Burkina Faso, la terra degli uomini integri

Viaggio nella terra del popolo burkinabe, un'esperienza di volontariato a cui ho aggiunto una settimana di viaggio in solitaria zaino in spalla
burkina faso, la terra degli uomini integri
Partenza il: 07/08/2015
Ritorno il: 24/08/2015
Viaggiatori: 1
Spesa: 1000 €
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Viaggio nella terra del popolo burkinabe, un’esperienza di volontariato con l’associazione Watinoma a cui ho aggiunto una settimana di viaggio in solitaria zaino in spalla

Burkina – giorno #1

La giornata è iniziata con l’incontro con Ahamed, un ragazzo ghanese che mi ha soccorso mentre approcciavo per la prima volta le strade chiassose e terrose di Waga, piene zeppe di motorini fino all’inverosimile. Fortunatamente in Ghana si parla inglese così mi ha aiutato ad avere una sim burkina con tanto di taglio della SIM per ottenere una microsim, geni!! Poi mi ha ficcato in una macchina di passaggio per portarmi in centro ma con lo stentatissimo francese sono riuscito a farmi portare alla stazione Staf, dove partono i bus per Bani. Biglietti presi, mi son ributtato sulle strade afose della capitale. Beh capitale…diciamo un agglomerato senza senso di strade, ripiene di motorini. Tutti mi chiamano Babou, in dialetto locale “bianco”. Ho incontrato un ragazzo al mercato che, mi pare di aver capito, lavora con gli handicappati… boh non ne sono certo. Anche lui mi ha scarrozzato in giro, promettendo di venire a Koubri a trovarmi. Comunque il mio francese è infimo, mi perdo un sacco di storie…potevo studiarlo. Tornando a noi, sono capitato per caso nel giardino del municipio e c’era una grande festa. Non è dato sapersi il motivo ma le donne erano vestite di colori sgargianti, tessuti bellissimi e copricapo abbinati. Hanno una bellezza intrinseca e uno sguardo pieno di vita. Dopo aver girovagato un paio di ore rieccomi in stazione ed ecco Clement, un ragazzo mossi che va a Dori, sul mio stesso bus. E iniziamo a parlare, cioè lui parla e io ascolto e ribatto con quelle quattro parole francesi che conosco “domain je ve a travaller a Koubri” lui ride e dice che parlo bene francese. Me ne convinco e siamo seduti a fianco sul bus. Mi compra dei dolcetti, voglio pagare ma mi stoppa. Sono l’unico “Babou” sul bus, tutti neri neri, mi sento così bene nella mia diversità…mi sembra gente buona, gentile d’animo. E tutti così giovani, ho incontrato pochissimi adulti…il futuro di questo paese è in mano a loro, un futuro difficile da scrivere, un paese senza sbocchi sul mare e con pochissime risorse. Stiamo passando per villaggi sperduti, il verde brillante della vegetazione fa contrasto con il rosso della terra, le case sono costruite con mattoni di terra, sembrano dei piccoli accampamenti perché ogni nucleo è cinto da un muro esterno… credo ad ogni nucleo corrisponda una famiglia. L’unico momento che altera la giornata degli abitanti è il passaggio del bus, le donne – o meglio le ragazze – cariche di vettovaglie che sorreggono sulla testa grazie a drappi arrotolati, accorrono ai finestrini per vendere cipolle, dolcetti, arachidi, mele. I ragazzi col banchetto della carne, espongono i proprio prodotti armati di machete per tagliare il “boccon buono”. Ci fermiamo – ad un tratto – nel nulla della brousse. I musulmani stendono il tappeto e iniziano a pregare. I cristiani fanno pipì mentre attendono i fratelli in preghiera. C’est l’Afrique. Io mi godo lo spettacolo e scatto qualche foto ai baobab e il cielo azzurro con tante nuvole bianche. Stiamo cambiando zona, ci muoviamo verso il Sahel e cambiano le facce. Sul bus son saliti due uomini bellissimi col viso avvolto in un turbante. Forse sono tuareg o pella. Scendo a Bani, il villaggio è di etnia peul e parlano una lingua che si chiama fulfulde. È un tuffo in un passato remoto, trovo l’Auberge Le Nomade… mi ero scritto qualche mail con Eva, una ragazza olandese che gestisce questo posto con il compagno burkinabe Noum. Mi accolgono una selva di bambini, tanti tantissimi. Sono felici, direi allibiti di vedere un bianco. Mi prendono per mano e mi tirano, vogliono una foto. L’Auberge si compone di una serie di capanne di terra con tetto a cono di canne. È molto spartano, ma accogliente. Non c’è luce, non c’è acqua corrente, il bagno è una latrina e ci si lava col secchio. Bani è diventata famosa – per modo di dire – perché qualche decennio fa un uomo si è dichiarato profeta, affermando di aver raggiunto La Mecca a piedi in soli tre giorni. Hanno iniziato a venerarlo e il profeta ha convinto la gente del villaggio a costruire una grande moschea al centro del villaggio e sei piccole moschee sulla collina che lo circonda. La cosa eclatante è che il profeta eretico fece costruire tutte le sei moschee della collina non rivolte verso la Mecca bensì rivolte verso la grande moschea, ove lui risiedeva. Egocentrico questo profeta! A parte la storia, il luogo è carico di misticismo. Arrivo alla grande Moschea proprio mentre il villaggio si raduna in preghiera. E osservò in silenzio. Il sole cala, hanno spento l’interruttore. In mezz’ora è buio e girovago per il villaggio. Il bello è che mi sento protetto, sono ospite e qui questa parola ha grande valore. Stanotte il cielo è immenso, bevo una birra Brakina con Noum e mi godo lo spettacolo. Bonne nuit

