Marche: tutti i sapori d’Italia
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A nord, la cucina romagnola straripa fino alla sponda sinistra del fiume Metauro con i passatelli, rimasti identici, ma che ad Urbino diventano i deliziosi “passatelli di carne” con filetto di manzo. La piadina è piacevolmente sfogliata e prende il nome di crescia; il ragù è più fluido, più rosso e profumato dai chiodi di garofano e dalla noce moscata.
Da Senigallia in giù, si fa strada il nucleo centrale più squisitamente marchigiano culminante nella provincia di Macerata. Qui troverete le lasagne incassettate alla maceratese o vincisgrassi, uno dei pochi piatti aristocratici nel contesto di una cucina prevalentemente popolare, espressione dall’attitudine orgogliosamente provinciale dei marchigiani.
A sud del fiume Esino, infine, i sapori si accentuano. I curiosi (e ottimi) maccheroncini di Campofilone sono ottenuti da un impasto di 10 uova per ogni chilo di farina. La sfoglia viene tirata a velo su una lastra di marmo e poi tagliata con un coltello affilatissimo allo spessore dei capelli d’angelo. Nati come pasta da pesce, per addensare il brodetto, possono essere cotti direttamente nell’intingolo della zuppa. Oppure lessati per due minuti e conditi con abbondante ragù di carne o con sugo di papera muta. Si continua con le olive ascolane ripiene (la prova che nelle Marche imbottiscono proprio tutto) e si prosegue in un crescendo di sapidità, fino alle specialità debordate dall’Abruzzo, dal sugo di papera alle avanguardie infuocate del peperoncino.
Non bastassero i confini orizzontali, ci sono anche tre diverse fasce longitudinali: la montana, la collinare e la costiera. Come dire che siamo arrivati al reticolo del gusto! Nella striscia appenninica, il banchetto spazia dalla rusticità della porchetta alla raffinatezza del tartufo, presente in ogni qualità che palato possa desiderare: bianco, bianchetto, nero d’inverno e scorzone. Grazie all’abbondanza di varietà, Acqualagna, nell’alto pesarese, è in grado di offrirlo ai visitatori praticamente tutto l’anno.
Scendendo verso l’Adriatico, la zona collinare è un paradiso per i vegetariani che troveranno alcuni fra i più blasonati ortaggi d’Italia: i cavolfiori di Jesi, i cardi della valle del Trodica (protagonisti della parmigiana di gobbi) e i piselli di Potenza Picena che vi consiglio di gustare nella pisellata, una zuppa con pancetta, pomodoro, aglio e prezzemolo. E ancora, i carciofi di Montelupone, le fave di Ostra, le lenticchie di Visso e gli squisiti pincicarelli, piante cardacee introvabili nel resto d’Italia, ma comunissimi ad Ancona dove vengono gustati fritti o “in potacchio“, cioè in umido.
La terza fascia è quella costiera, patria del brodetto di pesce. Ma anche in questo caso bisogna declinare al plurale: i brodetti sono tanti, uno per ogni città o paese di mare e forse uno per ogni famiglia. Tutto il territorio regionale, infine, è costellato da tipicità imperdibili: i formaggi di fossa, il ciauscolo (salume spalmabile a metà tra una salsiccia e un salame), il prosciutto del Montefeltro, la soppressata e il salame di Fabriano.
Gli oli sono prodotti con sapienza ovunque e da sempre. Una menzione speciale va all’extravergine di Cartoceto e al monocultivar di Ascolana Dura. I vini, dal carattere forte e asciutto, sono l’ideale per esaltare i piatti regionali. Potete scegliere tra Conero Bianco e Rosso, Verdicchio dei Castelli di Jesi, Bianchello, il Falerio Bianco, Piceno Bianco e Rosso senza dimenticare un assaggio della Vernaccia di Serrapetrona, frizzante e amabile, e il vino cotto che potrete accostare ai dolci piuttosto rustici (frustingo, piconi, scroccafusi, beccute).
Il banchetto va rigorosamente concluso con un bicchierino di Mistrà, il delizioso liquore all’anice discendente dall’ouzo greco con il nome di una città del Peloponneso vicina a Sparta. Furono i veneziani della Serenissima Repubblica a scoprirlo e a importarlo in Italia, dove fu adottato dai marchigiani. Non rimane che approfittare dell’arrivo della primavera e fare la valigia subito. Lasciando l’estate a chi nelle Marche pensa di trovare solo spiagge.
In potacchio e in porchetta: piccolo dizionario gastronomico marchigiano
Nelle Marche incontrerete spesso preparazioni “in potacchio” e “in porchetta”. Perciò è meglio essere preparati sul significato di queste espressioni. In potacchio deriva dal francese “potage” e indica una modalità di cottura diffusa in tutta la regione. È un umido ristretto ottenuto con vino bianco, rosmarino, prezzemolo, aglio e pepe. Il pomodoro è un optional “moderno” che ben si lega agli altri ingredienti del piatto alterandone, però, l’originalità storica. Con questo intingolo sono eccellenti le carni bianche di coniglio, pollo e agnello. Ma anche i pesci, come il baccalà, lo stoccafisso, e per la felicità dei vegetariani, fave, carciofi e melanzane. Insomma, i marchigiani in potacchio ci fanno di tutto. In porchetta è l’altra espressione che incontrerete spesso nei ristoranti di tradizione di tutta la regione. Non indica una specifica modalità di cottura, perché può trattarsi di un umido o di un arrosto, ma la speciale aromatizzazione con finocchio selvatico, rosmarino e aglio tipica della porchetta umbra. In porchetta potrete gustare il coniglio, le lumache, le vongole, lo stoccafisso, le fave e i garagoj, conchiglie di mare molto apprezzate e presenti nelle tavole di Marotta.
