Due Viandanti in India sulla Via delle Samosa di Parte 3 – Dalle Andamane al Rajasthan

Questo è il terzo capitolo del diario di viaggio di Franz e Lula. In questa parte vi racconteremo le nostre peripezie in Rajasthan. Buona Lettura!
Scritto da: Franz_Zena
due viandanti in india sulla via delle samosa di parte 3 - dalle andamane al rajasthan
Partenza il: 01/11/2012
Ritorno il: 23/11/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
Giorno 13 – Invito ad un matrimonio indiano a Chennai

Un’alba senza nuvole si era presentata su Port Blair. La nostra camera aveva una finestra piccolissima, ma già dalla poca luce che passava dalla finestra avevamo presagito una bella giornata di sole.

Ci siamo così alzati, abbiamo sistemato gli zaini e dopo una pessima colazione, un Tuk-Tuk in pochi minuti ci ha portati all’aeroporto. Qui abbiamo avuto nuovamente un piccolo problema per entrare all’interno. Infatti, sui biglietti della Jet Airways, comprati con Lastminute.com, risultava solo il nome di Lula e non il mio, quindi dovevo andare allo sportello della Jet Airways per farmi ristampare un secondo biglietto per la cifra di 100 Rs, che pur essendo solo poco più di un Euro, mi infastidiva spenderla per una negligenza del sistema di emissione dei biglietti della Jet Airways. Sottolineo che per tutti gli altri biglietti, di tutte le altre compagnie che in questi anni abbiamo acquistato dallo stesso sito, non c’è mai stato lo stesso problema.

Una volta entrati abbiamo fatto il check-in e ci siamo imbarcati per Chennai. Il volo è stato piacevole. Siamo atterrati a Chennai che era il primo pomeriggio e dopo una breve attesa è arrivato il taxi dell’albergo che ci ha riportati alla Kek Accomodation, lo stesso hotel che avevamo usato qualche giorno prima. Il quartiere sembrava stranamente addirittura più sporco di come ce lo ricordavamo. Ci era bastato poco per abituarci al meglio. Comunque, una volta entrati lo staff ci ha riconosciuti e ci ha assegnato la stessa camera che ci aveva assegnato nel nostro soggiorno precedente.

Subito dopo aver preso la camera siamo usciti per fare una passeggiata, e ci siamo diretti verso un’area che non avevamo ancora visitato. Abbiamo seguito il traffico e siamo prima passati affianco a quella che sembrava una discarica, ma poi, seguendo delle voci di ragazzini, siamo entrati nella discarica “Fra, ma te non te li fai mai gli affari tuoi?” era Lula che imprecava alla mia curiosità. La discarica, non era proprio del tutto una discarica, i cumuli di rifiuti erano solo il contorno di un campo di terra battuta dove tanti ragazzini giocavano a cricket. Il cricket è lo sport nazionale indiano e qui tanti bambini gridavano, lanciavano palle e le mancavano sventolando una mazza, altri correvano, altri gridavano ancora, il tutto in un gran polverone. Noi siamo tornati sulla strada con l’intento di esplorare la zona e magari non farci investire, che non sembrava una sfida da poco.

Proseguendo per quella strada di cui ignoravamo il nome ci siamo addentrati in uno slum, passando davanti a bancarelle di fuochi d’artificio dove bellone Bollywoodiane, tutte uguali, ci guardavano da manifesti dallo sfondo di grandi fuochi d’artificio. Poi siamo passati davanti a friggitorie, “flour mills” e “spice mills”. Questi ultimi due erano delle sorte di garage dove macchine a benzina tritavano granaglie o spezie in un gran polverone al lato della strada.

Ci siamo addentrati in questa area e mentre camminavano sulla solita spazzatura sono iniziati ad apparire molti topi, mentre i corsi d’acqua permeavano l’aria di un terribile odore di decomposizione.

Ci siamo resi conto che il giorno dopo avremmo potuto avere problemi con il biglietto dell’aereo, visto che era un altro volo Jet Airways e c’era ancora solo il nome di Lula sopra. Allora abbiamo deciso di andare ad un internet point a stampare un’altra copia dal sito ufficiale della Jet Airways come avevano fatto all’aeroporto di Port Blair.

Siamo entrati in uno sulla strada e questa volta il ragazzo ci ha prima chiesto il passaporto, ma quando ha scoperto che non ce l’avevamo, si è accontentato del numero che abbiamo recitato più o meno a memoria; in meno che non si dica avevamo stampato il biglietto, il tutto al prezzo di 18 Rs!

Lungo la strada del ritorno, siamo arrivati alla curva vicino al nostro albergo che era già buio. Qui aveva aperto un affollatissimo banchetto e non abbiamo mancato di fare un bell’aperitivo con delle Samosa e delle Bhaja.

Il sole è tramontato velocemente e ci siamo trovati nuovamente a girovagare per le strade buie del quartiere: un supermercato, una gioielleria, un fioraio dove ho comprato una ghirlanda di gelsomini da mettere nei capelli di Lula come le indiane, un’altra gioielleria e così via.

Si stava avvicinando l’ora di cena e la nostra attenzione è stata catturata da una lunga serie di friggitorie al margine della strada che però da vicino non ci convincevano. Quando ci siamo girati per tornare indietro abbiamo notato uno strano palazzo con tante luci e palloncini, così ci siamo avvicinati: sembrava una festa. Ci si è avvicinato un signore anziano e baffuto che in un perfetto inglese chi ha chiesto chi fossimo e perché fossimo li davanti. Così ci siamo presentati e scusandoci per l’intromissione gli abbiamo detto che eravamo solo curiosi. Lui ha sorriso e ci ha spiegato che era il matrimonio di sua nipote che si sposava con un ufficiale dell’esercito e che noi eravamo i benvenuti ad entrare. Ci siamo guardati, sudati, sporchi e con gli zaini reduci da già due settimane di viaggio, sembravamo due veri zingari a confronto con gli indiani e soprattutto le indiane, vestite con saree meravigliosi, vistosi gioielli d’oro e ghirlande di gelsomini nei capelli. Beh, almeno Lula aveva in testa la ghirlanda di gelsomini, come le indiane, così siamo entrati. Ci hanno fatto accomodare tra le prime file e il signore ci ha offerto due bicchieri di tamarindo, poi mi si è seduto a fianco e mi ha spiegato che questo era in realtà il pre-matrimonio, una sorta di cerimonia dove gli sposi si presentavano ai parenti ed amici, facendo fotografie con tutti e si sarebbe mangiato. C’era un gruppo di ragazzini che suonavano e ballavano su un palco. Io invece scattavo foto a raffica. Poco più tardi lo zio è tornato a trovarci e a parlare con noi, poi ha accompagnato un altro parente, che sembrava lo zio-sadu, o lo zio pazzo, di famiglia. Il tempo è trascorso in maniera piacevole, ma poi abbiamo visto un fuggi-fuggi generale e abbiamo capito che nella sala al piano superiore avevano iniziato a servire la cena. Non osavamo tanto ma poco più tardi è stato lo zio della sposa a portarci al piano superiore dov’era il banchetto.

Era una sala ampia con centinaia di persone disposte su sette file di tavoli con persone sedute di spalle. Si perché non si mangia di fronte come da noi, ma quasi in silenzio, uno affianco all’altro e schiena contro schiena, con uno stretto corridoio davanti ai tavoli dove passavano i camerieri.

Finito il primo turno di ristorazione, i commensali si sono alzati, i camerieri hanno pulito i tavoli e lo zio ci ha fatti sedere in mezzo alla famiglia di uno zio dello sposo. Io ero a fianco allo zio dello sposo che anche lui parlava benissimo l’inglese e si divertiva a spiegarmi l’etichetta del banchetto e le caratteristiche di ogni portata.

I camerieri stavano stendendo delle tovaglie di carta sulle quali mettevano delle foglie di banano da usare come piatti e delle bottigliette d’acqua. Per iniziare il pasto si deve prima bagnare la foglia e lavarla, ma solo con la mano destra. Poi scolarla oltre il bordo del tavolo, ed a questo punto hanno iniziato a passare i camerieri a distribuire le portate che erano composte da diversi tipi di riso, salsine, stufati di verdura, pane, patatine e tante altre cose. Ovviamente, tutto da mangiare con le mani. I camerieri continuavano a passare e chiedere se si voleva ancora qualcosa, ed io ho fatto doppio giro del riso con la verdura che era proprio ottimo. La cena è stata ricca ed abbondante e quando ci siamo alzati ci è stato offerto come dessert un fagottino costituito da una foglia di Betel avvolta attorno a qualcosa di sconosciuto, simile a noccioline morbide immerse nel miele. Ne abbiamo assaggiato metà io e metà Lula. Sembrava una bietola cruda farcita di dolce. Subito la saliva ci si è tinta di rosso e per paura di avere la bocca rossa da vampiro siamo andati subito a lavarcela ad un lavandino.

Siamo scesi nella sala principale ed adesso al posto degli suonatori c’era un DJ ed i ragazzi si esibivano alternando danze tradizionali ad una specie di Hindi Hip-Hop. Tutto questo mentre un cameraman passava tra le file a riprendere tutti i presenti, noi compresi.

Sul tardi è arrivata la coppia di sposi e lo zio della sposa ha tenuto a presentarci, ma prima c’era da vedere il rito delle offerte alla coppia. Molte famiglie, che probabilmente avevano già fatto un regalo alla coppia, qui portavano un regalo simbolico costituito da un piatto sul quale disponevano monete, polveri colorate, fiori, lumini, perline e tante altre cose, tutte disposte a formare motivi geometrici. Lo zio mi ha trascinato davanti alla coppia ed io, con la mia faccia tosta ho sfoderato il mio repertorio di auguri in inglese, augurandogli ogni cosa positiva che mi venisse in mente, poi è toccato a Lula a presentarsi. Gli sposi ci hanno sorriso, ma sembravano anche vittime della confusione che regnava tutto attorno a loro. Quando sono entrati sono stati fatti accomodare su due troni messi su un palco e gli sono state scattate centinaia di foto, poi tutti gli invitati si sono messi in fila, e dico una fila vera in India (è stata la prima e l’ultima che ho visto) e sono andati dagli sposi a fare le foto di rito.Lentamente, dopo le foto, la sala ha iniziato a desertificarsi e lo zio della sposa ci ha raggiunti per invitarci al matrimonio vero e proprio del giorno dopo. Purtroppo non saremmo potuti andare, perché avevamo il volo proprio di mattina. Così ci siamo congedati e l’abbiamo ringraziato per la sua generosa ospitalità. “Incredible India!”.

Siamo tornati al nostro hotel che non credevamo ancora di essere riusciti a partecipare ad un matrimonio indiano .Quando siamo tornati in hotel abbiamo fatto una doccia veloce mentre in TV trasmettevano James Bond e poi a dormire subito, perché ci saremmo poi dovuti alzare alle 5.00 del mattino.

Giorno 14 – Jodhpur, la Città Blu

Il sole doveva ancora sorgere quando alle 5.00 del mattino, siamo balzati giù dal letto e ci siamo diretti verso la hall per chiedere il trasporto per l’aeroporto. Siamo saliti sul taxi insieme a due businessmen indiani che condividevano la nostra stessa tratta; curiosi del nostro viaggio non hanno mai smesso di farci domande. Poi, finalmente siamo arrivati all’aeroporto e loro, coi loro trolley, sono spariti fondendosi nella folla.

Finalmente, abbiamo fatto il check-in e poi colazione. Io già speravo di assaggiare nuovamente il Pongal, ma era finito, così abbiamo ordinato due caffè neri e due ciambelle.

Lula è stata bloccata per l’ennesima volta al metal detector dove le hanno sequestrato l’ennesimo accendino, mentre io sono stato fermato poco dopo, al secondo metal detector per la mia piccola torcia Maglite.

Siamo arrivati all’aereo che mancava poco al decollo, così siamo partiti per Delhi. Il volo è stato tranquillo e siamo atterrati nell’aeroporto della capitale indiana in perfetto orario. Qui abbiamo dovuto aspettare ancora tre ore prima del volo successivo. Nella hall principale dell’aeroporto abbiamo potuto assistere ad uno spettacolo di danze tradizionali indiane eseguito da bravissimi ragazzi, e poi abbiamo pranzato con due ottimi panini dell’internazionale Subway. Dopo di che, alle 14.45 siamo atterrati a Jodhpur, nel Rajasthan. Già dall’alto dell’aereo avevamo notato una terra più brulla di quella che avevamo lasciato nel Tamil Nadu, ed ora eravamo curiosi di conoscere questo nuovo aspetto dell’India.

Usciti dall’aeroporto abbiamo preso un Tuk-Tuk prepagato a 250 Rs che ci ha portati in centro, attraverso strade apparentemente meno trafficate di quelle che avevamo visto nel Sud, verso il nostro hotel. Lungo la strada il nostro autista è stato fermato da un poliziotto, grasso, baffuto e col manganello. Dopo un breve scambio di battute, senza neanche guardarci, il poliziotto scroccone è saltato sul Tuk-Tuk ed ha fatto segno di partire, per poi essere lasciato in centro. Iniziavamo bene!

Il nostro hotel, la Hem Guest House era in un palazzo nel centro della città dove i vicoli erano tanto stretti che si faceva fatica a passarci con il Tuk-Tuk. Quando siamo arrivati ci siamo accorti che le case erano così vicine che quasi non si riusciva a vedere il cielo; per un attimo mi è sembrato di essere nel mio Centro Storico Genovese, ma questa versione esotica era tutta colorata di blu ed aveva molte mucche in più.

Abbiamo bussato al battente della Hem Guest House ed è venuta ad aprirci una ragazza sorridente con un un sari rosso e con le mani ed i piedi coperti da disegni fatti con l’hennè. Ci ha fatti accomodare e ci ha detto di aspettare qualche minuto che sarebbe arrivato il marito, intato ci ha assegnato la camera che era al piano terra: aveva le pareti tutte dipinte da figure rajastane, era larga ed accogliente, ci è piaciuta da subito. Quando siamo usciti, il marito ci ha condotti sul tetto della casa attraverso tre rampe di scale; quella che ci si è parata davanti era una visione da togliere il fiato: il Mehrangarh Fort, la fortezza che sovrasta Jodhpur era proprio davanti a noi in un bagliore quasi accecante. Rudyard Kipling descrisse il Mehrangarh Fort come “Un posto che potrebbe essere stato costruito dai Titani e colorato dalla luce dell’Alba”. Era proprio così!