Burkina – giorno #2

La vita inizia presto a Bani. In un villaggio che segue il ritmo del sole non può essere altrimenti. Mi sveglio con il belato delle capre. Non so se ci sono più capre o bambini, o bambini che tirano capre. Noum è di ottimo umore, ci sediamo nel cortile di casa dove le sue sorelle sono già affaccendate, una lava le stoviglie e l’altra ripone il pesce cotto ieri sera in grosse pentole storte. Caffè e omelette. Insegno un po’ di inglese a Noum, è felice perché stasera arrivano altri due turisti francesi. Da quando in Mali la situazione è precipitata, qui non viene più nessuno. Su tutti i siti europei di sicurezza, è sconsigliato inoltrarsi verso il Sahel. Peccato per chi non viene! Noum mi porta alla grande moschea. Il cielo promette tempesta, ma si rivelerà solo una breve sciacquata. Davanti alla moschea sono radunati alcuni vecchi, forse gli unici del paese. Credo ormai di essere famoso, tutti mi salutano e i bambini cantano canzoni per me e vogliono che li fotografi per poi vedersi nello schermo. Sensazione strana per loro – immagino. Mi racconta che gli imam sono ora quattro, il profeta eretico è ancora in vita, ha 83 anni ma non si fa vedere. Che personaggio, pagherei per conoscerlo! La moschea è un gioiello, la facciata è istoriata, forme umane e geometrie che chissà cosa vogliono raccontare. Dentro troviamo pelli di capre, chiedo a cosa servano e N. mi dice che sono per pregare…al posto dei tappeti. Gli animali sono la vita, tutti possiedono capre e i più benestanti vitelli e mucche di una magrezza estrema. N. mi porta a conoscere la famiglia di uno degli imam, i bambini che fino ad allora ci seguivano, si fermano. Capisco di essere privilegiato a poter entrare. E quante donne in questa famiglia, che meraviglia!!! Sono tante, belle, con la pelle d’ebano liscissima. Le loro case sono radunate in un recinto di vicoletti, un dedalo. Sono affaccendate ma si fermano per salutarmi e mostrarmi il loro lavoro. Stanno cucinando il tô, una polenta di miglio base della alimentazione burkinabe, con una salsa fatta di foglie di baobab. Assaggio, strana…molto vegetale! Conosco la nonna, un’arzilla vecchietta che mi racconta nella sua lingua incomprensibile cose che solo posso immaginare. Mima il gesto di una pistola, credo mi dica qualcosa sul marito. Uomini in età adulta sono pochi, l’unico lavoro della zona è quello di minatore nelle miniere d’oro. Sono tutti al lavoro ora. Leggo sulla mia guida che stanno crescendo le ricerche di oro nel sottosuolo, con conseguente sfruttamento della manodopera che viene ripagata secondo quanto ognuno riesce a estrarre. Non estrai nulla, non vieni pagato. Una guerra al massacro. Risalgo sulla collina per vedere le moschee che sembrano vecchissime perché tutte diroccate. Hanno solo 50 anni ma le piogge le hanno distrutte essendo fatte di fango indurito. In paese il “solito” codazzo di bambini mi accompagna festoso, tanti stanno sollevando acqua al pozzo e altri portano fascine sulla testa. Solo i piccoli molto piccoli non lavorano, tutti gli altri si danno da fare. Di scuole purtroppo nemmeno l’ombra, l’analfabetismo è elevato. Nelle zone rurali tocca percentuali bulgare, l’accesso all’istruzione è negato. E dire che negli anni ’80, un uomo ha provato a cambiare le cose. Il comandante Thomas Sankara, capo della rivoluzione burkinabe, che al grido di “il ben fatto non è mai perso” si propose e riuscì a garantire al suo popolo almeno 10 litri di acqua potabile pro capite e fece costruire scuole in tutte le zone del paese, anche quelle più remote. Quattro anni di rivoluzione che non devono essere piaciuti ai francesi, che preoccupati di perdere il controllo del paese e che la rivoluzione si potesse estendere ai paesi vicini, fecero ammazzare il comandante Sankara per mano di Blaise Compaore, ex compagno di battaglie rivoluzionarie insieme a Sankara e poi corrotto dal potere (per la cronaca, tenuto saldamente in mano dal 1987 al 2014 quando i burkinabe hanno incendiato il parlamento e l’hanno cacciato.

