Intervista esclusiva a Arsenio Garcia Davila

La TPC Vanity176 a L'Avana ha incontrato un Comandante della Rivoluzione!
vanity176, 10 Mag 2010
intervista esclusiva a arsenio garcia davila
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E’ in una splendida mattina di fine giugno quando, finalmente, arrivo all’Avana per incontrare il Comandante della Rivoluzione Arsenio Garcia Davila. Dopo aver percorso il lungomare dell’Avana, il famoso Malecon, imbocco il tunnel. Il Malecon, costruito nel 1901 dagli americani come un viale pedonale alberato con grandi luminarie, modificato in seguito a causa della forza del vento e del mare, diventa un tunnel che corre sotto il fiume, sbucando nel quartiere Miramar e la strada prende il nome di Avenida. Sul Malecon si affacciano case dai colori pastello scolorite dal sole, dalla salsedine e dalle intemperie oltre a palazzi del XX secolo, spesso a due o tre piani con porticato e loggiato superiore in cui si possono notare stili diversi. La casa del Comandante si trova nel prestigioso distretto di Miramar, famoso per avere gli alberghi e i ristoranti più costosi di tutta Avana e la maggioranza delle ambasciate straniere sostano sulla 5^ strada, chiamata Fifty Avenue.

Dopo aver chiesto ai passanti indicazioni, finalmente eccola! Vengo ricevuta da una signora, che immagino sia la tuttofare della casa. Mi fa accomodare in un salotto al primo piano; mi guardo attorno e, lungo le pareti, scopro con ammirazione una miriade di foto risalenti alla rivoluzione e una grande quantità di decorazioni e diplomi intestati al Comandante con la firma di Fidel Castro; nonché la foto della piccola barca Granma, con attorno le immagini degli 82 partecipanti, tutti senza barba, anche il Che e Camillo Cienfuegos. Dopo 5 minuti arriva un bell’uomo, ormai bianco di capelli, ma con un sorriso splendido ed uno sguardo tutto blu. Mi alzo in piedi, sono chiaramente emozionata e lo chiamo “Comandante”, ma egli mi dice: “Ci diamo del tu?” “Certamente!” gli rispondo. Passiamo due minuti in silenzio, guardandoci, io sono visibilmente impacciata e lui, da consumato intervistato, mi sorride. Ha 74 anni, che non dimostra, e all’epoca dello sbarco era il più giovane di tutti i partecipanti. Gli porgo una lettera da parte di un’amica dell’associazione Italia-Cuba ed un pacchetto per sua figlia Claudia, sempre da parte della stessa persona. Apre la lettera, scritta in italiano, e mi chiede gentilmente di tradurla, cosa che faccio molto volentieri.

Gli chiedo se può rilasciarmi un’intervista (cosa mai fatta in vita mia), acconsente prontamente.

Vanity176: Arsenio, che ricordo hai del periodo prima della rivoluzione? Arsenio Garcia Davila: Cuba, nel 1956, era una caricatura dell’inferno; gli abitanti erano circa 6,5 milioni, dei quali i due terzi erano analfabeti o semianalfabeti. Lavoravano nei campi di canna da zucchero e di caffè ed i ragazzi studiavano poco per andare a lavorare nei campi; il diritto alla salute non esisteva e la mortalità infantile era una vera e propria piaga. L’economia nelle campagne cubane era basata sulla monocoltura della canna da zucchero, le cui piantagioni erano in mano a pochi latifondisti”.

V: Chi comandava? AGD: L’isola era in mano alla mafia americana: alcool a buon mercato; case da gioco legalizzate dove avventurieri di ogni sorta si giocavano i soldi e talvolta la vita; una altissima percentuale di donne che praticavano la prostituzione per le strade e nei numerosi locali notturni della capitale. La mafia teneva una catena di hotel, Frank Sinatra si esibiva spesso all’hotel Capri.