Ci hanno offero due Masala Tea e dei biscotti; il marito era il figlio della Sig.ra Hem, la proprietaria, una simpatica signora paffuta dalla risata facile. Lui ci ha spiegato che Hem significa “Oro” in lingua Rajput, che loro erano Jainisti e di conseguenza vegetariani. La Sig.ra Hem aveva deciso di non seguire l’omologazione della “Città Blu” di Jodhpur, ed aveva fatto dipingere la casa di rosa. La signora anticonformista ci stava già simpatica! Ci ha mostrato gli edifici principali dalla terrazza e ci ha suggerito di fare una visita al tempio giainista proprio a fianco all’hotel. Abbiamo fatto una moltitudine di foto, e poi siamo scesi per immergerci nei bellissimi vicoli colorati di blu. Siamo passati per una via costellata di negozi di stoffe. Credo che fossimo in “Tija Mata Ka Mandir”. Lula aveva voglia di provare qualche Saree, così ci siamo fermati prima in un negozio, ma non ha trovato qualcosa che le piacesse. Poi in un secondo, e con il terzo ho avuto un tracollo rischiando di addormentarmi sulle bellissime stoffe in vendita. La strada era gremita di indiani e turisti. Molti dei negozianti parlavano italiano segno che questa è una delle mete preferite dal turismo di massa. In effetti il Rajasthan è ormai una meta comune di tutte le agenzie di viaggio, ed è facile da raggiungere, e questo porta al rovescio della medaglia, cioè, la contaminazione, l’omologazione di qualcosa cucito a misura di turista. E questa sensazione ce l’avremmo avuta per gran parte del Rajasthan.

Abbiamo proseguito lungo la strada e abbiamo prima trovato un tempio che sembrava dedicato a Shiva, ma era chiuso, saremmo potuti tornare più tardi, dopo le 19.00.

Ci siamo infilati in un vicolo laterale, era una sorta di macelleria a cielo aperto, il sangue era ovunque e le carcasse di animali giacevano nei negozi al pian terreno. Poi, abbiamo preso una strada laterale, poi un’altra ed un’altra ancora, finchè non ci siamo trovati in un mercato coperto da teli. Ovunque c’erano spezie e cose di uso comune e la presenza dei turisti era sempre più evidente.

L’ora del tramonto era arrivata velocemente e le bancarelle hanno iniziato ad accendere le luci. Io e Lula ci aggiravamo per il mercato cercando di fare fotografie alla merce così colorata ed impilata. Poi ci è venuta voglia di tè. Abbiamo individuato una bancarella con tante spezie e subito il commerciante ci ha invitato ad entrare e ci ha offerto due tazze fumanti di Kashmir Tea, cioè un tè di cannella, cardamomo e zafferano, con la speranza di buone vendite. Abbiamo tergiversato dicendogli che avevamo solo poche rupie e con la promessa di ritornarci, ce ne siamo andati. Comunque, il Kashmir Tea è stato proprio buono!

Subito di fronte al negozio abbiamo visto la Clock Tower, un campanile illuminato che cambia colore ad intermittenza. Abbiamo attraversato la piazza e abbiamo continuato a girare a caso, ma poi ho incontrato una mucca anomala. La mucca per definizione è un ruminante placido che ti fissa masticandosi la sua erba, ma quella che ho incontrato io era una montagna di peli, grasso e corna che mi ha caricato. E’ stata questione di due secondi, massimo tre e c’è stato l’impatto. Non ho subito realizzato quello che era successo, solo un bel dolore ad un fianco ed un braccio. Ero stato fortunato, la mucca aveva cercato di incornarmi, ma mi aveva preso di fianco e il braccio sinistro era rimasto schiacciato contro il fianco attutendo il colpo, mentre le corna mi erano passate una davanti ed una dietro senza toccarmi. Me l’ero cavata solo con una sbucciatura, ma io e Lula abbiamo preso una fuga degna di un cartone animato. Da quel momento, ogni volta che vedevo un mucca in India mi veniva ansia.

Siamo andati ancora un po’ in giro per l’area attorno alla Clock Tower ed abbiamo scoperto tanti scorci interessanti come la Pal Haveli ed il suo bellissimo giardino interno. Siamo tornati nei vicoli per visitare il tempio di Shiva ed abbiamo assistito ai canti.

Era ormai ora di cena quando siamo entrati nel Nirvana Cafè: è ad un piano rialzato rispetto al livello della strada; ha un bel giardino con una sala da pranzo dietro ad una vetrata con i muri coperti da bellissimi dipinti; il ristorante è sul tetto.

Qui c’era una bella vista sul Mehrangarh Fort, anche se dalla Hem Guest House era ancora più bella. Il locale era mezzo deserto, ed abbiamo ordinato due Thali ed acqua minerale dal menù fisso. Poi sono arrivati altri clienti e noi abbiamo dovuto aspettare un’eternità per i piatti. Ogni tanto vedevamo scoppiare dei fuochi artificiali sulla città, il Deewali stava per finire e la gente stava ancora festeggiando. I nostri Thali sono arrivati per ultimi, dopo che erano stati serviti tutti gli altri ed i piatti non erano comunque nulla di speciale. Un’altra volta la Lonely era stata smentita. D’ora in poi avremmo solo seguito il nostro fiuto. Le vie erano buie, e per fortuna avevamo le nostre torce!

Siamo tornati alla Hem Guest House e siamo andati sul tetto. Qui abbiamo preso due ottimi Masala Tea e li abbiamo gustati rilassandoci ammirando il Mehrangarh Fort sotto un cielo stellato.

Era ora di andare a dormire. Buona notte bella Jodhpur Blu e Mehrangarh Fort, domani ci saremmo conosciuti meglio.

Giorno 15 – Jodhpur e Mehrangarh Fort

Era ancora notte quando ci siamo svegliati. Forse erano appena scoccate le 5.00 quando dal tempio giainista dietro l’angolo è iniziato ad arrivare un forte rumore di tamburi e canti. Come se non bastasse, ogni volta che passava un motorino suonava il clacson senza interruzione e noi, avendo la finestra sulla strada, non facevamo in tempo ad addormentarci che venivamo nuovamente svegliati. Ma se non fossero bastati i tamburi, i canti ed i motorini, ci si è anche messo un signore che continuava a passare avanti ed indietro nel vicolo a gridare “eeeeeee-è!”. Ci siamo resi conto che la speranza di dormire sarebbe stata una battaglia persa.

Abbiamo resistito fino quasi le 7.00 e poi ci siamo vestiti e siamo saliti al ristorante sul terrazzo. La giornata era tersa e il forte Mehrangarh si stagliava poderoso davanti a noi già illuminato dalla luce dorata del sole.

La Sig.ra Hem ci ha portato la colazione e con un inglese stentato ma compensato dal suo sorriso e dalla sua gestualità, ci ha fatto capire che a breve sarebbe arrivato anche suo figlio con la nipotina.

Il figlio di Hem, estremamente cortese, ci ha dato il buon giorno e ci ha consigliato che strada fare per raggiungere il Mehrangarh Fort a piedi.

Appena usciti dalla Guest House ci siamo imbattuti nell’uomo che stava ancora gridando “eeeeeee-è!”: non era altro che il proprietario di un botteghino di tè che si stava facendo il giro del quartiere con un cestino con bicchierini di tè fumante.Proseguendo ci siamo trovati davanti al Tempio Giainista di cui ci aveva parlato Mr. Figlio di Hem, così siamo entrati. Un signore ci ha accompagnati in cima alle scale, davanti alla Sancta Sanctorum, attraverso un vestibolo, e su un balcone, dove c’era una canna dell’acqua in cui dovevamo lavarci le mani.Il tempio era piccolo ed accogliente, molto più tranquillo e sobrio dei templi induisti che avevamo visitato nei giorni precedenti. Il gianismo è una filosofia che rispetta ogni forma di vita, ma non ha una vera e proprio divinità, quindi vengono venerati i santi che sono rappresentati molto simili al Buddha. Siamo usciti dal tempio e abbiamo svoltato a sinistra. Molti negozi erano ancora chiusi. Verso la fine della strada abbiamo incontrato diverse pasticcerie dalle quali proveniva un buonissimo profumo di sfoglia.. Lungo la strada eravamo gli unici turisti e la gente sembrava un po’ curiosa di vedere questi due pazzi che andavano a passo spedito. Lungo la strada c’erano piccoli templi, ed abbiamo anche incontrato un manout dal turbante rosso sopra il suo elefante che trasportava tronchi di legno. Alla fine della strada c’era una scalinata ci siamo trovati davanti ad una riserva d’acqua. Era il Padamsar Talab, un lago piatto a specchio, i cui argini che scendevano a gradoni in acqua erano tremendamente coperti di sporcizia. Siamo tornati indietro abbiamo svoltato lungo la strada e ci siamo trovati sugli argini di un secondo lago, il Ranisar Talab. Questo lago è ancora più scenografico del precedente. Noi eravamo su una sorta di terrazza, mentre a lato c’erano le mura di difesa del palazzo; il lato opposto era anche invaso dagli scoiattoli. Una volta raggiunte le mura in rovina ci si è parata davanti una scena spettacolare: il Mehrangarh Fort da questa angolazione si potevano vedere benissimo le sue fattezze eleganti e maestose.

Questo è uno di quei posti che mi piacerebbe vedere in situazioni diverse, magari seduto sugli scalini in una notte di luna piena, con una canzone tipo “The Moon’s Harsh Mistress” nella versione delle Celtic Women, che preferisco rispetto a quella di Jimmy Webb.

Abbiamo camminato ancora per poco quando ci siamo trovati davanti alla prima poderosa porta del forte: la Fatehpol Gate risalente al 1719. Qui siamo stati controllati da due poliziotti ed abbiamo fatto la nostra entrata nel perimetro della fortezza. Eravamo gli unici straneri. Qui alcune donne stavano stendendo i loro panni colorati e sembrava di essere in una cittadella ancora viva.

Siamo saliti lungo la strada probabilmente restaurata di recente, la quale si inerpicava ripida lungo la fiancata del monte. Ai nostri lati c’erano cespugli con bellissimi fiori di color porpora. Siamo così arrivati alla base del forte vero e proprio. Qui vi era uno spiazzo con una bella vista su una parte di Jodhpur che brillava nel suo intenso colore blu. Poco più in alto iniziava la folla delle persone vicino alle biglietterie. Abbiamo fatto il biglietto (Stranieri inclusivo di audio guida 300 Rs, Nativi 50 Rs, Videocamera 200 Rs, Fotocamera 100 Rs), abbiamo preso l’audio guida che richiede un deposito che poi verrà restituito alla fine del tour, ed abbiamo iniziato la nostra esplorazione di questa magnifica struttura.

Avevamo già letto quanto descritto sulla nostra guida, ma l’audio guida è stato un valido supporto che ci aiutato ad immergerci ulteriormente nella storia e fascino di questo posto. Siamo saliti lungo l’ultimo tratto di strada, il punto forse più toccante è stato quando abbiamo raggiunto la Loha Pol, che è anche l’ultima porta prima di arrivare nel complesso del palazzo, dove sono presenti delle impronte rosse, sbiadite dal tempo e dalla scarsa cura, di antiche mani. Questo è il punto dove le Rani (femminile di Maharaja) hanno compiuto il sati, cioè il suicidio rituale, lanciandosi sulla pira funeraria del proprio marito defunto il Maharaja Man Singh. Il sati oggi è un argomento tabù ed è etichetta non citarlo, la verità è che si tratta di una orrenda pratica in cui alla morte del marito, la vedova si immolava sulla pira funeraria. La pratica era stata bandita durante il dominio musulmano, per poi essere ripristinata dai bramini, ma è stata poi ufficialmente bandita dall’Impero Britannico. Tuttavia, sembra che vi siano tracce documentate di sati nel 1946. Pertanto è plausibile che nelle aree remote vi siano stati casi ancora più recenti.

Lasciata la Loha Pol abbiamo proseguito per il museo del palazzo. La visita è stata fantastica e lo suggeriamo a tutti i turisti che passeranno per Jodhpur. Sebbene per qualcuno l’esposizione di palanchini o spade possa non destare molto interesse, gli aneddoti raccontati dall’audio guida sono davvero interessanti, e poi il palazzo ha una architettura di tutto rispetto. Inoltre, dalle finestre del palazzo si può godere di scorci sulla città dai bastioni. Quando siamo arrivati in una delle corti interne, abbiamo scoperto che qui vi era la sede dell’indovino. Al momento lui era occupato, ma abbiamo deciso di fare la coda e chiedere una consulenza. Quando la ragazza prima di noi è uscita contenta dicendo di avere avuto una delle letture più professionali mai ricevute, allora era una garanzia che valeva tutti i soldi che chiedeva. C’erano due tariffe: la lettura completa e quella “veloce”, noi abbiamo scelto la “veloce”. Devo dire che anche a Lula è piaciuta questa esperienza . Abbiamo proseguito la visita passando per alcuni templi privati dove viene venerata la Dea Gangaur, che è una incarnazione della Dea Parvati, la consorte del Dio Shiva. Questa divinità è molto venerata a Jodhpur, in particolare dalle donne che le chiedono benedizioni sulla famiglia.

Il tour all’interno del palazzo è finito dopo questo tempio, poi, in una piazza con alcuni negozi, abbiamo reso le audio guide e abbiamo proseguito nella direzione opposta verso i bastioni.

Ero appoggiato ad un parapetto e col teleobiettivo e stavo scattando fotografie alla città, alle case blu, alla torre dell’orologio, Il lago Gulab Sagar, il Umaid Bhawan Palace e le vie della città quando pensando ad alta voce mi sono chiesto se si fosse potuta vedere la Hem Guest House. In una frazione di attimo Lula era già li a puntarmela, io ero sbalordito dalla sua vista ma poi lei mi ha confessato “è l’unica casa rosa in quel labirinto di case blu”. Usciti dal Mehrangarh Fort, abbiamo fatto una deviazione per visitare il mausoleo chiamato Jaswant Thada. Il territorio tutt’attorno è brullo, sembrava di essere ai margini di un deserto, tuttavia c’è anche un lago sul quale si specchia lo stesso mausoleo.