Il giorno dopo i burkinabe sono scesi a pulire le strade messe a ferro e fuoco per 24 ore per cacciare Compaore, scortato fuori dal paese dai francesi. Che popolo questi burkinabe, non per altro Burkina Faso significa “paese degli uomini integri”, unione di due parole in due delle infinite lingue locali, così chiamato da Sankara dopo la rivoluzione.) Se volete sapere di più su questa pagina di storia sconosciuta e taciuta, vi consiglio il libro “L’Africa di Thomas Sankara” di Carlo Batà, un libro illuminante e commovente sul Burkina e l’Africa tutta. E sul male dell’Occidente, leggetelo e poi riparliamo dell’ISIS e di quanto male abbiamo seminato nel mondo. Noi, usurpatori e ladri di terra. Torno a Le Nomade e saluto Noum, è ora di tornare a Ouaga. Lo abbraccio, per me Bani occupa già un ricordo speciale di questo viaggio. Fermo alla “stazione”, un capanno sul ciglio della strada, osservo i banchetti e scopro che la benzina si vende in bottiglia. Ora che ci penso non ho visto benzinai in zona…si ferma una macchina, tira fuori dal bagagliaio una canna e compra tre bottiglie di benzina. Dovrei tornare diretto a Ouaga ma il bus è stranamente veloce, non si ferma ogni due km in ogni villaggio come l’altro ma corre sull’asfalto malmesso. Decido così di saltar giù a Ziniare, a un’ora da Ouaga. A 6 km c’è il parco di sculture di Laongo. Pensavo di andare in bici, vedo un negozio di ricambi sulla strada e chiedo. Come sempre grande partecipazione dei locali che mi sconsigliano la bicicletta (per fortuna). Convocano immediatamente degli amici che hanno un mezzo a metà tra un’ape car e un motorino e in men che non si dica siamo per strada: io e Romaric nel cassone e lo zio alla guida. Romaric ha un sorriso stupendo, bianchissimo, mi chiama “mon frere”, fratello. Fratello. Loango è un parco en-plen-air che ha centinaia di sculture di artisti da tanti paesi del mondo, dal Burkina, Mali, Francia, Svizzera, Costa d’Avorio e altri. Sono accorsi qui negli anni 80 e 90 e ognuno ha scolpito un pezzo di granito del parco lasciando una sua opera. Alcune sono curiose. Torno con mio fratello Romaric a Ziniare, sulla strada mi chiede il numero di telefono. Lo fanno tutti, ma proprio tutti. Ho più numeri di telefono dopo due giorni qui in Burkina che dopo un anno a Milano! Che poi anche volendo cosa posso dirgli al telefono? Sarebbe una conversazione quanto meno comica. Di nuovo sulla strada, questa volta è proprio ora di tornare a Ouaga, tra poco arrivano Flora, Makeda e Corinne. Domani inizia il campo! Bonne chance a nous

