La traversata del Fezzan
Sono in viaggio da ormai venti ore, eppure non sono molto lontano da casa… Il bus sfreccia sulla strada per Germa, domani inizieremo un viaggio affascinante che ci condurrà attraverso i paesaggi lunari dell’Akakus, i panorami selvaggi ed incontaminati dei deserti di Wan Kaza e Murzuq e gli incantevoli laghi fra le dune di Ubari.
28/12/2004 La guida che ci accoglie la mattina mi lascia stupito: è Barka un tuaregh che studia a Siena e tutti gli autisti del nostro convoglio sono del suo villaggio. Ho letto che trascorrere qualche giorno nel deserto in compagnia dei tuaregh può rivelarsi un’esperienza stupenda ed indimenticabile, ora potrò sperimentarlo di persona.
Le cinque Toyota 4×4 prendono la strada e lasciano Germa l’antica capitale dei Garamanti, popolo fiero e misterioso che nessuno riuscì mai a sottomettere. Tennero lontani dal Sahara anche i Romani e per questo nelle antiche mappe dell’Africa, oltre la costa, appariva solo la scritta “hic sunt leones”. Ubari, dove facciamo sosta per ritirare i passaporti con la convalida del visto, è famosa per la sua moschea tuaregh, risalente ai primi dell’XIX sec. e per una cruenta battaglia di cui fu teatro nel 1914, all’inizio della colonizzazione italiana. A Ubari reclamiamo anche noi lo shèsh (o taguelmoust) quindi invadiamo la bottega di un sarto che con estrema calma ci fornisce metri e metri di stoffa per il nostro copricapo. Chi è già stato in Africa sa che il turbante tuaregh è estremamente pratico e utile contro il freddo e la polvere; ma secondo la tradizione degli “uomini blu” dovrebbe servire anche ad evitare che gli spiriti maligni si introducano nel cuore attraverso il naso o la bocca.
Ahmud, il nostro cuoco, ci aspetta per un primo pranzo fra le dune, alcune piccole gobbe fra la strada che conduce a Ghat e l’altipiano del Messak Settafet, massiccio di arenaria lungo 300 chilometri. Verdure e tonno, un formaggio molto buono che sembra yogurt, acqua e succo di frutta sono il nostro primo pasto che ci fa sentire più vicini agli abitanti del deserto. Poi segue la prima passeggiata sulle dune rapiti dal silenzio e dal nulla che ci circonda.
Riprendiamo il viaggio, la strada prosegue rettilinea e a rompere la monotonia del viaggio ci sono solo le automobili che lampeggiano a salutare chi viaggia in senso opposto. Prima del tramonto compare alla nostra destra il profilo inquietante del Djebel Idinen, la montagna degli spiriti, un massiccio isolato appartenete morfologicamente all’Akakus, che secondo le leggende tuareg sarebbe abitato da spiriti e demoni. La leggenda è dovuta ai terribili schianti prodotti dalla rottura di grandi masse di roccia che rotolano a valle giorno e notte; rumori che sembrano appartenere al mondo degli uomini e invece provengono da quello geologico e minerale. Mi colpiscono gli enormi monoliti che si innalzano a strapiombo sulla scarpata: il tutto dà un senso di potenza e l’aspetto di una fortezza inespugnabile. La giornata di sole che sta per finire si porta con sé un vento fastidioso che costringe Barka a cercare un posto riparato per la notte. Ci accampiamo così ai piedi della montagna degli spiriti, nel letto di uno uadi a sud-ovest del massiccio.
E’ la prima notte di campo, con la temperatura che scende all’improvviso appena il sole tramonta, fortunatamente sono attrezzato con maglioni e giacca a vento. Poi il buio ricopre ogni cosa e il cielo si accende di stelle; è uno spettacolo incredibile che ho già visto in passato ma che ogni volta mi lascia stupefatto. E mentre Ahmud serve un ottimo couscous, Barka e gli autisti sono già attorno al fuoco: cantano “Ténéré, Ténéré” , una litania infinita accompagnata dal ritmo delle dita su una tanica vuota, l’omaggio dei figli del deserto alla loro terra.
