Allah Korusun! Dalla Tracia alla Colchide

Viaggio in camper in Asia Minore tra Turchia e Georgia
Scritto da: Agnese Palma
allah korusun! dalla tracia alla colchide
Partenza il: 01/08/2014
Ritorno il: 31/08/2014
Viaggiatori: 4
Spesa: 1000 €
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L’imbarco a Bari per Durazzo è quanto di più caotico si possa immaginare.

Sarà che è il primo di agosto e gli emigranti tornano a casa, ma la nave è zeppa e la disorganizzazione non scherza. Si parte con due ore abbondanti di ritardo e si sbarca con il medesimo ritardo ma inaspettatamente le operazioni di sbarco e controllo documenti a Durazzo sono veloci.

Poco male per il ritardo, nel viaggio itinerante ci si deve armare di pazienza, anche gli intoppi faranno parte degli aneddoti e del colore. Del resto, provate a prendere i mezzi pubblici a Roma in un qualunque giorno feriale!

Dopo essere stati taglieggiati con l’obbligatoria assicurazione, la scelta è entrare in Grecia passando a sud o a nord del lago Ohrid. Per raggiungere la tratta Salonicco-Istanbul decidiamo, mal consigliati dal navigatore, che conviene passare a nord perché la strada è più veloce.

Prima di avviarsi all’interno delle montagne si attraversano alcuni centri urbanizzati e si procede lentissimi: cocomerari, banchetti di frutta e merci varie a bordo strada, buche, gente che attraversa; tutto ciò contribuisce, aiutato da uno stile di guida libero dai vincoli del codice stradale, al caos urbano.

In questi paesi siamo lontani dalla precisione della tabella di marcia del viaggio nel nord Europa, eppure la mia simpatia va al povero sud est europeo. È una botta di nostalgia, è l’Italia di quando ero bambina, popolare, i vestiti dozzinali, le vetrine con gli abiti da sposa bianchi e gonfi come meringhe, il baretto estivo con i tavolini di plastica, le donne con la sporta della spesa, i bambini liberi di sporcarsi e sbucciarsi le ginocchia.

La strada che conduce in Grecia si inoltra per montagne verdi, in tutto simili al nostro appennino, è una buona strada, nuova, doppia corsia ma è bene attraversarla con il pieno di carburante.

Si deve passare per Pristina e ci sorprende un posto di frontiera per entrare nel Kosovo, con ulteriore balzello assicurativo, e poliziotti con le divise nuove di zecca e i lettori ottici di passaporto. Avranno avuto i finanziamenti da mamma Europa, generosa dopo aver attizzato gli odi etnici per favorire il separatismo. L’autostrada è nuovissima e si vedono villini a schiera in costruzione.

Ci vuole molta pazienza nell’attraversare i paesi balcanici, dopo 150 km ci aspetta un’altra fila, altra frontiera, quella con la Macedonia. Fortunatamente il passaggio in Grecia è più scorrevole, ma mi convinco sempre più che non si può ragionare per percorsi autostradali come fa il navigatore, che ha l’elasticità mentale del bit.

La frontiera con la Turchia è una fila di macchine targate Deutchland, ma non è un’invasione di turisti tedeschi, è la vasta comunità di emigrati turchi che tornano a casa per le ferie, quasi tre ore di attesa! Arrivando ad Istanbul nella periferia, che ormai ingloba diversi paesi limitrofi, si incrociano quartieri ultramoderni, che si accendono come una Las Vegas alle porte d’Oriente, quando arriviamo sul calar del buio. Sembra una città della fantascienza, una sorta di Blade Runner senza pioggia, in cui incredibilmente le cupole argentee delle nuove moschee si inseriscono senza contrasto, come osservatori astronomici di lontane galassie. Purtroppo non sono segnali di maggior diffusione di cultura scientifica ma di ripresa dell’oscurantismo (al pari delle nostre chiese cattoliche), di arretramento della laicità tanto voluta, un secolo fa, dal loro venerato padre della patria e leader della rivoluzione, Mustafa Kemal Ataturk.

L’urbanizzazione è massima e la globalizzazione pure: una distesa di centri commerciali e palazzi di vetro. Ero arrivata ad Istanbul via terra, percorrendo questa stessa strada venti anni fa, è irriconoscibile.

Non vedo l’ora di ritrovare l’immutabile Topkapi, Agia Sofia, la Moschea blu, il centro storico.

La mattina successiva, in centro, eccola, la Istanbul di sempre, brulicante dei suoi 15 milioni di abitanti, il traffico caotico, i turchi che riescono a guidare peggio degli italiani, migliaia e migliaia di turisti da tutto il mondo. Del resto è la seconda Roma, la Roma d’Oriente, la sua storia e l’arte che la rappresenta va dai Romani ai Bizantini, da Settimio Severo all’impero ottomano.

Al caos levantino profumato di spezie e scintillante di gioielli dello storico Gran Bazar segue un enorme mercato all’aperto, più popolare, dove si vende di tutto, comprese le caldarroste ad agosto.

Una buona parte delle cittadine di Istanbul sono ancora vestite all’occidentale, ma qui arriva anche molto turismo dai paesi arabi e dall’Iran e si vedono tante donne incartate nel burqa nero. Imbracciano costose macchine fotografiche e cellulari ultimo modello, prontamente notati da mio figlio dodicenne, dimostrando così che l’avanzamento e la diffusione della tecnologia non sono automaticamente indice di avanzamento di civiltà, come tanti petulanti tecnocrati borghesi vogliono farci credere. Purtroppo sono aumentate le donne velate in Turchia, grazie anche a Erdogan ed il suo partito, che non attacca apertamente la Costituzione rigorosamente laica voluta da Ataturk, ma promulga leggi tese a favorire sempre più l’applicazione dell’Islam nella società. Mi ricorda la sudditanza dello Stato italiano al Vaticano.

Tante donne velate si inseriscono nell’atmosfera del gioiello di Topkapi, l’Harem, nelle stanze finemente decorate, tra i divani lascivi e i cuscini ricamati in oro. Non posso fare a meno di ricordare “Harem Soiree”, uno dei primi film di Ferzan Ozpetek, in cui si rappresenta magistralmente la sorpresa e lo smarrimento delle donne del Sultano chiuse nell’Harem, liberate dopo la rivoluzione di Ataturk, la paura del mondo esterno di chi, da sempre prigioniero, non ha mai messo in conto che un giorno avrebbe dovuto caricarsi della libertà della propria vita.

A rompere l’atmosfera delle mille e una notte ci pensano i turisti, principalmente le donne, che si affollano a praticare questa egocentrica moda idiota messa facilitata dalla tecnologia, i selfie, in cui si può infilare la propria sciocca faccia sorridente ovunque, davanti ad ogni meraviglia patrimonio dell’umanità.

Dopo la faticata del gran palazzo del Sultano troviamo la forza di fare un’altra fila per scendere nella suggestiva Yerebatan Sarnici, antica cisterna romana sotterranea costruita con colonne recuperate da templi e palazzi che oggi la rendono un capolavoro di suggestione, con le colonne sapientemente illuminate che si riflettono nell’acqua.

A pochi passi si trova Agia Sofia, basilica bizantina ricostruita più volte su se stessa, trasformata in moschea ed infine nazionalizzata. Il complesso è imponente e l’interno è maestoso; la cupola nei secoli è crollata più volte per i terremoti e più volte è stata ricostruita. Con i mosaici bizantini da ammirare la fila dei turisti dove si crea? Sono tutti in coda per fotografarsi mentre toccano la colonna sudante di S. Gregorio. Con il caldo di agosto ad Instanbul sudano pure le colonne… In realtà si tratta di una colonna della basilica in cui è presente un’infiltrazione che la rende umida in un punto. La leggenda narra che toccare la parte umida della colonna guarisca le malattie della vista e faciliti le gravidanze. Immagino che nessuno creda sul serio a queste baggianate, però la foto con la manina sulla colonna non può mancare nell’album delle vacanze.