Abbiamo continuato a scendere, e poi tagliando giù per stradine dove non si vedevano più turisti, siamo arrivati in centro.

Lungo la strada, passando in un’area piena di guest house, ristoranti e hotel, abbiamo scovato un baori. I baori, chiamati anche bawdi o pozzi-palazzo, sono dei veri e propri pozzi caratteristici del Rajasthan, piuttosto larghi, le cui pendici presentano scalinate a zig-zag verso l’acqua, in motivi geometrici a forma di rombo molto belli. Il pozzo di questo tipo più famoso è quello fantastico di Abhaneri. Quello che avevamo scovato noi era una copia in miniatura molto più rozza, nonché usata come discarica a cielo aperto da tutto il quartiere.

Poi ci siamo imbattuti in un cartello che indicava la direzione per raggiungere il famoso negozio “Spice Paradise” o meglio, una delle numerose filiali. Così siamo entrati e ripetendo il copione del giorno precedente ci siamo fatti fare due buonissimi tè, uno Kashmir Kava ed uno ai frutti rossi. Erano entrambi eccellenti e migliori di quelli della sera prima. Mentre sorseggiavamo i nostri tè abbiamo deciso che, in fin dei conti, questi sarebbero potuti essere dei piccoli regali particolari per i nostri amici. Prima di uscire abbiamo chiesto al commesso di suggerirci un posto dove mangiare qualcosa di leggero, e lui ci ha consigliato il “Shahi Samosa!”, il negozio migliore di Jodhpur per le samosa.

Abbiamo così attraversato la piazza della Clock Tower, abbiamo raggiunto l’inizio dell’ampia strada chiamata “Nai Sarak” e, in corrispondenza di una grande folla, abbiamo riconosciuto Shahi Samosa. Qui abbiamo acquistato delle Samosa e dei Friggitelli farciti, impastellati e fritti. Tutto era così buono, che quando abbiamo finito, sono tornato a comprane altre. Per citare Patrizio Roversi: “dopo le samosa ci vuole la gassosa!” così siamo andati in un negozio vicino che vendeva bibite gassate al bicchiere e con 10 Rs ho preso un bicchiere di Coca Cola che non sapeva di Coca Cola ed uno di Seven Up che non sapeva di Seven Up. La cosa strana che avevamo notato è stata che il padrone del negozio, nel tentativo di dare un minimo di decoro, aveva approntato due barili da usare come cestini per i rifiuti, tuttavia erano vuoti perché tutti trovavano più pratico gettare i bicchieri di plastica tutto attorno.

Erano solo le 15.00 del pomeriggio ed avevamo ancora tre ore e mezza di tempo per andare alla scuola di cucina che avevo concordato con la Signora Hem. Vagando intorno alla Pal Haveli abbiamo scovato il Cafe Sheesh Mahal: è al primo piano del palazzo, incastonato dentro la Pal Haveli. Ci siamo seduti ad un tavolino vicino ad una delle antiche finestre e dato che il cafè si fregia del titolo di produttore del migliore cappuccino di tutta Jodhpur, non abbiamo fatto altro che ordinare due bei cappuccini fumanti. Mentre eravamo nel Cafè abbiamo ricevuto un messaggio dall’agenzia che avevamo ingaggiato per il nostro tour del Rajasthan, la Rajasthan Four Wheel Drive, ed il Sig. Anil mi aveva inviato i dati del nostro autista, un tale Chander Pal e l’ora dell’appuntamento alla nostra Guest House. Sembrava preciso, ma mai fidarsi delle apparenze.

Siamo usciti che il sole stava tramontando, era ora di tornare verso la Guest House. Quando sono entrato, come da manuale, nessuno era pronto, così ne ho approfittato per una doccia ed un lungo relax. Solo molto più tardi, quando ormai era per noi ora di cena Mr. Figlio di Hem è venuto a chiamarmi. Con Lula abbiamo scelto il menù della serata che sarebbe stato: riso con le verdure, verdure al masala, pane chapati e masala tea. La Sig.ra Hem era simpaticissima e senza bisogno di parlare, ma semplicemente sorridendo, mimando e facendomi vedere, mi ha spiegato come avremmo preparato i piatti. La cucina era piccola, quasi claustrofobica. Lei aveva un ordine mentale delle cose da fare ed io cercavo di annotarmi contemporaneamente tutte le ricette su un foglietto che mi ero portato, e non è stata cosa facile.

Comunque, ad un certo punto mi ha dato una marea di verdura da tagliare e quando ho iniziato ad affettarla piuttosto velocemente, ha chiamato il figlio a vedere come lavoravo. Ad un certo punto avevo attorno tutta la famiglia a guardarmi mentre cucinavo. Poi è arrivato il momento del peperoncino per la verdura. Gli indiani credono di essere titolari di un potere assoluto di tolleranza al piccante. Ma io ero reduce da un corso di cucina nel Nord della Thailandia e lì sì che i piatti sono “very spicy”! Così Hem mi ha fatto mettere un cucchiaino di peperoncino nella verdura che stavamo stufando (dose consigliata per gli stranieri) ma io non lo sentivo. Così ho messo anch’io tre cucchiaini e il figlio di Hem “Troppooooo!” L’ho assaggiato e sentivo appena piccante, quindi, giù altri tre cucchiaini di peperoncino con gli indiani che mi guardavano sbigottiti. Ho assaggiato la verdura e andava appena bene. Era già buio quando ho portato i piatti in tavola e Lula è rimasta davvero contenta della cena che le avevo preparato! Il figlio di Hem è venuto al tavolo e mi ha chiesto se mi fosse piaciuta la scuola di cucina e poi mi ha confessato che io ero stato il primo turista a fare la scuola di cucina con sua mamma. La Sig.ra Hem è stata una bravissima maestra e da allora ho fatto più volte a casa il pane chapati che mi ha insegnato, ma invece del burro, da buon italiano, ci metto l’olio extravergine di oliva.

Mentre cenavamo io e Lula siamo stati raggiunti da un ragazzo occidentale che ci ha chiesto se avesse potuto sedersi al nostro tavolo. Era Belga e stava facendo un tour di diversi mesi che lo aveva già portato in Africa ed ora in India, e prossimamente in Nepal. Abbiamo passato una bella serata a parlare condividendo aneddoti e risate.

Quando ormai era tardi e si era fatto freddo, io e Lula siamo tornati in camera a dormire. L’indomani saremmo dovuti partire per la prossima tappa.

Giorno 16 – Pizzi di marmo a Ranakpur e tramonto a Udaipur

Era l’alba del nostro sedicesimo giorno indiano, e proprio come la notte precedente, siamo stati svegliati prestissimo dai tamburi del tempio giainista, dai clacson e dal venditore di tè. Abbiamo così aspettato un’ora decente e poi siamo saliti. Mentre uscivamo dalla camera ho visto un tizio fermo davanti alla porta che indossava una camicia stropicciata e aveva lo sguardo assente, così ho controllato due volte che la porta della mia camera fosse ben chiusa, e siamo saliti sul terrazzo per la colazione.

Come la mattina precedente abbiamo ordinato caffè, pane con miele e yogurt. Abbiamo fatto colazione rilassandoci alla vista del Mehrangarh Fort. Mr. Figlio di Hem ha aspettato che finissimo di mangiare e poi è venuto al nostro tavolo per chiederci il saldo .Dopo aver sbrigato queste ultime formalità ci ha chiesto di fare una foto con la sua famiglia e poi ci ha detto che c’era anche il nostro autista che ci aspettava giù, in strada.

Siamo così scesi in camera, abbiamo preso gli zaini e siamo usciti dall’albergo. Il nostro autista era Mr. Camicia Stropicciata e Sguardo Assente, che poi si è presentato come Chander. Per prima cosa ci ha detto di seguirlo perché aveva dovuto parcheggiare l’auto molto lontano. Quando siamo arrivati ci siamo trovati davanti una Toyota Innova non tenuta molto bene, inoltre Chander parlava pochissimo inglese. Siamo saliti in auto e siamo partiti alla volta di Udaipur. Le strade di Jodhpur erano trafficate e Chander non brillava certo di abilità nel districarsi nel traffico.

Appena lasciata Jodhpur, Chander ha iniziato a parlare, col suo inglese sgrammaticato e stentato puntualizzando che noi gli avremmo dovuto dare la mancia alla fine del viaggio, perché era un dovere dei turisti a prescindere da tutto; poi ha iniziato a suggerirci vari alberghi ma l’abbiamo interrotto dicendo che li avevamo già prenotati. Ha proseguito dicendo che sarebbe stato felice di portarci in alcuni negozi dei suoi amici e gli abbiamo detto, molto chiaramente che non ci interessavano quelle offerte. Quando ha sentito che non volevamo andare nei posti dove lui aveva la commissione, si è ammutolito fino quasi a Ranakpur.

Il paesaggio del Rajasthan era brullo e dava l’idea di essere vicino al deserto. Del resto, il Pakistan non era poi così lontano. Di tanto in tanto la pianura era interrotta da montagne spoglie, boscaglie e letti di fiumi prosciugati.

In prossimità di Ranakpur ci ha chiesto se avessimo voluto un Masala Chai e noi abbiamo pensato che, in effetti, non ci sarebbe dispiaciuto. Così si è fermato al bordo di una strada da una bancarella dove il contenitore del latte richiamava a gran voce il nome dell’Imodium, ma abbiamo comunque ordinato due “Black Tea”. Al momento di pagare i Tè, Chander si è vaporizzato, costringendoci ad offrirglielo. Non è la questione delle poche rupie, ma non ci piaceva il fatto che credesse che noi fossimo dei bancomat da prosciugare!

Quando abbiamo deciso il percorso da fare in India, eravamo indecisi se sulla strada tra Jodhpur e Udaipur ci fossimo dovuti fermare a visitare il Tempio Giainista di Ranakpur o il Forte di Kumbhagarh. Anil della Rajasthan Four Wheel Drive ci aveva consigliato Ranakpur in quanto implicava una minore deviazione, visto che la tratta era già lunga. Col senno di poi, ritengo che forse non mi sarebbe dispiaciuto, invece, andare a vedere il Forte di Kumbhagarh.

Siamo arrivati a Ranakpur che era quasi mezzogiorno. L’area era gremita di autoveicoli di ogni specie, che trasportavano quantità inimmaginabili di turisti al tempio. Il tempio principale è fatto di roccia candida, è molto elaborato, sebbene di dimensioni ridotte. Sulle vie di accesso al tempio vi sono diversi cartelli che mettono in chiaro alcune cose:

I visitatori devono mantenere la serenità e sacralità del tempio (mentre gli indiani possono fare il baccano che vogliono);

  1. E’ vietato introdurre: Alimenti, acqua, liquori, sigarette o sostanze psicotrope, oggetti di pelle, ombrelli, radio, telefoni cellulari (tutti gli indiani li usavano), macchine fotografiche (a meno che gli stranieri non paghino il biglietto per la macchina fotografica), armi di ogni tipo.
  2. E’ vietato l’ingresso alle donne con le mestruazioni;
  3. E’ vietato toccare le divinità, le sculture ed i bassorilievi (gli indiani sembra che possano)
  4. I visitatori devono essere coperti, altrimenti verranno fermati all’ingresso (a meno che non si sia indiani, allora si può entrare in mutande).

Ci siamo avvicinati al tempio, lungo dei bei viali alberati, dove si potevano vedere tante simpatiche scimmiette. Poi siamo arrivati al tempio. Ci siamo avvicinati e mi sono legato un pareo in vita, visto che indossavo i pantaloncini corti, qui sono stato fermato perché ero troppo nudo. Prima di me erano entrati due indiani coi loro drappeggi legati che sembravano dei pannoloni. Così siamo andati a fare la coda dove si ritirano i pantaloni, ma anche questi erano a pagamento. Così abbiamo deciso di ritornare all’auto e prendere i miei pantaloni lunghi nello zaino; non volevo dargliela vinta a questi indiani razzisti! Abbiamo rifatto la trafila per entrare dove guardiani ci hanno controllati col metal detector. Dall’altra parte del loro varco regnava la tipica anarchia indiana. Siamo entrati in questo tempio dove eravamo spalla-a-spalla tra turisti ed indiani. I turisti, tutti con le loro macchine fotografiche con appeso il biglietto della tassa pagata, gli indiani senza il biglietto, due pesi e due misure. Ci siamo diretti verso la parte centrale ma non era permesso entrare ai non indiani. A prescindere dal credo religioso, gli occidentali non vi possono accedere. Un indiano magari anche musulmano o cristiano, si. Così, rassegnati, abbiamo fatto il giro del tempio, salendo e scendendo le scalette dei passaggi tutt’attorno alle sale principali, abbiamo ammirato i bassorilievi e le volte del soffitto che sembravano ricamate come dei centrini, poi ci siamo fermati da una finestra dove ci siamo seduti a rilassarci vicino ad una struttura che sembrava uno Lingam-Yoni con sopra scolpito uno dei santi giainisti.

Siamo stati a rilassarci un po’ all’ombra e poi siamo tornati da Chander che stava chiacchierando con altri autisti.

Siamo ripartiti alla volta di Udaipur ed abbiamo attraversato una zona di montagne e vallate verdeggianti. Lungo la strada Chander ci ha chiesto se avessimo avuto fame e gli abbiamo detto che noi avremmo preferito fermarci ad una bancarella. Nonostante questo lui si è fermato ad un ristorante con parcheggiati davanti una moltitudine di pullman e auto di tour privati. La logica degli autisti è che quando portano un cliente in un ristorante o hanno la commissione o il pasto gratis. Ci siamo rifiutati di entrare ad accompagnarlo.

Noi abbiamo comprato qualche snack ad una bancarella sulla strada ed abbiamo aspettato che uscisse. Siamo ripartiti per Udaipur: la strada ha continuato attraverso colline con poca vegetazione, muri a secco e alberi bassi, sembrava di essere in Terra Santa. Credo che se mi fossi svegliato all’improvviso in quel posto, forse, ancora mezzo addormentato, avrei chiesto a Lula quanto fosse mancato ancora per arrivare ad Araq El Amir. Poi la strada è cambiata ancora, siamo tornati in pianura ed in breve eravamo nuovamente nel traffico, finchè siamo arrivati in città.

