Tre mesi nel Sud-Sudan

SABATO, 12 AGOSTO 2000: IL MATERASSO E UMIDO Partito da Ginevra giovedì 27 luglio, avevo come compagne di viaggio Monika e Helma, la prima infermiera e la seconda medico; sono tutte e due tedesche. Loro avevano rimpinzato lo zaino di salumi e formaggi, io di caffè. Siamo arrivati a Nairobi la sera stessa e ad attenderci c’era Maina, lo stesso...
Scritto da: Roberto De la tour
Partenza il: 27/07/2000
Ritorno il: 25/10/2000
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SABATO, 12 AGOSTO 2000: IL MATERASSO E UMIDO Partito da Ginevra giovedì 27 luglio, avevo come compagne di viaggio Monika e Helma, la prima infermiera e la seconda medico; sono tutte e due tedesche. Loro avevano rimpinzato lo zaino di salumi e formaggi, io di caffè. Siamo arrivati a Nairobi la sera stessa e ad attenderci c’era Maina, lo stesso autista che mi aspettava a gennaio. Ci ha portati alla Guest House di MSF-Svizzera, dove questa volta la dispensa era ben fornita e ho potuto cimentarmi in una pastasciutta per la quale ho meritato dei teutonici complimenti. Il giorno dopo è stato interamente passato in ufficio, e mentre le mie colleghe partivano la sera alla volta di Kiri, io ho dovuto restare a Nairobi fino a domenica. Sono allora andato a Kampala, dove sono stato invitato a pranzo da Regina, la mia capomissione quando ero ad Amudat. Mi dicono che ho un volo prenotato il mattino dopo da Entebbe per Arua, nel nord-est dell’Uganda. Arrivo prestissimo all’aereoporto, e mi viene subito annunciato che sono in lista d’attesa. Che gioia che gioia. Alle otto, quando l’aereo avrbbe dovuto partire, mi dicono di sbrigarmi, che se i passeggeri ritardatari arrivano fanno salire loro. Saliamo sull’aereo, un turboelica con diciannove posti, quando sono seduto arrivano i ritardatari, e uno di loro non trovando posto, lo fanno scendere. Ha fatto una scenata orrenda sulla pista. Io mi sentivo un po’ colpevole e molto sollevato; siamo partiti e dopo aver sorvolato il parco delle cascate Murchinson e la foce del Nilo nel Lago Alberto, siamo atterrati sulla pista in terra di Arua. Lì un autista di MSF-Francia mi aspettava, e mi ha portato a Omugo, dove dovevo passare una settimana con MSF-Francia.

Omugo è un buco; poche case lungo una strada in terra, ma MSF ci ha costruito un programma di lotta contro la malattia del sonno che copre l’intera regione. Mi sono quindi installato per una settimana con un gruppo di francesi molto simpatici, e ho imparato le tecniche per la diagnosi di questo terribile male. Per sradicarlo da una regione, è necessario che il maggior numero possibile di persone venga curato, in modo che la mosca Tse-Tse non trovi materiale umano da cui infettarsi e trasmettere l’infezione. Hanno quindi organizzato un sistema capillare di “active screening” in cui del personale locale chiamato “Sleeping Sickness Assistants” (SSA) fa il giro di tutti i villaggi, e invitano tutta la popolazione nel raggio di un chilometro a trovarsi in un punto ben preciso un giorno definito; quel giorno una Toyota va lì con tavoli pieghevoli, un megafono e del materiale. Ho partecipato a una di queste sedute; l’automobile si è inoltrata per sterrati sempre più stretti fino a diventare sentieri su e giù per le colline, e ci siamo fermati vicino a un piccolo villaggio dove una siepe tagliata alla perfezione delimitava tre capanne. Il tavolo con l’apparecchiatura è stato sistemato sotto un albero, e con il megafono la gente è stata chiamata a raccolta: tutte le persone presenti si sono messe ordinatamente in fila per gruppi di dieci, gli hanno palpato i ganglioni sul collo e prelevato una goccia di sangue per un test fatto subito sul posto. I positivi sono stati riferiti all’ospedale di Omugo per esami più approfonditi dove, se la malattia viene confermata, verranno ricoverati e curati.