Chiudiamo il paio di giorni destinati alla veloce rivisitazione di Istanbul con la Moschea Blu; ho dimenticato di portare un pareo e quindi mi tocca il caftano puzzolente gentilmente messo a disposizione dalla moschea, ma vale la pena rivederla; l’interno rivestito di 20.000 piastrelle di ceramica decorata di Iznik fa prevalere il blu sugli altri colori, ovvero il bianco, giallo, verde e rosso. Si accede a metà della superficie interna, l’altra metà la si guarda dalle transenne. Anni fa si poteva girare liberamente, benché coperti, uomini e donne, in tutta la moschea. UNDERSTAND ISLAM. Un cartello invita a prendere appuntamento, magari avesse lo stesso effetto che per me ha avuto il catechismo cattolico: da brava secchiona lo studiai così bene e diligentemente da diventare atea prima della fine delle elementari.

L’esterno della Moschea Blu è un monumentale complesso di edifici in pietra grigia con ben sei minareti, visibile anche dal lontano ponte sul Bosforo, che ci porta in Asia.

Lasciata la parte più popolata, proseguendo verso l’interno ad est si incontra un’altra Turchia, quella dei grandi spazi dell’altopiano anatolico: immensi campi di grano, il silenzio, i trattori come utilitarie parcheggiati al bar per un chay bollente in compagnia, dopo il lavoro nei campi.

La capitale Ankara è una grande città moderna e ben tenuta, ma già marginale alle rotte del turismo di massa. Pernottiamo in un parcheggio in centro, circondato da un mercato popolare da non perdere. C’è un mercato coperto di generi alimentari che mi riporta indietro di quarant’anni, quando mio padre mi portava al mercato di piazza Vittorio dove si vendeva di tutto: frutta, verdura, formaggi, carne, pesce, dolci, pane, e non si faceva troppo caso alle mosche, i venditori le scacciavano agitando code fatte di striscioline di carta. Ricordo ancora il secchio delle rane infilate nello spago ancora vive. Qui le rane non ci sono ma si trovano trippa, lingua e frattaglie varie di bovino e di ovino appese ai ganci, testine e zampette di agnello e pecora arrostite, e molti altri cibi che non conosciamo. Tra gli acquisti alimentari sperimentiamo la “pastirma”, un affettato di carne bovina essiccata al vento e speziata.

Ankara merita la visita per il suo Museo delle Civiltà Anatoliche, moderno e ben strutturato, che contiene bellissimi manufatti delle civiltà locali che partono dal 6000 a.C. della civiltà caolitica, gli Ittiti, la Frigia, fino all’epoca romana. Il museo è semivuoto nonostante sia agosto, 500 km da Istanbul sono troppi per il turismo veloce. Meta del turismo interno è il Mausoleo di Ataturk, Anitkabir, un enorme complesso neoclassico in cui è sepolto il Padre della Patria Mustafà Kemal “Ataturk”. La rivoluzione nazionalista da lui guidata negli anni venti del novecento riuscì non solo ad abolire il Sultanato ottomano, ma anche a piegare gli alleati che si stavano spartendo le spoglie dello sconfitto impero ottomano e proclamare la Turchia indipendente, i cui confini sono ancora quelli. Ma la rivoluzione vera fu nella società: venne proclamata la laicità dello Stato, la Sharia e le scuole religiose furono abolite, creata la scuola laica e pubblica di Stato, introdotto l’alfabeto latino, il sistema metrico decimale, proibito il velo in pubblico (norma purtroppo abolita nel 2000), sancita la parità tra i sessi con conseguente voto alle donne (l’Italia ci arriverà solo nel 1946), depenalizzata l’omosessualità. Pur essendo una rivoluzione nazionalista e non comunista, credo che l’onda della rivoluzione russa del 1917 si facesse sentire. Ataturk stabilì subito rapporti di buon vicinato con l’URSS, e di stima con Lenin. Purtroppo si spinse molto sul nazionalismo, per vincere e tener saldo lo Stato, e questo portò alla negazione delle minoranze greche, armene e curde.

Proseguendo verso est si va ad Hattusas, antica capitale del popolo Ittita, che occupa una zona ondulata circondata da colline disabitate silenziose che evocano la suggestione dei tempi remoti. Forse a causa del pomeriggio già inoltrato, ma non si vede traccia dello stuolo di guide non autorizzate di una volta. Siamo agganciati molto discretamente da un guardiano che ci racconta in un misto di italiano ed inglese di una cooperativa turco-curda di donne che fanno kilim e della povertà del popolo curdo. È simpatico e dignitoso, ma vendono esclusivamente tappeti e gli possiamo lasciare solo una mancia. Il percorso per visitare il sito è circolare e lo percorriamo in camper, con le dovute soste alle porte di accesso dell’antica capitale: la porta del Re, delle Sfingi, dei Leoni. Gli scavi sono tuttora in corso. Dal punto più alto, la porta delle Sfingi, si distinguono bene i perimetri dei basamenti finora riportati alla luce, tra le ondulazioni dell’altopiano giallo ocra di mietiture.

La trilogia dei siti della civiltà Ittita prevede una visita a Yazilikaya, sito sacro, dove si trova un bassorilievo di dodici Dei in processione, scolpito nella roccia in una piccola gola naturale.

Nel terzo ultimo sito che visitiamo, Alaca Hoyuk, ci sono le tombe regali ed ha persino un piccolo museo, anche se i pezzi più pregiati degli arredi funerari sono stati portati ad Ankara.

Ormai si viaggia all’interno, ed in tutti i centri abitati non mancano scheletri di palazzine in costruzione o completate, spesso nel mezzo di polverosi sterrati. I Turchi amano i grattacieli, o comunque le palazzine multipiano, allineate e quadrate, e ne costruiscono anche nei centri abitati meno popolati. Non sono certo belle da vedere, allineate come alveari, e dire che lo spazio non manca! Brutte ma economiche. In compenso hanno costruito molti moderni ospedali.

Se da vivi amano l’alveare, in compenso da morti preferiscono stare larghi: non si vedono loculi nei cimiteri, solo tombe a terra con le bianche lapidi, senza foto, allineate tutte a guardare l’est, il sole che sorge.

La tappa verso Trebisonda è lunga ma più rapida del previsto, tutta su un’ottima superstrada, di gran lunga migliore della Pontina che percorro tutti i giorni. Vent’anni fa le strade turche erano piene di buche e con i solchi scavati nell’asfalto dal passaggio dei Tir. Oggi ci sono strade e superstrade ben tenute, dappertutto; l’attenzione va spostata agli automobilisti turchi, incuranti del codice della strada e dello specchietto retrovisore, riescono a superare persino gli italiani.

ALLAH KORUSUN, Dio non voglia, monito divino impresso sul retro delle migliaia di pulmini, nel supposto significato di “stammi alla larga”, deduco sia riferito allo stile di guida. Nessuna regola nessun motivo di discussione, compensano l’indisciplina con la cortesia, non solo gli automobilisti ma tutta la popolazione. L’atavica paura dell’espressione “mamma li turchi!”, certamente risalente al periodo ottomano, è veramente ingiustificata. Oltretutto, usciti dalle zone di turismo di massa, è raro che venga maggiorato il prezzo delle merci. Guardano noi e il camper con curiosità, chiedono da dove veniamo, ma si relazionano con candida onestà, siamo passati dalla condizione di turista a quella di viaggiatore straniero, verso il quale l’ospitalità è un dovere da secoli.

Costeggiamo il Mar Nero che non ha le belle spiagge del Mediterraneo, la sabbia è scura e conferisce un tono cupo anche all’acqua, ma alle spalle è dominato dalla verde montagna del Ponto, non è così brutto e inquinato come pensavo.

