Adrirrenica

Questo è il Diario di un viaggio intrapreso a piedi. Un viaggio partito dal mare Adriatico e finito nel Tirreno, passando per gli appennini tosco-emiliani
Scritto da: Pudduch
adrirrenica
Partenza il: 05/05/2012
Ritorno il: 12/05/2012
Viaggiatori: 1
Spesa: 500 €
Non ci sono notizie dettagliate su dove e come ho dormito e mangiato, ma estrapolazioni di tratti di paesaggio e di appunti presi durante le giornate. Qua a parlare sono solo gli occhi

5 MAGGIO

Partenza ora 8.00 precise dal piccolo porticciolo di San Giuliano a Mare, praticamente affianco alle prime spiagge di Rimini. Dopo le foto di rito isso lo zaino da 12 chilogrammi e parto col vento in poppa. I primi 20 chilometri li devo camminare seguendo la ciclabile che costeggia il fiume Marecchia. Passo, all’interno della città, per il retro delle case di vari quartieri. Quello più vicino al mare, o meglio, le case più vicine ad esso, presentano murales che danno vista agli occhi dei pedoni e dei ciclisti. Strano è vedere come per ogni parete ci siano temi completamente diversi. Si passa da una pagina del Vangelo a gente che balla in discoteca, da navi al porto ad antiche processioni Malatestiane. Come in ogni città che si rispetti esiste un piccolo quartierino o lembo di terra gestito da nonnini in pensione e suddiviso in orticelli, con dentro ortaggi di ogni genere… e anche Rimini non può che essere da meno. Per un buon centinaio di metri passo affianco a questi cortili divisi tra loro da reti metalliche, ricoperte a loro volta da rotoloni di altra rete verde a maglie ancora più strette, in modo tale da non dare troppa visibilità verso l’interno. Cos’avranno da nascondere poi! Si vede che fanno a gara a chi ha la patata più grande o la cipolla più tonda o il melone più grosso! Con il lettore MP3 nelle orecchie continuo a seguire la ciclabile… almeno fino a quando non mi finisce sotto i piedi. Prendo la cartina e non mi ci ritrovo! Accendo il GPS e non mi ci ritrovo! Fermo due ragazzi e chiedo a loro: “Cerco la ciclabile sul Marecchia… non è questa?”, “Ma va là, ma cosa dici (in romagnolo marcato), siamo qua adesso, guarda!” e mi indicano 3 km più a Sud rispetto al mio percorso. Ringrazio sentitamente e rifaccio il percorso a ritroso. Cominciamo bene, un’ora completamente buttata nel cesso! A poco è servita la confessione fatta a Don Giulio il giorno prima! Ripassando per gli orti noto un signore in procinto di uscire dal cancellino, lo bracco e gli chiedo quale ponte devo prendere per tagliare un po’ di strada e immettermi sulla ciclabile giusta. Il signore mi guarda e aprendo le braccia mi fa capire di essere muto. Mortificato chiedo scusa ma lui cerca comunque d’indirizzarmi per la via giusta. Con molta attenzione cerco di seguirlo e, nonostante le evidenti difficoltà, riusciamo a capirci. Tornato sul tragitto originario, praticamente all’inizio, riparto a testa bassa. Prima di lasciare Rimini ed inoltrarmi nella campagna e poi verso le colline, incontro il sosia di Ringhio Gattuso, un piccolo Pitbull nero che mi segue grugnendo per una decina di metri, e il sosia di Enzo Paolo Turchi ma al femminile… non saprei dare un giudizio su chi dei due potrebbe essere più brutto! Purtroppo di Carmen Russo nessuna traccia! Per una quindicina di chilometri il paesaggio è sempre lo stesso: strada sterrata con sterpaglia ai lati, mentre rovi, ortiche e altre erbacce basse nascondono la vista del fiume e del suo alveo fatto di pietrisco e ciottolato bianco. Ogni tanto qualche albero di rusticano mi sollazza le papille gustative con scariche di frutti ancora acerbi. La prima sosta la faccio nei pressi del campo sportivo di tiro al piattello. Gli spari che già da svariati minuti sentivo non erano di cacciatori quindi. Per questa ciclabile, se non raramente, nessun camminatore o corridore, ma solo ciclisti e accaniti pedalatori. Quando mi passano affianco li studio. Alcuni guardano e sorridono, altri si fermano a parlare, altri tirano dritto non voltandosi neanche di mezzo grado. Ci sono quelli tiratissimi e ultra tecnici con super abbigliamento di marca e bicicletta da cinque mila euro; poi quelli con la bici da cento euro comprata al mercatone, con felpa coloratissima anni 90 (di quelle larghe e di quel tessuto lucido che fa sudare solo a guardarla) e con sulla schiena lo zainetto verde sbiadito dei mondiali d’Italia 90; poi quelli che si portano dietro la moglie, contro voglia, e che la tengono rigorosamente dieci metri in dietro per farle capire che non è uno sport adatto a loro.

Seconda sosta in un parco adiacente il Golf Club di Verrucchio. Metto le gambe in aria per rilassarle e chiudo gli occhi. Sono sotto un tiglio in fase di fioritura e l’unico rumore che sento è il ronzio infinito di vespe e api che, tre metri sopra di me, volano cercando i fiori più ricchi e polposi. Il vento comunque forte e contrario al mio percorso è muto al cospetto della forza di questi insetti. Una certezza mi è sovvenuta dopo il riposino: fare il giardiniere in un Golf Club è una gran rottura di scatole! La ripartenza è da panico, gambe rigidissime, spalle dolenti e testa che comincia a vacillare. Il primo agglomerato di case che incontro dopo Rimini è Pietracuta, paese nel quale mi fermo per mangiare un gelato rinfrescante. È la calma prima della tempesta. Da qui parte la salita finale. Sono già a 32 km e me ne mancano 9…che salgono…salgono…salgono. Fino ad ora il tempo è stato clemente, sole, nubi, sole, nubi ma mai nuvoloni da pioggia e infatti, appena dopo un chilometro di dislivello…plin…plin…plin plin plin plin…una valanga d’acqua mi cade sul coppone. Trovo riparo in un baretto dove chiacchiero con gli abituè del posto in attesa della fine della pioggia. Quando finisce, nonostante i consigli di non ripartire, rimetto lo zaino in spalla e punto la strada. Gli ultimi chilometri sono infiniti. A metà salita trovo una vecchia casa abbandonata recante una scritta a caratteri cubitali: Podere Fatticoraggio!! (ma f…….). I miei occhi costantemente puntati verso il basso lacrimano sudore e orgoglio. L’ultimo atto dello spettacolo di giornata è dato dal dialogo tra le mie gambe e la mia testa:

“oh fenomeno là in alto!?”