Lunedì mattina l’autista mi porta a Moyo, vicino alla frontiera con il Sudan, dove la Toyota di MSF-Svizzera mi aspettava. Moyo è una cittadina piacevole, con molte bottegucce.Che vendono pentole in alluminio senza manici e sacchi di zucchero da dieci chili. Siamo partiti, lo sterrato è brutto e stretto, non esiste dogana dal lato ugandese, entriamo in Sudan (una pietra indica la frontiera), e dobbiamo fermarci al posto di blocco del movimento ribelle che controlla questa parte del paese. Entriamo in una capanna di legno e paglia, e un individuo trascrive laboriosamente su un quaderno scolorito dall’acqua i dati indicati sui nostri permessi di transito. Ripartiamo, e finalmente arriviamo a Kiri.

Kiri non è una città, e nemmeno un paese. In mezzo a fogliuti alberi di mango, MSF ha costruito un ospedale, le case per il suo personale e quelle per noi. L’ospedale, interamente dedicato alla malattia del sonno, è bello, con i suoi due reparti dal tetto di paglia, tecnica tradizionale che ha il grosso vantaggio di tenere i malati al fresco; il laboratorio, l’ufficio, il magazzino, alcuni altri edifici minori e nuovi reparti in costruzione. In costruzione sono anche le nostre abitazioni, e viviamo in un cantiere. C’è un grosso edificio centrale, lo stanno intonacando ora, che funge da refettorio e salotto, con da un lato la cucina e dall’altro due lavandini che usiamo per lavarci denti, mani e mutande. Infatti le tradizioni locali proibiscono alle colf di lavare la biancheria intima di chiunque eccetto il marito. La cucina viene interamente effettuata su due fornelli a carbonella, per fortuna da ieri ne abbiamo pure uno a kerosene, cosa che rende più facile la preparazione del caffè. Per dormire, ogni espatriato ha un tukul (casetta monolocale col tetto di paglia), ma quelli di una collega e mio non sono ancora pronti. Ci tocca quindi dormire sotto la tenda, ma qui la situazione è ben diversa che a Amudat. Innanzitutto le tende sono piccole, inoltre siamo in piena stagione delle piogge. Le mie coperte sono umide, il mio materasso è umido, i miei vestiti sono umidi. Quando mi alzo di notte per andare in bagno, devo stare attento al fango, poi raggiungo delle latrine col buco per terra dove mi illumino con la pila. Di giorno può piovere davvero forte, e andare dall’ospedale a casa diventa un’impresa: è difficile evitare di sprofondare nel fango fino alle caviglie. Fare la doccia quando piove è anche un’impresa: infatti le docce sono a cielo aperto, c’è solo un muretto. Il tempo di lavarsi, e l’asciugamano è fradicio. Bisogna quindi ritornare alla tenda, non si può farlo nudi, sostituire quello bagnato con uno umido, tentare di asciugarsi, cercare in fondo alla valigia qualche vestito asciutto, vestirsi, uscire dalla tenda e correre verso l’edificio comune molto velocemente per non bagnarsi di nuovo, ma facendo attenzione a fango e pozzanghere, il tutto nella penombra delle sette. Consumiamo quindi un pranzo caldo (riso, patate, fagioli, cavolo, a volte carne)alla luce di candele e lampade a petrolio. I miei colleghi sono simpatici, e li ho fatti molto ridere quando gli ho spiegato perchè detesto le latrine. Loro le trovano comode e igieniche (boh?). Comunque vedremo come andranno avanti le cose, il mio tukul ha progredito di parecchie file di mattoni e spero di essere presto all’asciutto.