Dopo Unye, nei luoghi accessibili dalla strada asfaltata, le famigliole si recano in spiaggia e apparecchiano per i picnic, il più vicino possibile alla strada, come li abbiamo visti fare ovunque. Pochi fanno il bagno. Vado a bagnarmi i piedi, l’acqua è calda nonostante la temperatura esterna non sia caldissima, a dispetto del sole d’agosto. La catena del Ponto blocca l’umidità e favorisce le precipitazioni, questa è la zona più umida della Turchia, e qui viene coltivato tutto il tradizionale the rosso che viene bevuto in quantità industriale ed offerto ovunque, in ogni più remoto angolo del paese.

Attraversiamo Ordu, con i bar del lungomare moderni e frequentati e, dopo qualche chilometro, sui marciapiedi laterali della superstrada sono stese a terra decine di coperte con le nocciole a seccare al sole; contadini urbanizzati le ripuliscono dal baccello secco e si caricano in spalla i sacchi pieni, in un paesaggio urbano tutt’altro che bucolico. Contrasti tra nuova economia industriale e la secolare ma tuttora viva economia rurale.

Trebisonda, l’antica città di Mitridate re del Ponto, che passò ai romani nel primo secolo a.c., non conserva quasi nulla dell’antica importanza, se non la piccola basilica bizantina di Agia Sofia, con affreschi di pregio del XIII secolo, su una collina con ampia vista sul Mar Nero.

Una cinquantina di chilometri all’interno, addossato ad un’alta parete di roccia il monastero di Sumela è spettacolare. Una salita nel bosco, su un sentiero lastricato per i 250 metri di dislivello, porta al monastero a 1300 mt di altitudine. Gli affreschi sono bellissimi, sebbene siano stati in parte rovinati dai vandali e graffiati dai soliti mitomani da oltre un secolo, come testimoniano le date incise con il punteruolo. Il resto dei danni lo ha fatto la furia dei fan club delle opposte religioni.

Tornando a costeggiare il Mar Nero, arriviamo alla frontiera con la Georgia e qui ci aspettano due ore di fila, cosa che ci permette di ammirare uno splendido tramonto sul mare.

Appena varcata la frontiera c’è subito un bel casinò, mentre in Turchia non se ne trovano, sono stati chiusi anni fa ed è illegale anche il gioco d’azzardo online.

Batumi è in piena stagione estiva, arriviamo nell’orario serale della passeggiata in una località balneare standard, il traffico è caotico. Nemmeno venti chilometri dopo la frontiera e l’ambiente è molto diverso. Addio veli sul capo, le ragazze sono tutte in minigonna o shorts, arrancano sui tacchi alti, girano in comitiva anche da sole. Batumi è la costa vacanziera e mondana della Georgia e non solo: fuori gli scintillanti casinò sono parcheggiate costose macchine di marca tedesca con targa azera, appartenenti presumibilmente a ricchi oligarchi petrolieri che vengono a passare una vacanza ostentando qualche bionda dietro i vetri oscurati. A completare il quadro da luna park del rozzo e cinico capitalismo post sovietico abbondano le accattivanti filiali di “privat bank”, dal colorato e moderno arredamento, in cui i georgiani potranno investire i quattrini nella finanza spazzatura, non appena molti di loro avranno trovato un lavoro. L’ex presidente Saakashvili, sospetto tossicomane che ha trovato riparo dagli amici USA per non finire sotto processo in patria, laureato negli USA, era un fanatico del liberismo sfrenato e soprattutto della NATO. Verrà inoltre ricordato per aver riempito la Georgia di caserme della Polizia nuove di zecca, persino nei paeselli.

Come tutti i paladini del capitalismo privato, qui a Batumi Saakashvili è stato molto generoso con i soldi pubblici ed ha speso una fortuna per installare una moderna statua in bronzo di Medea, al fine di ricordare al mondo che questa regione sul Mar Nero era l’antica Colchide, colonia greca.

Dopo la prima cena con l’ottima cucina georgiana, facciamo un giro per vedere la Torre dell’Alfabeto illuminata: è una costruzione moderna e rappresenta tutte le lettere dell’alfabeto georgiano.

Se l’architettura soviet era spesso brutta e grigia, quella post sovietica ha il cattivo gusto dell’ostentazione di una ricchezza mai arrivata: i nuovi palazzi di rappresentanza si esprimono nella forma del colonnato neoclassico con illuminazione notturna a colori cangianti, oppure in un multipiano a vetri con disegni illuminati varianti, o ancora in costruzioni ondulate di varie forme, ma senza il genio di Gaudì. Non c’è limite alla fantasia architettonica. Fa un caldo tropicale e decidiamo di avviarci verso il Caucaso, nella regione dello Svaneti.

Le strade sono percorribili, anche se va prestata attenzione alle buche, a qualche cedimento dell’asfalto ed alle mucche che attraversano lentamente la strada con alterigia, nemmeno fossimo in India.

Se sentite suonare ripetutamente il clacson dietro di voi non preoccupatevi, è solo un georgiano che vuole sorpassarvi, sono appassionati del sorpasso azzardato come nel famoso film con Gassman. Le indicazioni fortunatamente sono sempre doppie, anche in alfabeto latino, altrimenti sarebbe stato un bel problema decifrare i ganci dell’alfabeto georgiano. Il camper suscita ancora più curiosità che nell’est turco, sono in pochi a spingersi fin qui dall’Europa, ed in tutto il giro in Georgia ne incontreremo meno di dieci.

Strada facendo, considerando che le previsioni non danno bel tempo in montagna, mi viene la tentazione di fare un salto a Sukhumi, quella che una volta veniva chiamata “Perla del Mar Nero”, luogo di vacanza prediletto dalla nomenclatura sovietica, ma decidiamo di rinunciare. Sukhumi è la capitale dell’Abkhazia, regione che si è separata sanguinosamente dalla Georgia nel 1991-93, e che il governo georgiano continua a rivendicare. Il passaggio è consentito ai cittadini stranieri solo in un punto, che si trova proprio sulla nostra strada, ma è burocraticamente macchinoso farsi dare il visto; inoltre usano il rublo, troppe seccature per stare un solo giorno.

La Georgia anticamente era costituita da un insieme di piccoli regni autonomi e l’Abkhazia era uno di questi. Quando ci fu l’annessione alla Georgia gli abkhazi (sì, si chiamano proprio così) non furono troppo contenti e alla prima occasione si sono separati, ovvero alla caduta dell’URSS. Mi resta la curiosità, ma ci saranno altre occasioni di viaggio.

Mestia è il villaggio più grande dello Svaneti, una delle regioni alle pendici del Grande Caucaso. La strada asfaltata finisce qui, ed è frequentata dal turismo degli amanti del trekking e mountain bike. Turismo è una parola grossa, i turisti saranno un millesimo di quelli presenti sulle nostre Alpi, ed il fascino è proprio questo: il Grande Caucaso è bellissimo e nel paesaggio ricorda molto la Val d’Aosta, ma pochissimo urbanizzato, prevalentemente disabitato e quasi privo di attrezzature turistiche.

La caratteristica dello Svaneti sono le torri in pietra costruite tra l’ottavo e il tredicesimo secolo, che servivano da abitazioni difensive. Hanno un bel museo etnografico in cui sono conservati prevalentemente pezzi di arte sacra, icone e preziosi, ma anche qualche oggetto di antica vita quotidiana. In una sala sono esposte le foto scattate nello Svaneti alla fine del diciannovesimo secolo da Vittorio Sella, alpinista e pioniere fotografo, nipote di Quintino Sella.