Chander ci ha chiesto l’indirizzo del nostro hotel, ed era evidente che non conosceva Udaipur. L’unica cosa che sapeva, era che si trovava in un’area vicina ad Hunuman Ghat. Così ha iniziato la sua tecnica tutt’altro che vincente. Ogni tanto si fermava, abbassava un finestrino e gridava a perfetti sconosciuti “Hunuman Ghat-Hunuman Ghat!”, col risultato che ognuno indicava direzioni differenti. Io e Lula eravamo esasperati, avremmo voluto scendere e cercarci un Tuk-Tuk, ma alla fine un tizio ha risposto “E’ qui…”. Bene, a questo punto è iniziata la fase 2, cioè trovare l’albergo, quando io e Lula abbiamo visto un cartello che indicava che l’hotel sarebbe stato a solo 200 metri, abbiamo detto a Chander di fermarsi, siamo scesi e ci siamo caricati gli zaini in spalla. Lui ci ha chiesto se il giorno dopo saremmo partiti per Bundi, ma gli abbiamo ricordato che il programma prevedeva un giorno intero a Udaipur, quindi ci saremmo rivisti due giorni dopo, grazie al cielo! E ci siamo diretti verso il nostro Hotel, il Little Prince Guest House che si è rivelato essere molto bello. La gestione è tutta in mano a un manipolo di ragazzi molto gentili. Subito ci è stata mostrata la nostra camera, piuttosto pulita, dove vi era un letto decorato vicino a finestre a vetrate con sotto un divano comodissimo, un angolo che sembrava uscito da una fiaba orientale. Il bagno della camera era piuttosto minimalista con doccia con acqua fredda, ma ormai ci stavamo abituando a questo.

I ragazzi, mentre uno di loro copiava i dati dei passaporti, ci hanno portati a vedere il terrazzo dove il mattino successivo avremmo potuto fare colazione. Qui i lavori di ripristino dovevano ancora finire e c’erano solo alcune poltrone di vimini malconce e grossi tavoli arrugginiti, ma il panorama era davvero bello. Tutt’attorno si potevano vedere le terrazze delle casa, con persone che stendevano o pulivano verdura, mentre in lontananza, sul lago Pichola, si vedeva il candido Taj Lake Palace, che sembrava un etereo palazzo di marmo galleggiante sulle acque calme.

Siamo usciti dall’hotel e ci siamo incamminati verso la città. In men che non si dica eravamo sul ghat, abbiamo seguito la costa, attraversato il ponte e praticamente eravamo in centro a Udaipur.

La città ci è parsa molto più turistica di quanto ci aspettavamo: tanti negozietti, molti vendevano cianfrusaglie altri abiti in stile etno-fricchettone, per lo più indossati da occidentali alternativi. I negozi che hanno attirato la nostra attenzione sono stati una coiffeuse che eseguiva tatuaggi con l’henné, un barbiere che compreso nel prezzo offriva il massaggio al viso e alla testa, il negozio di una setta di fabbri-armaioli che lavoravano acciaio damascato, e il fantastico bar: Cafè Namastè.

Non siamo riusciti a resistere alla tentazione di un cappuccino e senza accorgercene, eravamo già seduti sulle comodissime poltrone ad ammirare il colorato via vai fuori dalle vetrine. Il Cafè è all’interno di un palazzo che ha anche un albergo e una galleria d’arte nel cortine interno.

Siamo usciti dal cafè che ormai gli ultimi raggi di sole lambivano solo le cime dei palazzi più alti. Abbiamo camminato in salita per un po’ e ci siamo trovati nel perimetro di un tempio. Abbiamo lasciato le scarpe in una rastrelliera e abbiamo iniziato a vagare attorno al tempio sulla pietra liscia e fredda. Abbiamo scoperto essere il Jagdish Mandir Temple, risalente alla fine del 1600 di architettura Indo-Ariana e dedicato al Dio Vishnu.

Siamo stati avvicinati da una delle molte guide improvvisate che ci ha accompagnati tra i bellissimi bassorilievi, come minutissime rappresentazioni del Dio Ganesh, fino a motivi di natura erotica, per poi mostrarci i piccoli templi satelliti. Al tramonto sono iniziate le preghiere della sera, l’equivalente dei nostri vespri. L’indiano ci ha fatti entrare nel tempio e per noi è stata un’esperienza coinvolgente, poter essere tra gli indiani, in un loro tempio, durante una delle loro celebrazioni. I canti erano continui e cadenzati, i tamburi tuonavano all’interno del tempio e la loro eco sembrava amplificarli a dismisura. Dopo un po’, siamo dovuti uscire e proprio quando eravamo sulle scale, due occhi bianchi su un viso nero ci hanno fissato, severi, fieri, il becco aquilino, le braccia possenti e la posa inginocchiata, in devozione verso Vishnu: era la bellissima statua nera di Garuda, il Dio mezzo uccello, cavalcatura di Vishnu. Quando siamo tornati nella piazza, il ragazzo ci ha fatto vedere una pietra circolare nel pavimento, che serviva per rappresentare le dimensioni della sezione della tratta orizzontale circolare quasi sulla cima del tempio, e poi ci ha portati da una siepe circondata da incensi situata su una sorta di palco: era un cespuglio di Tulsi o Basilico Sacro che è legato alla Dea Lakshmi. In India può succedere anche questo, si incontra un cespuglio e poi si scopre che è venerato perché sacro.

Ormai era sceso il buio, e così ci siamo allontanati dal tempio. Abbiamo girovagato un po’ per quell’area fino all’ora di cena quando abbiamo deciso, nonostante le esperienze precedenti, di seguire il consiglio della Lonely e provare uno dei locali più eleganti di Udaipur. Dopo settimane di bettole, finalmente volevamo concederci una cena in un bel posto.

Seguendo una stradina che scendeva verso i ghat sul lago Pichola siamo arrivati al Jagat Niwas Palace Hotel. La struttura era proprio elegante, noi sembravamo un po’ degli zingari. Siamo entrati nel palazzo ed ho visto due guardiani baffuti ai quali ho chiesto dov’era il ristorante e loro con un sorriso smagliante ci hanno indicato una scala per salire al piano superiore. Siamo prima passati attraverso un’area con tavolini privati in bow-windows con vista sul lago ed abbiamo proseguito fino al terrazzo. Qui vi erano tanti tavolini illuminati da candele, tutto era estremamente suggestivo e sopra di noi, un milione di stelle illuminavano questo cielo esotico.

Un simpatico cameriere ci ha fatti accomodare ad un tavolino con vista sul lago Pichola; davanti a noi si apriva una vista da togliere il fiato. Che bel posto!

Abbiamo ordinato come aperitivo due cocktail dal colore rosa acceso e poi due piatti tipici Rajasthani a base di montone grigliato con spezie e verdure. Da bere birra Kingfisher. La cena è stata ottima, la migliore in tutta l’India!

La serata è trascorsa piacevolmente, l’ottimo cibo, il bellissimo locale ed un panorama d’incanto. Ecco l’Udaipur che ci immaginavamo e che siamo riusciti a trovare!

Dopo cena siamo tornati verso l’albergo. Ormai le vie erano vuote e solo i bar e qualche negozio per turisti era ancora aperto. Lungo la strada, subito dopo il ponte sul lago Pichola, ci siamo fermati a rilassarci al Little Prince Bar, che è un piccolo bar in riva al lago dove abbiamo preso due caffè. Siamo rimasti ad ascoltare un po’ di musica, guardando il lago e parlando coi camerieri che a loro volta parlavano spagnolo.

Solo più tardi, quando ormai faceva davvero freddo, siamo tornati in albergo dove, dopo un bella doccia fredda, siamo andati a dormire.

Giorno 17 – Udaipur la città bianca

La notte di Udaipur era trascorsa velocemente e quando io e Lula ci siamo svegliati c’era già un bel sole. Avendo la camera al secondo piano, avevamo subito un po’ meno la confusione indiana mattutina, e solo ora, in lontananza udivamo un sottofondo di tamburi proveniente da qualche tempio.

Ci siamo vestiti e siamo saliti in terrazza per la colazione. L’aria era tersa e preludeva ad una giornata di sole cocente. Purtroppo la colazione era terribile, così abbiamo deciso di rifarci con due cappuccini e due croissant al Cafè Namastè.

I negozi stavano iniziando ad aprire e ci eravamo promessi che più tardi avremmo fatto shopping. Infatti, in tutto il viaggio avevamo comprato pochissimi souvenirs dell’India.

Dopo la colazione ci siamo diretti al City Palace (ingresso museo 50 Rs; ingresso al museo della cristalleria 500 Rs, Macchina fotografica 200 Rs): è un edificio fatto costruire da Maharana Udai Singh quando Udaipur divenne capitale del Regno Mewar; è in uno stile misto di architettura Rajasthana e Mogul. Si accede attraverso un arco che porta in un primo cortile e poi in una seconda serie di archi. C’erano tante vetrine di negozi di souvenirs anche all’interno e poi siamo arrivati ad un grosso portale con la parte alta decorata con un motivo simile ad una scacchiera e con al centro il simbolo dell’Ohm. Siamo entrati e ci siamo trovati in un piazzale gremito di persone, qui c’era l’ingresso al museo del palazzo, al museo statale ed una piccola galleria di bassorilievi ed antiche statue. Ci siamo seduti un po’ all’ombra a vedere la confusione che impazzava tutt’attorno e siamo usciti dal palazzo.

Era il momento di dedicarci ad un po’ di sano edonismo, quindi, siamo tornati nella via con la coiffeuse e mentre Lula è entrata per farsi fare un tatuaggio all’hennè ai piedi, io che avevo la barba lunga ancora dalle Andamane, sono andato dal barbiere. Per la modica cifra di 70 Rs mi ha rasato con un vecchio rasoio a mano nel quale ha messo una lametta nuova sigillata, poi mi ha fatto un meraviglioso massaggio energico al viso ed alla testa. Poi per finire ha preso una boccetta di quello che lui chiama dopobarba, io lo avrei chiamato napalm, e me ne ha applicato a suon di schiaffeggi una quantità enorme. Non sapevo se fosse peggio quell’odore mentolato chimico o il bruciore. Nel complesso è stata comunque una gran bella rasatura. Uscito dal barbiere ho raggiunto Lula che era in attesa che l’henné asciugasse, mentre un gruppo di ragazze spettegolavano nel negozio. Il disegno era un bellissimo motivo floreale che a specchio saliva lungo il dorso dei piedi.

Quando l’henné è asciugato siamo partiti all’esplorazione. Siamo risaliti lungo la strada, siamo passati davanti al Jagdish Mandir Temple e abbiamo preso la strada in discesa a sinistra. Qui vi erano numerosi negozi di argento, di fiori e friggitorie. Tra i negozi, neanche tanto chiaramente distinguibile, si può visitare Sadhna, che è un negozio a carattere fair-trade. L’impresa che gestisce Sadhna afferma che lo scopo dell’associazione è quello di poter aiutare donne in difficoltà, facendogli produrre ciò che viene venduto. Qui si possono acquistare magliette, borse, pupazzi e tante altre cose.

Dopo abbiamo proseguito giù per la strada, allontanandoci dall’area più turistica, finché non siamo arrivati alla Clock Tower, la Torre dell’Orologio. Qui abbiamo consultato i nostri appunti e abbiamo visto che avevamo marcato un posto stra-suggerito, chiamato Saheliyon-ki-Bari o Giardini delle Damigelle. Abbiamo così fermato un poliziotto baffuto e quando gli abbiamo chiesto la direzione, lui prima ci ha detto “prendete un Tuk-Tuk” e poi, rassegnato, ci ha indicato la strada.

Ora eravamo gli unici occidentali che camminavano lungo strade indiane ordinarie fiancheggiate da comunissimi negozi. Si alternavano negozi di alimentari, di abiti e di pezzi meccanici. Dopo diverse rotatorie abbiamo proseguito su “Saheli Marg” senza più prendere deviazioni e alla fine finalmente ci siamo trovati davanti al Saheliyon-ki-Bari.

Siamo così entrati nei Giardini delle Damigelle (5 Rs), un’oasi di verde. I giardini sono divisi in alcune aree, tutte caratterizzate da fontane diverse. Si entra in un bel viale con fontanelle ai lati e con prati verdissimi, e si arriva davanti ad un piccolo giardino circondato da alti muri. Qui vi è una piscina con al centro un tempietto e tante fontanelle che fanno cadere l’acqua nella piscina. Si può camminare tutt’attorno alla piscina e riposarsi all’ombra degli alberi posti agli angoli del giardino. Qui abbiamo chiesto ad un indiano se avesse potuto farci una fotografia e di conseguenza, lui e a turno tutta la sua famiglia hanno voluto fare fotografie con noi. Siamo usciti da questa struttura meravigliati, e abbiamo visitato gli altri giardini curatissimi con le diverse fontane.Siamo stati nuovamente fermati da una famiglia allargata di indiani che ci ha chiesto di poter fare le foto con tutti i loro bambini, i quali erano una moltitudine! Ci siamo goduti una lunga visita ai giardini e poi ci siamo rimessi in marcia per tornare nella zona del City Palace. A questo punto, visto che era già tardi per il pranzo, siamo risaliti su per una stradina vicino al Jagdish Mandir Temple finchè non abbiamo trovato una friggitoria ancora aperta. Qui con un vecchietto seduto vicino a noi, abbiamo ordinato diversi tipi di Samosa e due bottigliette di Coca Cola ghiacciate. Dopo pranzo abbiamo fatto ancora un po’ di shopping, e poi ci siamo recati alla Bagore-Ki-Haveli (Turisti 25 Rs, Nativi 15 Rs, Bambini 7 Rs, Macchina Fotografica 10 Rs, Video Camera 50 Rs) ed abbiamo visitato questa antica casa. Il museo non era molto impressionante se non per il fatto che vi erano alcune stanze arredate in maniera tradizionale, ma la cosa che a me è piaciuta di più è stata la vista sul lago dalle finestre. Era semplicemente fantastica. Sempre dentro alla Bagore-Ki-Haveli c’è anche una esposizione di turbanti, tra i quali, il turbante più grande al mondo. Siamo usciti dalla Bagore-Ki-Haveli che stava imbrunendo, ora dovevamo scegliere cosa fare questa sera. Potevamo andare in un ristorante a cenare guardando la tipica proiezione del film “James Bond Operazione Piovra” che era stato in parte girato proprio ad Udaipur, oppure tornare alla Bagore-Ki-Haveli a vedere uno spettacolo di danza tradizionale Rajasthana chiamato “Dharohar”, ovviamente, abbiamo deciso per questa seconda opzione. Lungo la strada verso l’albergo ci siamo fermati a fare la spesa da un negozietto e visto che la signora non capiva cosa volessimo, mi ha fatto entrare dietro al banco dove mi sono potuto servire di persona, ovviamente non sono riuscito a resistere ed ho intavolato una scenetta dove facevo il negoziante per Lula. Dopo i miei precedenti al supermercato di Chennai, ho rischiato davvero di venire bandito da tutti i negozi del Rajasthan e Tamil Nadu!