LUNEDI 28 AGOSTO 2000: PUNTURE LOMBARI E DOCCE EROICHE Ciao a tutti. Sono arrivato a Kiri esattamente tre settimane fa, e cercherò di darvi un quadro generale del progetto, del lavoro, e della nostra vita qui. MSF ha costruito un centro specializzato per il trattamento della malattia del sonno qui perché c’è una forte presenza del male in questa regione alla frontiera tra Uganda e Sudan. Ci sono tre centri in Uganda, e non ce n’era nessuno dal lato sudanese. Così MSF ha creato dal nulla un ospedale con una sessantina di letti, con tutte le amenità necessarie: ufficio, laboratorio, elettricità a pannelli solari, pozzo, sistema di raccolta dell’acqua piovana, inceneritore, cucine, latrine; di fianco sono stati costruiti gli alloggiamenti del personale e subito al di là le abitazioni per noi di MSF. Il tutto è ancora in costruzione, stanno facendo il tetto adesso a un nuovo reparto e il mio tukul comincia a prendere forma (ma quando sarà finito? Sono stufo di dormire in una tenda striminzita e umida). A proposito di tetti, la classica paglia africana è una meraviglia quando fa caldo: i tetti di lamiera che amano tanto diventano roventi quando fa caldo, mentre sotto la paglia fa fresco. Pare sia stata una lotta convincere la controparte locale a coprire i tetti dei reparti dove sono ricoverati i malati di paglia, loro trovano che la lamiera fa tanto più fino.

La vita qui è abbastanza monotona, quindi non sono sicuro di cosa raccontarvi. Sabato sera la mia collega di laboratorio Véronique e io siamo stati chiamati per un’emergenza: sospetta meningite di una paziente allo stadio II della Malattia del Sonno (cioè quando i parassiti hanno invaso il sistema nervoso). Abbiamo preso le nostre pile, e ci siamo incamminati in una notte buia, ma buia, cercando senza troppo successo di evitare le pozzanghere di fango. Siamo arrivati in reparto, la donna era in coma, ma bisognava fargli una puntura lombare (ago all’interno della colonna vertebrale). Il guardiano va a cercare Edward, il tecnico di guardia, ma torna con Angelo, uno molto coscienzioso ma ancora poco esperto. Dopo due tentativi infruttuosi suoi, e uno altrettanto privo di risultati di Véronique, con quest’ultima che si angosciava per la paziente e tre tizi nerboruti che la mantenevano nella posizione giusta, sono dovuto andare io nel buio che intanto lo era diventato ancora di più a cercare Edward, che è esperto in questa tecnica.. La luce della mia pila stava vacillando, mi sono inoltrato tra le capanne dove alloggia il personale, tiravo accidenti ogni volta che mettevo un piede nel fango, e ho cominciato a chiamare: “Edward”, “Edwaaaard”. Vedo qualche vago lume, qualcuno risponde, mi dice che non c’è, di cercare Steward, non trovo neppure lui, ma infine trovo Joyce, brava pure lei, che viene con me e mi guida in un meraviglioso percorso tortuoso che permette di mantenere i piedi all’asciutto. Finalmente riusciamo a fare sta’ benedetta puntura lombare, torniamo a casa che il pranzo era ormai freddo, ci consoliamo con una birra e un sorso di “Uganda Waragi”, locale distillato di canna da zucchero, e per la prima volta da quando sono qui, rinuncio alla doccia. Faceva troppo freddo (qui solo doccia fredda all’aperto). Puliti si, eroi no. Vado a dormire stravolto, e vengo svegliato alle tre di notte da un gran vociare; erano Helma, Anna e Gilles, tre colleghi, che si erano scolati tutta la bottiglia di Waragi. Viva la febbre del sabato sera. Domenica abbiamo fatto una lunga passeggiata; meta della gita era un’altra missione di MSF a una quindicina di chilometri da qui. Ci siamo incamminati Anna e Io, essendoci messi daccordo con gli altri che ci avrebbero raccattato con l’automobile a metà strada, siamo partiti di buona lena. La strada, un brutto sterrato, procede in una savana verdissima con l’erba alta un metro e ogni tanto un campicello coltivato a granoturco o manioca. Cominciamo ad essere stanchi e assetati, finalmente la Toyota arriva, ma ci dicono che non c’è posto perché stanno trasportando la donna in coma della sera prima, ma che l’autista ci torna a prendere. Continuiamo a camminare, sempre più stanchi e assetati, e giungiamo ad un bivio, dove siamo ovviamente costretti a fermarci. Aspettiamo un sacco di tempo, cominciamo a preoccuparci, abbiamo la scelta se scioglierci al sole o farci divorare da mosche, zanzare e formiche all’ombra di un’albero, ma finalmente la macchina arriva… Da dietro! L’autista ci dice che ci ha cercati ovunque, che era convinto che avessimo preso la scorciatoia. “Quale scorciatoia” chiediamo noi? Comunque siamo arrivati sani e salvi a Kajo-Keji, dove MSF ha riabilitato un ospedale inglese abbandonato e ora adibito a cure generiche (loro ci inviano i pazienti sospetti di Malattia del Sonno, noi gli inviamo gli altri malati). Lì ci hanno offerto un’ottima colazione, poi ci siamo rilassati all’ombra di un mango e abbiamo fatto una partita a Badmington. La domenica è quindi finita tranquillamente, e stamattina ho avuto in laboratorio ben sessantotto pazienti; sono quindi comprensibilmente stanco.