V: Ma torniamo alla rivoluzione AGD: La preparazione avvenne in Messico, dove Fidel Castro fu costretto a riparare. L’idea era di organizzare un corpo di spedizione per “invadere” Cuba e provocare un’insurrezione generale nell’isola. I preparativi della spedizione durarono quasi due anni. A Città del Messico, Nico Lopez, un altro esule cubano compagno di Fidel e superstite dell’attacco alla caserma Moncada, conosce Ernesto Guevara, che in quegli anni lavora all’Ospedale generale della capitale, e lo presenta a Raul, poi a Fidel. Quando Fidel propone a Guevara di unirsi ai rivoluzionari come medico, l’argentino decide che è giunta l’ora di passare all’attacco, unico sistema per battere il capitalismo. Fidel compra, da un americano, il “Granma”, una barca per una ventina di persone, e si fa cedere anche un piccolo terreno sulle sponde del fiume Tuxpan per far aggiustare la vecchia imbarcazione. Bisogna raccogliere i fondi per finanziare l’impresa, addestrare gli uomini alla guerriglia e rafforzare la rete resistenziale a Cuba. Egli gestiva delle cellule segretissime, ma non erano in contatto fra loro, solo Fidel sapeva. Gino (Donè) venne chiamato da Castro, il quale ne aveva sentito parlare e conosceva i suoi trascorsi da partigiano nella 2^ guerra mondiale.

V: Che ricordi hai di Gino Donè? AGD: Fu per caso che Gino Donè capitò a Cuba. Vi arrivò da clandestino; infatti si era imbarcato su una nave che sostava al porto di Amburgo, in Germania. Lui si trovava in quella città per lavorare, ma quando vide quella nave scintillante di luci, non ci pensò su un attimo, salì e si nascose dentro una scialuppa. Era senza documenti, soldi e valigia. Quella nave andava a Cuba.

V: Del Che, che ricordo hai? AGD: Il Che non sapeva ballare, non sapeva cucinare e non sapeva cantare, anche se spesso provava a farlo; però tutte le altre cose sapeva farle molto bene. Avevamo un regolamento in base al quale tutti dovevano cucinare. La prima volta in cui toccò a lui, cucinò una cosa terribile! Un miscuglio in cui mise tanto sale e un po’ di tutto! Nessuno lo volle mangiare; tutti protestarono a gran voce, perché il cibo scarseggiava e quel piatto era immangiabile. Allora gli dissi una cosa il giorno che toccò a me cucinare e a Gino lavare i piatti; gli dissi che per me e per lui avrei sempre cucinato io, a patto che lui lavasse le stoviglie. Acconsentì e risolvemmo il problema. Al Che piaceva fumare il sigaro, lo si è visto in tante foto, in molti eventi internazionali appariva con il sigaro; ma la prima volta in cui fumò, fu proprio nell’appartamento in Messico dove vivevamo.

V: Raccontaci della traversata con il Granma. AGD: Quando salimmo sul Granma, di notte, il Che pensava che una barchetta così piccola doveva portarci ad un’imbarcazione più grande che ci stava aspettando in alto mare!

V: Stai parlando della notte del 25 novembre 1956? AGD: Si. Eravamo stipati come sardine; ricordo che alcuni compagni soffrirono molto. Il livello economico della maggior parte di noi era molto basso. Tutti eravamo affezionati alle piccole cose che possedevamo e che avevamo portato con noi. Ma poi ci fu ordinato di gettare via ogni cosa per motivi di spazio e, quindi, tutti dovemmo gettare in mare le valigie e le nostre cose. A bordo avevamo già caricato le uniformi, i fucili, le granate, ma non avevamo armi per combattere contro navi o aerei. Avevamo portato due bazooka anticarro, che chiamavamo – i due cannoni -. Erano della 1^ guerra mondiale, con solo cinque proiettili per queste armi. Questi proiettili erano sistemati in un lavandino, all’interno della barca e quando li guardai attentamente, mi sembrò che due fossero già stati utilizzati. I viveri bastavano per due giorni, tanto doveva durare la traversata. Durante il percorso, una notte che infuriava un violento temporale, una delle vedette, che uscivano sul ponte cercando il segnale luminoso del faro di Cabo Cruz, nella provincia di Oriente a circa 800km dall’Avana, scivolò e cadde in acqua.