Il paese è circondato da cime innevate che arrivano fino a oltre 4000 metri, prati verdissimi, campi coltivati, mucche e maiali dappertutto, ma nemmeno l’ombra di una pecora. Nonostante qualche acquazzone riusciamo a completare un’escursione di 800 mt di dislivello che va ad una cima verde e boscosa visibile dal paese, sormontata da una croce come dalle nostre parti, la croce della chiesa cristiana georgiana, autocefala nel mosaico delle chiese cristiane d’oriente.

Il giorno seguente andiamo ad un villaggio ancora più interno al Caucaso, Ushguli, che dovrebbe essere il paese abitato per l’intero anno più alto d’Europa, 2100 metri, almeno secondo questa discutibile concezione neo-geografica di includere il Caucaso in Europa. Dall’altra parte c’è la Russia e l’Elbrus (5.642 mt), che ha spodestato il Monte Bianco come cima più alta di Europa, sulla base di questa nuova geografia creativa.

Ci vogliono due ore e mezzo di jeep per meno di 50 km, e questo già fa capire com’è la strada sterrata; stavolta il fuoristrada era indispensabile, il consiglio dei locali non era per spillare quattrini. Dal paese un sentiero porta avanti nella valle fino al fronte di un ghiacciaio, ne percorriamo un buon tratto prima di tornare indietro, stanno calando nuvoloni neri. Sul pendio, ben oltre i 2000 mt, un uomo solo falcia il fieno e ammucchia nei covoni a cupola, immagine del sussidiario delle mie scuole elementari.

Scendiamo dallo Svaneti per raggiungere Gori, facendo tappa per visitare, nel parco naturale di Satoplia, le orme fossili dei dinosauri. Sono state giustamente preservate dalle intemperie da una struttura in vetro, e costruiti edifici di accoglienza per i turisti e una mostra didattica, ma le strutture sono chiuse e sembrano già in degrado, ed i visitatori scarsi in piena stagione. Ci infiliamo in una grotta carsica, o meglio in un tunnel, lungo circa 300 metri, attrezzato con un moderno camminamento. È dotato di una soffusa illuminazione colorata che da queste parti piace tanto, e piace pure alla guida (Lonely Planet), ma a mio parere falsa i colori delle concrezioni e la fa sembrare un tunnel di luna park, tanto che i ragazzini ci chiedono se è finta!

A proposito di guide turistiche, non ho mai amato la Lonely Planet: è utilissima e precisa per tutte le informazioni pratiche che servono in viaggio, ma per quanto riguarda l’inquadramento culturale, storico e artistico è piatta e raccogliticcia, risente della rozzezza del gusto di autori generalmente incolti, quasi sempre americani o australiani. Preferisco le guide Touring, quando si trovano. Hanno spesso una visione del mondo con il monocolo culturale euroatlantico, con qualche accenno di supponenza, ma almeno sono più rigorose e precise nella loro sintesi divulgativa culturale e geografica.

Sono in corso dei lavori di sistemazione del parco, stanno costruendo nuovi moderni edifici di accoglienza, con il solito grande uso di vetro e cemento, lasciando andare in malora quelli di epoca sovietica e anche precedenti. Sono adibiti a market, ristoranti, SPA, sale gioco e scommesse, che abbondano in tutta la Georgia. A restaurare alcuni edifici di pregio in stile liberty, abbandonati al degrado, non ci pensano proprio.

C’è un solo motivo per cui si va a visitare Gori, ed è il museo di Stalin. Josif Vissarionovic Giugasvili, detto Stalin (acciaio), è il più noto e potente georgiano della storia, comunque lo si voglia giudicare. Per trent’anni circa governò l’Unione Sovietica, e la portò dagli aratri a potenza mondiale nucleare, come disse lo statista conservatore Churchill, il quale nutriva una grande ammirazione per i dittatori, ad iniziare dal nostro Mussolini. Piazza Stalin è stata presumibilmente realizzata intorno alla modesta casetta natale di baffone, che ora si trova nel giardino del museo. All’interno sono conservati una serie di oggetti appartenuti a Stalin, una sua divisa, molte foto, il suo studio al Cremlino, alcuni regali personali ricevuti da diversi paesi, tra i quali noto un servizio di coppette azzurre donato “dalle donne comuniste di Ascoli Piceno al compagno Stalin nel suo 70^ compleanno”. Non manca una sezione sull’epopea dell’armata rossa nella seconda guerra mondiale, alle porte di Mosca fino alla conquista di Berlino e la sconfitta delle armate del terzo Reich, fatti di cui in Europa ci siamo dimenticati e che forse ci condannerà a ripeterli. È mostrata una rara foto del figlio maggiore Jackob nel campo di prigionia tedesco, prima della sua esecuzione.

Visitammo la Georgia e questo museo nel 2001 e nel 2014 l’ho trovato invariato persino nella polvere, la nuova parte sulle persecuzioni ed i gulag non c’è, contrariamente a quanto vaneggia la guida Lonely Planet. Mi chiedo se gli autori di queste guide ci vanno sul serio a vedere i musei, di certo meno attrattivi di bar e ristoranti da classificare. L’unica cosa diversa dal passato è la creazione di un piccolo shop che vende diversi tipi di gadget con l’immagine di Baffone, introvabili nel resto del mondo. Gli unici gadget che trovai, 13 anni fa, furono dei pacchetti di sigarette, credo impossibili da fumare, ma bellissimi, rossi con la faccia di Stalin e la scritta “Nostalgia” in cirillico che regalai a tutti gli amici. La maggior parte di loro oggi vota per il PD, alcuni ancora credendo di essere a sinistra: perle ai porci.

Gori aveva un mercato grande e vivace, ma oggi è molto ridotto, l’area che occupava è chiusa ed in totale degrado. Ai piedi della fortezza è stato inserito un monumento formato da diversi guerrieri medievali di metallo, di gusto vagamente celtico-leghista, a ricordo della disastrosa impresa dell’attacco georgiano all’Ossezia del Sud, finita come con l’Abkhazia con la definitiva separazione.

Gori è vicina alla capitale e Tbilisi non possiamo saltarla, ma ci aspetta un caldo rovente che pesa dopo le altezze dello Svaeneti e la frescura collinare di Gori. Torniamo al Museo della Georgia, dove è conservato un tesoro di pezzi di oreficeria delle antiche popolazioni caucasiche, che parte dal terzo millennio avanti Cristo. È stato totalmente ristrutturato secondo criteri moderni, con ampie sale, i pezzi valorizzati da una bella esposizione.

Nel centro è stata restaurata qualcuna delle graziose case storiche con i balconi in legno colorati di tinte pastello, principalmente nel piccolo quartiere Vale, sulla riva sinistra del fiume Mktvari, diventato una rive gauche, la movida di Tbilisi.

Ritroviamo infine Abanotubani, piazza delle terme con le sue basse cupole di mattoni, restaurate ed ampliate esternamente da scavi del basamento. Oggi c’è qualche bar moderno e molti negozi di souvenir, ma i ragazzini ancora salgono a giocare sulle basse cupole. All’interno delle terme nulla è stato restaurato e cambiato, i marmi segnati dallo zolfo, i divanetti di pelle consumati, i rubinetti rotti e rattoppati, persino il prezzo è lo stesso per un bagno nelle vasche di acqua sulfurea, che non ricordavamo così calda, credo sfiori i 40 gradi.

Il caldo ci fa affrettare la partenza nuovamente verso il Caucaso, direttamente verso nord, lungo la vecchia Georgian Military Highway, più che buona per le condizioni delle strade georgiane di montagna. La strada supera un passo a 2.379 tra immensi panorami di montagne e valli verdissime. È la strada migliore, direi l’unica, per attraversare il Caucaso e andare in Russia, quindi frequentata dai Tir e da molti automobilisti russi, spericolati del sorpasso azzardato peggio dei turchi e dei georgiani.