Burkina – giorno #3

Siamo arrivati a Koubri ieri sera tardi, il cielo era gonfio d’acqua e ha iniziato a scaricare a secchiate, le strade sono diventate fiumi e ciò nonostante qualche sventurato pedalava al buio. Non esiste illuminazione pubblica, la gente è così abituata al buio che semplicemente lo ignora. A Stone House ci aspettano. Ogni anno arriva Flora con un gruppo di volontari, per cui inaspettatamente tutti parlano almeno qualche parola della nostra lingua. Dieci anni fa Hado, un musicista burkinabe, porta Flora per la prima volta in Burkina, ha trovato un pezzo di terra, in mezzo alla brousse, non c’è nulla. Solo terra rossa. E Hado le dice “qui nascerà una centro culturale”. Era una visione, qualcosa di impossibile anche solo da immaginare. Fondano Watinoma, un’associazione di cooperazione italo-burkinabe. Watinoma in lingua morè significa “benvenuto”, un invito al dialogo e alla condivisione. Non hanno nulla, Hado suona, in patria è molto stimato e raduna a sé un manipolo di musicisti. Di banditi come li chiama lui. “Il senso delle cose si nasconde dietro le persone” dice una canzone che amo. E mai più di oggi il concetto è chiarissimo. Come trovare i soldi necessari per costruire il centro culturale? Con la musica, che domande! Porta i suoi musicisti in Italia e partono in tournée, suonano ovunque, raccontano il loro sogno, raccolgono fondi. Flora è la loro testa d’ariete nel nostro paese, crede al sogno chiamato Stone House, crede in un futuro migliore per il Burkina, vuole gettare un ponte tra due mondi così lontani. Un ponte fatto di arte, di tradizione, di cultura, di suoni. E così tutti i soldi raccolti diventano mattoni, diventano calce, diventano travi di legno e tetti di lamiera. Nasce Stone House, lentamente, un pezzo alla volta, autocostruzione con manodopera locale. Chiamano artisti a decorarla e col tempo Stone House diventa un luogo di aggregazione, dove tutti sanno di poter trovare la porta aperta. Ma questo è solo l’inizio, il progetto è ancora più ambizioso. Là fuori è pieno di gente che vive nella miseria, fuori da quel cancello un popolo urla in silenzio. Nessuno li sente, c’è il Sahara in mezzo, nessuna risorsa che possa ingolosire i potenti dell’Europa. Il Burkina semplicemente non esiste. 16 milioni di anime e il 181esimo posto nell’indice di sviluppo umano (su 187 paesi). E così Hado e Flora continuano a sognare, il primo sogno che sembrava irraggiungibile è diventato reale. Perché non investire energia e far conoscere Watinoma alle istituzioni? Arrivano così i bandi, i progetti, i finanziamenti. E nasce così la scuola, dove i bambini hanno accesso gratuito e i maestri ricevono un giusto compenso. Sankara diceva “Una delle condizioni per lo sviluppo è la fine dell’ignoranza. L’analfabetismo deve essere incluso fra le malattie da eliminare il più presto possibile dalla faccia della Terra” E diceva anche “Un popolo che ha fame e sete non sarà mai un popolo libero!” Cosa manca a Flora e Hado quindi? Ma certo, un campo, due ettari e mezzo di terra che distribuiscono alle famiglie dei bambini perché possano coltivare e sfamare le loro famiglie. Comprano semenze, piantano alberi. Semplice per un occidentale, un piccolo miracolo in un paese come questo. Stamane siamo andati al campo, domani iniziamo a piantare le acacie. Questa pianta è fenomenale, ha delle proprietà azotofissatrici che aiutano a fertilizzare la terra. Funziona così: quando piove le foglie dell’acacia cadono e fertilizzano il terreno. Nella stagione secca invece le foglie si fanno grandi e proteggono la terra dai raggi inclementi del sole. La natura è meravigliosa, perfetta. E in questa terra è un trionfo: alberi di karitè per ricavare olio e burro, piante di neem dalle forti proprietà antibatteriche e antiparassitarie, baobab immensi, con foglie commestibili, eucalipti, manghi, alberi di henné. Tutto grida alla vita. Il pomeriggio è dedicato ai bambini, sono tantissimi, chiassosi, ci sfiancano. Litigano a chi mi debba tenere per mano, imparano il mio nome così pieno di “R” e così difficile da pronunciare. Così quando uno di loro ci riesce, gli batto il cinque con la mano. E diventa una sfida. In un attimo ho un centinaio di bambini che grida il mio nome e tutti vogliono il cinque dal bianco. Insegnamo loro “Un, due, tre stella” che diventa “un, deux, trois Watinoma” e Bandiera, che diventa “Chapeau” perché usiamo il mio cappello come vessillo. Sono sfinito. I bambini ti vogliono tutto, ti devi dare completamente. Qui come in tutto il mondo. I bambini sono uguali in ogni angolo della Terra. Cala la sera, attorno al tavolo ci raduniamo per cenare. Stasera Abzeta ha preparato un piatto tipico, il riz graz. Riso grasso, letteralmente. Peccato che sia un riso fatto con verdure e, quando va bene, pollo che qui è talmente magro che senti solo le ossa. Di grasso nemmeno l’ombra. Ma gli africani per fortuna sono molto autoironici! Hado mangia con le mani, anzi con la mano destra, perché è quella con cui si mangia. Con la sinistra sta male. Lo guardo. Sorrido.