“chi è che rompe…sto lavorando!”

“ah tu stai lavorando?! E noi qua sotto?”

“state facendo il vostro dovere!”

“ma bravo simpaticone. Qua chi manda avanti la carretta siamo noi!”

“ma chi dà la forza per spingerla sono io”

“no caro! Tu dai l’ordine per spingerla e noi lo facciamo!”

“e non è cosa corretta?”

“per niente, soprattutto dopo mesi d’allenamento dove noi abbiamo faticato e tu no!”

“lo dite poi voi! E comunque se salto io voi state freschi!”

“e se saltiamo noi stai fresco anche tu! Bella fregata sta gitarella. Visto che hai avuto questa brillante idea di fare da mare a mare, vienimo tu a pedalare!”

“non possiamo trovare un accordo? Tutti abbiamo bisogno di tutti!”

“però vogliamo un aumento di stipendio, altrimenti chiamiamo il sindacato.”

“non ne ho neanche per me!”

“falso…fascista!”

“comunisti!”

“fascista!”

“comunisti!” …sempre la solita storia…

Arrivo al B&B stremato e quasi morto, e dopo aver preso del pazzo dalla signora Anna mi butto in doccia. Alle 19 la mente si spegne. La cittadina di San Leo è a due chilometri più in su…ma è bella vista anche da qua…sicuro!

6 MAGGIO

Pronti via, si sale subito, direzione San Leo. I tornanti non lasciano spazio alla vista e neanche tra gli alberi riesco a scorgere la sagoma dell’alto castello. Poi, improvvisamente, svoltato per una curva a gomito me lo trovo d’avanti, possente, imperioso, maestoso. Su quel masso aguzzo cinto di rupi strapiombanti eccolo dominare la valle sottostante, sfidando in altezzosità l’altro castello di Verucchio posto qualche chilometro più a Est. San Leo, un paese antico dove i ciottolati e le pietre profumano ancora di medioevo, un accavallarsi di vetuste case fra una superba rocca e un’occhiuta torre campanaria, un intrecciarsi di storia e leggenda, di sacro e profano. Passo velocemente per il centro mescolandomi tra una scolaresca in gita. Entro nella piccola pieve romanica tralasciando il castello…troppo difficoltoso arrivarci e troppe nuvole sopra la mia testa. Percorro una dozzina di km tra salite e discese, ringalluzzito dalle dieci ore di meritato riposo. Le gambe girano poco ma la voglia di proseguire mi fa trovare energie nascoste. Dietro una curva mi trovo due cagnoni pelosi liberi per strada che nel vedermi scappano via per poi fermarsi e aspettarmi. Sono due cucciolini, giovani ma di stazza già grande, uno un pochino più grosso dell’altro. Mi avvicino ma riprendono a correre saltellando e muovendo quella massa infinita di pelo, mostrando, a tratti, due grandi occhioni neri. Arrivo a Pennabilli con la testa bagnata dalle prime gocce di pioggia. Faccio un giro veloce per il borghetto cercando un bar per mangiare un boccone di cibo e trovare riparo. Curiosa la storia del paese. Durante le scorrerie barbariche la gente delle valli attorno cercarono, trovandolo, riparo su queste due alture vicinissime, edificando due castelli e due città, una di nome Penna e l’altra di nome Billi, rivaleggiando, ovviamente, su ogni fronte. Posarono la ‘pietra della pace’ solamente nel 1350, unendo così nome, paese, persone e tradizioni. Una cittadina mistica, silenziosa, arcana. Negli angoli di essa, a volte celati e a volte no, creazioni artistiche di Tonino Guerra mi accompagnano in un vorticoso passaggio nel tempo, passando per la strada delle meridiane e finendo nella strana atmosfera del santuario dei pensieri. Due botti improvvisi mi rimettono al secolo presente…grandine! Mi butto dentro al primo bar aperto ritrovandomi completamente solo. Una ragazza russa mi accoglie sorridente e un po’ curiosa. Musica e arredamento richiamano la Provenza e la miscela tra queste quattro mura e il contesto esterno mi rilassa e mi fa distendere la mente. Per ore rimango lì, sotto il verandone. Finita la grandine via di temporale. Quando smette ogni tipo di rovescio è ormai tardi. Impossibile raggiungere il punto tappa. Ricordandomi di un’affittacamere poco più lontano (altra attraversata del Montefeltro del 2003) mi ci fiondo speranzoso di trovarlo ancora aperto e grazie a Dio lo è! Questa volta nella camera nessun passaporto di un viandante polacco!

“Quando si vive in un luogo per lungo tempo, si diventa ciechi perché non si osserva più nulla… io viaggio per non diventare cieco.”