Quando siamo entrati in albergo ho cercato i ragazzi che lo gestiscono e gli ho chiesto se, per favore, avrebbero potuto chiamare Chander con mio cellulare e spiegargli nella loro lingua di venirci a prendere alle 8.30 del giorno successivo visto che quando ci eravamo lasciati, lui aveva proposto le 10.30 e da allora non aveva più risposto ai miei messaggi.

Abbiamo avuto giusto il tempo di una doccia fredda ed ecco che dovevamo già tornare in centro. Quando siamo usciti ci siamo portati anche i maglioni visto che ad Udaipur, a Novembre di sera fa freddo. Abbiamo fatto appena in tempo a passare da un negozio di coltelli tradizionali per comprarne uno da collezione, poi siamo arrivati alla Bagore-Ki-Haveli e siamo entrati pochi minuti prima che iniziasse lo spettacolo di danza (Turisti 60 Rs, Nativi 35 Rs, Macchina Fotografica 50 Rs).

Il Dharohar è composto da sette diversi balli e un’esibizione di marionette Rajasthane. Lo spettacolo è stato davvero bello ed interessante. Ogni singola esibizione era introdotta sia in lingua inglese che in Hindi da un presentatore e così coinvolgeva maggiormente la platea nella danza. Gli spettatori invece assistevano alle danze da seduti su comodi tappeti sul pavimento.

Lo spettacolo dura poco più di un’ora e poi eravamo nuovamente fuori. Questa volta siamo andati in un ristorante vegetariano visto che ci mancava la verdura. Abbiamo così ordinato prima due piatti di riso, e poi due insalate. Avevamo resistito ben diciassette giorni senza toccare insalata o verdura cruda, ma ora non ne potevamo più della verdura in masala. Volevamo verdura che sapesse di verdura e non di spezie, così abbiamo ordinato due “Insalate Israeliane”, non molto diverse dalle “Insalatone” che si mangiano in Italia, e ce le siamo gustate come se fossero un piatto prelibato e succulento. Dopo il ristorante siamo tornati per le strade buie verso l’albergo e ci siamo fermati ancora per un chill-out al Little Prince Cafè in riva al lago.

Giorno 18 – La maestosa Chittorgarh e la Bundi Blu

La nostra idea era svegliarci di buon’ora e correre in centro a fare colazione al Cafè Namastè appena apriva.

Così appena è suonata la sveglia ci siamo catapultati sui nostri abiti e vestendoci più con riflessi pavloviani che pensando a cosa stessimo facendo, ci siamo preparati e siamo usciti dall’albergo in una Udaipur sonnecchiante, con tanti bambini che andavano a scuola tutti indossando le loro uniformi. Dopo due cappuccini e due croissants, siamo tornati in albergo giusto in tempo per prendere gli zaini e fare il check-out.

Abbiamo incontrato Chander nello stesso posto in cui lo avevamo lasciato, con la stessa camicia macchiata di masala di due giorni prima. Subito siamo saliti in auto e siamo partiti alla volta di Bundi.

In tarda mattinata abbiamo fatto sosta a Chittorgarh, un forte intriso di leggende. Un dato di fatto è che questa era la sede dei clan Sisodia dei Rajput del Merwar. Questa popolazione si fregiava di essere particolarmente fiera e dava eccessivo peso alla parola onore, fino a sconfinare nella follia suicida. Sono diversi gli episodi in cui, una volta assediati e senza via di scampo, gli uomini indossavano abiti di color zafferano e si lanciavano alla carica frontale contro il nemico, con evidenti esiti disastrosi. Le donne, per non essere da meno commettevano il Jauhar, una sorta di Sati, lanciandosi su pire funerarie. Avevamo letto tutte queste storie, e a ricordarle in quei posti ha aggiunto una nota drammatica a quello che vedevamo.

Chander ha guidato l’auto su per la strada che si inerpicava lungo le pendici della montagna ed una volta arrivati in cima avremmo dovuto fare il biglietto (Turisti 100 Rs, Nativi 10 Rs), ma questa era una giornata di festa così l’ ingresso era gratis per tutti, indiani e non.

La prima sosta è stata il Rana Kumbha Palace: il palazzo oggi è conservato mantenendo la facciata in buone condizioni con finestre a davanzale oggi popolate da scimmie. Entrando si immaginano passaggi oscuri, vicoletti tra un edificio e l’altro, un’area assolutamente viva, con tante persone, ma oggi, invece, questo intrico di viuzze e passaggi sono solo popolati da turisti e improvvisati artisti che cercano di vendere le loro opere.

Diverse sono le leggende legate a questo palazzo, per esempio, Maharana Udai Singh, il fondatore di Udaipur sembra essere stato salvato dalla sua tata che in un atto di estrema devozione l’ha sostituito col proprio figlio, ovviamente con esito fatale per il figlio della serva e venne calato dalle mura in un cesto di frutta e salvato. Sempre in questo palazzo viveva anche la famosa poetessa Rani Meera, alla quale è dedicato anche un tempio proprio qui a Chittorgarh. Nelle sale sotterranee, oggi chiuse ai turisti, è dove la leggendaria Rani Padmini ha commesso il Jauhar con molte altre donne.

Abbiamo vagato un po’ per quest’area e c’è da dire che i palazzi in parte in rovina offrono scorci bellissimi per delle fotografie suggestive. Siamo così scesi nel cortile inferiore e qui abbiamo trovato gli spalti dove alla sera le persone possono assistere allo spettacolo di “Luci e Suoni” con la proiezione di storie sulla fortezza di Chittorgarh.

Abbiamo attraversato il portale Badi Pole e ci siamo trovati davanti il palazzo Fateh Prakash Mahal, che è la sede di un museo governativo, quindi abbiamo svoltato a destra e abbiamo raggiunto il tempio Giainista Sringar Chowri. All’ingresso c’era un guardiano annoiato che ci ha salutati con un cenno della testa e ricambiando con un “Namastè” siamo stati liberi di girare per il tempio, senza restrizioni, a parte il fatto di girare senza scarpe. Il tempio, tutto ricavato da un fine lavoro di assemblaggio ed incisione di roccia candida, è davvero molto bello. Sul lato opposto rispetto al tempio Sringar Chowri, c’è un altro tempio, il Meera Temple. Quando si entra ci si imbatte prima in un tempio dedicato a Vishnu nel tipico stile dei templi del Nord dell’India, mentre il vero Meera Temple è un tempio più piccolo sulla sinistra. Meera era una poetessa e musicista che cantava storie sulla vita di Krishna, la sua dedizione era assoluta ed il giorno in cui venne avvelenata, lo stesso Dio Krishna la riportò in vita. Oggi nel tempio si può vedere una statua di Krishna alla quale viene regolarmente cambiato l’abito. Krishna lo si riconosce in quanto suona il flauto come in molte delle sue raffigurazioni, mentre Meera è seduta ai suoi piedi mentre suona un Ektara, cioè uno strumento a corda simila al Sitar, ma con una sola corda.

Siamo ritornati da Chander il quale ci ha portati al Palazzo di Padmini. Siamo arrivati ad un largo parcheggio fiancheggiato da una sorta di mercato che vendeva le solite cose da turisti. Siamo così scesi ed abbiamo attraversato la strada. Avevamo davanti un lago, in gran parte prosciugato, nel centro del quale si ergeva un palazzo. Alla nostra sinistra, c’era l’ingresso al vero palazzo. Siamo così entrati. L’interno del palazzo è caratterizzato da due bei giardini molto curati e da una parte costituita da quello che rimane da ciò che un tempo erano stanze e corridoi. Oggi queste rovine, sebbene restaurate, sono coperte da scritte delle tante persone incivili che sono passate nel corso degli anni.

Sul lato opposto di un piccolo giardino c’è una sorta di torretta. Una volta entrati si scopre che dalle finestre si vede lo stesso specchio d’acqua che avevamo notato da fuori dal palazzo, e la struttura al centro di esso, ora proprio li davanti, si scopre essere il Padmini Mahal, cioè il palazzo bianco privato della Regina Padmini.

La leggenda vuole che un tempo in questa fortezza vivesse il re Rawal Ratan Singh il quale ebbe la fortuna di avere in moglie la bellissima Padmini, che sposando il re acquisì il titolo di Rani. Subito dopo le nozze, i fratelli del Re si recarono dal loro fratello chiedendo una grossa somma di denaro come indenizzo per avergli lasciato sposare la donna più bella mai vista. Ma lui si infuriò e li cacciò da Chittor. Su tutte le furie, i suoi fratelli si diressero a Delhi dove il sultano Ala-ud-din aveva già espresso intenzione di conquistare le terre dei Rajput.

I fratelli di Rawal Ratan Singh parlarono a Ala-ud-din della bellezza di Rani Padmini, e lui si incuriosì, purtroppo era conscio che il suo esercito non ce l’avrebbe fatta ad espugnare facilmente la fortezza dei Rajput, così giocò di astuzia. Con diplomazia si presentò come un possibile alleato a Rawal Ratan Singh e come pegno di fiducia chiese al re di poter vedere Rani Padmini. Il re non acconsentì se non di poterla vedere riflessa in uno specchio dalla torre sul lago mentre lei era nel Padmini Mahal. In realtà anche noi, quando eravamo in quella stessa torretta, avremmo avuto difficoltà a distinguere le fattezze di una persona su quel palazzo, ma la fantasia delle leggende non ha limiti. Quindi, tornando alla leggenda Ala-ud-din accettò le condizioni, tanto era il desiderio di vedere tale bellezza, e nonostante le condizioni proibitive di riflessi e distanza, quando lui la vide se ne innamorò all’istante. Lui chiese subito di poterla incontrare, ma il rè, stizzito, negò il permesso ed accompagnò il sultano alle porte della fortezza. Qui le guardie del sultano in un attimo circondarono il re e in men che non si dica lo fecero prigioniero. A questo punto il prezzo del riscatto era Rani Padmini in persona. Padmini capì che la situazione aveva preso una piega terribile e decise di provare un espediente, lei acconsentì alla proposta ed inviò un corteo di portantine chiuse al campo del sultano, dove in ci sarebbe stata lei e le sue damigelle, ma una volta arrivato il corteo, dalle portantine uscirono 150 soldati Rajput che recuperarono il re e lo riportarono nella fortezza. E fu allora che iniziò un terribile e lungo assedio. Alla fine, quando ormai le condizioni erano disperate, stavano finendo le scorte e l’esercito di Ala-ud-din era ormai palesemente più forte dell’esercito di Rawal Ratan Singh, venne presa la decisione estrema.

I bambini vennero messi al sicuro nelle camere più in profondità della fortezza. Le donne indossarono i loro abiti nunziali e si recarono al palazzo Rana Kumbha, dove in una stanza con una sola porta vene accesa una enorme pira. Le donne si chiusero dentro e praticarono il suicidio rituale Jauhar. Gli uomini, tristi per la morte delle loro consorti, madri e sorelle, indossarono gli abiti color zafferano e si lanciarono alla carica contro l’esercito di Ala-ud-din. Quel giorno quasi tutti i guerrieri Rajput di Chittorgarh morirono sul campo di battaglia. Quando invece i soldati del sultano entrarono nella fortezza, pensarono di trovare le donne da poter portare nei loro harem, ma invece le trovarono tutte morte.Non vi sono tracce che la storia di Padmini sia vera, tuttavia, è stato affascinante rileggere questa leggenda all’interno del palazzo.

Abbiamo raggiunto Chander che stava parlando allegramente con un tizio di una bancarella e ci ha detto che se avessimo voluto fare una fotografia vestiti con abiti Rajasthani, ci avrebbe fatto fare un “buon prezzo”. Per l’ennesima volta gli abbiamo detto di no e gli abbiamo chiesto di partire.

Ci siamo fermati al Kali Temple: era circondato da mendicanti ed una volta all’interno delle mura, ci siamo trovati davanti ad un tempio in tipico stile del nord dell’India con a fianco una distesa di macerie che sembrano in attesa di venire catalogate per poi essere riassemblate. Il tempio oggi è dedicato alla Dea Kali e qui affluiscono molte persone per fare offerte a questa divinità. In un antico passato, nel VIII secolo circa, questo tempio era dedicato al Dio Sole, infatti si possono vedere delle incisioni nelle rocce che raffigurano anche un sole stilizzato.

Usciti dal tempio, alla nostra sinistra avevamo un lago i cui argini erano a scalini simili a quelli dei Baori. Due donne dai saree sgargianti era indaffarate nel fango. Siamo poi partiti per l’ultimo gruppo di templi che avevamo in programma: la Victory Tower, una torre dai motivi elaborati che si innalza per quasi quaranta metri, ma quel giorno c’era una terribile coda per entrare e quindi ci siamo solo limitati a vederla da fuori. Poi siamo andati a visitare il gruppo di templi vicino alla costa del monte. Qui molte donne ci chiedevano di donare del denaro in cambio di una Puja fatta da loro. Abbiamo seguito una serie di scale in discesa, fino ad un punto in cui, tra due templi, si è aperta una scena fantastica: lungo il monte era stata costruita una cinta muraria che funzionava da diga e qui era stato costruito un lago artificiale. Siamo scesi giù fino ad una fonte che sgorgava dove tanti indiani andavano a bere. Questo scorcio è stato l’ideale per fare numerose fotografie, sia al lago che alle persone tutt’attorno. Più tardi siamo tornati su per le scale e dopo una visita al tempio della Trimurti, cioè la trinità Hindu, dove un signore ci ha spiegato il significato di suonare una campana quando si entra nel tempio, siamo tornati da Chander.