Ci ritroviamo, distratti dal paesaggio, alla frontiera con la Russia! La nostra destinazione era Kazbegy, 15 km prima della frontiera, ma non abbiamo riconosciuto il paese prima di tutto dal nome: non si chiama più Kazbegy ma Stephantsminda, mi chiedo perché… In secondo luogo non è più il villaggio polveroso dove arrivammo noi soli stranieri con la marshrutka da Tblisi. C’è un gran traffico di fuoristrada, taxi, guest house, persino l’immancabile casinò! Nel nostro precedente viaggio, sempre in agosto, i turisti a Kazbegy erano sei in tutto: noi, una coppia di inglesi e una coppia di austriaci.

Andiamo alla ricerca dell’hotel che ci ospitò: era una piccola casetta, ex ufficio postale, gestito da un simpatico architetto ritrovatosi disoccupato con la caduta dell’URSS, che si arrangiava con diversi mestieri a sbarcare il lunario e permettere alla figlia di frequentare l’università a Tblisi. L’interno era imbiancato di fresco e pulito, con la carta da parati a coprire il vetro dello sportello, e nell’ex caveau conservava le caciotte. La casetta è rimasta uguale, ma ora è una rivendita di sigarette. Saliamo subito fino a Tsaminda Sameba, la chiesa che si trova a 2.200 mt, circa 500 mt sopra Kazbegy e, insieme alla bianca punta del monte Kazbek (5.033 mt), forma il panorama caratteristico dalla piazza del paese. Il panorama dalla chiesa è imponente, a 360 gradi sulle verdissime cime e sulle punte innevate che sfiorano i 5.000 mt. Anche Tsaminda Sameba è stata ampliata, fortunatamente senza esagerare. C’è un gran numero di jeep, pulmini 4×4 Mitsubishi che vanno per la maggiore, le indistruttibili Lada Niva che trasportano turisti, trekker, qualche pellegrino. Il tempo qui è bello nonostante l’altitudine, e il giorno successivo, dopo una levataccia per ammirare la cima rosa del Kazbek all’alba, prenotiamo una jeep per salire di nuovo qui e poter fare il primo tratto di un sentiero che permette di arrivare al ghiacciaio e, per i più attrezzati e allenati, porta in vetta al Kazbek in due giorni. Gli anni in più e l’altitudine si fanno sentire, faccio una grande fatica a salire il ripido sentiero, ma quando si arriva in prossimità della sella a 3000 l’imponente punta bianchissima del Kazbek si para davanti quasi all’improvviso ed è un’emozione, confermata dal grido ammirato di mio figlio che mi chiama, qualche metro più avanti. Il panorama è grandioso, sul ghiacciaio, sulla cima enorme e arrotondata circondata dal resto della catena montuosa. Valeva veramente la pena salire fin qui.

Scendendo di nuovo verso il paese, dall’alto si può apprezzare la crescita di Stephantsminda-Kazbegy, sarà almeno decuplicato. Io ed Ivano visitammo la Georgia tredici anni fa in un momento disperato della nostra vita, eppure ne conserviamo un ricordo fascinoso, in certa misura da viaggiatore ottocentesco romantico. Ora che sono avanti con gli anni e mi capita di ritornare a distanza di tempo in luoghi già visitati, mi secca se li trovo modificati per accogliere i turisti, provo come un senso di disappunto per l’innocenza perduta. “Ma i posti si evolvono con il tempo, mamma, è normale..”, dice mio figlio con quel senso di ostentata sicurezza che hanno gli adolescenti, e forse ha ragione lui.

Ad essere sinceri non sono molti i posti della Georgia ad essersi sviluppati turisticamente, e di certo le case rupestri di Vardzia sono viste da pochi amatori. Le visitiamo scendendo a sud, per rientrare in Turchia dal posto di frontiera di Vale, sull’altro Caucaso, il Caucaso Minore Armeno. Al tempo della regina Tamara qui vivevano fino a 2.000 monaci, in grotte scavate nella montagna.

Il numero di veicoli è molto ridotto rispetto al posto di frontiera sul Mar Nero, sono quasi solo Tir, e non c’è veramente niente, nemmeno il solito duty free, eppure ci impieghiamo lo stesso un’ora e mezza di pura burocrazia, sopratutto turca. Il numeroso personale alle frontiere turche non serve a ridurre i tempi ma ad allungarli, ognuno deve ricontrollare i documenti ed il veicolo da capo.

Durante il nostro giro in Georgia si sono tenute le elezioni presidenziali in Turchia, che hanno visto vincitore al primo turno l’aspirante sultano Erdogan. Lo credo bene, la Turchia è tappezzata solo dei suoi giganteschi manifesti! È la prima volta che si vota per le presidenziali in Turchia, è appena stata cambiata la Costituzione per l’elezione diretta del capo dello Stato, che ovviamente avrà più poteri. Prima o poi ci riescono anche da noi, e senza incontrare resitenza.

Il paesaggio è verde, spoglio e ondulato che potrebbe sembrare collinare, ma si va dai 1.400 mt della frontiera ai 2.550 del passo. Mandrie di mucche attraversano la strada ed un vaccaro ci fa un gesto che esprime il concetto “ma dove andate?!?” e poi ci chiede dell’acqua. Si vedono tende di accampamento e ci chiediamo se si pratichi ancora la transumanza e il nomadismo. La domanda troverà risposta poco dopo: quando ci fermiamo al passo e viene a farci visita un bel signore anziano, chiuso in un lungo cappotto grigio, che vorrebbe chiacchierare ma non abbiamo una parola in comune, parla solo il turco o più probabilmente il curdo, e proviene proprio dall’accampamento. Gli facciamo visitare il camper e proviamo ad offrirgli qualcosa, ma è lui che vuole invitarci a cena a tutti i costi! Siamo stanchi e si fa finta di non capire per declinare con cortesia l’invito. Sono nomadi curdi, ci fa capire che ha quattro o cinque figli, una famiglia di stranieri che si ferma in mezzo a questo maestoso nulla è un avvenimento. In fondo siamo nomadi anche noi. Alla fine ci salutiamo con un abbraccio e torna rammaricato al suo accampamento, con i lembi del lungo cappotto svolazzanti al freddo vento delle altezze anatoliche.

Al mattino siamo risvegliati da sonori muggiti e qualche scossa al camper: siamo in mezzo al transito di una mandria di mucche di almeno 500 capi! Questi immensi altopiani ondulati quasi disabitati sono pascoli per grosse mandrie, da far concorrenza al Texas; se il nomadismo è pressoché scomparso, viene però ancora praticata la transumanza.

Arriviamo al confine con l’Armenia, dove la strada termina davanti alle mura di Ani, antica capitale del regno armeno, di cui purtroppo è rimasto ben poco se non l’estensione delle rovine, da cui si intuisce la grandezza dell’antica capitale, che per un certo periodo poté rivaleggiare con Costantinopoli, intorno all’anno mille. Gli armeni non saranno molto contenti che la loro antica capitale ora sia qualche metro al di là del confine, nell’odiata Turchia. Il periodo d’oro di Ani fu intorno all’anno mille, era una delle città importanti sulla via della seta. Il sito è suggestivo per il paesaggio deserto e solcato dell’incisione del fiume, sul quale si affaccia la moschea. Qualche edificio è stato parzialmente ricostruito, il resto sono sassi perimetrali bruciati dal sole cocente dell’arido altopiano, eppure siamo a 2.000 metri.

Continuando parallelamente al confine armeno arriviamo a Dogubayezit, cittadina principale di una zona di zona di villaggi kurdo-armeni, e puntiamo direttamente al palazzo Ishak Pasha Saray, cinque chilometri fuori città, su uno sperone tra le variegate rocce sedimentarie e vulcaniche che disegnano l’immensa bellezza dell’estremo oriente della Turchia. Più che gli interni è bello l’esterno e la posizione di questo palazzo, residenza estiva di un importante pasha kurdo del XVII secolo. Nel tratto Igdir-Dogubayezit la strada corre per una cinquantina di chilometri alle pendici meridionali del biblico monte Ararat (5.137 mt), che si impone solitario sulla pianura, dall’altra parte c’è Erevan, la capitale dell’Armenia.

