Una storia di colori, Gino Pellegrini e Lella Alemanno a Cuba
Entre Tierra y Cielo – Canto pictórico a los Orishas
di Massimo Olivetti.
Francamente io questa storia non l’ho proprio capita, so solo che è una storia di colori. Prendete una piazza, la Plaza Vjeja dell’Avana, una piazza multicolore, rosa, azzurro, verde, crema, giallo, colori stesi sulle facciate di imponenti palazzi coloniali, a inquadrare finestre, balconi, ventanas, a imprigionare timpani e colonne, a ispirare raggiere di vetri colorati. Metteteci sopra un cielo caraibico di nuvole bianco batuffolo che trasmigrano nell’azzurro intenso e già la scena dovrebbe apparire un pochino grottesca, come dire improbabile, una scena da favola disneyana, abitata da principi azzurri in tulle e merletti. Invece tutti quei colori, i rosa, gli azzurri e i verdi, non sono colori da zucchero e miele, ma hanno personalità e dimensione, fanno da sfondo e si compenetrano con la vita reale, con le fogge e i colori di un’umanità definita, mulatti, meticci, negri, abitanti del quartiere, scolari cubani in pantaloncini e gonnella rosso intenso, camicetta bianca e fazzoletto pure rosso annodato alla boy scout e branchi di turisti italiani, tedeschi, francesi, canadesi, dove ognuno, anche i turisti che sono sempre fuori posto, si muove in armonia con i portoni, i palazzi, le tinte.
In questa piazza, il sei di gennaio, metteteci Gino Pellegrini ed anche Maria Giulia Alemanno, Lella. Il sei di gennaio è il día de Reyes, il giorno del Carnevale Cabildo, il giorno in cui i negri a Cuba si erano anticamente impossessati di una festa cristiana, l’Epifania, per diventare per un giorno padroni della città coi loro colori santeri, le loro musiche africane, le danze e i balli a ripristinare antichi riti, antiche religioni, antichi spiriti. Gino è lì sul palco circondato dal ritmo dei tamburi batá, spalle alla piazza, con a cornice le colonne granitiche della Casona. Due pennellesse, una per mano, davanti ad un pannello di trenta metri quadri, grigio di capelli, con blue jeans di un azzurro indefinibile e una camicia anch’essa di un azzurro stinto, un Robert Redford romagnolo. Lella, bionda di un biondo che ti ricorda un campo di grano dipinto da un pittore che ha finito il giallo intenso e deve grattare il tubetto per combinarlo con il bianco e che la diresti nata da un tedesco e da una svedese, è al suo fianco. I tamburi aumentano il ritmo, i ballerini li circondano e li avvolgono in vortici di rossi, neri, gialli, azzurri, le pennellesse di Gino corrono sulla superficie, si accordano alla musica, nasce un cielo sulla scena. E’ un cielo cubano, le medesime nuvole che corrono in alto ora scivolano su un oceano dipinto e su un sole che esplode in una palla di fuoco. Poi si ferma tutto. Mirta Portillo Barnet, grande narratrice orale, inizia il racconto di “Entre Tierra y Cielo – Canto pictórico a los Orishas” e, nella piazza piena, la sua voce sale a dar coralità e dimensione all’azione. “…Ma come era cominciato tutto ora può continuare”. L’Elegguá ballerino strappa una corda e appare il suo omonimo dipinto e, incredibile, ha la stessa faccia, antica, mulatta. Poi è la gialla ballerina che interpreta Ochún a tirare un altro filo e a specchiarsi in un’altra identica immagine. E ancora il rosso Changó, l’azzurra Yemayá, il bianco Obatalá, tutti a ritrovarsi in carne ed ossa con le stesse fattezze, gli stessi lineamenti, anche gli stessi sguardi delle figure che la “tedesca” Lella aveva dipinto in Italia tra risaie e nebbie. La festa continua sul palco e nella piazza. Non c’è spazio delimitato né separazione tra chi danza e chi guarda. Anche l’ambasciatore italiano, in regolare giacca scura, camicia e cravatta, sembra morbidamente adeguato alla fusione delle diversità. E sì, la Santería, questa storia africana che per sopravvivere e resistere ha costruito l’artigianato e l’arte del sincretismo, mescolando e frullando culti africani e religione cattolica, trasformando il tutto in una filosofia di vita, che è antica, moderna e postmoderna insieme, ha, lì nella Plaza Vieja, lì nel Cabildo de Los Reyes inghiottito anche due artisti italiani Gino e Lella, coinvolti e fusi con la dimensione, il senso, le facce e i volti, le storie e i canti di una Cuba profonda e diversa.
Io questa storia forse non l’ho ancora capita ma ero felice di esserci e così ve la racconto.
Ringraziamo per le foto Luciano Bovina