29/12/2004 Abbiamo lasciato gli autisti e la guida a smontare il campo, io e il resto della comitiva camminiamo ai bordi della strada per Ghat. Incominciamo a conoscerci meglio e ad instaurare quell’intesa che ci farà trascorrere una settimana magnifica. Con il gruppo c’è Sat, l’agente della polizia turistica che ci segue dal primo giorno e che non ci lascerà mai per scongiurare ogni possibile pericolo. La strada si snoda nell’uadi Tanezzouft, incassato fra le falesie del massiccio dell’Akakus, una vasta zona pianeggiante considerata il pascolo di Ghat, in cui vivono molti tuareg che allevano le loro mandrie di cammelli, capre e pecore. La rara vegetazione è costituita da cespugli isolati di tamerici e da acacie spinose. Un camionista ci offre un passaggio, chissà ha pensato che siamo rimasti a piedi. Ma ecco le macchine, accostano e ci fanno salire. Arriviamo a Ghat in una giornata di festa: domani inizierà la 10^ edizione del Festival delle arti e tradizioni popolari che vede il suo culmine nel “iloudjan foull imnas”, un carosello di cammelli, durante il quale i tuaregh sfilano sulle loro selle, fieri e sontuosamente velati. In città c’è un via vai di turisti e di abitanti. Visitiamo la città vecchia, l’unica abitata in modo stabile e tradizionale dai Tuaregh che ne hanno fatto un importante centro di scambi di merci e di schiavi. I numerosi abitanti di colore, testimoniano ancora oggi, la presenza di schiavi al servizio dei padroni velati. La medina è un dedalo di viuzze strette e tortuose in cui si affacciano case costruite con mattoni cotti al sole e legati con il fango. In cima ad un viottolo a gradini si apre la piazza del sole, il Tafouk Abarach, le cui gradinate sono disseminate di macinatoi in cui le donne pestavano i noccioli dei datteri. Barka ci fa tornare indietro e in un cortile assistiamo ai preparativi per un matrimonio, fra i colori dei drappi di stoffa che ornano le pareti ed i rituali delle donne per portare la buona fortuna alla sposa. Per il resto il suk è quasi completamente disabitato; animano le viuzze solo poche famiglie e le botteghe dei gioiellieri. Ci dirigiamo verso la storica fortezza che sovrasta la città dalla sommità del monte Koukemen. Saliamo fino alle mura e scopiamo una meravigliosa vista sui sobborghi, sui palmeti e sui picchi dell’Akakus. Il minareto in stile sudanese di una delle tre moschee conferisce alla città vecchia un aspetto suggestivo. All’orizzonte ci fanno notare il posto di frontiera con l’Algeria e il nero profilo dei monti Tassili. Adesso possiamo andare al mercato: per almeno quattro giorni non vedremo che sabbia e questa è l’ultima occasione per rifornirci dei beni di “conforto” da cui noi non sappiamo mai privarci; così ci riempiamo di merendine, biscotti e bottiglie di acqua. Non ci scappano nemmeno i polli allo spiedo di una rosticceria del centro e un ultimo caffè espresso… siamo incorreggibili.
Per il pranzo siamo sistemati nel letto sabbioso dello uadi Tanezzouft; ma che fanno gli autisti… si insabbiano. Ma ho capito: è un pretesto per farci divertire un po’ a spingerli, ci scommetto. Riprendiamo il viaggio e presto la strada asfaltata finisce: alcuni posti di blocco annunciano la fine del nostro mondo e l’inizio del deserto silenzioso e con le sue rocce ardite, il suo infinito di dune sabbiose, i suoi religiosi silenzi. La pista segue lo uadi Ayadhar, un canyon tra muraglie imponenti di rocce che sembrano indicare la strada fra passaggi sabbiosi dove, non si sa come, sopravvivono cespugli di calotropo (in itamashek torha) e piante con piccole zucche rotonde dette alkhad (caloquintida o pomo amaro). Sovrasta tutte le falesie il picco dell’Ayadhar, che con i suoi 1480 m è la vetta più elevata dell’Akakus. Ma ecco che lo uadi si allarga, si apre e le dune dell’erg Takharkhori invadono la nostra strada: gli autisti iniziano un carosello fra le dune, lanciano i loro mezzi in impressionanti scalate per poi abbandonarsi nelle rapide discese. Il paesaggio che ci circonda è assolutamente favoloso: sabbia e sabbia e sabbia contornata da formazioni rocciose modellate nei modi più strani. E’ qui che passeremo la seconda notte, sotto una duna dalla cui sommità l’orizzonte spazia fino al Tassili algerino a cui il tramonto fa assumere i colori più caldi che vanno dall’arancio al rosso.