SABATO 9 SETTEMBRE 2000: MALATTIA DEL SONNO, PECORE E CAPRE Sono sempre qua. Mi sono perso il matrimonio di Pierre, e la cosa mi fa rabbia. Pero’ devo ammettere che quello che faccio qui è utile, perché effettivamente il laboratorio ha bisogno di un supervisore, e il laboratorio è il punto focale del progetto. Mi spiego: MSF sta cercando di eradicare la Malattia del Sonno dalla regione (Nord Uganda e Sud Sudan), e per farlo bisogna curare la gente in massa, in modo che le mosche Tze-Tze non trovino più materiale umano su cui infettarsi e quindi trasmettere l’infezione. Ma questa malattia, detta anche Tripanosomiasi, non ha sintomi chiari e definiti: prurito, un po’ di febbre, anemia; la famosa sonnolenza che le ha dato il nome non appare prima degli stadi finali. Bisogna quindi che il massimo di individui, anche chi si sente bene, venga in laboratorio a farsi testare. Abbiamo quindi assunto numerose persone chiamate “Sleeping Sickness Assistants (SSA)”, che vanno in tutti i villaggi a spiegare che cos’è la Sleeping Sickness e a convincere la gente a venire da noi. Risultato, arrivano le folle. Li facciamo sedere su delle panche di fronte al laboratorio, e a ciascuno diamo un fogliettino di carta con data, nome, sesso, età, villaggio, e su cui verrà via via trascritto il risultato delle varie analisi. Vengono fatti entrare per gruppi di dieci, e si siedono su una fila di sedie disposte in diagonale in mezzo al laboratorio. A tutti viene tastato il collo per vedere se hanno dei ganglioni e, se si, gli viene fatto un prelievo di linfa. Mentre la linfa viene esaminata al microscopio, a tutti, ganglioni o no, viene prelevata una goccia di sangue dal dito, e un rapido esame mostra l’eventuale presenza di anticorpi contro la malattia del sonno. Viene poi effettuato un test di conferma della presenza di anticorpi e quindi se realmente positivi vengono cercati i tripanosomi nel sangue con il microscopio a fluorescenza. Sono dei vermetti ripugnanti che si agitano, sembra proprio che ballino la samba, e quando li vediamo abbiamo la certezza che si tratta di Tripanosomiasi. A questo punto è necessario sapere a che stadio della malattia è giunto il paziente: se gli orrendi mostri si limitano a ballare nel sangue o nella linfa, oppure se hanno invaso il sistema nervoso centrale. Gli viene quindi fatta una puntura lombare, cioè un prelievo del liquido che si trova dentro il midollo spinale (da noi fatta dal medico, qui da semplici tecnici). L’atmosfera in laboratorio in fin di mattinata è allora la seguente: fuori, una calca a cui vengono chiesti i dati e che ricevono foglietti bianchi; dentro dieci persone sedute a cui viene palpato il collo, da un lato quelli a cui viene preso il sangue dal dito, dietro gli altri a cui viene fatto un prelievo dalla vena, e di fianco a una porta stanno seduti coloro che aspettano il loro turno per la puntura lombare. A volte urla inumane arrivano dai tre punti in contemporanea; è quando i prelievi vengono fatti a bambini. I decibel vengono inoltre aumentati dalle centrifughe e dagli altri apparecchi, e dalle discussioni tra i tecnici per i turni della pausa pranzo. Può crollare il mondo, ma quando è il loro turno di andare a mangiare, ci vanno.