7 MAGGIO

La partenza è 10 km più a ovest rispetto al percorso originale. Devo recuperare un giorno e oltre a deviare leggermente per altri sentieri devo macinare più strada se voglio tenermi sui tempi prestabiliti. Passo per Casteldelci, immaginandolo un bel paese visto il nome vociante che porta. Case in pietra, strade ciottolate, sembra presentarsi bene e invece non c’è una benemerita mazza di niente. Passo affianco alla posta e la trovo chiusa, affianco alla chiesa e la trovo chiusa, affianco al…municipio? Ma lo trovo chiuso. Trovo persino un hotel a tre stelle, chiuso o aperto? Indecifrabile. In tutti i cartelli leggo: “apertura il martedì e il giovedì”. Avessi la macchina tornerei quei giorni per vedere che vita c’è…e se c’è! Ogni chilometro percorso, tra salite e discese, trovo segnaletiche di pericolo: frana; frane; strada interrotta; strada priva di manutenzione; slavine(??). Comunque ho poco da deviare, o tiro dritto o tiro dritto. Effettivamente la strada, pian piano che sale, passa da asfaltata, asfaltata crepata, solo crepata, caradone, caradone crepato… niente! A piedi passo sopra la frana e riparto tornando a seguire la carreggiata buona. In direzione Balze vengo superato da una Panda 4×4 (una delle milioni che girano per queste zone) che sbanda continuamente. Già ubriaco a mezzogiorno? Invece vedo che nel sedile posteriore gira a destra e a sinistra un cane grande quanto una mucca che tira padellate ai vetri con la coda e che a seconda del suo movimento fa sbandare la vettura, prima di qua e poi di là, mentre l’autista cerca in ogni modo di tenerlo inutilmente buono. Arrivo sotto il monte Fumaiolo, da dove, pochi metri sopra, nasce il Tevere. Non posso non andarci e infatti, senza indugiare troppo, devio per il sentiero fangoso che sale per qualche centinaio di metri. Tre volte che ci vado e tre volte che trovo nuvolo e fango! “Qui nasce il fiume sacro ai destini di Roma” recita la colonna marmorea sormontata da un’aquila. Strano effetto vedere come uno zampillo d’acqua possa trasformarsi in un fiume tanto grande e storico come questo. Proseguo seguendo per un po’ il percorso del Tevere, trovandomi faccia a faccia con le sue cascatelle. Qui, per la prima volta, provo paura. Mai come in questo posto mi sono sentito di troppo. Ho sentito e percepito che qua la presenza dell’uomo non era richiesta. Uno straniero indesiderato. Ho camminato silenziosamente seguendo l’unico sentiero segnalato male (probabilmente non più battuto) passando d’avanti a una decina di tane. Sentivo milioni di occhi puntati su di me. Credo che difficilmente ci tornerò in quella foresta. Il ritorno sull’asfalto mi ha ridato fiato e respiro, l’MP3 ha fatto il resto. La fatica del primo giorno e la grandine del secondo mi hanno fatto perder tempo. Nonostante l’aver leggermente cambiato rotta e accorciato il percorso, sono costretto a fare dieci chilometri in più del previsto. Le gambe, ancora rigide, girano comunque meglio a fare due ore in più non mi pesa un gran chè. Probabilmente gli arti inferiori hanno ricevuto quel famoso aumento di stipendio tanto chiesto il primo giorno. Probabilmente ora la mente è meno fascista e le gambe meno comuniste.

Il peso dello zaino però incide parecchio sull’andamento e sulla velocità di questi ultimi chilometri. Adesso sono le spalle a gridare pietà. La testa è sempre chinata verso terra e la bellezza di quello che ho attorno è completamente invisibile a tutti i miei sensi. Alzo solo per un attimo lo sguardo, quasi per sfida e per dimostrare che ci sono, più vivo che mai…e quando lo alzo rimango immobile. Il sole, in fase calante, di una tonalità arancione fuoco, si fa largo tra le nuvole nere, spaccandole in due per cacciarle via. Un fascio di luce potentissima si schianta sulla mia faccia, sui faggi che accompagnano la strada e sulla terra umida, ubriacandoci di tepore e cullandoci come mano materna. La natura sembra svegliarsi improvvisamente. Come addormentata da secoli si erge impettita verso il sole per prenderne ogni beneficio. Questo gioco ottico tra il nero e la luce aumenta d’intensità ogni più piccolo particolare. Il verde è più verde, il tronco è più tronco, l’erba è più erba… respiro l’odore della foglia, annuso il profumo della corteccia e ascolto le gocce d’acqua scivolare di ramo in ramo fino ad appoggiarsi sul terreno, irrigandolo. Ora la testa è alta, il collo dritto, le spalle larghe e forti, le gambe robuste e muscolose…anche la mia testa è più testa…le mie spalle più spalle e le mie gambe più gambe. Ogni istante di luce lo prendo e lo trattengo. Passo inosservato tra alberi, insetti, animali…ormai gli assomiglio e non mi considerano più. Strano come uno spettacolo del genere possa cambiare a seconda della musica che si ascolta. Il mio lettore riparte con un pezzo di Gustavo Santaolalla dal titolo “De ushuaia a la quiaca”…un volo planato sopra la mia testa, il piacere di esserci, l’estasi del vivere l’attimo…una fotografia, un istante, un secondo da condividere con altri due occhi…nessun’altro. Poi metto avanti di qualche canzone e mi arriva una sonata Lounge, d’aperitivo. E ora la mia mente spazia fino al mare, tra Mojito e Cubalibre…una fotografia, un istante, un secondo da condividere stavolta con centinaia di occhi. Il risultato finale cambia, ma non il succo. Come diceva un pazzo americano che c’ha lasciato le penne “la felicità è reale solo se condivisa”.

Verso sera arrivo nell’affittacamere prenotato in giornata. Son stato fortunato nel trovare posto il giorno stesso della chiamata e di riuscire a disdire il B&B già fermato prima della partenza. Da noi in pianura, dove tutto è più severo e meno umano, mi avrebbero sicuramente fatto delle storie, qua no. La stagione comunque aiuta, diciamola tutta. Quando il proprietario mi accompagna al piano superiore mi dice: “Camera tua è qua, il bagno di là, soggiorno e cucina l’altra porta. Buona serata e a domani!” Avevo chiesto una stanza e invece mi ritrovo un appartamento. Niente male calcolando che nel bagno ho pure la doccia con idromassaggio! Noto solo un leggero fresco toccando il termo ghiacciato ma almeno sul letto ho la trapunta invernale. Dopo due giorni di gnocco e panini farciti finalmente mi siedo ad un tavolo di una trattoria. Ravioli con patate e funghi porcini, fagioli all’uccelletto, panna cotta, vino bianco e acqua…olè…indispensabile legnata allo stomaco. Sono al confine, o quasi, tra Romagna e Toscana, ma di romagnolo non c’è più niente. La parlata ha già quella cadenza aspirata tipica della toscana così come i modi di dire non sono per niente simili ai miei. Gente strana, sia da uovo che da latte, e fieri di essere quelli che sono. Chiacchierando con l’oste, originario di Balze, dov’ero passato oggi, mi faccio raccontare del “palio della bigoncia”. Un palio che si corre il 15 d’agosto tra le 4 contrade di Balze. Lo scopo è quello d’infilare, più volte possibile, un’asta dentro l’anello della bigoncia, che sarebbe un pentolone, rovesciandone il contenuto. Una riproduzione allegorica e scherzosa del palio del Saracino ad Arezzo.

“C’è un piacere in questi boschi senza sentiero, c’è un estasi sulla riva solitaria, c’è una società dove nessuno s’intromette. Non amo meno gli uomini ma la natura di più!”