La sera attorno al fuoco si consuma il rito tuaregh del tè ovvero il chai. Le foglioline sono fatte bollire tre volte per ottenere tè di concentrazione sempre minore. Preparato il primo tè “amaro come la morte”, viene aggiunta acqua alle foglie che hanno già dato, altro zucchero e solo un pizzico di nuovo tè rimescolando la bevanda fra una teiera a l’altra. Si ottiene il secondo tè, “forte come la vita”. Poi ancora acqua, zucchero e menta ed ecco l’ultimo tè, “dolce come l’amore”. 30/12/2004 La magia dei colori del tramonto si ripete all’alba: il sole a poco a poco scala la duna ad oriente ed invade quello che per una notte è stata la nostra casa. Con altri del gruppo siamo già pronti a partire ed imbocchiamo a piedi un passaggio fra le dune tenendo la nostra sinistra, come ci ha indicato Barka. Due corvi danzano su una duna mentre il letto di sabbia è cosparso di impronte di animali, segno che non siamo soli in questo deserto, ma che i nostri coinquilini sono estremamente riservati e non si fanno vedere. Ad ogni duna una scoperta nuova, un paesaggio che cambia e ci lascia disorientati ad osservare. Riprendiamo la pista sui nostri fuoristrada e giungiamo alla spaccatura dello uadi Atunek, dove sostiamo al posto di polizia. Risaliamo poi una grande duna: che sia la famosa duna del non ritorno? Sicuramente il passaggio non è facile e gli autisti più arditi vi si tuffano. Ai passaggi più delicati il convoglio si ferma ad spetta quelli rimasti indietro, ne approfittiamo per scattare centinaia di fotografie. Scendiamo nello Uadi Afaar e incontriamo altri fuoristrada ed altri turisti. Una carovana di cammelli trasporta i bagagli di un gruppo di francesi in trekking. Ad un tratto ci compare davanti l’arco di Fozzigiaren: maestoso, impressionante. Si stenta a credere che sia stato creato per caso dall’erosione dell’acqua e del vento: sembra scolpito da abili scalpellini e disegnato da un bravo ingegnere. Sostiamo ad ammirare meglio questa roccia e Barka, che oggi ha indossato una gandura ed uno shech color indaco, si fa fotografare con una caratteristica tabouka, la spada tuaregh. Riprendiamo la nostra via ed imbocchiamo lo uadi Teshuinat, un vallone meraviglioso, ramo fluviale principale dell’Akakus. L’alternarsi della sabbia rossa e delle rocce nere genera scenari stupefacenti, con combinazioni policrome che sembrano irreali. Lingue di sabbia che si insinuano nei crepacci scuri delle rocce, cumuli di sabbia appoggiati per miracolo alle pareti scoscese delle dorsali rocciose, pinnacoli di pietre nere che spuntano dalle sabbie, quasi ne fossero sputati.
Ci fermiamo a vedere i primi graffiti: queste rocce sono vere e proprie “tele” dove gli uomini di migliaia di anni fa hanno scolpito e dipinto il loro mondo ancora verde e fertile. Gli studiosi dividono le pitture rupestri dell’Akakus in diverse epoche. Nel periodo della Grande Fauna o Bubalino (10.000-7.000 a.C.) l’uomo appare raramente e i graffiti sono eseguiti con stile naturalistico e segno profondo; nel periodo delle Teste Rotonde (6.500 a.C.) si assiste alla fioritura di un’arte pittorica, spettacolare per temi ed esecuzione, caratterizzata dalla presenza di figurazioni antropomorfe, con teste tondeggianti prive di ogni carattere somatico del volto. La terza fase(6.000-4.000 a.C) è quella detta Pastorale o Bovidiana con scene di vita quotidiana e pastorale accurate e piene di dettagli, segue la fase del Cavallo o delle Teste a Bastoncino (3.500 a.C.), per finire col periodo del Camelino con pitture di stile più rozzo e scritte in tifinagh, l’alfabeto tuaregh che pochissime persone riescono ancora a decifrare.
Visitiamo la grotta di Tanshalt, con le figure a testa rotonda e numerosi siti di cui è ricco lo uadi Teshuinat. Dopo il pranzo raggiungiamo l’arco di Tin Ghalega, con la caratteristica forma a zampa di elefante, e raggiungiamo lo Uan Amil (o Mullul, in tamashek termite) con le sue figure che mettono in evidenza i profili e le acconciature dei personaggi oltre che a giraffe e personaggi in guerra. Concludiamo la giornata con una sosta a Tin Tararit con un bel elefante che sembra correre sulla parte rocciosa.