Più in alto vi ho parlato della necessità di distinguere tra i due stadi della malattia. Infatti, i pazienti al primo stadio vengono curati con due iniezioni al giorno di una medicina chiamata Pentamidina per una settimana; nessun problema, pochi effetti secondari, tutti minori. E alla fine di questa settimana, hop, guariti. Ma se sono giunti al secondo stadio, le cose si complicano. E infatti necessario usare l’Arsobal, un farmaco a base di arsenico. La cura è più lunga, l’Arsobal può essere somministrato solo per via endovenosa, e ha vari effetti collaterali molto gravi: rovina le vene, e a volte provoca convulsioni, coma e morte. C’è una mortalità dovuta al farmaco del 5 -10 %. Ma non abbiamo scelta: la mortalità della tripanosomiasi non curata è del 100 %! Di fatto, un’alternativa all’Arsobal c’è: si tratta della Difluornitina, o DFMO. Purtroppo la casa che lo produce, la Hoechst, ha smesso di fabbricarlo, perché antieconomico, e le nostre scorte saranno presto esaurite. L’OMS ha ora il brevetto del DFMO, ma si aspetta che qualcuno si decida a produrlo. MSF sta prendendo in considerazione l’idea di appaltare un laboratorio farmaceutico per fabbricarlo. Sarebbe ora, in agosto abbiamo avuto sette decessi dovuti al farmaco in una settimana, preceduti da una notte di convulsioni.

A parte queste amenità, la vita qui procede tranquilla. Il mio tukul è finalmente pronto, ma ho dovuto dipingermelo da solo. Domenica scorsa sono venuti ospiti dall’altro progetto di MSF qui vicino, a Kajo-Keji, e ho socializzato tutto imbrattato di pittura. Non si meritavano comunque che io fossi presentabile, perché hanno svuotato tutta la nostra provvista di birra. Ma quella sera ho finalmente dormito in un posto civile, ancora un po’ umido ma molto più asciutto della tenda. Altra novità è il nostro zoo: da quando sono arrivato abbiamo un montone che pascola in giardino; ora abbiamo anche due pecore, un agnellino, delle galline e dei pulcini. Inoltre c’è sempre Silvestro, il nostro gatto bianconero. All’inizio oltre al gatto, c’era solo il montone, comperato con l’intenzione di mangiarlo. Ma Monica ci si è affezionata, lo ha battezzato “Kaproni”, e ci fa gran corride, con lei che gli corre davanti e lui che cerca di incornarla. E curioso, quello è il comportamento che i maschi delle pecore osservano in presenza di un rivale. Comunque abbiamo deciso che Kaproni era infelice tutto solo, e così gli abbiamo procurato compagnia; oltre alle pecore di cui sopra, anche una capra. Ma quei cretini che l’hanno presa hanno lasciato al villaggio il suo capretto, e così quella poveretta ha belato disperata tutta la notte. Per risolvere il problema l’abbiamo mangiata il giorno dopo, prima che Monica ci si affezionasse. Il fegato e i rognoni sono finiti a pezzettini in casseruola, è una delle rare volte che mangiato bene qui, e la carne l’abbiamo fatta sul nostro stupendo barbecue in mattoni. Era buona, ma molto dura. Presto oltre alle grigliate potremo anche fare torte, pane e timballi (si spera): infatti è in costruzione anche un forno, con la volta di mattoni! Vi farò sapere se funziona. Dopo mangiato, le serate vengono passate a discutere, bere (birra e un distillato di banane locale che sa di carbonella), ridere, o litigare. Il bere è un po’ migliorato ultimamente, quando Gianni, il nostro logista ha portato da Arua due bottiglie di Pastis, una di Rum e una di Martini rosso. Io ho fatto quattro cubetti di ghiaccio usando i copritappo delle flebo. Ma siccome qui bevono come spugne, queste baccanali dureranno poco.