V: Che successe? AGD: Fossi stato io il capo, lo avrei abbandonato, ma Fidel è molto umano; preferì metter in pericolo le 81 persone sulla barca per recuperare il compagno che era caduto. Roque, così si chiamava ed era il navigatore della barca, era caduto con la divisa, gli stivali, la giacca e tutto il resto. Cornelio Pino, che era il capitano, e tutti noi sapevamo che eravamo vicini alla costa, in una zona molto pericolosa; cominciammo a cercarlo: era difficile che fosse ancora vivo! Ma Fidel disse che non lo avrebbe abbandonato, nè vivo nè morto; così facemmo un ultimo giro e lo trovammo.

V: Era una zona molto pericolosa perchè eravate al punto d’incontro stabilito? AGD: Si, ma Fidel cambiò i piani di navigazione: invece di andare nei pressi del porto di Niquero, che ormai doveva essere sotto sorveglianza dell’esercito di Batista, cercò di avvicinarsi ad una spiaggia, chiamata Las Coloradas, a sud-ovest del luogo prescelto originariamente per lo sbarco. Non arrivammo al punto giusto, questione di 3 o 4 miglia; invece di trovarci ad una spiaggia, ci trovammo in un manglare.

V: Vuoi dire mangrovie? AGD: Si. All’alba di domenica 2 dicembre 1956, dopo 7 giorni, invece dei 3 previsti, riuscimmo a vedere il profilo di qualcosa che sembrava terraferma. Fidel chiese al timoniere: ” Quella è la terraferma di Cuba? Sei assolutamente sicuro che non siamo in Jamaica o su un isolotto?” “Si”. “Beh, allora metti i motori a tutta velocità e punta verso la costa, fino a dove puoi arrivare”. Non arrivammo molto vicini, perchè una punta di sabbia affiorata fece arenare lo yacht a circa 50 metri da quella che sembrava terraferma. Con l’acqua fino al petto, cominciammo ad allontanarci dal Granma; ci trovammo immersi nel fango, acqua, boscaglia fitta di mangrovie e nugoli di zanzare. Un intrico difficile da penetrare e nemmeno una traccia di terraferma.

V: Qual è stato il momento più drammatico? AGD: Proprio quello dello sbarco, e su questo molti compagni sono d’accordo. Nonostante la difficoltà di avanzare, non c’era altra scelta, se non quella di inoltrarci, ognuno col suo gruppo. Intanto gli equipaggi di due piccole navi da carico avvistarono lo yacht arenato e virarono a nor-est per andare ad avvertire le autorità.

V: Quanto rimaneste bloccati nelle mangrovie? AGD: Dopo aver lottato diverse ore, i primi uomini arrivarono alla terraferma, davanti ad un gruppo di palme da cocco. Alcuni erano così esausti che dovettero essere portati a braccia dai compagni più forti.

V: Così mi raccontò Gino Donè il momento dello sbarco: “Ci eravamo già inoltrati per 4 o 5 km., quando ci fu la prima fermata, eravamo in marcia forzata, perchè già ci sparavano contro. Furono organizzati 3 plotoni: uno d’avanguardia, uno centrale e uno di retroguardia. Fidel era nella colonna davanti, seguito dal gruppo-comando, dopo venivano gli altri 3 gruppied io ero nella retroguardia, posizione alla quale mi aveva assegnato Fidel prima di partire. Il brutto era che si sapeva che davanti ci stavano aspettando, ma ci stavano inseguendo anche da dietro! Il gruppo si ferma e ci contiamo fra di noi, mancano molti all’appello, primo tra tutti Ernesto Guevara. AGD:Nella spedizione si persero 8 compagni, fra cui il vice capo del gruppo