A Dogubayezit, passiamo in una strada tra una enorme caserma dell’esercito, ed un grande campo di esercitazione militare. Qui siamo in pieno Kurdistan, ma in generale la Turchia è un paese fortemente militarizzato, non c’è paesello in cui non si veda una “Jandarma”, la presenza di militari è diffusissima. Continuiamo a percorrere zone di frontiera, ora siamo vicini al confine con l’Iran.

Per andare a vedere un cratere lasciato da un meteorite nel 1892 si deve arrivare proprio a pochi metri dal confine, prendere una strada interna dove c’è un posto di blocco in cui si deve lasciare passaporto e patente del guidatore e il libretto di circolazione del camper. Non si sa mai, volessimo lasciare la Turchia per entrare clandestinamente in Iran…

Il viaggio prosegue verso il sud e costeggia per un buon tratto il lago Van, che offre al fotografo panorami dai colori intensi, tra le colorate aride colline e l’azzurro intenso dell’acqua, tanto azzurro da sembrare il mare, se non fosse per l’opacità leggermente lattiginosa dell’acqua.

Scendendo a sud si scende anche di altitudine e si entra nella parte nord della Mesopotamia, la mezzaluna fertile, molto vicini al confine con l’Iraq e la Siria. Cinquemila anni fa sarà stata anche fertile, ma ora è una pianura arida, con una temperatura superiore ai 40 gradi e, al momento, spazzata da un vento caldo che solleva nell’aria una polvere sottile e affoga l’orizzonte in una nuvola ocra. Una mano all’inaridimento l’avranno data anche i turchi prima con la costruzione della grande diga sul fiume Eufrate, che ha creato il lago artificiale Ataturk ma ha bloccato la portata del fiume facendo infuriare i siriani.

Cerchiamo di arrivare ad Hasankeyf di buon mattino, ma prima delle nove già ci sono 35 gradi. Piccola e caratteristica cittadina sul Tigri, con la sua cittadella, i suoi negozi di souvenir, i ristorantini di pesce sul fiume, ha il destino segnato dal “progresso”, nell’accezione travolgente e asfaltatrice del governo turco: verrà sommersa nel 2015 da una nuova diga, questa sul Tigri, per completare l’opera di stravolgimento dell’attuale Mesopotamia.

Mentre attraversiamo la pianura mesopotamica rovente e in piena tempesta di polvere, il motore del camper cede improvvisamente con grande fumata e puzza di bruciato. Qui non c’è il soccorso ACI ma ad un cenno qualcuno si ferma e ti soccorre, e Ivano viene accompagnato al primo benzinaio sperando ci sia un’officina, infine chiamano una bisarca per rimorchiare il camper fino al service più vicino. Vedendo la carrozzeria e l’età del carro attrezzi, ho dubitato riuscisse a caricare il camper, invece ce la fa e intelligentemente l’autista, con cui si può comunicare solo a gesti, ci porta ad una moderna officina Ford davanti l’aereoporto di Kiziltepe. Siamo coscienti che il guasto è grave e, oltre la spesa, ci preoccupa anche il tempo che sarà necessario per ripararlo. Un solo addetto, Vesdi, mastica l’inglese, e se non fosse per i lineamenti asiatici potrebbe passare per anglosassone, ha pelle castana e occhi chiarissimi. È moldavo, della parte opposta del Mar Nero e ci chiede se parliamo russo, lingua che evidentemente conosce meglio. Gli occhi celesti non sono poi tanto rari da queste parti, anche tra i turchi se ne vedono su volti scuri. Effetti delle mescolanze di genti sulla via della seta.

Ci offrono l’immancabile the, caramelle ai bambini, ospitalità in un salottino d’attesa con aria condizionata, Vesdi ci accompagna nel vicino centro commerciale per permetterci di pranzare, mentre il camper viene esaminato. Tutto questo aumenta la nostra ansia, o meglio la mia e di Ivano perché i ragazzini appena vedono il Mac Donald sono contenti e iniziano il tormentone per pranzare lì. Siamo troppo depressi per opporre resistenza, stavolta vince la globalizzazione. Noto con piacere che è quasi vuoto, come del resto tutto il mega centro commerciale Mova Park di stampo occidentale. Il Mac turco è un po’ più economico dei nostri Mac Donalds, ma sensibilmente più caro del loro fast food tradizionale, il kebab, e fanno bene a disertarlo! Cosa se ne fanno, poi, di un posto dove devi recarti per forza in macchina per acquistare merci care e a prezzo fisso quando mezza città è un mercato dove trovi di tutto alla metà del prezzo! Infatti i bazar sono pieni e il centro commerciale è vuoto, e me ne compiaccio.

Nel pomeriggio piccola riunione nella stanza del capo, Yussuf, assistito dal traduttore internet e in parte da Vesdi. Arriva la sentenza del capo meccanico, un baffone dalla faccia simpatica, che ci chiede se parliamo arabo: pistoni da cambiare, problemi con gli iniettori, altre amenità, dicono che cercheranno di contenere la spesa ma è ovviamente consistente, e di farcela in tre giorni. Ci lasciano dormire nel camper (dentro l’officina!) e ci forniscono l’elettricità per attaccare il condizionatore, senza il quale potremmo morire di caldo, e ci fanno usare i loro bagni.

Non abbiamo molta scelta, quindi affittiamo una macchina per andare in giro nei dintorni. A pochi chilometri c’è Mardin, il cui centro storico è ai piedi della cittadella, elevato rispetto alla pianura polverosa, qui fa più fresco. Le case in pietra squadrate hanno decorazioni prevalentemente geometriche con pietre di diverso colore, intagli, nel pendio emergono le cupole delle moschee e madrase, qualche minareto. Si godrebbe di una bella vista, se non ci fosse la tempesta di polvere in corso.

La mattina dopo il vento ha smesso di soffiare, la polvere si è depositata, il sole ti spacca ma si respira e si rivede l’azzurro nel cielo. Abbiamo tutto il giorno e andiamo a Sanliurfa, a 150 chilometri. Il pezzo forte di questa città è il bazar, grande e animato dalla gente del posto, non ci sono turisti. Le botteghe sono collocate nei locali della struttura storica, risalente al XVI secolo, quando era un importante mercato della via della seta, saggiamente ombreggiato. Si passeggia con piacere tra i colori e i profumi delle spezie e dei saponi. Siamo vicini ad Aleppo, famosa per i saponi artigianali, e anche qui ne vengono venduti in quantità, di varia composizione e proprietà. Nonostante l’invasione di merci cinesi o indiane, il bazar non ha perso il suo fascino. Qui e là si apre una piazzetta alberata con i suo caffè, il the, il kebab, piccole moschee, vecchi che giocano a dadi. Esistono ancora fabbri che battono sulle incudini, sarti che ti confezionano una camicia o un abito in giornata.

In un parco ben curato, Golbasi, un complesso di edifici religiosi ben restaurati sono meta di turismo locale, intorno ad una grande vasca con grossi pesci ben nutriti; rappresenta la leggenda di Abramo che, destinato al rogo da un re assiro, vede le fiamme trasformarsi in acqua e i tizzoni in pesci.

Pochi chilometri fuori città stanno scavando un sito archeologico di tutto rispetto, benché sconosciuto alle masse, Gobekli Tepe, che potrebbe oscurare la fama di Stonehenge. Sepolto nella solita collina bruciata dal sole è stato scoperto un tempio risalente a quasi 10.000 anni fa (7.000 anni prima di Stonehenge), ovvero l’età della pietra, a pianta circolare con colonne a T sui cui sono scolpite figure di animali e simboli di una certa raffinatezza. L’importanza è data dal fatto che finora si pensava che i nostri progenitori di quel periodo sapessero a malapena spidocchiarsi e dare qualche martellata in giro, ora si fa partire da questo sito l’inizio dell’architettura!