Appena entrati in auto Chander ha insistito perché comprassimo dei frutti da alcune venditrici sulla strada, ma noi non ne avevamo voglia. Ciò nonostante, lui ha convocato le venditrici dall’auto ed abbiamo dovuto respingerle imbarazzati dalla situazione. Quando siamo tornati in Italia ci siamo informati sul frutto misterioso ed abbiamo scoperto che si chiama “Anona Squamosa”, un nome più da malattia cutanea che da frutta.

Arrivati in città Chander ci ha fatto aspettare un po’ di tempo perché doveva ritirare le fotografie che si era fatto fare in abiti tradizionali… Che piaga di autista che ci avevano rifilato!

Finalmente, con un ritardo enorme, siamo partiti alla volta di Bundi. Il paesaggio attorno a noi si è progressivamente inaridito ed improvvisamente, dalle pianure siamo passati ad enormi cave. Da entrambi i lati dell’autostrada si vedevano imprese che tagliavano la pietra. Le case, come anche i muri dei giardini erano fatte con le pietre avanzate dai tagli e ovunque c’era un enorme polverone, l’autostrada era percorsa da camion stracarichi da giganteschi blocchi di pietra.

Il sole era alto sull’orizzonte, avremmo avuto ancora 2-3 ore di sole buone. Perfetto, avremmo iniziato a vedere Bundi forse con ancora il sole.

Poi, mentre andavamo in quell’autostrada percorsa da camion stracarichi da giganteschi blocchi di roccia, Chander ha improvvisamente inchiodato. Io e Lula abbiamo sentito la forza di gravita spostarsi. Il nucleo della terra non era più sotto di noi, ma davanti dove c’era anche quella mucca in fondo alla strada e ci stava attraendo con una forza di gravità irresistibile. All’unisono abbiamo sbattuto contro i sedili che avevamo davanti. “Ma che succede?” e Chander ci ha detto che c’era una insegnante che chiedeva un passaggio. Ma chi? Intendeva quella mucca in Saree rosso che avevamo appena superato? Ma come faceva a sapere che era una insegnate? Ci prendeva in giro? Poi dal finestrino è apparsa una ragazza e Chander voleva farla salire per portarla con noi. Lei sudata e sfatta ha guardato dentro l’auto squadrandoci con malcelato disgusto ed ha detto che andava a Kota, Chander le ha detto che noi eravamo diretti a Bundi e lei in Rajastano, ma che a questi punto capivamo benissimo anche io e Lula, gli ha dato del pirla perché aveva sbagliato strada e saremmo dovuti tornare indietro, ha anche mimato un cerchio con il dito, poi si è allontanata ed ha proseguito a piedi. Non sapevo cosa dire, avrei voluto lanciare Chader sotto uno di quei camion carichi di blocchi di pietra.

Lui è partito e ha iniziato a guardarsi in giro e poi con un filo di voce “Sir… We… Wrong… Street!”. Ecco, dovevo insultarlo perché stava comunque continuando ad andare verso una città sbagliata, o perché voleva caricare in auto una sconosciuta senza chiederci il permesso e soprattutto per avere inchiodato davanti a quei camion? Per farla breve, Chander non conosceva la strada e dopo numerose inversioni, chiedendo a decine di “Local People” la direzione giusta con la stessa tecnica che aveva usato a Udaipur, ma gridando “Bundi-Bundi?” ha accostato ad una stazione di servizio e dopo aver sospirato mi ha detto “Sir… Siamo senza benzina… Dammi duemila rupie”. Allora ho chiamato Anil, il proprietario dell’agenzia dell’autista imbecille che mortificato, mi ha chiesto di passargli l’autista.

Non so se avesse un gruzzolo da parte o ha manomesso la pompa di benzina, fatto sta che siamo riusciti a ripartire; altra inversione in autostrada schivando un camion, altra richiesta di indicazioni “Bundi-Bundi?”, abbiamo imboccato una strada che è stata un vero incubo. Era totalmente devastata da buche e l’aria era satura di polveri rossastre. Il paesaggio era dei più desolati. Il sole scendeva che sembrava in caduta libera. Di tanto in tanto attraversavamo dei villaggi sperduti dove lavoratori di tutte le età dai bambini agli anziani tornavano a casa coperti di polvere e si contrapponevano a ragazzi e ragazze che tornavano a casa da scuola con le loro uniformi impeccabili.

Il sole era già tramontato e quando ormai non c’erano più luci, con Chander che infondeva tutto tranne che sicurezza, siamo arrivati a Bundi; abbiamo fatto il giro del lago Nawal Sagar e siamo arrivati al nostro Hotel, la Shivam Guest House. Gli inglesi dicono che ottieni per quel che paghi, e noi abbiamo pagato l’equivalente di 4,50 Euro. Questa ce l’eravamo cercata!

Siamo entrati in questa vecchia casa e siamo stati accolti da un signore tanto vecchio che aveva visto di persona la prima disfatta di Chittorgarh. In malomodo ci ha fatti accomodare e ci ha chiesto i passaporti. Con una lentezza disarmante li ha copiati, poi, finalmente, ci ha fatti entrare in camera. Ecco, l’avevamo trovata, la camera che aveva vinto il premio della peggiore stamberga di tutto il viaggio. Era orrenda. Sporca, umida, puzzolente e il bagno era ai livelli di una latrina pubblica. La consolazione è che sarebbe stata solo per una notte.

Siamo subito usciti dall’albergo e ci siamo diretti verso il centro nell’oscurità. Alla nostra sinistra, sul fianco del monte, c’era il Bundi Palace illuminato da riflettori; aveva un fascino decadente pazzesco, come una persona che ha vissuto storie incredibili e non vede l’ora di raccontartele. Io ho sentito subito scattare una scintilla. Il Palazzo che sembrava incantato, le case di questa città, le sue vie. Bundi mi stava già piacendo. Andavamo a caso anche perché quando abbiamo chiesto informazioni sulla direzione dei Baori allo staff dell’albergo, ci hanno dato tutte informazioni diverse, in perfetto stile indiano standard.

Forse per un nostro sesto senso nascosto, in meno di venti minuti avevamo attraversato un’area, che nel buio sembrava già molto bella, ed eravamo arrivati nella piazza centrale, la piazza del mercato.

Ci siamo aggirati per quest’area ormai quasi deserta e all’improvviso abbiamo riconosciuto i primi due Baori. Sulla mappa entrambi vengono indicati col nome Sagar Kund, ma io, più sbrigativamente, li chiamavo “I Baori Gemelli”e mentre uno era chiuso, l’altro aveva il cancello divelto, ma non si poteva passare perché una mandria di mucche si era sdraiata li, e mi era già bastata la quasi-incornata di Jodhpur. Abbiamo proseguito giù per lo stradone principale e siamo arrivati dai cancelli del secondo Baori, il Rani Ji Ki Bawadi, ma anche questo era chiuso.

Quando stavamo organizzando il viaggio in India mi ero preso la briga di guardare Bundi dalle fotografie satellitari e quindi, oltre al Rani Ji Ki Bawadi, descritto nelle guide, avevo riconosciuto prima i Baori Sagar Kund, e poi uno molto grande più a sud, chiamato Dhabhai Ka Kund.

Abbiamo così deciso di proseguire verso sud. Il problema era che la strada era molto buia, i lati erano dissestati e si doveva attraversare un quartiere che era un agglomerato di topaie.

Quando abbiamo raggiunto uno spazio curato e circondato da recinzioni, non potevamo sbagliarci, eravamo arrivati al Dhabhai Ka Kund. Siamo entrati e ci siamo avvicinati al pozzo. Questo Baori era impressionante, era come un varco buio verso l’ombelico della terra, una vertigine senza luce. Noi eravamo sul bordo, in un punto senza parapetto, e ci sembrava un buco nero che ci attirava.

Abbiamo preso le torce ed abbiamo illuminato la pietra candida, ma era troppo grande per poterlo vedere bene, saremmo comunque dovuti tornare il giorno successivo. Non sono mai stato al Baori di Abanheri, ma questo per me, nel buio era evocativo, spettacolare ed infondeva un velato timore latente. Bundi ci stava rinvigorendo con nuove emozioni, l’adrenalina era tornata a scorerre, il battito era accelerato per l’eccitazione dell’esplorazione, e l’aria fredda di questa notte illuminata da milioni di stelle Rajasthane era un brivido che scendeva giù per i polmoni. Bundi non aveva voluto aspettare l’alba per incantarci con le sue storie, aveva iniziato già da subito, ma avrebbe riservato il meglio il mattino successivo.

Sulla strada verso l’albergo ci siamo fermati a cena in un ristorantino con terrazza addobbato con tante luci intermittenti. Questo era l’unico ristorante che abbiamo trovato con qualcuno dentro, mentre tutti gli altri erano deserti. Abbiamo cenato con Pakoda, che sono frittelle di pastella e verdure, riso saltato alle verdure e birra Kingfisher ghiacciata.

Dopo cena siamo tornati nell’orrendo hotel che ci siamo trovati, ci siamo infilati nei sacchi lenzuolo ed abbiamo affrontato la fredda notte Rajasthana.

Giorno 19 – Dalla Fiabesca Bundi alla Sacra Pushkar

La sveglia è suonata all’alba e noi siamo subito balzati giù dal letto, dopo una notte in quella camera umida e puzzolente, ci sembrava di esserci svegliati da un incubo.

Ci siamo incamminati verso il centro, sulla stessa strada che avevamo percorso la sera prima. Lungo la strada ora c’erano tante persone ed il traffico iniziava ad intensificarsi, con gli ormai immancabili clacson che rovinavano l’atmosfera di questa bella cittadina.

Abbiamo visto alcuni bellissimi scorci di case dipinte di blu o affrescate a motivi Rajasthani con animali o persone. Le strade erano popolate da gente, che era indaffarata in lavori di altri tempi.

Siamo arrivati nella piazza del mercato dove bancarelle di frutta e verdura si alternavano con numerose bancarelle di fiori. Qui abbiamo visitato i due Baori chiamati Sagar Kund. Questi baori sono ai lati di una strada, costruiti in maniera speculare e sono piuttosto stretti e ripidi. Entrambi sono visitabili in quanto quello che la sera prima sembrava chiuso da una cancellata, ci è stato mostrato da un signore che era aperto, visto che la serratura era rotta. Il secondo Baori ora era libero dalle mucche ed abbiamo potuto visitarlo. Purtroppo, la magia dei due Baori è stata rotta dalla sporcizia. In India non c’è il benché minimo rispetto per il patrimonio artistico e culturale e tutto è inteso come potenziale discarica.

Abbiamo lasciato i Baori gemelli e abbiamo proseguito verso il Rani Ji Ki Bawadi che abbiamo trovato ancora chiuso. Qui abbiamo chiesto ad un signore ad una bacarella di Samosa e lui ci ha detto che avrebbe aperto alle 8,30, quindi, avevamo ancora quasi un’ora da aspettare. Abbiamo così proseguito per la strada che abbiamo percorso la sera prima verso il Dhabhai Ka Kund.

Abbiamo deciso di fare colazione in un negozio di Tè dall’altra parte della strada; nessuno parlava inglese, ma a gesti hanno capito e ci hanno invitato a sedere. Il masala chai è stato davvero buono dolce e con tanto zenzero!

Erano tutti uomini ed erano un po’ stupiti di vedere due turisti da quelle parti. Bundi mi ha dato l’idea di essere una città non abituata alla visita dei turisti, o almeno, non lo è in modo così evidente come le altre località rajasthane che abbiamo visitato.

Abbiamo proseguito così la nostra esplorazione ed abbiamo visitato il Dhabhai Ka Kund. Se la sera prima ci aveva impressionati, di giorno era riuscito a ripetersi. L’architettura complessa e le dimensioni, erano stupefacenti. Abbiamo girato il Baori in lungo e in largo, visto che non essendoci paratie lo si può visitare e scendere fino al livello dell’acqua, stando attenti a non scivolare.

Tutt’attorno vi erano tracce lasciate dai festeggiamenti del Deewali, ma era molto più pulito dei Baori vicini al mercato. Siamo tornati per la strada ed abbiamo raggiunto il Rani Ji Ki Bawadi. Questo Baori si differenzia dagli altri in quanto non è a piramide rovesciata, ma scende in diagonale, purtroppo abbiamo potuto visitarlo solo dall’esterno in quanto ora la città di Bundi sembra che abbia deciso di preservarlo e di chiuderlo al pubblico con una lunga serie di cancellate. Siamo riusciti a fare qualche foto attraverso le sbarre e ci ha dato l’idea che deve essere stato davvero bello visitarlo da dentro.

Mi era venuta voglia di fare colazione, così ho deciso di provare un piatto tipico che ho visto solo a Bundi, ad una bancarella ho comprato del riso allo zafferano con pomodori crudi, spaghetti secchi, sale e coriandolo, il tutto avvolto in un foglio di giornale: è stato buonissimo! Non mi sono stupito che ci fossero così tanti indiani a fare colazione a quella bancarella.

La tappa successiva è stata il Bundi Garh Palace (Turisti 100 Rs; Macchina fotografica 50 Rs). All’ingresso si possono prendere in affitto anche dei bastoni, intesi non tanto come aiuto per l’arrampicata verso il palazzo, quanto come strumento di difesa verso le numerose scimmie della zona. Le allerte sulle scimmie si sprecano, ma vicino al palazzo non ne abbiamo vista nemmeno una, invece, tante si trovano sulla strada verso il forte sulla collina.

Siamo entrati dal portale situato a fianco alla biglietteria ed abbiamo iniziato la ripidissima salita. Ecco che ci accoglie la porta degli elefanti, ai cui lati vi sono le statue di due elefanti che coprono l’arco del portale toccandosi con le proboscidi.

Entrati da questo portale, due ragazzi, presumibilmente curatori del palazzo, ci hanno chiesto i biglietti e ci hanno fatti entrare.

