di ordinaria e straordinaria follia degli umani!
Altrettanto pazzesche le capacità di Harry Houdini, apprendista stregone, in grado di liberarsi da qualsiasi tipo di manette, catene e camicie di forza sia a terra che sospeso o in acqua, di aprire qualsiasi serratura e di fuggire da qualsiasi galera. All’inizio attrazione da circo al pari dei gemelli siamesi e della donna puntaspilli, Houdini era diventato una celebrità e cent’anni fa intratteneva le folle colle sue mirabolanti imprese, illustrate nel museo di storia della sua città, Appleton. C’era chi credeva avesse delle doti medianiche, chi sospettava potesse smaterializzarsi e perfino chi – Sarah Bernhardt, nella fattispecie – gli chiedeva se potesse far ricrescere con la sua magia un arto amputato. Istrioni come lui non ne fanno più, invece la donna puntaspilli ha attualmente molte emule: al ristorante, proprio ad Appleton, seduta con una coppia di amici, trovo una ragazza budino, la testa ultratonda appollaiata sopra un abito-tenda a balze, come uno sformato. In male o in bene, ne hanno fatta, di strada, in questi quasi 400 anni, i figli di quegli avventurieri in cerca di pelli di castoro, di quegli avvoltoi che si sono avventati sulle risorse naturali del Wisconsin lasciandolo pelato di tutte le sue foreste (le poche che si vedono ora sono tutte ripiantate), di tutti i suoi minerali (i filoni si sono esauriti già molti decenni fa) e di tanti dei suoi animali. I lupi, ad esempio, sono stati recentemente dichiarati protetti, salvandoli dall’estinzione, e sforzi si stanno compiendo per ripristinare la fauna ittica di Lake Superior, decimata dalla pesca indiscriminata, dalle specie non native accidentalmente introdotte e dai parassiti che, a causa dell’apertura dei canali di navigazione, sono risaliti fino al lago. E’ un buon tempo per visitare il Wisconsin, adesso che la conduzione è cambiata. Forse è stato appreso “l’impegno più antico della storia dell’uomo: vivere in un pezzo di terra senza rovinarlo” (Aldo Leopold, 1938). L’avidità permane – vedi gli ormoni coi quali si pompa artificialmente il cibo, con risultati come la ragazza budino – ma ce se ne può difendere. Molte imprese già offrono prodotti naturali – il latte delle 400 mucche della fattoria del Thunder Valley Inn, ad esempio. La gregaria proprietaria spiega che è solo questione di sensibilizzare la domanda e l’offerta seguirà a ruota: Mrs. Nelson ha idee molto chiare sulla necessità di una gestione naturale e del contenimento a misura familiare delle imprese affinché l’impatto sul territorio sia sostenibile. Son persone come questa attempata ma spiritata norvegese, interessata in egual misura alla buona salute delle sue stalle come a quella di questa regione, che permetteranno al Wisconsin di continuare ad essere, in più d’un ambito, un modello per gli altri Stati. La posta è il futuro, a dispetto dell’ostentata nostalgia per l’epopea pionieristica, che altro non è se non una mitizzazione edulcorata ad uso di quest’età che, perdendo i valori collettivi, crea l’eroe individuale, inarrivabile, per giustificare il proprio lassismo (e, parimenti, il mostro per prendere le distanze dalle proprie nefandezze). Tra la gente da niente è possibile incontrare le persone sane, capaci, industriose ed appassionate che danno una dimensione umana a quest’America che non hai mai avuto il senso della misura e che fanno scoprire, a noi che abbiamo trovato un mondo già fatto, che è ancora possibile fissare autonomamente le coordinate della propria vita, inventarsi un’attività o trovare pienezza e soddisfazione adoperandosi per una causa. E’ nel Wisconsin che, più d’un secolo fa, William Harley e Arthur Davidson saldarono un motore a una bicicletta, inconsapevolmente creando un mito che, dopo più d’un secolo, ancora resiste ed è documentato nel formidabile museo Harley-Davidson di Milwaukee. E anche in provincia l’attività ferve, visto il viavai continuo di lunghissimi treni merci che fischiano il loro passaggio, timorosi forse di qualche animale selvatico, davanti ai motel di Prairie du Chien.
L’età d’oro dei primi turisti che andavano in crociera lungo le gole delle Wisconsin Dells o su Lake Geneva è finita e, scontando il kitch fenomenale delle Dells e l’esplosione psichedelica della mente pulsante in inarrestabile espansione della House on the Rock, è tutto un po’ in sordina, con piacevoli episodi come la tranquilla crociera serale sulla Horicon Marsh, quella, più vivace, tra le Apostle Islands a Bayfield, quella – spumeggiante – delle birrerie a Milwaukee. Le strade, a parte i cartelli piantati davanti casa dai sostenitori dell’uno o dell’altro candidato a deputato o a sceriffo, sono pulite e il traffico scorrevole ed ordinato, con l’occasionale gruppo di nostalgici rinoceronti barbuti in rombanti motociclette che fa tanto Route 66. Giusto qualche animale ne paga le spese: ai lati della strada, più d’un cervo e, qua e là, piccole pellicce maciullate: la coda a strisce bianche e nere che si è evoluta nei millenni è stata buono scudo contro i predatori, ma quanto ci vorrà per sviluppare una difesa contro il traffico? Ecco un porcospino, là un tasso. Il tasso (badger) è l’animale ufficiale dello stato, il suo musetto adorna gli architravi delle porte del Campidoglio: gli abitanti del Wisconsin venivano chiamati Badgers per la somiglianza degli scavi delle miniere a cielo aperto con le tane dei tassi, e hanno adottato di buon grado il soprannome.
“’Goditi questo giorno’, firmato Dio”, annuncia il cartello di una chiesa, con quell’atteggiamento scanzonato tutto americano. Sui pescatori al largo, sulle sterminate piantagioni, sul traffico compatto delle sopraelevate, il caldo estivo cede all’aria della sera. Passo passo, il sole sta arrivando al capolinea su una tavolozza di sprazzi di azzurro con macchie d’indaco e di bianco ma, prima che scompaia, i lama del bed and breakfast di Phillips si avviano, tutti assieme, in silenziosa intesa, al coperto. Stanotte, nel sogno, la ragazza budino salirà a cavallo dell’unicorno dell’enorme giostra rossa e tutti gli automi musicali della House on the Rock intoneranno un concerto coi loro mille Wurlitzer tale da spaventare Wagner. E mentre i personaggi di cemento sparsi per i giardini di tutti gli aspiranti scultori saliranno sui leggendari mezzi anfibi delle Dells per il rituale giro nella foresta e sul fiume, il Golden Rondelle s’alzerà in volo e gli spettatori ci saluteranno dai finestrini, noi che rimarremo addormentati in questo regno di birrerie e di architetti scorbutici e geniali. E’ stata una coinvolgente, sorprendente giornata in Wisconsin.