Ripercorriamo quindi la pista a ritroso e raggiungiamo il pozzo Inn Hannia, crocevia delle piste verso Serdeles, Anai e l’erg di Wan Kaza, verso cui ci dirigiamo.
Ci accampiamo sulle dune dell’erg e ci raduniamo attorno al fuoco. Questa sera i nostri autisti tuaregh preparano il taajeelah, il famoso pane che viene ricoperto di sabbia e cotto sotto la brace. Seguiamo con attenzione le fasi della preparazione ma, quando il pane dovrebbe essere cotto, sparisce misteriosamente: forse le nostre guide hanno sbagliato qualcosa! 31/12/2004 Partiamo e il paesaggio ancora si trasforma, dune e sabbia diventano sempre più rare, fino a lasciare il posto a una vasta spianata di rocce nere e frequenti gruppi di acacie spinose. Improvvisamente incrociamo la strada di una cisterna d’acqua che porta rifornimento ai pozzi petroliferi dell’altipiano. Anche noi abbiamo bisogno di acqua così facciamo rifornimento e gli autisti ne approfittano per gonfiare i pneumatici. Dopo due ore giungiamo alle porte del passo di Abahoa, annunciato da due imponenti torrioni ai lati della pista. E’ qui che sostiamo per il pranzo. La torre che ci sta a fianco è un insieme di strati di roccia dai colori più diversi dal giallo ocra al rosso intenso. Prendiamo anche un campione di sabbia rossa, molto sottile. Poi sentiamo le macchine che sgommano e si allontanano in tutta fretta: una bombola del gas di Ahmud ha preso fuoco… Fortunatamente non ci sono spiacevoli conseguenze e dopo pochi minuti il nostro cuoco ci serve un ottimo pranzo. Come al solito non perdiamo tempo e ci rimettiamo in marcia: attraversato il passo inizia la desolazione dell’Hamada di Murzuq, costellata di rocce e decine di splendidi tronchi fossili. Attraversiamo alcuni uadi che si gettano nel Messak; sostiamo a vedere ancora dei graffiti, alcuni bovidi e un elefante in un sito solitario riparato da alcune acacie. Se ho scritto bene dovrebbe essere il sito di Inekhamud nello uadi In Aramas. Pochi chilometri e compaiono davanti a noi le dune dell’erg di Murzuq. L’Erg occupa il fondo di una ampia conca vagamente ellittica estesa per oltre 60.000 kmq e delimitata dal bordo roccioso del grande altopiano del Messak e dalla serie dei massicci montuosi del djebel Ati, del Djebel Ben Ghenema e del Djebel Harroij. Il geologo italiano Desio fu il primo uomo ad effettuare una ricognizione aerea del luogo, seguito poi dai francesi che nel 1944 inviarono una missione scientifica sotto l’egida dell’Istituto di Ricerche Sahariane. L’Erg di Murzuq non è il più esteso del Sahara ma è uno dei più compatti e soprattutto più aridi. I gassi (corridoi) tra una duna e l’altra, furono in epoche antiche delle immense lagune; a testimonianza di ciò si possono notare ancora oggi diverse linee di depositi sui fianchi. Le maestose dune di sabbia si susseguo a perdita d’occhio, alte 100-200 metri, di color giallo-arancio, ondulate e modellate dal vento assumono forme grafiche complesse e armoniose, a mezzaluna, a spada, a catene di gobbe, a cupola o a piramidi protese verso il cielo. Il bivacco tra le dune di Murzuq, che ci ospiterà per accogliere il nuovo anno, è un’esperienza unica: dal mare di sabbia provengono soffi e rombi, rumori del vento fra i cordoni, della sabbia in movimento. I Tuaregh raccontano di una città sepolta nel cuore dell’erg, forse l’Atlantide, ed associano i rumori agli spiriti dei suoi antichi abitanti. 01/01/2005 Dodicimila anni fa la conca occupata dalle dune del Murzuq era verde e i torrenti che scendevano dal Messak formavano dei bacini abitati. Le popolazioni si recavano sul Messak per le battute di caccia e, più tardi, per condurre le mandrie al pascolo ed in queste occasioni scolpirono le rocce. Lo uadi Mathendush è il punto di riferimento dell’arte rupestre sahariana: anticamente era un corso d’acqua lungo il quale abbondavano insediamenti umani. Sulle pareti rocciose che delimitano il suo percorso, lungo circa 12 chilometri, è facile trovare graffiti, raffiguranti giraffe, coccodrilli, struzzi, rinoceronti, elefanti, antilopi. Iniziamo il nuovo anno con una immersione nell’universo reale e mitologico di migliaia di anni or sono. Visitiamo per primo