Le sorprese non sono finite! Al ritorno, sulla superstrada per Kiziltepe, ci blocca un fila con motori spenti. Incidente grave? No, un blocco stradale con grosse pietre messe nei due sensi da un centinaio di manifestanti. Quando vado avanti a piedi per recuperare il figlio andato a curiosare, sono in corso scontri con la polizia, schierata in assetto antisommossa. Lanci di pietre dei manifestanti, lacrimogeni, sterpaglie che prendono fuoco… Chi saranno? Siamo in territorio curdo. Restiamo bloccati per oltre tre ore, è buio quando finalmente la polizia se ne va ed il blocco viene rimosso, ormai rassegnati a dover dormire in macchina.

Il giorno dopo Vesdi fa il vago alle mie domande sul blocco stradale, ha la buona notizia che il camper sarà pronto nel pomeriggio di domani, ovvero un giorno prima del previsto. Abbiamo scoperto, curiosando su internet per capire se i turchi ci stavano fregando, che tutti i Transit del 2008 hanno bucato i pistoni dopo 50.000 km, a causa di una partita di pistoni di bassa qualità, ma non hanno mai riconosciuto il difetto di fabbrica. Qualcuno ha fatto causa, qualcuno vorrebbe fare una class action. Grazie Ford! Abbiamo quindi scoperto che i meccanici turchi non solo non ci volevano fregare, ma che ripararlo in Italia ci sarebbe costato il doppio, a parziale consolazione della batosta.

Il motivo del blocco lo scoprirò leggendo le notizie riportate dal sito di Contropiano: poco distante da questa zona la polizia turca ha sparato sui profughi curdi iracheni e siriani che riparano in Turchia per sfuggire agli eccidi dell’Isis, l’organizzazione integralista islamica pasciuta dagli USA, novità mediatica dell’estate 2014. Erdogan, da bravo islamista, ha spesso offerto rifugio a questi tagliagole, ed in aggiunta non gradisce l’entrata di altri curdi, nemmeno per ragioni umanitarie.

Dei 24-25 milioni di curdi stimati, attualmente, 1a metà vive in Turchia. Popolo di origini antiche, che i curdi stabiliscono alla caduta di Ninive (612 a.c.), vive in un’area tra la Turchia orientale (la più vasta), l’Iraq, l’Iran, la Siria e qualche scampolo in Armenia. Pur essendo organizzati in piccole monarchie indipendenti, la loro storia è legata a quella dei territori in cui abitano, quindi principalmente all’impero persiano e soprattutto all’impero ottomano. Il “feroce” Saladino (feroce secondo i crociati, perchè nella realtà non lo fu affatto) era di origine curda. La questione curda come la conosciamo oggi possiamo farla risalire alla caduta dell’impero ottomano, dopo la prima guerra mondiale. Nella spartizione dei territori dell’impero ottomano fu in un primo momento riconosciuta la creazione di uno stato curdo tra Russia e Turchia, ma dopo le vittorie di Ataturk e la definizione dei confini dell’attuale Turchia il trattato di Losanna sancì la divisione. Il nazionalismo sfrenato necessario a compattare il giovane stato turco portò a negare qualsiasi differenza etnica, ignorando e reprimendo le comunità armene e curde. Per gli armeni finì in genocidio, ed i curdi hanno combattuto per anni contro la repressione feroce del governo.

Per far passare la mattinata andiamo a visitare il Monastero dello Zafferano appena fuori Mardin, fondato nell’ottavo secolo, ortodosso della chiesa siriana. È ben restaurato e silenzioso, con bar e shop moderno, ma noi scalpitiamo per ripartire con il camper restaurato anch’esso, ci aspetta il Nemrut Dag.

Anni fa fu il punto più a est che raggiungemmo in Turchia, sembrava ai confini della civiltà, eravamo pochissimi a godere del tramonto dalla sua vetta (2.150 mt) passeggiando in mezzo alle gigantesche teste della terrazza ovest. Arriviamo al parcheggio a quota 2.000, lo stesso ma ripavimentato, e un sentiero lastricato in pietra conduce alla vetta, con aggiuanta di servizio di muli per i pigri o i disabili. Oggi le grandi teste, uniche rimanenti delle gigantesche statue della tomba del re Antioco I, sono protette da una recinzione di catene, ed a ragion veduta. Ad attendere il tramonto c’è mezza Turchia più il resto del mondo, appollaiati sulle rocce a sembrare una colonia di uccelli. Lo spettacolo del tramonto è sempre mozzafiato, ma per fare una foto decente si deve aspettare che la folla venga richiamata ai pulmini turistici. Le foto alla terrazza est si possono fare con la luce del primo mattino. Noi possiamo dormire in vetta con il camper, e pensiamo che all’alba del mattino dopo non ci sarà nessuno. Sbagliato! Prima del sorgere del sole arriva l’invasione di pulmini e scarica decine di turisti che avranno vegliato pur di vedere l’alba dalla cima del Nemrut.

Antioco I di Commagene e famiglia fecero costruire altri tumuli funerari, in zona, per sistemarsi dopo morti. Visitiamo il Karacus Tepesi, tumulo fatto costruire dal padre di Antioco, il re Mitridate I, per la madre e altre donne sue parenti, con tre grandi colonne doriche.

Il ponte romano di Settimio Severo sull’Eufrate, oggi ridotto a fiumana, lo troviamo deludente.

Nel percorso di ritorno verso ovest non possiamo non passare in Cappadocia, benché ci aspettiamo sia diventato un posto molto turistico ma non importa, resta comunque un luogo fiabesco. Le ceneri e polveri vulcaniche hanno colori che vanno dal bianco all’ocra, dal crema al rosa, e l’erosione ha scavato forme bizzarre nelle rocce tenere. Uchisar, con il suo roccione traforato sembra il paese delle fate, si può salire fino in cima per vedere il più ampio panorama della Cappadocia. Pashabaglari è un altro luogo incredibile, vi sono concentrati in buon numero molti “camini delle fate” dalle forme più bizzarre. In realtà sono stati creati in quelle particolari forme dall’erosione: un masso in pietra dura ripara dall’erosione la tenera roccia vulcanica sotto di lui formando, con il tempo, delle torri naturali di forma vagamente fallica. Questo paesaggio, già unico di per sé, è traforato da innumerevoli grotte usate come rifugi, abitazioni ed utilizzate soprattutto dai monaci bizantini. Molte grotte furono trasformate in chiese dai monaci, hanno affreschi ed intagli, sono da tempo protette dall’Unesco, e vi si accede come a dei musei a cielo aperto. In verità la Cappadocia, regione molto piccola in relazione alle dimensioni del territorio dell’Asia Minore, è tutta un museo a cielo aperto e ormai credo viva esclusivamente di turismo. I prezzi sono occidentali, almeno il triplo rispetto al resto della Turchia; da pochi anni è partito un altro business, quello delle mongolfiere. Un’ora di volo costa una fortuna, ma se i turisti abboccano all’amo… Lo spettacolo più bello, e gratuito, è vederle alzare tutte insieme all’alba da uno dei punti panoramici lungo la strada.

Rivediamo Goreme, di mattina presto, fa meno caldo e il numero di visitatori è accettabile; quando usciamo il parcheggio si è riempito di pullman gran turismo che scaricano centinaia di persone.