8 MAGGIO

Le gambe sono più che serene, anzi, sorridono, e la testa le coccola per bene. Parto riposato e pieno d’energia visto il cielo completamente azzurro e il sole pronto a scaldarmi il viaggio. Al secondo tornante mi si apre la vallata dove dovrò scendere per poi risalirne l’altro versante. Un tappeto bianco però me ne nasconde il fondo. Sotto di me una nuvola infinita si estende per chilometri, disperdendosi come macchia liquida attraverso altre vallate. Il bel sole caldo sparisce improvvisamente un paio di chilometri più giù, lasciandomi solo nel nulla. Sembra di entrare nel libro della storia infinita. La temperatura, già poco mite, scende vertiginosamente a 7 gradi e sul ciglio della strada noto ancora rimasugli di rugiada notturna. Mi viene in mente la chiacchierata fatta con la signora Anna la prima sera. Qualche mese prima, quando venne la super nevicata, il Montefeltro e l’Appennino tutto, subirono una mazzata piuttosto grossa. Mi diceva che l’unico modo di spostarsi per le strade era attraverso il piccolo sentiero scavato tra due muri di neve alti tre metri e che dovevano scendere a piedi per andare a far spesa. Cosa?? Due ore c’avevo messo a far quella salita e camminando su asfalto asciutto. A pensarci mi vengono i brividi. Prima di entrare a Badia Prataglia, paese che prende il nome dall’abbazia e dai suoi padri fondatori (abbazia tra i prati), scorgo, appese alle finestre, bandieroni bianchi e neri a simboleggiare la vittoria della Juventus nel campionato di calcio di serie A. A dir la verità sono piuttosto vecchiotti e quasi certamente risalgono come stile ai bandieroni anni 70-80. Era da un po’ che non uscivano dai bauli, viste le pieghe delle stirature ancora perfette e rigidissime. Badia Prataglia non offre un gran che da vedere, giusto la pieve romanica e un bel centro informativo per il parco delle foreste Casentinesi (chiuso). Però, almeno, il piazzale asfaltato adibito a parcheggio o platea per spettacoli serali, pullula di giovani vite. Due gruppetti divisi per età si sono spartiti la piazzetta e ora si sfidano a pallone con due partite diverse. Alcuni bimbi, con la maglia dei loro campioni, altri in canottina e altri con maglie disegnate forse il giorno prima, s’impegnano al massimo per portare a casa lo scalpo dell’avversario. Mi fermo qualche minuto per fare il tifo. Ogni tanto arriva qualche ragazzo nuovo che per entrare in una delle due squadre porta in dono un paio di merendine da dare ai presenti. “Chi la vuole?” “io, io, io!” “ok sei con noi!”. Più facile del previsto. Salgo per una decina di chilometri immerso in una bellissima faggeta. Le foglie nuove, di un colore verde chiaro acceso, impreziosiscono questo luogo sacro che porta all’Eremo di Camaldoli. Quando ci arrivo rimango però deluso. La struttura non è visitabile se non solo per la piccola cappella sul fronte strada e per la farmacia-bar-rivenditoria. Il complesso, un vecchio ospedale, sembra molto bello visto da fuori e meriterebbe una visita. Mi fermo nel primo paese che trovo dopo l’eremo, Camaldoli, per cercare una trattoria e poter mettere sotto i denti, ma anche sopra, qualcosa da mangiare. La scelta mia non è stata delle più furbe, lo ammetto, forse il posto è un po’ troppo elegante per una persona vestita in abbigliamento tecnico come me, ma ho troppa fame per formalizzarmi si quisquiglie del genere. Il problema comunque non si pone perché sono solo. Un bel piatto di tagliatelle di ragù toscano è quello che ci vuole. Mentre aspetto il contorno, entra una coppia di quarantenni molto distinta, lui con camicia e giacca e lei in giacca di pelle e capelli corti e curatissimi. Per i restanti minuti di contemporanea permanenza nel locale, lei non l’ho mai sentita parlare se non interpellata. Con la cameriera parlava lui e la conversazione la sosteneva lui per entrambi. Ragazza mia…una botta di vita…e che cavolo! Se non lo sopporti dagli dell’aria! Poco dopo l’ingresso dei due signori, la cameriera si dirige verso lo stereo per cambiare musica, da pop a classica. Quando torna verso di me io la guardo come per dire “ma sa fet!”, e lei mi risponde con gli occhi dicendomi “mi tocca!”. Vado a pagare facendo una riverenza e portando in dono il mio portafoglio. Mentre lei si mette a ridere e si lascia per un attimo alle spalle la compostezza della cameriera, mi dice che un anno prima, una coppia di stranieri si era arrabbiata per la musica che veniva dalla radio, indi per cui, visto il tipo di clientela un po’ chic, si vede costretta ogni volta a metter della musica classica. In verità mi ha detto così: “…e visto che si sono arrabbiati mi toccò spengere!”. Adoro sentire i toscani usare la parola ‘spengere’. L’ho cercata nel T9 del cellulare ma senza successo! Arrivo per sentieri e sterrati a Pratovecchio. Non ci trascorro neanche mezzo minuto perché, mentre passo d’avanti alla fermata dell’autobus, arriva il tram che porta a Poppi. Si ferma e ci salgo. Ne ho sempre sentito parlar bene di questa cittadina, vediamo se la nomea corrisponde a verità. Scendo fuori dalla porta ed entro nel centro storico. La via centrale è porticata e parte dal castello, che domina il paese, e arriva fino alla bellissima chiesa romanica, più in basso. Dei paesi visti, questo è sicuramente il più bello. Niente a che vedere con San Leo e Pennabilli perché di altro stile, ma un bel 9 in pagella se lo prende tutto. Riprendo l’Autobus e scendo a Stia, un paio di chilometri dopo Pratovecchio. Anche qua il centro è molto carino, peccato lo stiano sistemando proprio ora e non riesca a godermelo appieno. Passo d’avanti ad un bar e leggo Bar Pasticceria il Ciclone…ciclone? Ma vuoi vedere che c’hanno girato il film? Studio il posto ed effettivamente mi sembra familiare. Accendo wikipedia sul cellulare e comincio la ricerca: Il Ciclone, Italia, 1996, 91 minuti, Colore, Commedia, Leonardo Pieraccioni, girato a Stia, Poppi, Laterina. Eh già, sono nel luogo di uno dei miei film adolescenziali preferiti.