il sito di In Galghien, che in tamashek significa la pozza dei corvi; ci colpisce la grandiosità e l’efficacia con cui sono riprodotte le scene di caccia all’elefante: tecniche venatorie, ancora oggi utilizzate dai pigmei, si alternano a rappresentazioni di struzzi e di giraffe, oltre a un ippopotamo che ci induce ad immaginare un ambiente ricco di acqua e di vegetazione. In questo sito sono facilmente distinguibili anche i caratteri alfabetici tifinhag. Di epoca molto più recente si riferiscono a stadi antichi della lingua tuaregh; nella maggior parte dei casi si tratta di frasi estremamente semplici, che si trovano in corrispondenza dei punti di sosta delle carovane. Ci spostiamo quindi a Mathendush; i cinquanta metri della falesia dello uadi costituiscono lo scenario di uno spettacolare museo a cielo aperto. Questa sorta di santuario è dominato dalle figure di due animali immaginari, i Gatti Mammoni, che si fronteggiano eretti sulle zampe posteriori. La posizione aggressiva degli arti anteriori contrasta con i movimenti felini delle due figure, che si ergono in una specie di danza rituale; tra i due spiccano le incisioni di quattro piccoli struzzi. Sotto le due bizzarre figure si dispiegano altre opere di grande interesse artistico. Una giraffa con zampe poderose e collo forte è fronteggiata dal disegno di due cerchi, quello inferiore è formato da due cerchi concentrici raccordati da nove linee: basandosi sulle tecniche di caccia ancora utilizzate dalle popolazioni del Sudan meridionale, i ricercatori pensano che queste forme geometriche rappresentino una sorta di trappola per imprigionare l’animale. Questo, trattenuto da una pesante pietra, diveniva così più vulnerabile e gli uomini potevano facilmente attaccarlo con lance e pugnali. Probabilmente questa rappresentazione aveva la funzione di istruire i giovani e iniziarli alle tecniche della caccia. Più in là un possente coccodrillo preda un erbivoro, mentre, al suo fianco, si staglia un grande rettile, probabilmente un varano d’acqua. A Mathendush facciamo anche l’incontro con una graziosa rondine del deserto (in realtà è una Monachella Testabianca, Oenanthe leucopyga) dalla caratteristica testolina bianca: porta fortuna a chi la vede, dice Barka.
Lasciamo lo uadi, ci dirigiamo verso nord e proseguiamo su un veloce reg lungo l’altopiano del Messak Settafet, è una corsa nel vuoto a 360° dove nulla interrompe la linea dell’orizzonte. Poi si torna alla civiltà: ad una trentina di chilometri da Germa inizia la strada asfaltata che prima corre sull’hamada, poi è tagliata artificialmente nella roccia e scende fino alla pianura sottostante. Germa ci appare prima del tramonto e sostiamo per un breve rifornimento. Seguiamo la strada asfaltata per pochi chilometri e poi ci rituffiamo nel mare di sabbia dell’erg di Ubari.
L’ultimo campo sarà tra queste dune: le tende disposte in cerchio attorno al fuoco; sarà l’ultima notte con i nostri amici tuaregh, l’ultimo momento magico a cantare intorno al falò, ad ascoltare le leggende del deserto ad imparare i giochi fatti di niente, di segni fatti con le dita sulla sabbia. 02/01/2005 Dopo la solita splendida colazione iniziamo l’ultima galoppata nel mare di dune dell’Erg di Ubari. Siamo nella zona conosciuta come la Ramla dei Douada, una popolazione paleonegritica che per secoli visse riparata ed isolata in una delle regioni più inospitali del mondo, conducendo una vita povera ma indipendente, libera da ogni soggezione. I douada erano conosciuti come i “mangiatori di vermi”; si nutrivano infatti di datteri e di piccoli crostacei chiamati Arthemia Salina, una specie di plancton lacustre, molto abbondante sulle superficie delle acque dei famosi laghi Mandara, Um el ma, Mahfu, e Gabron che saranno le nostre tappe. Geologi e biologi si sono spesso interrogati sulla misteriosa presenza di questi laghi e ritengono che si tratti probabilmente di acqua sotterranea proveniente dai monti del Tassili algerino, oppure, secondo un’ulteriore ipotesi, che questi laghi rappresentino la testimonianza di un tempo in cui, settemila anni or sono, il Sahara era un mare e l’Arthemia un plancton marino preistorico.