Pamukkale, il “castello di cotone”, è un altro luogo unico da rivedere e sopratutto da far vedere ai nostri figli, che iniziano ad essere stanchi di tanto girovagare. Arriviamo all’ingresso a valle e troviamo tutto cambiato. Le bellissime vasche bianche digradanti che si vedono in tutte le foto sono asciutte, l’acqua termale è stata deviata lungo un percorso che va dalla sommità della collina alla biglietteria in basso. L’acqua forma un velo sulle formazioni calcaree, riempie altre vasche, che hanno avuto un rinforzo di cemento per renderle più solide. In questo modo hanno creato un percorso obbligato per i visitatori. Il resto della collina è bianco ma asciutto, mi auguro che durante l’inverno facciano scorrere l’acqua sulla parte asciutta, in modo che l’acqua termale possa continuare a depositare il fine pulviscolo di calcio che rende bianchissime le formazioni rocciose. Nei primi anni novanta chiusero e poi demolirono gli alberghi che deviavano per il loro utilizzo l’acqua termale, causando il degrado delle rocce. Si risaliva la collina da uno spazio più ampio ed era assolutamente vietato entrare dentro le vasche naturali, anche se ad esser sinceri molti entravano a piedi nudi nelle basse acque, finché il fischio di uno dei sorveglianti richiamava alle regole. Devono aver pensato che fosse meglio accontentare il turista, oggi quindi non solo ti permettono, ma ti obbligano a camminare scalzo lungo il percorso. Per chi, come me, ha il piede sensibile è una prova di resistenza perché il percorso è lungo, e la discesa disturba più della salita. Non c’è rischio di scivolare, la bianca roccia è ruvida come una pietra pomice ed è un pedicure gratuito.

Arrivati in cima alla collina c’è il maestoso sito romano di Hierapolis, ben conservato. I romani non potevano certo lasciarsi sfuggire queste favolose terme naturali, oltre che piacevoli anche curative di malattie della pelle e reumatismi. Da tutto l’impero romano facoltosi pazienti venivano a curarsi e a divertirsi e ne restano importanti vestigia, ma noi le trascuriamo perché i ragazzini, ed in una certa misura anche noi, iniziano a soffrire della sindrome di Stendhal.

Preferiamo tornare nella piscina termale storica, quella in cui si può fare il bagno nell’acqua a 37 gradi in mezzo ai resti sommersi delle colonne romane. Le stanze che affacciavano sulla piscina sono scomparse, smontate, ora c’è una reception con mega negozio di souvenir, bar, ristorante e altri servizi. Il biglietto si paga solo per fare il bagno nella piscina, ma una volta entrati si deve rimanere a mollo, i tornelli sono all’entrata in acqua, non si può uscire in giardino e rientrare. Sembra un sistema poco flessibile e accogliente, ma se vogliono tenerci a bagno maria, così sia, stiamo in acqua per tre ore, si sta benissimo, sembra di fare il bagno nella Ferrarelle calda.

Fa molto caldo e, dopo molto girovagare, ci prendiamo un giorno di pausa in una delle piscine termali ora costruite a valle della collina, con scivoli per far divertire i ragazzi.

Chiudiamo con l’archeologia, nel ritorno verso l’ovest, andando a fotografare i siti dell’antico regno della Frigia (900-800 a.c.) , in particolare i luoghi di culto di Cibele, la dea madre le cui statue e statuette abbiamo già visto al museo di Ankara, su commissione di una nostra amica studiosa dell’argomento.

Ad Aizanoi c’è un bel tempio di Zeus con colonnato e sotterraneo e, nel lato ovest, un busto di donna. Questo, insieme ad altri indizi, fa pensare che qui si venerasse anche Cibele. Mentre giriamo per il villaggio cercando le terme che hanno un pavimento a mosaico, ci accorgiamo che qualche stalla e pollaio sono stati costruiti appoggiandosi a pezzi di colonne romane! Il mosaico lo troviamo coperto da una struttura chiusa a chiave, incartato da un telone; gli archeologi stanno ancora scavando, chissà se in futuro priveranno mucche e galline del loro pezzo di cultura classica…

In un paesaggio bucolico e fermo nel tempo si eleva l’altra Yazilikaia (pietra scritta) Midas Sehri, la città di re Mida, colui che trasformava in oro ciò che toccava, secondo la leggenda. Sempre secondo la leggenda, la madre di re Mida era sempre lei, la dea madre Cibele, rivendicare la genesi divina funziona sin dai tempi più antichi. Era una città con acropoli e parte bassa, con le cisterne ancora ben conservate, considerando i due tremila anni che sono passati. Il pezzo forte è il tempio-montagna scolpito nella roccia, alto almeno venti metri, con decorazioni geometriche e iscrizioni in lingua frigia. Alla base c’è una nicchia dove era collocata una statua di Cibele, ora al museo di Ankara. Di fianco al tempio un grosso roccione è scavato da abitazioni rupestri di epoca bizantina, una piccola Cappadocia, ma qui non ci sono i pullman gran turismo, siamo cinque visitatori in tutto. Il silenzio ed il paesaggio rendono il luogo ancora più fascinoso e solitario.

Siamo alla fine del viaggio, ci aspettano le tappe lunghe del rientro a casa. Alla frontiera di Ipsala, dalla Turchia alla Grecia, i doganieri superano se stessi ed i tempi di attesa si attestano oltre le quattro ore.

Alla frontiera albanese, tra boscose montagne solitarie, sulla strada che porta ad Argirocastro in coda non c’è nessuno. Deviamo sulla costa, verso Saranda, diventata una cittadina balneare turistica, sebbene di turismo locale. L’Albania non riscuote appeal, ingiustamente perché il mare a sud di Valona non ha niente da invidiare alla costa greca o dalmata. La strada costiera è lenta e panoramica, ma almeno è stata asfaltata decentemente, otto anni fa era una costellazione di buche e si procedeva tra i venti ed i trenta km orari, tra i profumi estivi di salvia e menta selvatica. Ritroviamo un bivio che porta, dopo qualche chilometro di sterrata, a Giri i Kakomet, una baia solitaria e bellissima con una spiaggia di ciottoli chiari e acqua limpida come cristallo. La strada è stata allargata e asfaltata, e non resistiamo alla tentazione di imboccarla per rivedere la baia. Dopo qualche curva, quando si arriva in vista della baia dall’alto, un cancello blu ci sbarra la strada. È diventata proprietà privata e verrà realizzato un complesso residenziale o forse il Club Med di cui parlavano gli albanesi anni fa. Ci restiamo molto male.

Proseguendo a caccia di bei ricordi marini, ci aveva colpito un posto in cui ci fermammo a mangiare il pesce, un ristorantino su strada di fronte ad un isolotto collegato da un istmo, con l’acqua variegata di azzurro, la spiaggetta di ciottoli bianchi. Giri i Palermos, non è cambiato molto, ha mantenuto il suo fascino selvatico. Il ristorantino è più grande, hanno costruito solo una dozzina di bungalow di legno sulla montagna, il posto giusto per passare l’ultimo giorno che resta prima dell’imbarco bagnandosi nell’acqua limpidissima e cenando con pesce fresco. Il gestore loquace si lamenta che il posto è demanio militare, ecco perché non sono spuntate le solite palazzine multipiano! Questo ne farà la sua salvezza.

La strada fino a Valona, l’unica, sale tra spettacolari tornanti fino oltre i mille metri restando in vista del mare, scendendo da una fresca pineta, poi si fa più diritta ma in tutti i paesi e la doppia corsia arriva solo avvicinandosi a Durazzo. Risultato: quattro ore per 200 km!

Il porto è immerso nel caos del rientro con la sorpresa che la nostra nave non parte più, si è rotta! Nel caos generale viene rimediata da chissà dove un’altra nave e riusciamo a salpare alle quattro del mattino.

È stato necessario un ultimo supplemento di pazienza, ma alla fine ad Itaca si torna sempre.L’imbarco a Bari per Durazzo è quanto di più caotico si possa immaginare.



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