Burkina giorni #4/#13

Ho appena lasciato Koubri e ho preso al volo un bus da Ouaga per Bobo insieme ai miei nuovi amici ballerini Michael e Idriss. Sarà un lungo viaggio di sei ore nella nera notte burkinabe a bordo di un bus come sempre scassato. Mi lascio andare ai ricordi, il campo di lavoro è finito. Non ho avuto forze per scrivere quotidianamente, troppi erano gli input che come scariche elettriche arrivavano al mio cervello. Ho attinto a piene mani, mi sono sporcato di terra africana, a cui il mio sudore ha reso onore bagnandola copiosamente. Ho messo da parte tutto il mio bagaglio di conoscenze e di certezze occidentali e ho ascoltato, spesso in silenzio, quello che la gente del posto aveva da dirmi. Ho tante storie, tante immagini in testa, tante cose che affiorano, proverò a raccontarvene qualcuna. Se uno solo di voi dopo questo diario decidesse di intraprendere un viaggio nell’Africa nera, avrò raggiunto il mio scopo. Hado e Michael sono di due etnie diverse: Hado è Mossi, Michael è Dioula. Parlano due lingue diverse, talmente diverse che non si capiscono. Per comunicare devono usare il francese. Forse la cosa vi sembrerà di poco conto ma pensate a quando il francese non esisteva, quando l’uomo bianco non era ancora arrivato qui. Un paese con 60 etnie, 60 lingue diverse, popoli che non si capiscono eppure convivono pacificamente. Com’è possibile? L’Europa, l’Occidente insegna che le differenze hanno sempre portato a guerre di territorio, scontri all’ultimo sangue e mattanze. Qui invece si sono inventati una cosa splendida, che personalmente ho trovato geniale. Si chiama “plesanterie” ed è una tradizione antica di centinaia di anni. In pratica ogni etnia ha due etnie “partner” con cui è lecito ogni tipo di insulto e scherzo. In pratica se Hado che è Mossi incontra Idriss che è di una di queste etnie “partner”, si iniziano a insultare. Ogni insulto è lecito, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne. Gli insulti si possono spingere anche fino a scherzi pesanti, ad esempio una etnia può interrompere un corteo funebre di un’altra etnia, rubare il corpo del defunto e richiederne un riscatto. È una battaglia senza esclusione di colpi. Le uniche regole sono di rispettare la plesanterie (ovvero si scherza solo tra etnie partner) e che appunto si deve risolvere tutto nello scherzo. Per chi non conosce, questa cosa è indecifrabile perché ti trovi davanti due persone che iniziano a litigare pesantemente. Per loro invece è un metodo di convivenza. Si scherza ma non ci si fa la guerra. Si rispettano le differenze. E questo ha permesso di mantenere lo stato di pace per lunghi anni. I burkinabe sanno qual è il valore della differenza culturale, l’altro è pur sempre mio fratello, anche se non lo capisco, anche se ha usanze diverse dalle mie. E vi garantisco che ogni etnia qui ha un patrimonio di tradizioni ancestrali ricchissimo e le differenze tra le varie etnie sono anche profonde. Ossigeno per il mio cervello, mi sento anche io africano, perché le diversità per me sono un patrimonio, il sale della vita. Viaggiare per me è un mezzo per vivere di queste diversità, per questo scelgo sempre paesi in cui il turismo non è sviluppato. Per evitare che queste diversità siano corrotte e distorte. Ad Hado piace suonare di mattina, mi sveglio al suono della cora, lo strumento a 13 corde la cui cassa di risonanza è fatta con una zucca. Mi siedo a tavola e attendo come un bambino