Il Palazzo di Bundi è stato in parte restaurato, ma la gran parte è ancora abbandonata. Visitarlo di prima mattina quando non ci sono ancora turisti, è un’emozione particolare. Girovagavamo per questi spazi silenziosi, percorrevamo passaggi bui dove ci serviva la torcia e negli angoli del soffitto c’erano tanti pipistrelli che dormivano. Siamo passati davanti al trono dell’antico governatore di Bundi, ed abbiamo proseguito verso una piazza con ai lati delle sale dove si possono ammirare dei bei dipinti, poi, salendo ancora, si arriva ad un’altra sala con dipinti altrettanto stupefacenti.

Abbiamo fatto il percorso inverso e siamo usciti, ma invece di scendere, abbiamo proseguito in salita ed abbiamo raggiunto la parte superiore del palazzo, chiamata Chitrashala Palace.

Qui abbiamo attraversato un giardino molto curato, con una piccola fontana che un tempo, quando zampillava d’acqua, deve aver regalato una nota di ulteriore bellezza. Poi abbiamo raggiunto la parte superiore: le pareti erano interamente affrescate con scene di vita del palazzo, estratti da leggende induiste; le donne raffigurate negli affreschi, damigelle, danzatrici o cacciatrici erano bellissime, colori sorprendenti, curati nei minimi dettagli e visi ammalianti.

Qui abbiamo incontrato un guardiano che si è proposto come guida: è stato molto simpatico ed oltre a spiegarci i vari dettagli di ogni dipinto, ci ha portati a vedere alcune stanze che erano chiuse. Una in particolare ci ha colpito: era una camera da letto, l’alcova del Maharaja dove si incontrava con la concubina prescelta. La guida ha chiuso la porta e siamo sprofondati nel buio totale, qui mi ha chiesto di accendere la torcia e così, la volta si è illuminata di stelle; il soffitto aveva innumerevoli frammenti di specchio incastonati e brillavano alla luce della mia Maglite. Al centro del soffitto, in corrispondenza del letto, c’era anche uno specchio un po’ più grande, e il signore, con il sorriso da furbacchione e lo sguardo malizioso ci ha detto che al Maharaja piaceva guardarsi allo specchio. E bravo il nostro amico Maharaja! Poi mentre uscivamo, la guida ci ha fatto vedere che sulle pareti vi erano una decina di impronte di mani. Io sono subito rabbrividito e mi sono venute in mente le impronte simili che avevo visto la Mehrangarh Fort, ma la guida sempre con il suo sorriso ci ha spiegato che quelle erano le impronte delle concubine e rappresentavano un po’ i trofei che collezionava il Maharaja.Poi Mr. Guida Furbacchiona a chiesto a Lula di sovrapporre la sua mano ad una delle concubine e dato che combaciava, lui ha riso e ha detto “Complimenti! Sei una Rani! Franz è fortunato! Ahahahah!” si, peccato che non ho le finanze del Maharaja… Sennò mica mi prendevo una camera in quella topaia di Shivam Guest House! Quando la guida e Lula sono uscite ho messo la mia mano a fianco a quelle delle Rani, e nonostante io non abbia mani tanto piccole, ce n’era una uguale anche alla mia. Sono uscito sorridendo pensando a quali Rani potesse avere il Maharaja. Comunque, a dare forza alla mia ipotesi, abbiamo visto in diversi dipinti rappresentate anche delle Hijra. Del resto, in passato, si diceva che le Hijra indiane con la loro danza portassero buona sorte.

Il palazzo è stato bellissimo e ci è dispiaciuto dover andare via. Era già tarda mattina e saremmo dovuti partire alla volta di Pushkar. Uscendo dal palazzo, ancora emozionati; ci siamo resi conto che aveva proprio ragione Kipling: “Il Palazzo di Bundi, anche in piena luce del giorno, è un genere di palazzo che gli uomini hanno costruito in sogni inquieti, più un lavoro da folletti che da uomini”.

Siamo tornati in città e siamo tornati alla Guest House dove Chander ci stava già aspettando.

Cosi’ abbiamo lasciato Bundi e ci siamo diretti verso Pushkar in un territorio piuttosto desolato, ma stranamente, senza perderci. In tarda mattinata abbiamo raggiunto Ajmer, in un unico enorme ingorgo di auto, camion e motorini strombazzanti, intervallati da qualche carretto. Dopo una buona ora, siamo riusciti a districarci dal traffico e ci siamo diretti sulla strada che porta a Pushkar. Dopo circa 14 km siamo arrivati alla città e dopo aver pagato il biglietto per entrare, nel giro di pochi minuti, siamo arrivati al nostro albergo, il Third Eye Hotel. Non aveva niente a che vedere con il postaccio in cui avevamo dormito la sera prima. Aveva un giardino curatissimo attorno al quale si trovavano le stanze, ampie pulite e con acqua calda! Siamo riusciti anche a fare il bucato e a stendere sul tetto la biancheria dove una brezza tiepida soffiava da ovest. Il sole era ancora alto, ma indicativamente avremmo ancora avuto solo 3-4 ore di luce. Così con i nostri “Pushkar Pass” made in Franz & Lula (ci avevano detto che dei santoni chiedevano offerte per un braccialetto di lana rossa per visitare i ghat, così ce lo siamo fatti da soli), ci siamo diretti all’esplorazione di Pushkar. Vicino abbiamo trovato dei negozietti che stavano cucinando delle Samosa e Friggitelli farciti, così ci siamo seduti ad un tavolo ed abbiamo pranzato.

Puskar sorge attorno ad un lago che gli indiani dicono sia nato dalla terra nel punto in cui cadde un fiore di loto dalla mano del Dio Brahma. In questa città c’è anche uno dei rarissimi templi dedicati al Dio Brahama ed è meta di continuo pellegrinaggio da parte degli indiani. Verso la fine di Novembre, con date che variano ogni anno, si tiene la famosa Pushkar Camel Fair, la Fiera dei cammelli: questo è il motivo che ci ha portato a visitare questa cittadina.

Oggi è una meta basata sul turismo, è bella, ma a tratti dà l’idea di essere stata un po’ denaturata.

Lungo la strada attorno al ghat nessun Sadu ci ha fermati per venderci il “Pushkar Pass”, ma molti ragazzi ci volevano dare dei fiori “a gratis” che avremmo dovuto portare al ghat per metterli in acqua su pagamento di un “bramino”. Abbiamo girato per Pushkar infilandoci in vicoletti un po’ più autentici della strada che circonda il ghat e siamo così arrivati in una piazza dove anziani signori stavano giocando ad una specie di dama fatta a forma di croce o delle signore coi loro saree colorati e veli sul volto per ripararsi dal sole e dagli insetti, portavano ceste piene di frutta e verdura sulla testa.

Abbiamo raggiunto il Mela Ground, cioè l’area dove si svolge la Fiera dei Cammelli che stava imbrunendo. Siamo passati dallo stadio dove affittavano i cavalli per fare brevi cavalcate e abbiamo proseguito verso le colline. Attraverso il mercato di prodotti per cammelli, come redini e frustini, siamo arrivati dove erano accampati i carovanieri. Su tutta la collina hanno cominciato ad accendersi i primi fuochi, e noi ci aggiravamo tra di loro scattando foto. Ad un certo punto si è avvicinato un vecchio signore baffuto e con un turbante; ed ha iniziato a parlarci in chissà quale dialetto. Io gli parlavo in italiano e ci siamo fatti lunghi discorsi e ci ha fatto capire che il suo “Dormerdar” era una femmina, e per farsi capire ha puntato il dito verso Lula. Da quel momento in poi, per il resto della serata Lula ha dovuto sopportarmi col fatto che la chiamavo in continuazione “Dormerdar”.

Ormai era buio nel Mela Ground ed avevamo tutto il giorno successivo per visitarlo, così siamo ritornati verso il centro.

Siamo comunque tornati verso l’albergo a prendere i maglioni, perché si stava facendo freddo e più tardi siamo tornati in centro ed abbiamo cenato in un ristorante tibetano che si chiama appunto “Tibetan Kitchen”. Il locale è sulla terrazza di un palazzo e ci siamo seduti vicino alla finestra a guardare la gente che passeggiava per la via trafficata. A Pushkar è vietato bere alcolici e mangiare carne, quindi tutti i ristoranti forniscono solo piatti vegetariani, almeno ufficialmente. La nostra cena è stata: antipasto di Momo, cioè ravioli cinesi, per me fritti e al vapore per Lula accompagnati da una ottima zuppa, e poi io ho preso riso saltato con verdure e Lula ha preso i noodles saltati con le verdure, mentre da bere abbiamo preso Coca Cola. C’era un sottofondo di musica tibetana che completava l’atmosfera, forse un po’ alternativa che emana Pushkar, o forse portata dai turisti naif occidentali.

Lungo la strada che ci riportava verso l’albergo ci siamo fermati ad un ghat dove abbiamo deposto i fiori sul lago senza bisogno di santoni o bramini ad infastidirci.

La città ora era calma e non sembrava quasi più la stessa città che avevamo visitato durante il giorno. Pushkar ora era silenziosa e tranquilla.

Siamo tornati al nostro bell’albergo e dopo doccia bollente, siamo andati a dormire. Bundi e Puskar avevano segnato le tappe di una bellissima giornata di esplorazioni.

Giorno 20 – Pushkar e la Fiera dei Cammelli

Ci siamo svegliati in una Pushkar già illuminata da un sole splendente. Siamo andati nel giardino dove c’erano tanti tavolini all’aperto e nell’aria pungente del mattino, abbiamo ordinato la colazione. Per Lula una crepe alla nutella, una spremuta di mango e un caffè nero; per me muesli con banana, spremuta di mango e caffè nero. La colazione è stata davvero ottima, dopo di che, eravamo pronti per la nostra giornata di esplorazione di Pushkar.

La prima tappa è stata il Tempio Sikh vicino all’albergo. Ci siamo avvicinati e dei signori all’ingresso, senza farci tutti i problemi ci sono stati fatti in altri posti, ci hanno accolti a visitare il loro luogo di culto. Gli unici vincoli, se così si possono definire, erano di levarsi le scarpe come in ogni altro luogo di culto e di coprirci la testa. Io ho estratto il mio pareo e me le solo legato in testa con lo stesso stile che avevo usato a carnevale quando mi ero vestito da Jack Sparrow di Pirati dei Caraibi.

Il tempio è in marmo bianco, la sala principale è praticamente vuota fatta eccezione per un monumento centrale, che non ho capito se fosse una tomba o un altare. Era comunque un luogo di culto molto tranquillo.

Più tardi saremmo tornati al Mela Ground, ma prima volevamo visitare la città. Lungo la strada siamo passati davanti al “Sri Vaikunthanatha Swamy Temple”, ma una volta avvicinati siamo stati fermati da un cartello che ammoniva gli stranieri a non mettere piede all’interno del luogo di culto: Sikh: 1-Hindù: 0. La strada principale di Pushkar è “Main Market Road” che come dice il nome, sarebbe la strada del mercato. Oggi è la strada dei negozietti, la quasi totalità è di souvenirs. Abbiamo preso una traversa e siamo tornati all’interno della città vecchia. Ci siamo imbattuti nel Sri Raghunatha Swamy Temple, di cui può essere visitato tutto il piazzale che lo circonda ad anello, ma non si può entrare, un bramino come tanti infatti ci ha detto con tono perentorio che agli stranieri era vietato l’accesso. Mentre eravamo seduti su una scalinata e rimetterci le scarpe non ho potuto fare a meno di costatare che neppure i ligi mussulmani mi avevano mai trattato in questo modo discriminatorio, infatti mi avevano sempre accolto a visitare le loro moschee.

Mentre girovagavamo abbiamo chiesto informazioni per un altro tempio, ma un signore ci ha indicato una porta buia. Noi ci siamo avvicinati ed abbiamo visto un andirivieni di persone che entravano con offerte ed uscivano senza, inoltre, potevamo sentire il tintinnio di una campanella che veniva suonata ad ogni ingresso. Non era segnato sulla nostra cartina, siamo comunque entrati. C’era una scalinata che scendeva nel sottosuolo, poi un cunicolo ed infine, siamo arrivati in una stanza illuminata da candele ed avvolta da una sottile nebbiolina profumata d’incenso. Era la Sancta Sanctorum di un antichissimo tempio. Qui un massiccio Lingam si ergeva ed era letteralmente coperto di offerte. Un signore un po’ più ciarliero degli altri ci ha spiegato che è uno dei templi più antichi di Pushkar ed è dedicato al Dio Shiva. Questo posto, nella sua semplicità, è stato davvero emozionante. Questo era un luogo dove si poteva, finalmente, percepire la spiritualità. Qui, nell’antico tempio dove c’era silenzio, buio e raccoglimento. Quando siamo tornati in Italia ho cercato su Google e forse poteva essere il Apteshwar Mahadev Temple, ma non me posso essere sicuro.

Abbiamo lasciato la città vecchia e siamo tornati sulla Market Road. Mentre andavamo verso il Mela Ground ci siamo fermati al Lotus Massage, dove abbiamo prenotato un massaggio Ayurvedico per la serata, e poi abbiamo proseguito. Lungo la strada ci siamo fermati a bere del tè da un venditore ambulante di Masala Tea con latte di cammella servito in bicchierini usa e getta in terracotta che abbiamo tenuto come ricordo di questa città.

Abbiamo proseguito prima passando davanti al Brahma Temple, dove c’era già una coda lunghissima per entrare, e poi abbiamo raggiunto il Mela Ground. La prima parte che abbiamo visitato è stata quella dedicata ai cavalli, dove bellissimi esemplari dalle orecchie con la punta arricciata venivano esposti come fuoriserie. Qui c’era poca attività, sembrava che i carovanieri fossero più interessati ai cammelli. Così abbiamo cambiato area e ci siamo dedicati a scattare una quantità enorme di fotografie ai cammelli. Alcuni cammellieri che stavano tosando un cammello ci hanno fatti partecipare alla tosatura, è stato davvero divertente ed alla fine gli abbiamo lasciato qualche rupia.

Abbiamo girato la fiera in lungo ed in largo, abbiamo pranzato a Samosa e Friggitelli in una tenda che evocava un trattato in dieci volumi sulle malattie intestinali, ma poi, alla fine, non abbiamo avuto effetti indesiderati.