L’ultima dozzina di chilometri, tutti in salita, mi portano al Passo della Consuma. Il sole comincia a calare d’avanti a me, anche se di ore di luce ne ho a sufficienza per arrivare senza problemi. Poco dopo Stia intravedo i ruderi di un antico castello sulla mia sinistra e una deviazione conduce ad esso. Duecento metri di sterrato accarezzato da alti cipressi mi accompagnano sotto le sue pietre. Per quanto non del tutto integro, le sue tre file di mura lo rendono imperioso. Castello di Romena, questo è il suo esatto nome all’anagrafe catastale. Muri, una pieve, un museo e un paio di torrioni, nulla più, ma lo stato conservativo ottimale ne fa un luogo magico e unico. Questo posto è citato persino nell’Inferno di Dante e proprio qui vi dimorò Gabriele D’Annunzio per scrivere parte dell’Alcione. Su un cartello posto all’ingresso, leggo un pezzo di una scrittrice inglese, tale Ella Noyes che recita così: “…sebbene le mura del castello siano ora crollate, lo scenario rimane quello d’un tempo. Dall’alto del grande concavo nell’azzurro, si guarda giù, verso il piano smeraldino, segnato dalle curve scintillanti del fiume, e lontano, verso i castelli e i villaggi, le foreste che cingono la valle”. Gli ultimi chilometri sono tra i più spettacolari fatti sin qui. Nonostante la continua, costante, lunga salita, sulla mia sinistra il mio campo visivo spazia per chilometri e chilometri senza intoppi di nessun genere. Colline e valli, colline e valli, ne vedo a decine. Anche tenendo la testa bassa per la fatica riesco comunque a gustarmi ogni singolo filo d’erba, in quanto sopra ho solo cielo e sotto ho tutto il resto. La giornata forse più impegnativa ma sicuramente più bella, ricca e soddisfacente. Domani si scende verso Firenze, dove mi troverò di fronte a scenari completamente differenti da questi.

“Un viaggio è sempre una scoperta, non tanto per i luoghi nuovi, ma quanto per ciò che essi fanno alla nostra mente.”

9 MAGGIO

È il giro di boa, metà percorso, si parte per la seconda parte del viaggio. La soddisfazione c’è, nonostante intoppi e deviazioni, il tempo perso è recuperato e ora sono in perfetta tabella di marcia. Discesa, discesa e ancora discesa. Rispetto agli altri giorni si prospetta una passeggiata da fare a occhi chiusi. Dopo una decina di chilometri mi fermo per una sosta in un barettino anni sessanta. Prendo una cioccolata per caricarmi di zuccheri. La mia scelta, non tanto per un valore nutrizionale ma quanto per un valore affettivo, ricade sul buon vecchio Galak. Anni e anni che non ne mangio uno. La stopposità del cioccolato bianco e la sete che mi fa venire subito dopo non è paragonabile alla soddisfazione di averlo rimangiato dopo così tanto tempo. Mi spiace non vedere più il mitico delfino bianco sulla carta della confezione. Ora quel simpatico mammifero è stato mandato in pensione e sostituito da una semplice scritta. Dopo il bambino nazista delle barrette Kinder mi hanno tolto anche questo! Mentre sono in procinto di andarmene sento un ragazzo al bancone mettersi a ridere guardando fuori verso la strada. Due secondi dopo entra un signore di età indecifrabile (forse 60, forse 70, forse 80 anni?) con una pappagorgia talmente allungata da nascondergli perfino il pomo d’Adamo. La conversazione in toscano tra i presenti è velocissima ma comprensibile. Il signore si sta vantando di aver vinto 5 € al gratta e vinci e di aver passato una notte di sesso sfrenato con una donna da paura (da capire il valore di “paura”). Dopo gli applausi generali e i fischi d’incoraggiamento il “giovanotto” viene spronato a continuare e a raccontare i particolari ma lui, stranamente, si ferma dicendo solo che si è fatto una straniera senza aggiungere altro. Penso che chi ha avuto il coraggio di andare con questo tizio qua deve aver ricevuto parecchi soldi! Guardando il signore mi viene in mente quel cane cellulitico di una pubblicità di non ricordo quale prodotto e quale marca, di quei cani che gli tiri la pelle verso l’alto per mezzo metro ma loro rimangono ancorati a terra, che non capisci come facciano a vedere perché d’avanti agli occhi hanno tre strati di carne…ecco…il latin lover è uguale e per quello non riesco a dargli un’età. La quasi totalità di assenza di macchine dei giorni passati è solo un lontano ricordo. Una è la strada che da Consuma scende a Firenze e una è la strada che le macchine percorrono per andarci. L’essere a metà settimana la rende comunque fattibile e non troppo pericolosa. La giornata soleggiata mi tiene il livello dell’umore piuttosto alto e il cappellino da pescatore fa per la prima volta la comparsa sulla mia testa. Di punti d’ombra ne ho pochi ma il clima rimane godibile nonostante il percettibile aumento della temperatura con l’inoltrarsi della giornata e lo scendere di quota. Passo affianco ad una collina completamente tagliata a metà per colpa dello sbriciolamento continuo e costante del terreno, causato dal filtraggio dell’acqua. Sembra di avere d’avanti una fetta gigante di torta. Pan di spagna, panna, cioccolato, glassa…pan di spagna, panna, cioccolato, glassa. Un grattacielo di strati di roccia a intervalli regolarissimi partono dal ciglio della strada per salire fino in alto. Prendo in mano una lastra di arenaria spessa tre dita e larga quanto due mani e comincio a spezzettarla seguendo le crepe già esistenti. Tagli netti, dritti e perfettamente orizzontali mi consentono un lavoro semplice e senza forza. Come cavolo fanno ancora a star su questi rilievi collinari se alla minima pressione si spezzano così facilmente poi è un bel mistero. Quel che mi rimane di quel bel lastrone è un semplice sassolino grande quanto un unghia della mia mano.