uno dei suoi racconti. Hado è animista, crede che la natura governi il mondo e che l’uomo appartenga alla Terra. Non che la Terra appartenga all’uomo. E crede che all’uomo non sia data la possibilità di conoscere il segreto profondo che la natura possiede. Il segreto della vita. L’anello di congiunzione sono gli antenati, coloro che hanno oltrepassato la vita corporale e hanno conosciuto questo segreto. Mi dice “La vedi quella piccola pianta?” indicando nel giardino un alberello. “È un giovane baobab, possiamo prendere le foglie e farci un sugo”. Ribatto “ma è molto piccolo, rischiamo di rovinarlo”. Mi spiega che secondo la sua religione, le foglie vanno raccolte e mangiate perché il baobab è vivo, ha bisogno che l’uomo interagisca con lui altrimenti muore. Il baobab è la reincarnazione degli antenati, quando un baobab muore, un vecchio saggio del villaggio ci lascia. Di notte – dice – il baobab si muove, diventa un uomo ed entra nei sogni delle donne oppure diventa una donna e si presenta nei sogni degli uomini. Ogni tanto Hado fa un salto al vecchio baobab dietro casa e gli porta dei regali, ci parla, si confida, gli chiede un consiglio. Bevo il mio caffè, non trovo le parole per fare domande, è tutto così lineare nelle sue parole, tutto così semplice da lasciare interdetti. Le giornate scorrono serene, lavoriamo tanto. Abbiamo messo a dimora 160 alberi di acacia al campo. Le donne levano le sterpaglie dalle piante di fagiolo e vanno al pozzo a prendere l’acqua. Ci salutano. Il campo è la loro speranza di un futuro migliore, cibo per le loro famiglie, quaderni per i loro figli. Il lavoro a scuola è stato impegnativo, tenere a bada un centinaio di bambini non è semplice. Abbiamo cercato di insegnare giocando i rudimenti dell’alimentazione. A dire il vero ho imparato cose che non sapevo nemmeno io. Ad esempio, lo sapevate che la cipolla è la foglia della pianta e non il frutto? A Stone House la vita è serena, dopo il lavoro coi bambini carico un secchio di acqua e mi lavo. A secchiate. Anche qui niente acqua corrente, c’è la corrente e la luce ma solo negli spazi comuni, sotto la grande copertura in paglia dove avviene tutto. Si mangia, si sta insieme, si suona, si fuma, si balla, si ascoltano i racconti. Esci a fare due passi la sera e la via lattea è sempre lì, un fiume bianco in mezzo ad un tappeto di stelle. Che cieli che mi ha donato questa terra! Ripenso ai giorni passati, altri aneddoti tornano a cullarmi, gli elefanti allo stato brado incontrati per caso, le donne al mercato coi loro figli sempre attaccati alla schiena con le fasce colorate, la gioia di sentire la prima melodia suonata con la cora dalle mie mani, la forza esplosiva del djembe, le lezioni di danza in cui scatenare le forze ancestrali sopite. Sono troppi, mi sembra che la mia testa non riesca a contenerli, ho paura di dimenticarmeli, vorrei la banca della memoria per raccoglierli e preservarli. Il bus corre lento sur la route national, ogni tanto rallenta e supera un dosso facendoci saltare sui sedili. Michael e Idriss pisolano, stanotte sarò loro ospite. Metto le cuffie dell’ipod e sogno ad occhi aperti, ricordando tutte le meravigliose persone fin qui incontrate. Grazie Habdila, Abzeta, Abas, Claude, Nat, Americain e Dolar, grazie Hado e Flora. Grazie ai miei compagni di avventura. È ora di riprendere la strada da solo col mio zaino, senza sapere domani cosa mi riserverà questa terra incredibile… Lafi!