V: Riporto le parole di Gino: Ernesto andava più piano di tutti, in parte dovuto al peso maggiore, non solo dello zaino con le munizioni che avevamo tutti, ma aveva anche tutte le medicine; inoltre, portava un lancia granate che pesava, in più venne colto da un terribile attacco d’asma. Era rimasto indietro privo di forze. Raul (Castro), che era il mio diretto comandante, mi diede l’ordine di trovare Ernesto. Non persi un attimo e, con un volontario, iniziai la ricerca. Dopo circa 1 ora di marcia forzata, facendo il cammino a ritroso e preoccupato perchè ci incalzavano da dietro, ebbi la fortuna di incontrarlo. AGD: Proseguimmo e raggiungemmo la casa di un contadino, Crespo, al quale Fidel chiese qualcosa da mangiare. Questi rispose che aveva molto poco, però aveva un maiale. Disse che l’avrebbe ucciso e cucinato per sfamarci. Così mise l’acqua a bollire, mentre noi ci lavavamo. Ad un tratto sentimmo le cannonate da una fregata, una nave da guerra. Le cannonate raggiunsero la palude e la barca, mentre un aereo cominciò a mitragliare. Costretti a scappare, ci accampammo poi ad Alegria de Pio, una località lì vicino. In quel momento una compagnia di 140 uomini di Batista si trovava nella raffineria della centrale zuccheriera a solo pochi km. Da noi. Erano le 4,30 del pomeriggio, quando ci fu uno sparo, seguito da una tempesta di pallottole sul nostro gruppo. Eravamo caduti in una trappola, ci avevano avvistato, sapevano dove andavamo, quanti eravamo. Erano tanti ed erano professionisti. Da quel momento il gruppo si sparpagliò per salvarsi la vita, anche Gino.

V: Che fine aveva fatto Gino? AGD: Gino aveva un carattere molto forte, una persona dal temperamento molto deciso ed era sempre pronto a tendere la mano al prossimo. Più tardi ho potuto ricostruire l’odissea che passò dopo l’episodio di Alegria de Pio. Ricordo quando ci siamo persi sulla montagna: eravamo in piccoli gruppi, Fidel non era con me ed io mi trovavo nella zona più impervia della montagna. Eravamo partiti in 82 e solo 12 si rifugiarono nella Sierra Maestra; tutti gli altri erano dispersi, trucidati o tagliati fuori dai miliziani. Della sua squadra, solo Gino ed un altro ce la fecero e Gino portava la bandiera, ma non riusciva a raggiungere Fidel sulla Sierra e, dopo ripetuti tentativi, decise di tornare a S.Clara. Riuscì a superare tutti i posti di blocco organizzati dall’esercito di Batista, facendosi passare per un commesso viaggiatore. Affidò la bandiera a dei contadini, che la recapitarono a Fidel e andò dai nostri medici a S.Clara: si fece curare i denti e i piedi, che erano ridotti in uno stato pietoso. Fu a S.Clara che conobbe Aleida March, futura moglie del Che. Era una bella ragazza del posto, già impegnata nel movimento (del 26 luglio). Lei e Gino prepararono un’azione: Gino doveva lanciare una granata e una donna doveva accompagnarlo per non destare sospetti. Vista la sua esperienza, spettava a lui lanciare la granata. Tutto questo mi fu raccontato da Aleida, lui non mi aveva mai detto nulla in proposito, per via della sua grande modestia. Gino doveva lanciare la granata in un locale, in cui molti ufficiali al servizio della tirannia, si erano riuniti in occasione delle festività natalizie.