Nel pomeriggio arrivo a Firenze, per me in assoluto la città più bella d’Italia e non solo. Una città conosciuta tardi ma che al primo impatto mi ha lasciato senza fiato e che continua a togliermelo ogni qualvolta vi entro da turista. Una città che mi evoca ricordi e che sento amica. La vedo prima da lontano, dall’alto di una piccola altura, poi mi ci avvicino seguendo il corso del suo fiume, l’Arno, per poi entrarci in punta di piedi da Est, sulla sinistra del lungarno. Prima di addentrarmi verso il centro vero e proprio, salgo a piazzale Michelangelo, il luogo più bello in assoluto di Firenze. Una tappa per me obbligatoria e doverosa per salutarla e caricare gli occhi di quello spettacolo di tetti, torri e campanili sbucanti da quella terra ricca di vita, storia e tradizioni. Difficile trovare una spazio libero per poter godere del panorama da un buon punto. Turisti di ogni genere e tipo fanno a gara per fotografarsi dalla mattonella più bella e con maggior visibilità sulla città. Giapponesi in pose ridicole, americani amici di tutti, italiani furbi, indiani composti…si vede di tutto. Parlate differenti, dialetti diversi, ma occhi, espressioni, sorrisi e risate completamente uguali. Perché qui si e altrove no? Culture e religioni qua si fondono, si mescolano e si toccano senza odio. Si vedono con il giusto rispetto e si guardano consci del fatto che esistono e che sono in una terra che ha altrettanta cultura e tradizione differente dalla loro. Perché qua c’è rispetto e altrove no? Non siamo sempre gli stessi? Forse in viaggio siamo tutti fratelli mentre a casa no? Forse in viaggio siamo tutti uguali e a casa no? Forse in viaggio siamo tutti sereni e a casa no? Questo è senz’altro uno degli aspetti positivi del viaggiare e del viaggio stesso. Faccio il mio ingresso trionfale attraverso Ponte Vecchio, il ponte delle gioiellerie. Vigili urbani a controllare la situazione traffico pedonale, carabinieri a piedi a controllare i pedoni furbi e meno furbi. Il mio zaino non passa inosservato ai più. Sguardi di diffidenza mi si lanciano contro come frecce avvelenate, come fossi un vagabondo sporco e lurido. Occhi attenti che mi studiano incuriositi e incerti, occhi meno attenti che mi guardano velocemente ma con altezzosità. Come cambiano le cose in poche ore. Fino a ieri il mio zaino era simbolo di coraggio, ora è simbolo di vagabondaggio. Fino a ieri ero uno di loro, ora sono uno dei tanti. Fino a ieri si parlava con chiunque, ora si rischia di prendere del matto. La montagna è differente dalla città, la montagna è anima calda del dolce viaggiare, la montagna è casa di tutti. Il fascino indiscutibile di queste città resta inimitabile, ma l’abbraccio umano che può dare un sentiero di montagna non lo si troverà mai in una via affollata e chiusa da mura, grigie o colorate che siano. Svolto per gli Uffizi per cominciare il mio passaggio per le vie del centro. Per la prima volta nella mia vita trovo l’ingresso alla galleria d’arte completamente senza fila. Sarà che è mercoledì o sarà che son già le quattro pomeridiane, fatto sta che gli unici presenti nella piazzetta grigia siamo io, i venditori ambulanti, i pittori di strada e poliziotti con due camionette. La tentazione di andare a visitare gli Uffizi è alta ma con quello zaino e con l’olezzo di sudore dal retrogusto di putrefazione che mi trascino dietro mi fa cambiare idea immediatamente e tra l’altro per vedere quella quantità enorme di opere d’arte mi dovrebbero pagare. Intravedo Palazzo Vecchio, tra le impalcature montate per il risanamento conservativo delle facciate degli Uffizi e mi ci dirigo. Mentre arrivo ad una decina di metri dalla strettoia, d’avanti a me le due camionette si schierano a lisca di pesce, una di fronte all’altra, montando, sui vetri anteriori e laterali, le grate antisommossa. Io mi blocco come un fesso in mezzo alla piazza, guardandomi attorno e cercando di capire se sono vittima di uno scherzo. Passo nella via laterale ed entro in Piazza della Signoria, trovando Palazzo Vecchio completamente transennato e cinto da poliziotti, vigili e carabinieri. Attorno curiosi in attesa di capire o di vedere qualcuno uscire. Cinesi attenti con macchine digitali pronte alla mano. Mi fermo incuriosito anch’io e, vedendo i corpi dello stato chiacchierare tranquillamente tra di loro, gli chiedo cosa sta succedendo: “C’è un convegno particolare.” , “Ma chi c’è?” , “Il premier Monti!”. Roba poco interessante per i miei gusti e passatempi. Mi dirigo di nuovo verso il lungarno in direzione biblioteca nazionale, pronto a far fruttare la tessera da me fatta l’anno prima proprio là dentro, così da mettermi al fresco e far arrivare le otto di sera in maniera comoda e culturalmente utile. Un centinaio di metri prima della biblioteca mi trovo improvvisamente nel bel mezzo di una manifestazione di protesta. Ecco perché di quelle camionette antisommossa. Un lungo serpente rosso si snoda per un centinaio di metri, in maniera pacifica, per le vie del centro. Cartelloni, striscioni e cori contro il governo e i politici tutti. Ad aprire il corteo bandiere rosse e di Cuba…di Cuba? Di Cuba! Ma non è una manifestazione contro la politica? Eppure chi la muove lo sta facendo sotto vessilli politici e sotto simboli che niente hanno a che fare con il mio paese. Mi ci infilo in mezzo. Io, piccolo puntino vestito di grigio antracite, inghiottito da questo rettile rosso, esco come escremento dal posteriore, rigettato come parassita. Niente a che vedere con le manifestazioni no global viste in tv, per fortuna, anzi, gente tranquilla e scherzosa che ha il coraggio di metterci la faccia tenendo in mano solo altre mani e non pietre e bombe molotov. Verso sera mi ritrovo d’avanti uno di quei ragazzi della prima fila, con ancora in mano la bandiera di Cuba. Lo fermo e gli chiedo spiegazioni:

“Perché la bandiera di Cuba?”

“Perché simbolo di rivoluzione!”

“Ma allora manifestate per i diritti del popolo cubano?”

“No per quello del popolo italiano!”

Rimango interdetto. Troppi sono gli interrogativi che in quel momento mi passano per la testa, troppi, veramente troppi. Lo saluto di traverso e me ne vado. La stima per il coraggio di mettersi in prima fila per una cosa in cui crede è oscurato dalla completa perdita di credibilità causata da tale risposta. Boh…sto ancora cercando di ricordare cos’ha fatto Cuba per noi italiani e di capire come si può distruggere la politica con altra politica…non mi tornano i conti. Appena dopo il tramonto raggiungo gli amici che mi ospiteranno a casa loro, appena dietro Piazza del Duomo. Chiacchierare del viaggio e comunque per più di dieci minuti di filato mi sembra quasi un sogno. Pici con pesto, pomodoro e pecorino piccante per cena, mi riempiono felicemente stomaco e animo. Girare a piedi la sera per Firenze è una goduria incredibile. Un’aria leggera e tiepida ci accompagna per le vie, cullati da luci arancioni e da suoni ovattati che si posano delicatamente sui nostri discorsi. I passi rallentati, gli occhi socchiusi, i gesti morbidi…Firenze mi copre d’affetto e il mio stomaco formicola di gioia, come colpito da amore improvviso.