Burkina giorni #14-#17

Sono sul bus per Ouaga, l’ultimo bus prima di lasciare il Burkina. Ho appena salutato i miei compagni di viaggio di questi ultimi quattro giorni. Sono stati giorni zingari, come quelli che piacciono a me, dove gli eventi decidono da soli la propria traiettoria e tu devi solo buttartici a capofitto senza troppe domande. La prima tappa è stata Bobo Dioulasso, per gli amici semplicemente Bobo ovvero la seconda città del Burkina e capitale culturale. È una città vivissima, arriviamo in piena notte e Michael e Idriss, bobolesi doc, mi portano in centro che pullula di giovani che ballano musica assordante nei maquis della città. Ragazze dal seno prosperoso e ragazzi dal fisico perfetto si fronteggiano sulla pista. Io distrutto dal viaggio mi accascio su una sedia bevendo una Brakina. Sono ospite di Michael, che vive in una grande e umile corte insieme alla famiglia allargata. La mattina incontro decine di persone, rinuncio a capire le parentele. Per me occasione ghiottissima per assaporare da vicino la vita reale di una famiglia burkinabe. La mamma di Michael mi accoglie con tè e pane per colazione, i fratelli mi attorniano curiosi. Uno di loro parla qualche parola di inglese, tira fuori un planisfero e gli mostro l’Italia. Ama la geografia, come me. È un ragazzino molto intelligente, si vede dal suo sguardo! Michael dorme ancora, con Idriss andiamo al mercato perché deve trovare delle stoffe per i vestiti del suo prossimo spettacolo. Il mercato dei tessuti è meraviglioso: Wax, Dam Dam, centinaia di rotoli di tessuti tradizionali coloratissimi vengono venduti al metro per essere poi cuciti su misura. Volendo anche sul posto dalle abili mani dei sarti del mercato. Torno a casa, Mich si è svegliato ma intanto inizia a diluviare. Passiamo qualche ora sotto la veranda a bere tè verde con vari componenti della famiglia. La preparazione del tè è un rito, serve almeno mezz’ora prima che sia pronto: si spacca il carbone e si accende il fornelletto, poi si mette il tè nella teiera e si fa bollire per poi iniziare un gioco di teiere in cui il tè viene travasato da una all’altra aggiungendo zucchero fino a quando diventa verde scuro e torbido e sopra gli si forma una schiuma spumosa. Il sapore è fortissimo, e dolce, tanto dolce. Ai burkinabe piace lo zucchero – tanto – e il sale – a palate! Spiove, Mich tira fuori il motorino e via sulle strade terrose di Bobo fermandosi in ogni cantone a salutare i suoi mille amici. Mi porta a vedere la grande moschea, una bizzarra costruzione bianca in stile Sudanese, infilzata su ogni lato da pali di legno serviti per la costruzione. C’è un gruppo formato da due ragazze bianche e un ragazzo di colore. Facciamo il giro della moschea insieme e poi ci spostiamo alla città vecchia. Sya, primo insediamento di Bobo, è un crogiolo di vicoletti tra case di terra dove ancora la gente vive. Ci spiega una guida che la città vecchia è divisa in quattro zone: quella animista, dove vediamo feticci coperti di piume e dove vengono sepolte le placente dei nuovi nati, quella musulmana, dove le donne preparano il dolo, una bevanda fermentata simile alla birra ma fatta col miglio, la zona dei griot, musicisti per antonomasia, e infine la zona dei forgerons, artigiani del bronzo e del ferro. Non posso astenermi dal comprare qualche pezzo di artigianato in una delle botteghe, quella dei mangiatori di arachidi, come vengono chiamati nella plesanterie questa etnia. Il centro del villaggio pullula di venditori di cibo da strada. Mich mi convince ad assaggiare quelli che da vicino si rivelano dei mega bacherozzi. Non so perché lo faccio ma ne butto giù uno, mi salgono i conati ma ingoio. Anche la ragazza francese lo prova. Peccato che a me due giorni dopo darà qualche problema intestinale… Nel frattempo scopriamo che Valerie, una delle due, a Montpellier fa un corso di danze africane con un amico di Mich, il mondo è veramente un buco. Connessioni impossibili! Iniziamo a chiacchierare, Celine vive a Ouaga da quasi un anno e fa la botanica, si è trasferita qui per vivere col ragazzo, Ibe, mezzo burkinabe e mezzo ivoriano. La terza è appunto Valerie che è venuta a trovare l’amica. Ci troviamo subito, Celine parla spagnolo…sono salvo! Posso finalmente intessere un discorso che vada al di là di “oui”, “merci”, “ça va” e grandi sorrisi. Scopriamo che il nostro programma dei due giorni successivi è lo stesso, così proseguiamo insieme! È per questo che amo viaggiare da solo, incontri fortuiti per strada si trasformano in bocconi di vita da mangiare insieme. Storie diverse, ognuna unica, si intrecciano, si scambiano pensieri per poi disperdersi e chissà se mai ritrovarsi. E la libertà di riprendere la strada da solo quando ti va. La sera andiamo a sentire un concerto di musica tradizionale e Mich decide di unirsi al gruppo per il weekend. Due francesi, un italiano, un burkinabe e un ivoriano: un bel mix! Si parte alla volta di Banfora, il paesaggio cambia, ci si avvicina alla Costa d’Avorio ed è tutto più lussureggiante, tropicale. Una gioia per gli occhi. Arriviamo a Banfora e inizia una tarantella tra Mich, Ibe e i locali che si offrono per portarci nei dintorni della città a scoprire le bellezze del posto. La spunta Sibirì, un giovane rasta dallo sguardo dolce e gli occhi scuri profondissimi, il cui nome nella sua lingua vuol dire Sabato. Ci procura tre motorini e viene con noi, saremo in sei per questi due giorni!! In sella con Mich lasciamo le solite polverose strade cittadine e ci inoltriamo nella campagna: è stupendo, lingue di terra rosso mattone in mezzo a verdissimi campi di canne da zucchero, riso e piantagioni di banane. È l’Africa. Con l’aria in faccia, respiro a pieni polmoni e provo quel senso di libertà assoluta che solo il viaggio sa darmi. Mi commuovo. Andiamo ai picchi di Fabadougou, strane formazioni rocciose, dove dall’alto il paesaggio lussureggiante è ancora più memorabile. Poi alle cascate di Karfiguela, l’acqua è marrone ma Sibirì libera dalla cuffia i suoi dread e si butta. Lo seguiamo! A fine giornata andiamo al lago di Tangrela, il lago degli ippopotami. Nei campi di riso, le mondine lavorano ancora coi piedi nel fango e la zappa, ci salutano mentre sfrecciamo loro a fianco. Il lago al tramonto è stupendo, un uomo del posto ci porta con la sua piroga a cercare gli ippopotami che purtroppo nella stagione delle piogge si nascondono bene nella vegetazione. Infatti non ne vediamo. Peccato. Arriviamo a Banfora che è già buio, che giornata!! Quella seguente invece cambia faccia, la sera mi sento strano e credo di avere la febbre, passo una notte terribile e temo di essermi beccato la malaria.