V: Ma come, così in mezzo alla strada? Ma non era pericoloso per lui e Aleida? AGD: Altri rivoluzionari tovevano togliere la corrente, lo avrebbero fatto tirando sui cavi. A luce spenta, Gino e Aleida si avvicinarono per lanciare la bomba. Ma, per via di un contatto, la luce tornò improvvisamente e lui fu felice di non poter lanciare la granata. Perchè non erano soldati, ma bambini che stavano festeggiando il Natale!

V: Poi con Gino vi siete persi di vista? Dove fini? AGD: Gino si unì alla resistenza clandestina, finchè, braccato dalla polizia di Batista, nel gennaio 1957 ricevette l’ordine di andare in clandestinità all’estero salpando con una barca da Trinidad. La destinazione fu New York. Non incontrò più l’amata moglie Norma, dalla quale divorziò per ragioni di sicurezza. Negli Usa sposò la portoricana Tony Antonia, conosciuta proprio attraverso Norma, con la quale successivamente si trasferì in Florida. Da lì continuò a collaborare segretamente con le autorità cubane. Nessuno sapeva dov’era; poi, da altre persone che agivano per Cuba dall’estero, venimmo a sapere che era vivo, in quanto avevano avuto delle informazioni su di lui. Un fine settimana, mentre ero qui a casa mia, una persona che era con me mi disse che uno straniero mi cercava al telefono. Prendo la cornetta e sento: ” Arsenio, fratello mio!” Era Gino!

V: Arsenio, è vero che quando Gino ritornò a Cuba, la prima persona che lo ricevette fosti tu? AGD: Si, lo ricevetti io assieme al picchetto d’onore. Quando mi vide era molto emozionato e mi disse: “Comandante, ho fatto del mio meglio” ed io gli risposi:” Continua a farlo”. Egli si adoperò insieme ad un gruppo di persone che lavoravano all’estero per Cuba; Gino ha svolto questo compito per 39 anni. Visse negli Stati Uniti servendo sempre la causa cubana.

Avevo le lacrime agli occhi mentre Arsenio, anche lui visibilmente commosso, parlava di Gino. L’intervista volgeva al termine, ma avrei voluto fargli altre mille domande, talmente era gradevole sentirgli raccontare lo storico passato. Mi dice di aspettare un attimo e si sposta, ritorna poco dopo con due cose in mano: la pipa del Che, che lui aveva vinto giocando a scacchi con lo stesso nella Sierra Maestra ed il berretto sempre del Che. La pipa era fatta a mano da un campesino ed il berretto era macchiato di sangue. Le mie domande le legge dagli occhi.

AGD: Nell’aprile 1961, eravamo impegnati in un’azione diversiva a Pinar del Rio, mentre si stava svolgendo l’invasione nella Baia dei Porci. Era di notte, stavamo camminando al buio con il Che, quando ad un tratto si sentì uno sparo ed Ernesto cadde a terra ferito alla testa, vicino all’orecchio. Tutti pensammo ad un cecchino appostato, portammo subito via il ferito, che, cadendo, aveva perso il berretto. Lo raccolsi e me lo misi in tasca; a distanza di mesi, mi accorsi di avere il suo berretto e lo tenni con me. L’incredibile è che non fu un cecchino a sparargli; il Che inciampò su di un cavo ed il colpo partì dalla sua stessa pistola, alla quale non aveva messo la sicura!.

E’ ora di salutarci ed Arsenio, di slancio, mi invita alla parata del 26 luglio all’Avana, presenti le massime autorità. Sono costretta a rifiutare, in quanto il mio ritorno in Italia è fissato per il 21 luglio. Sarà per un altr’anno. Ci abbracciamo e sto per uscire quando mi volto e gli chiedo un po’ titubante:

V: Arsenio, un’ultima domanda: se tu tornassi indietro, rifaresti quello che hai fatto? AGD: Subito!

V: Cosa cambieresti, se ti fosse data la possibilità? AGD: La barca, quella era troppo piccola!



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