“Per me c’è solo il viaggio su strade che hanno un cuore, qualsiasi strada abbia un cuore. Là io viaggio, e l’unica sfida che valga è attraversarla in tutta la sua lunghezza. Là io viaggio guardando, guardando, senza fiato.”

10 MAGGIO

Mi godo la sveglia non puntata, la luce di traverso che entra furtivamente dalla corte sulla quale si affaccia la camera, il letto a pavimento stile orientale nel quale ho passato la notte, il duomo come prima visione dopo aver varcato l’uscio di casa e una ipercalorica colazione in una pasticceria del centro. Se dovessi giocarmi una lacrima d’emozione me la giocherei qua. La partenza a mattinata già avviata la pago subito. La temperatura è già alta, oltre i 25 gradi e lo smog e il caotico vagabondaggio di macchine e tram la rende più elevata di almeno un altro paio di gradi. Fino a Scandicci, e oltre, è una guerra di nervi contro tutti e tutto. Infastidito da rumori, persone, cose e tutto ciò che c’è, c’era e ci sarà, cammino a testa bassa e a velocità elevata. Prima esco da qua e meglio è! In mezzo alle campagne riminesi non ho sofferto di allergia nonostante i milioni di piumini svolazzanti, mai uno starnuto, mai prurito alla gola…qua invece, con l’odore acre e pungente dello scarico delle auto, starnutisco continuamente, nonostante i miei tentativi di nascondere il viso sotto la maglietta o dietro un fazzoletto. Respiro solo dopo una buona dozzina di chilometri, quando il verde comincia a rifarsi strada ai miei occhi. Boschi e sentieri sono ormai lontani ricordi. Asfalto, sterrato e argini saranno da ora le uniche strade che percorrerò. Nelle ore centrali della giornata mi ritrovo su una via poco trafficata, parallela a provinciali e a quella statale lunga e larga che da Firenze porta al mare, la famosa FI-PI-LI. Di nuovo silenzio, quiete e tranquillità. Di nuovo cinguettii, latrati e vento sulle foglie. La strada che percorro è quella del Chianti DOC. vigneti a destra e a sinistra. Cantine, case vinicole e frantoi spuntano come funghi da ogni parte. Cartelli enormi incoraggiano i viandanti a fermarsi per assaggi e degustazioni. Le due del pomeriggio irrompono sulla mia testa come macigno su fragile vetro. Mi sciolgo, mi squamo, mi brucio. Nessun riparo…nessuna macchia d’ombra. Il brutto è che il sole mi gira sempre sulla sinistra, sempre! Mattina è dietro a sinistra, metà giornata in alto a sinistra e pomeriggio davanti e sempre a sinistra. Possibile? Forse ci faccio caso involontariamente, ma il braccio del camionista non mente! Afa opprimente mi fa sudare come fossi ricoperto di nylon, appiccicandomi la maglietta al corpo, come prosciutto sottovuoto. Seguendo l’argine dell’Arno arrivo a Empoli. La prima cosa che faccio è andare a vedere lo stadio, mentre la seconda è svoltarmi sotto un albero nel gigantesco parco di Serravalle, adiacente lo stadio stesso. Non conosco questa città e fondamentalmente non mi va neanche di entrarci. Il caldo mi ha succhiato energie e curiosità. Attendo solo che gli amici che ho qua mi passino a prendere per portarmi sotto una bella doccia fresca e rigenerante. Per me oggi Empoli è solo ‘E’ di Empoli, la vocale della ruota della fortuna! La serata in compagnia mi stuzzica la curiosità. Chiedo, domando e incamero notizie su persone che non vedo da tempo. Imparo perfino a dividere i rifiuti in maniera corretta, o quasi, per la raccolta differenziata. Fino a che la palpebra regge, incalzo avido d’informazioni, ma dopo aver imparato l’uso della ‘rificolona’ nella tradizione fiorentina, mi congedo cadendo in un sonno stupendamente profondo.

“Il senso del viaggio sta nel fermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare.”

11 MAGGIO

La ripartenza è dallo stadio, né un metro in meno né un metro in più rispetto al punto d’arrivo di ieri. Attraverso la pizza senza troppo interesse e dopo aver passato il centro commerciale e la zona industriale, scappo alla ricerca di strade meno intasate che però, per parecchi chilometri, so già che non troverò. Il paesaggio leggermente collinare comincia a scendere lentissimamente verso Ovest, in maniera impercettibile ma costante. Verso metà strada salgo nel borgo di S. Miniato, forse l’ultimo baluardo difensivo situato ad una certa altezza. Un paese antico che racchiude vie e palazzi dal sapore cavalleresco. La torre, situata nel punto più elevato, domina tutta la valle sottostante, che si apre per chilometri e chilometri verso il Tirreno. Nello scendere, per rimettermi sulla strada principale, percorro in solitudine un paio d’ore fino a incrociare, in un piccolo paesino di tre case, un bar aperto. A sedere davanti ad esso vi ci trovo una quindicina di anziani con cappellino in testa, intenti a discutere sul futuro della Fiorentina nel campionato di calcio. Ma da dove cavolo arrivano ‘sti qua? Niente biciclette, niente motorini, niente macchine. Abitano tutti in queste tre case? Mi sono sempre domandato come fanno questi locali dispersi in mezzo alla valle degli orti a tirare avanti, nonostante la posizione poco fortunata e lontana da strade frequentate. Vedendomi arrivare si ammutoliscono un attimo, ma dopo averli salutati ed essermi seduto affianco a loro, riprendono i discorsi sportivi (argomento per loro sicuramente di una certa rilevanza) in toscano stretto. Aspetto un paio d’ore prima di ripartire. Per il troppo caldo mi metto sotto un albero, sonnecchiando e riposando cullato da una profumata aria tiepida. La mente libera e senza pensieri spazia per l’etere, leggera e limpida, su e giù per i rilievi e le pianure. Appena prima delle 4 pomeridiane riparto, riposato e con le gambe oliate e pronte. La strada che percorro si perde lentamente verso il basso. L’asfalto grigio entra direttamente nell’azzurro terso del cielo, sciogliendo verso l’orizzonte. Il mare, visibile a tratti davanti a me, comincio a sentirlo vicino e le prime palme fanno la loro apparizione in alcuni giardini di villette. Una cosa che non auguro a nessuno è quella di ritrovarsi con un piumino in un occhio! La parte più grossa la tiri via subito ma gli sfilaccini più sottili e fragili si appiccicano alla pupilla in modo irreversibile. Più l’occhio lacrima e più si attaccano! Solo dopo tentativi infiniti, litri di lacrime con successiva gonfiosità a livelli esagerati, tutto torno alla normalità. Lascio campagna e colline per rientrare nel traffico veicolare, a Pontedera. Una bella via in porfido e pedonale taglia a metà il centro. Ragazzi e ragazze vi passeggiano fermandosi ad ogni vetrina per ammirare scarpe e vestiti di stagione. La calda giornata finisce a sedere su una panchina, gustandomi un buon gelato.