I cammelli erano bellissimi ed erano decorati con pendagli, pon-pon e quant’altro da farli diventare ognuno una superstar. Ci siamo chiesti quanto potesse costare un cammello, così ci siamo messi a seguire un gruppo di uomini che stava contrattando. Gli uomini hanno fatto una lunga serie di soste ad esaminare i cammelli, e dopo una serie di tentativi vani, sono riusciti ad aprire una trattativa. Subito si è formato un nugolo di cammellieri che si sono messi in cerchio partecipando attivamente alla trattativa. Una posizione di media distanza, lievemente rialzata, con piena visuale e i teleobiettivi ci ha consentito di doppiare in versione tragicomica le due parti. Ho scattato una serie di foto alle banconote per capire di che taglio fossero ed ho contato i biglietti che passavano per le mani dei cammellieri, alla fine abbiamo stabilito che l’esemplare è costato circa 450 Euro. Quindi, secondo il listino che mi ha spiegato un amico che ha vissuto per un po’ in India, con molta probabilità si trattava di un esemplare femmina in buono stato di salute.

Dopo queste contrattazioni io e la mia “Dormerdar” abbiamo ripreso l’esplorazione. Questa volta abbiamo incontrato delle ragazzine che erano vestite in tipico stile artefatto Rajasthano. Quello stile che rappresenta il Rajasthan solo nei sogni dei turisti, ma basta guardarsi in giro per vedere che nessuna è vestita in quel modo. Tuttavia, erano troppo belle per farsele scappare, così sono riuscito ad immortalarle con il mio obiettivo.

Siamo tornati in città che era ormai tardo pomeriggio quando lungo la strada ho visto un barbiere e come avevo già fatto ad Udaipur, ho scelto di farmi radere di nuovo. Come il precedente ci ha tenuto a farmi vedere che usava una lametta nuova e non ne stava riciclando una da una precedente rasatura. Poi è partito con l’insaponatura e la rasatura, per poi finire il suo servizio con un bellissimo massaggio al viso e alla testa. Sono uscito dal barbiere che ero quasi in pace col mondo. Peccato non aver iniziato prima questo rituale!

In città siamo passati nuovamente davanti al Brahama Temple, ma non siamo entrati vista la lunga coda .Camminando un po’ a caso, abbiamo trovato una bella haveli nel momento in cui due turisti inglesi stavano uscendo soddisfatti, allora siamo entrati. Un ragazzino che parlava un buon inglese ci ha spiegato di essere il figlio del custode. Ci ha fatto visitare il cortile interno con le diverse camere, e poi anche il loro tempio privato con la statua del Dio Ganesh circondato da affreschi d’oro. Effettivamente, la haveli era davvero bella, ed è stata una piacevole scoperta. Quando siamo usciti il ragazzino ci ha chiesto la mancia. E noi ci siamo chiesti se il padrone sappia che i suoi custodi organizzano tour a pagamento in casa sua.

A questo punto avevamo voglia di fare merenda, così siamo tornati nella Main Market Road ed abbiamo cercato il venditore di Masala Tea al latte di cammella, così ci siamo anche accaparrati altri due bicchierini di terracotta. Tuttavia non ci bastava così ci siamo fermati in uno dei tanti fast-food vegetariani che si trovano lungo la strada ed abbiamo ordinato due Kebab fatti con le Falafel. Erano assolutamente deliziosi.

Era arrivata così l’ora di fare il nostro massaggio. Siamo arrivati al Lotus Massage ci hanno fatti accomodare nella saletta. Questa volta abbiamo scelto solo due Massaggi Ayurvedici e abbiamo evitato gli Shirodara che avevamo già fatto a Kochi. Il costo totale è stato di 1500 Rs. (circa 21 Euro). La saletta era piuttosto piccola ed io e Lula eravamo separati da una tendina. L’aria condizionata era un po’ fredda, ma il massaggio è stato comunque molto piacevole.

Siamo così tornati all’albergo e poi siamo tornati in centro a cenare al Tibetano dove avevamo già cenato la sera prima. Questa volta abbiamo ordinato Momo al vapore e fritti, seguiti da zuppa di noodles. Quando il ragazzo ha preso l’ordine s’è prima guardato attorno e poi sottovoce ci ha detto “abbiamo anche la birra!” e noi “no, grazie!”. A volte sabbiamo anche controllarci… Questa volta i ragazzi del ristorante hanno messo musica Raggae e ci ha infuso un mood di “relax and take it easy” ideale l’ultima sera a Pushkar .

Poi siamo tornati al nostro albergo sotto una notte stellata Rajasthana.

Giorno 21 – Da Pushkar alla Città Rosa di Jaipur

Ci siamo svegliati di prima mattina. Abbiamo finito di fare i nostri zaini, e poi siamo andati a fare colazione. Abbiamo deciso di ordinare le stesse cose del giorno prima.

Poco dopo è apparso Chander all’ingresso dell’albergo, così abbiamo fatto il check-out e siamo partiti. Stavamo nuovamente attraversando i paesaggi semi desertici del Rajasthan, ma solo per poco, perché poi siamo entrati in una superstrada ed in tarda mattinata eravamo già a Jaipur.

La città di Jaipur è di colore rosa, questo si dice che sia perché il Maharaja Ram Singh in occasione della visita del futuro re d’Inghilterra Edoardo VII la fece dipingere di questa tonalità in segno di accoglienza.

Siamo arrivati al nostro albergo il Royal Sheraton Hotel, che sia di Royal che di Sheraton ha solo il nome, ma grazie a Tripadvisor sapevamo già che si trattava di un hotel come tanti altri. Il vantaggio di questo posto è stato che era in centro, proprio vicino al City Palace, al Hawa Mahal e all’Osservatorio. Chander ha detto che Anil sarebbe passato in albergo a prendere i soldi poco più tardi e dopo averci scaricati, l’abbiamo congedato senza alcuna mancia.

Subito abbiamo avuto un problema: quando siamo andati a prelevare ad un bancomat, abbiamo scoperto che la carta si era smagnetizzata. Per fortuna siamo riusciti a trovare una banca (UCO Bank) che ci ha cambiato i soldi in Rupie. Nel frattempo abbiamo fatto un pranzo al volo con alcune samosa che vendevano lungo la strada.

Anil non arrivava, così dopo averlo chiamato e averci detto che l’autista avrebbe dovuto portarci da lui, ci ha mandato nuovamente Chander a prenderci, ma abbiamo dovuto aspettarlo per più di un’ora . Alla fine è arrivato, ci ha portati da Anil il quale con un sorriso disarmante non ha battuto ciglio sulle nostre lamentele.

Quando siamo tornati in centro, con Chander che si è perso per l’ennesima volta, ci siamo fatti lasciare vicino al City Palace, ma ormai era troppo tardi per entrare. E’ stato seccante constatare che per colpa di quegli incapaci della Rajasthan Four Wheel Drive non abbiamo potuto vedere il Palazzo di Jaipur e soprattutto l’Osservatorio Astronomico.

Siamo passati davanti all’Hawa Mahal, chiamato anche Palazzo dei Venti, con la sua famosissima struttura elaborata che ricorda vagamente un raffinato alveare di finestre. Abbiamo fatto qualche foto a questa meraviglia architettonica, sebbene me lo immaginassi un po’ più grande, ed abbiamo proseguito. Abbiamo deciso di camminare ed immergerci in questa Jaipur che non avevamo ancora avuto modo di conoscere e ci siamo diretti al cinema Raj Mandir. Infatti, in molte guide e siti di viaggio, veniva consigliato di visitarlo ed andare a vedere un film. Così, abbiamo attraversato questa parte di città, passando anche attraverso un’area fitta di officine dove riparavano bellissimi esemplari di Royal Einfield. C’erano alcuni modelli di Bullet che mi facevano venire voglia di saltare in sella e scappare con Lula verso il deserto, magari verso Jesailmer.

Siamo arrivati al Raj Mandir che era chiuso, ma c’era già una lunga fila in attesa di acquistare il biglietto per l’unico film in programmazione dal nome Jab-Tak-Hai-Jaan, la storia di un militare con una motocicletta che ha una love story con uno dei tanti cloni delle dive di Bollywood. Il film sarebbe durato più di tre ore e quindi, con Lula ci siamo guardati ed abbiamo capito che questo film “mapazzone” sarebbe stato troppo anche per noi.

Sulla strada di ritorno verso l’hotel siamo passati davanti a diversi negozi di Lassi, tra i quali il famoso Lassi Walla, ma non abbiamo voluto provare l’esperienza del Lassi, visto che diversi amici hanno raccontato del conseguente incubo intestinale. Poco più avanti abbiamo scovato la “Indian Coffee House”: si tratta di una caffetteria con arredamento che sembra un po’ una ARCI, non molto illuminato, un po’ decadente, con quel gusto di un passato coloniale. I camerieri gentilissimi ci hanno fatti accomodare in una saletta a parte, dove c’era un cartello ormai di era preistorica che l’identificava come area per sole donne, ma che oggi è accessibile a tutti. Qui con noi si sono poi aggiunti due ragazzi indiani. Abbiamo ordinato due caffè neri ed un cameriere che indossava un’uniforme impeccabile con un copricapo costituito da un telo legato in modo da far sporgere un lembo verso l’altro, ci ha portato i nostri caffè in un attimo.

Qui abbiamo approfittato della semi intimità per fare alcune telefonate per finire la SIM indiana che non avevamo mai ricaricato da quando siamo arrivati a Kochi.

Siamo tornati all’Hawa Mahal che stava imbrunendo e mentre facevamo delle fotografie ci si è avvicinato un gioielliere. Ci ha invitati a vedere il suo negozio, ma non eravamo intenzionati ad acquistare gioielli, ha comunque insistito per offrirci due Masala Tea.

Alla fine ha deciso di farci vedere l’Hawa Mahal dal terrazzo del palazzo.

Ora era sceso il buio e le vetrate policrome creavano splendidi giochi di luce. Abbiamo salutato il ragazzo e sulla strada del ritorno verso l’hotel abbiamo fatto acquisti: abbiamo comprato alcune bottigliette di gin indiano, e poi del tabacco da masticare in un negozietto sulla strada il quale aveva centinaia di bustine appese. Gli ho chiesto se la bustina che avevo davanti, dove c’era il disegno di una ragazza sorridente fosse betel, e mi ha risposto che era shampoo, ne ho puntata un’altra e gli ho chiesto se anche la bustina con la ragazza sorridente ed i capelli neri fosse shampoo o hennè, e lui mi ha detto “mentine”. Gli ho chiesto del tabacco da masticare e lui ha tirato fuori un’altra bustina con una ragazza sorridente. Ci siamo allontanati dal negozio sicuri che avremmo avuto la certezza di non aver comprato shampoo solo se il fratello di Lula non si fosse messo a fare le bolle masticando questo tabacco.

Dopo una bella doccia abbiamo guardato i ristoranti consigliati dalla guida e visto che eravamo in India da ventuno giorni e non avevamo ancora assaggiato il pollo fatto al Tandoori, abbiamo deciso di andarlo ad assaggiare. Abbiamo percorso nuovamente tutte quelle strade che fino a poco prima erano popolate di gente ed ora sembravano deserte. Alla fine abbiamo raggiunto l’Handi restaurant: questo locale è riconoscibile perché nell’ingresso ci sono dei bracieri dove fanno la carne alla griglia. L’interno è un salone enorme con diverse file di tavoli e sedie. Abbiamo deciso di ordinare il pollo tandoori, salsicce, riso al vapore e chapati . In realtà né il pollo né le salsicce erano un granché. Ci siamo messi per strada e, accompagnati per un pezzo da un indiano ciclista che voleva fare due chiacchiere, siamo arrivati ad un negozio dove abbiamo acquistato una bottiglietta di Sprite. Mi sarebbe servita più tardi. Quando pagavamo il proprietario del negozietto, un simpatico signore che non parlava Inglese, ci ha regalato due barrette di cioccolato.

Abbiamo attraversato una Jaipur ormai addormentata. Non sembrava nemmeno più quella che avevamo visto il giorno stesso. Alcune strade di norma trafficate erano ora popolate solo dalle raffiche di vento che trascinavano fantasmi rajasthani, foglie secche, polvere e fogli di giornale. Questa era la nostra ultima sera indiana. Non ci potevamo credere, ci sembrava di essere partiti solo il giorno prima ed allo stesso tempo avevamo un quaderno pieno di appunti e quasi quattromila fotografie.

Il bellissimo Hawa Mahal era lì, illuminato, per augurarci la buona notte, una chiusura perfetta per un viaggio che mi ha regalato più emozioni di quante mi sarei aspettato. E poi, per me, lo scopo del viaggio è vivere attimi degni di essere raccontati, e gli attimi che sono più difficili da aggiudicarsi, sono sempre quelli più belli.

Ero fermo davanti al Hawa Mahal, Lula sapeva che cosa significava per me essere arrivato. Era la terza meta che avrei fatto di tutto per visitare dopo la facile Petra, la Angkor che ho raggiunto durante la crisi di Preah Vihear nel 2008. Ed ora Hawa Mahal. Grazie per averci aspettati illuminato. Ora siamo fratelli.

Ora era arrivato il momento di brindare al nostro viaggio: abbiamo stappato la Sprite ed il Gin, improvvisando una sorta di Gin Tonic, dolce ed aromatico, un gusto da associare all’India.

Giorno 22 – Jaipur e rientro in Italia

Era il giorno del nostro ritorno. La sveglia è suonata alle 4.00 del mattino. Eravamo andati a dormire solo tre ore prima.

Da Jaipur siamo tornati in Italia via Muscat con la Oman Air, compagnia che si è rivelata precisa e con aerei davvero belli.

Mentre recuperavamo dal nastro di riconsegna bagagli i nostri zaini con sopra cucite le etichette con i nostri nomi, idea presa in prestito dal programma “Pechino Express” ridevamo pensando che in fondo, questi due turisti un po’ disorganizzati che siamo noi, in fin dei conti potrebbero essere anche un po’ “viaggiatori”.

Alla prossima avventura.

Franz e Lula.

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Jodhpur - Cucinata da Franz e Hem

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Udaipur - City Palace

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Jodhpur - Mehrangarh Fort

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Pushkar - Pushkar camel fair

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Jaipur - Hawa Mahal

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Bundi - Baori

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Pushkar

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Rajasthan - Pastore



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