Be’ devo smettere perchè qui tutti vogliono sempre usare il computer e mi cacciano via. A presto, e un abbraccio.

DOMENICA 24 SETTEMBRE 2000: MOBILITAZIONE, SCAMPAGNATA E IDROMIELE Altre due settimane dalla mia ultima missiva. Novità di rilievo riguardanti il lavoro non ce ne sono, in laboratorio continuano a esserci le folle. Non sempre l’olezzo è dei più gradevoli, ogni tanto i bambini se la fanno addosso oppure qualche disperato arriva da lontanissimo sporco lercio. Domenica dieci ho fatto una stupenda passeggiata accompagnato da Anna, simpatica infermiera tedesca. Avevamo come meta di raggiungere il fiume indicato sulle cartine disegnate a mano dal personale locale. Ci siamo incamminati su una stradina abbastanza larga, per poi svoltare a destra in un viottolo più stretto con erba alta quanto noi dai due lati del sentiero. Ogni tanto incontravamo delle capre, poi siamo giunti in un piccolo villaggio dove una donna seduta per terra con due bambini puliva granoturco, e erano tutti e tre circondati da un tappeto di pannocchie bianche. Era un’immagine bellissima, ma purtroppo quando ho voluto fotografarli, si sono subito messi in posa con altri cinque bambini sbucati da chissà dove, sorridenti e rigidi sull’attenti. Abbiamo chiesto dov’è il fiume, e un vecchio si è offerto di accompagnarci (tutte queste spiegazioni e offerte sono state possibili perché c’era un giovane che parlava inglese; gli altri parlavano solo kuku). Siamo rapidamente giunti a a qualcosa che era poco più di un ruscello, ma sulle sue rive cresceva una vegetazione lussureggiante, degna dell’Amazzonia. Ho saltato, e un piede mi è finito in acqua. Anna ha esitato un attimo, e tanto è bastato perché il vecchio, senza fare ne ah ne bah, se la caricasse sulle spalle. Abbiamo proseguito, e dopo un pò di tempo siamo giunti alla borgata di Jalimo. Lì c’era una gran festa, un gruppo di persone cantava e saltava brandendo lunghe frasche, mentre in un angolo due gran pentoloni di polenta bianca bollivano sul fuoco, con uomini e donne che li rimenavano con grandi bastoni. Ci siamo informati, e la festa era in onore di un camion che avevano appena ottenuto. Uno di quelli che ballava, probabilmente completamente ubriaco, è venuto verso di me, mi ha detto qualcosa, e si è sdraiato ai miei piedi e ha finto di dormire. Allora mi sono sdraiato di fianco a lui, ho messo le mani giunte sotto la guancia e ho mimato un sonno fumettistico; la cosa ha scatenato una risata generale. Molte risate anche quando ho preso un bastone e mi sono messo a mescolare un pentolone di polenta. Siamo poi tornati, stanchi e Assetati, e quella sera la birra aveva un sapore migliore del solito.