12 MAGGIO

Ultimo giorno, ultima fatica, ultima tappa. La notte agitata mi ha sparato in testa milioni di emozioni e sensazioni. La domanda più frequente fattami tra una dormita e un’altra è stata la seguente: sarà più la soddisfazione di arrivare o la tristezza di finire? Un’amica mi ha detto che si arriva per ripartire…ma è un concetto da studiare e analizzare per bene. Troppe sfumature in quelle poche ma giuste parole. Perché ho intrapreso questo viaggio? Perché ora? Perché da solo? Domande apparse all’inizio, durante e alla fine di quest’avventura. Domande fattemi da gente sconosciuta, conosciuta e da me stesso. Domande alle quali ho dato risposte semplici, banali e brevi, per togliermi dagli impicci il prima possibile…perché fondamentalmente neppure io lo sapevo e lo so. La cosa certa era una sola: era il momento giusto. Punto! Partenza ore 6:20. Il caldo asfissiante del giorno prima è stato un campanello d’allarme. Oggi solo pianura e asfalto, meglio partire col fresco e arrivare sì col caldo ma al traguardo il prima possibile, cioè poco prima delle 13. La strade provinciali sono praticamente vuote e appena imbocco vie meno battute mi ritrovo solo. In lontananza solo ronzii di motori provenienti dalla carrabile che porta al mare. Sopra azzurro limpido, sotto asfalto grigio, ai lati cespugli verdi. Rettilinei infiniti si aprono ai miei occhi. Cammino avendo l’impressione di non muovermi mai. Stesso paesaggio per chilometri, chilometri e chilometri. Vago per questo lembo di terra piana come un’anima in pena. A Nord, lontani, Appennini, a Sud, lontani, Appennini, in mezzo io…in movimento ma apparentemente fermo. In collina ogni 200 metri una curva, un tornante, un cambio di pendenza, qua no, non una curva, non un tornante, non un dislivello. In collina mi ponevo piccoli traguardi, qua non me ne riesco a dare. Qua per la prima volta la testa chiede aiuto, chiede una pausa, chiede pietà. Le gambe se la ridono, ma in maniera preoccupata. “Tutti abbiamo bisogno di tutti” aveva detto la testa alle gambe il primo giorno di viaggio. Ora si rendono conto di quanto quelle parole avessero un peso enorme. “Dove non arrivi tu, oggi arriviamo noi” sentenziano gli arti inferiori. “Il primo giorno hai tirato tu, oggi tocca noi scambiare il favore.” Le gambe chine sul pezzo, la testa aperta al nulla. Gambe leggere come piume, testa pesante come montagne. In cielo i gabbiani fanno la loro apparizione, silenziosi. A cerchi concentrici volano in fila indiana, come avvoltoi pronti a buttarsi su carcasse di animali morti. “Sono ancora vivo…maledetti!” penso fingendomi nel Far West, senza cavallo, senz’acqua e lontano da ogni cittadina. Necessito di un Saloon! Mi rovescio addosso un po’ d’acqua rendendomi conto che stavo dando di matto. Guasticcie, il primo paesino dopo il nulla. Oasi nel deserto. Piccola sosta, piccolo assaggio d’ombra…lo stretto necessario per rimettere la testa al proprio posto. Si riparte. Sotto e sopra spingono assieme e la velocità aumenta. Ora lo scenario comincia a cambiare. Livorno non è lontana e lo capisco da come gli altri paesini che incontro, man mano, diventino sempre più grigi e insipidi, piccole succursali alla periferia di una grande città. Ora sopra sempre cielo azzurro ma meno nitido, sotto sempre grigio asfalto ma chiazzato da pozze di afa, mentre ai lati non più verde ma altro grigio di fabbriche chiuse e materiale accatastato. Certo, entrare a Livorno per la zona industriale non è certo il massimo…ma questa è la via. Passo senza saperlo davanti al ristorante “Il Deserto” che negli anni sessanta fu dei miei bisnonni. Il nome non è cambiato, così come la facciata che ricordavo dai vecchi filmati fatti dalla cinepresa a manovella. Il cartello che mi indica l’ingresso al centro abitato è la spinta che mi permette di tirare lo strappo finale…un po’ come quando un ciclista passa sotto al triangolino rosso dell’ultimo chilometro, trovando energie credute finite. Ogni palazzo è per me come un tifoso che mi spinge all’arrivo. M’immagino che si stiano animando e che le finestre siano occhi e le porte bocche che mi incitano. L’ammiraglia non c’è più…volata finale…la testa incita, le gambe spingono…il cuore pulsa.

Gli occhi vogliono vedere…

Ed eccolo lì, davanti a me… il mare.

Lo intravedo tra le navi finchè non ci arrivo sopra.

Un arrivo in solitaria, un arrivo in solitudine. Nessun premio, nessuna coppa o medaglia, nessun inno e nessun podio. A festeggiarmi solo l’indifferenza di una città che non mi ha visto passare. A festeggiarmi da lontano, però, tutti i 240 km fatti, con alberi, case, fiumi, argini, animali e persone che hanno fatto da comparsa in questa impresa. Ora lo so, la soddisfazione dell’essere arrivato è molto più grande della tristezza dell’aver finito.

Una soddisfazione mia, interiore… io so quello che ho fatto… e questo basta e avanza!

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Panorama dal Castello di Romena

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