A mano a mano che ci si avvicina alla zona dei laghi, il paesaggio si trasforma. La sabbia non regna più incontrastata, la chioma di qualche palma comincia a fare capolino fra le dune e i cespugli verdi sono sempre più frequenti. Quando spunta il primo lago, il Mandara, ci rendiamo conto che è quasi completamene asciutto, le pozze d’acqua sono rare con il fondo bianco per l’alta concentrazione di sale. Il lago non è direttamente addossato alla duna, ma occupa una depressione ben marcata. Ai piedi della duna degrada una scarpata dove si trovano ancora gli antichi giardini, il palmeto e le misere zeriba del villaggio abbandonato. Pochi minuti e raggiungiamo il lago Um el Ma che significa “madre dell’acqua”, probabilmente il più bello, piccolo e completamente circondato da palme e canneti, azzurro come uno splendido zaffiro, incastonato nell’oro delle dune che lo circondano. Contrariamente agli altri, l’acqua è sempre fresca e buona da bere e ne sono prova le rive disseminate di carcasse di pompe elettriche usate per il fabbisogno agricolo e umano. Per la prima volta dall’inizio di questo viaggio incontriamo dei venditori di prodotti di artigianato locale: monili d’argento, la caratteristica Croce di Agadez, un ornamento tuareg in argento a forma di croce con decorazioni in filigrana e piccoli pugnali dal manico di cuoio. Acquisto un grigri porta fortuna e un pugnale con la guaina di pelle di serpente. Non resistiamo ai colori del luogo e scattiamo belle foto di gruppo. La prossima tappa è il lago Mahfu, azzurrissimo, ma ci dicono che le sue acque hanno la caratteristica di cambiare colore a seconda delle ore del giorno.
Proseguiamo verso il lago di Gabron, a soli 3 km di distanza. E’ il lago più grande bordato da giunchi e palme con una grande duna a ridosso. Sulle rive del lago sorge il vecchio villaggio abbandonato; gli abitanti sono stati trasferiti negli anni ’80 in nuovi insediamenti costruiti dal governo nella valle dell’Ayal. Accanto al paese in rovina, vi sono le zeriba di un campeggio, con annesso un punto di ristoro: qualcuno sta sciando sulle pendici dell’alta catena di dune che circonda il gasso; quando la temperatura esterna lo consente, è bello fare un tuffo nelle acque salate del lago, risciacquandosi poi nel vicino pozzo.
Facciamo un ultimo allegro picnic a base di tonno e verdure e ci concediamo un po’ di riposo al sole; non manco nemmeno un piccolo giro del villaggio abbandonato con la moschea ancora in ordine ed utilizzata. Barka ci dice che in alcuni periodi dell’anno non è difficile incontrare le donne douada praticare la pesca per il piacere di disporre di un piatto tradizionale da assaporare in occasione di ricorrenze e festività (si mormora dal potere afrodisiaco). L’attraversata delle dune dell’erg di Ubari in direzione di Sebha sono gli ultimi momenti di questo viaggio nel deserto, non certo i meno avventurosi. La nostra Toyota si insabbia più volte e noi siamo costretti a scendere e liberarla dalla sabbia. Quando arriviamo in città non abbiamo tempo per visitarla. Usciamo dal ristorante dove siamo per la cena, solo per cercare alcuni cd di musica locale. Sebha è la capitale della regione del Fezzan e ci appare come è una città moderna ricca di negozi e locali. Vorrei avere più tempo per conoscerla ma con il ritorno in città siamo anche ritornati ai ritmi serrati del viaggio. L’aereo per Tripoli ci aspetta: il deserto con il suo grande mistero, i suoi infiniti spazzi ed i suoi tempi dilatati è già lontano.
Il diario e le foto sono pubblicati sul mio sito: www.Imieiviaggi.135.It