Nei nostri quartieri, la convivenza con animali vari continua allegramente. Un pomeriggio ho provato a portare una bacinella d’acqua a quelle povere pecore da ore sotto il sole, e Kaproni mi si è precipitato contro a testa bassa, col risultato che mi sono rovesciato addosso la bacinella. Tutti hanno riso, mentre io sono dovuto andare a cambiarmi. Quanto alla gallina con i pulcini, si è abituata al fatto che io le butto briciole, e regolarmente ci entra in sala da pranzo. Non tutti apprezzano, e la mandano via tirandole addosso oggetti vari: coooot cot co codaak! Comunque quando esco mi corre incontro con i suoi pulcini, evidentemente mi riconosce. La gallina che è nel recinto, invece, se mi avvicino si butta contro la griglia terrorizzata: evidentemente ha visto quando hanno tirato il collo alle sue colleghe.

Stamattina ne è successa una bella: sveglio da poco, del mio solito umore mattiniero, avevo appena acceso a fatica il fornello a kerosene per mettere su il caffè. Improvvisamente la cuoca ci dice che durante la notte sono passati dei soldati e si sono portati via tutti gli uomini giovani. Così, senza che noi, a pochi metri dagli alloggi del personale, ci accorgessimo di nulla! Mancavano all’appello quasi tutti gli infermieri, autisti, meccanici, muratori, e i miei tecnici di laboratorio. Anne, la coordinatrice, e Gianni, il logista, si sono precipitati a Kajo-Keji per discutere con l’amministrazione locale, tentare di capire la situazione e cercare di ottenere la liberazione di tutto il personale. Adesso che scrivo, vittoria! Eccoli che tornano. Sono tutti in buona salute, dicono di stare bene, ma hanno l’aria un po’ provata. Mi raccontano che sono stati portati via alle tre di notte, fatti dormire all’aperto, ma che non sono stati picchiati. Adesso si tratta di fare capire alle autorità che una cosa simile non dovrà mai più ripetersi, sennò chiudiamo baracca e burattini. In tal caso chi ci rimetterebbe sarebbe la popolazione, ma siamo costretti a fare capire che con noi non si gioca, che l’ospedale non è un centro di reclutamento. Inoltre c’è il rischio che la popolazione stessa che noi siamo di connivenza con l’esercito e che venendo a farsi visitare rischiano di essere presi e essere inviati a combattere contro le forze di Karthoum.

Il quadro della situazione è, semplificato, il seguente: da diciott’anni nel sud del paese c’è una ribellione, nata quando il governo ha introdotto la Sharia o legge islamica, fregandosene che il sud è cristiano-animista. Ora parte del sud, compreso qui dove siamo noi, è abbastanza saldamente in mano ai ribelli, anche se il fronte è a soli quaranta chilometri. Il movimento si chiama SPLA (Sudan People Liberation Army), e il suo governo in esilio è a Nairobi. L’SPLA ha un braccio “umanitario, l’SRRA (Sudan Relief and Rescue Agency), che è la nostra controparte. Controparte assai scassaballe, devo dire: niente e-mail, fax o telefono satellitare; per comunicare ci è permessa solo la radio, e solo in inglese. Comunque qui sono loro i padroni, e quando si passa la frontiera, se dal lato ugandese non c’è nessun controllo, da quello sudanese non ci viene chiesto il passaporto, ma uno speciale permesso fornitoci dall’SRRA. Adesso la tensione aumenta, perché sono giunte voci che Kharthoum sta preparando una grande offensiva, e L’SPLA ha un impellente bisogno di uomini, armi e soldi. Per procurarsi i soldi, tra l’altro, hanno tentato di venderci un container vuoto nel quale avevano ricevuto un carico di armi, e si sono arrabbiati quando il logista si è rifiutato di alzarsi alle sette del mattino di domenica per andarlo a vedere. Con tutto ciò c’è sempre il pericolo che gli “Antonov” di Karthoum ci vengano a bombardare, e per quel motivo abbiamo costruito un rifugio. Per ora ci tengo dell’idromele a fermentare (acqua, miele, lievito: tappate bene e tenete al fresco alcuni giorni, otterrete un’ottima bevanda frizzante leggermente alcoolicca). Non preoccupatevi per me, al minimo segno di pericolo evacuiamo nella vicinissima Uganda, e gli Antonov a elica si sentono da lontano.



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