Pianosa, l’isola ai confini dell’uomo
Quando arrivi la prima cosa che noti è un muro di cemento armato che corre sul suo profilo, quindi scordati di sentirti accolto: sei un ospite mal tollerato, stai in silenzio e non disturbare, perché qui c’è passato il dolore del mondo.
Eppure proprio per questo conserva una bellezza assoluta, scorticante, non solo nel mare di cristallo, nelle rocce antiche, nel profumo del rosmarino selvatico e delle piante di fico, che in ottobre porta con sé la nostalgia dell’estate appena trascorsa, ma nelle tracce dell’umanità perduta che l’ha abitata.
Un’isola sopravvissuta alle scorrerie violente dei pirati turchi, alle torture delle guardie carcerarie, alla sofferenza dei malati di tbc, alle anime nere dei terroristi e dei mafiosi, e che per questo ci racconta anche come il male nel tempo abbia sviluppato tentacoli dalle forme diversissime fra loro.
E’ uno scrigno segreto e prezioso di storie, dallo sventurato Agrippa Postumo, esiliato nell’isola da adolescente, che saltava sugli scogli con un tridente d’oro credendosi Nettuno, ai tentativi fantasiosi di evasione con canotti ordinati su Postalmarket, dal traffico di prostitute camuffate da mogli addolorate all’omicidio del direttore del 1974 da parte di un detenuto, per motivi passionali, si mormora.
E’ anche un luogo di conforto, che qualche mente illuminata ha coltivato in passato, come il direttore del penitenziario che volle creare un porto dagli edifici merlati e armoniosi per accogliere i condannati, o come chi volle farne, alla fine del 1800, un carcere-sanatorio, per strappare alla derelizione delle carceri normali, umide e funeste, i tubercolosi, nell’idea del tempo errata che il clima dell’isola potesse essere benefica.
E di chi ha pensato e creduto che il lavoro nei campi, o nella costruzione di mura – per lo più inutili – restituisse dignità e significato all’esistenza.
Ancora oggi ci sono i detenuti, ergastolani in regime di libertà vigilata, che lavorano nella cooperativa che gestisce l’unico albergo e il bar, e che in questa bellezza, chissà, forse illuminano il loro personale buio dell’anima. Oppure questa luce lo risalta? Bisognerebbe essere sicuri del potere curativo dell’incanto di questa natura potente, ma forse aveva ragione Leopardi che ne aveva intuito il potere distruttivo.
Il piccolo gruppo di case intorno al porto è in stato di abbandono, a parte qualche edificio restaurato come l’unico albergo e la casa rosa scuro della mostra fotografica che era sede delle poste, il bar e la sede del Parco Nazionale dell’Arcipelago.
Il resto, dove vivevano le famiglie delle guardie carcerarie e dei detenuti è eroso dal vento e dalla salsedine, che scolorisce e rende tutto così fragile e commovente. Il silenzio ha un che di sacro, inviolabile. Ad un tratto spunta un giallo nuovo di zecca, sorprendente.
Tutto sembra avere un significato, una compiutezza ineluttabile. Ha senso anche il fatto che, se non fosse stata un carcere, quindi luogo di privazione, tutto sarebbe stato cancellato, uniformato, confezionato ad uso e consumo di chi si sente impunito, e quindi distrutto.
Il dolore, la miseria, l’orrore umano hanno protetto e non hanno corrotto.
Pianosa è un’isola dostoevskijana. E’ una dimensione, un abisso, un cielo sconfinato.
E’ la bellezza che interroga e non assolve, come un bravo maestro.
Guardatela, e non sarete più gli stessi.