Se non è zuppa… È Brodetto
Il Brodetto è una zuppa di pesce, ma provate a pronunciare questa parola in terra di Marche e vi accorgerete che è soprattutto un’ideologia capace di scatenare discussioni infinite sulle quali, provvidenzialmente, veglia e dirime l’Accademia del Brodetto. Il fatto è che brodetti sono tanti quante sono le località della riviera, e non ce n’è una che non ne rivendichi la paternità e ne vanti la supremazia. La verità sembra essere super partes. Quasi a voler prendere le distanze dalle contese campanilistiche, il brodetto ha fissato i suoi natali sul mare, a opera dei pescatori che usavano cuocere la muccigna (l’insieme dei pesci che per qualità e pezzatura non erano adatti al mercato) in un guazzetto fatto con acqua di mare, aceto e olio di oliva detto masa. Sbarcato sulla costa, il brodetto ha assunto fisionomie diverse a secondo della latitudine e della fantasia delle mogli dei pescatori. Come avrete già capito, è un piatto tradizionale, ma disinvolto, disponibile a essere interpretato in modo diverso da una famiglia all’altra salvo restando la caratteristica comune della presenza di una grande varietà di pesci “da brodo”, e cioè scorfano, tracina, rana pescatrice, triglia, gallinella, razza, palombo, rombo chiodato, San Pietro, sogliola, merluzzo, cefalo, gronco, seppia, calamaro, canocchia, scampo, gambero, granchio, lumachina, lumacone, cozze, vongole e conchiglie varie.
Oggi, le ricette classiche sono quattro, di Fano, Ancona, Porto Recanati e San Benedetto del Tronto. Ancona vanta la ricetta più immutabile con 13 varietà di pesce, aglio cipolla, pomodoro rosso e aceto. Si distingue per la precottura di seppie e calamari per 15 minuti e per l’aggiunta di un po’ di concentrato di pomodoro allungato in acqua leggermente salata. A Fano si usa cuocerlo in tegami di coccio, con pomodoro maturo e vino bianco al posto dell’aceto sempre presente nelle altre versioni. A Porto Recanati resiste il brodetto “in bianco” di era pre-pomodoriana, ma sarebbe più esatto dire in “giallo dorato”, come sono le tonalità cromatiche donate dallo zafferanone o zafferanella, un’erba selvatica, cartamo in italiano, che cresce abbondante nell’entroterra. San Benedetto è l’unico porto a reclamare la nascita del brodetto non in mare ma nel quartiere popolare U labirintu, abitato da pescatori, pescivendoli, calafati, spagaroli e altri lavoratori del mare. Qui il brodetto è molto chiaro, con pomodoro verde, peperoni verdi, peperoncino, cipolla e aceto. Un quinto, non incluso nelle ricette classiche, ma molto interessante perché riunisce le caratteristiche di quelli più settentrionali e dei meridionali, è quello di Porto San Giorgio con pomodoro verde, pomodoro rosso, peperone, peperoncino e aceto.
Vincisgrassi, tra leggenda e verità
È una pasta incassettata condita con besciamella, ragù di carne, interiora di pollo (o di oca o di anatra), animelle di vitello o di agnello, besciamella e tartufo nero se c’è. A questi ingredienti principali se ne aggiungono numerosi altri mutevoli a seconda della versione. È uno dei rari piatti borghesi della cucina marchigiana, per lo più popolare, ma talmente sontuoso da fare dimenticare la sobrietà della tavola nel resto della settimana. Che dire del sapore, se non che sono eccellenti e sperare che seguirete il mio consiglio di assaggiarli? I commenti si potrebbero fare solo dopo, a ragion veduta e a gusto provato. Ma uno si può fare anche prima ed è quello che riguarda il loro strano nome. Vi diranno di sicuro che questa preparazione di grande effetto e rappresentanza fu l’omaggio di un cuoco anconetano (dicono gli anconetani) o maceratese (secondo i maceratesi) al principe Windisch-Graetz (da cui bizzarro nome), un generale austriaco che giunse ad Ancona nel 1799 per strappare la città alle armate napoleoniche. La verità è che come tutte le eccellenze gastronomiche di antichi natali, anche questa gode della sua brava leggenda, ed è quella che vi ho appena raccontato. Di diverso avviso, gli storici della gastronomia ribattono che nel testo Il cuoco maceratese di Antonio Nebbia, pubblicato quasi vent’anni prima dell’arrivo del principe ad Ancona, compare una salsa per i princisgras maceratesi. Di certo c’è che si tratta di un piatto originario di Macerata e poi esteso a tutta la regione, mai tramontato nelle famiglie come piatto domenicale e fortunatamente ancora proposto nelle sue numerose varianti dai ristoranti di Macerata e di tutte le Marche.