La mattina invece sono fresco ma continuo a sudare e sentirmi strano. Decido di partire lo stesso coi ragazzi, viene a prenderci Sibirì con la Opel di un amico e andiamo in direzione Niansogoni, un villaggio troglodita di pigmei abbarbicato su una montagna proprio sul confine col Mali. Peccato che per andarci dopo 50km di strada asfaltata ce ne siamo 37 di “pista” come la chiamano qui ovvero terra battuta dove si creano voragini che in questa stagione si riempiono di fango e acqua. Ci finiamo dentro con l’auto, più volte scendiamo a piedi nudi nel fango a spingere. Siamo rossi di terra dalla testa ai piedi. Riusciamo miracolosamente ad arrivare a Niansogoni e visitare lo stupendo villaggio pigmeo. Il ritorno sarà diverso, dopo pochi km e qualche buca d’acqua, la macchina sprofonda in una e si spegne. La tiriamo fuori grazie all’aiuto di alcuni burkinabe di passaggio. Ma non ne vuole sapere di ripartire. Morta. Kaput. Siamo nel mezzo di una foresta, sono le 16. Ci rimarremo fino alle 21 cercando varie soluzioni fino a quando un taxi-brousse (un minibus locale) ci traina fino a Banfora, distruggendo la macchina del povero Sibirì, per via delle buche affrontate a velocità improponibile per una macchina normale. Io mi butto su una delle panche di legno del taxi-brousse, sfinito, e mi assopisco “cullato” dalle botte spaventose che il minibus prende ogni volta che affronta una buca. Arriviamo a casa all’1 di notte, increduli di avercela fatta!

La mattina ci alziamo e andiamo a prendere il bus per Bobo. Ne approfitto per un ultimo giro al mercato. Adoro i mercati africani, così colorati, chiassosi e sporchissimi!! A Bobo saluto Celine, Valerie, Ibe e Michael. Spero di rivederli, sono stato bene. Ed eccomi, sono quasi a Ouaga, la brousse scorre a fianco al finestrino. A mezzanotte parte il mio volo per Istanbul e come per Cenerentola, la magia svanisce. Solo che qui stavo su una zucca e torno in carrozza. Burkina Faso, un paese sconosciuto ma così ricco di tradizioni, valori e cultura da poter fare invidia. Un paese di donne, uomini e bambini certamente poveri, spesso poverissimi, ma ricchi di anima. Una cosa è certa: tornerò, qui. In Burkina, in Africa. Togo, Etiopia, Mauritania, Benin, Zambia, Malawi… un’unica terra, una terra unica che ti sporca di rosso e non si leva più dalla pelle. Chiudo con le parole dell’ultima canzone di Hado, una speranza per me e i miei fratelli africani: “Together fight in the morning, FREEDOM in the evening” Merci Afrique, je t’aime!

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Dentro la moschea di Bobo



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