4000 km a zonzo per l’Oman

Tra deserti, città e coste incontaminate
Scritto da: mozzo ste
4000 km a zonzo per l'oman
Partenza il: 28/02/2010
Ritorno il: 15/03/2010
Viaggiatori: 9
Spesa: 4000 €
Ho scelto di andare in Oman per ritemprarmi nella pace silenziosa del deserto: mai e poi mai avrei immaginato di attraversare un Paese tanto affascinante e ricco di bellezze naturali. Ma andiamo per ordine. 28 febbraio (primo giorno) – Italia – Muscat Per chi vuole recarsi in Oman, e non è propriamente un astemio, conviene acquistare le bevande alcoliche al Duty Free prima di lasciare l’Italia, perché in loco il consumo di alcoolici è possibile solo nei mini-bar dei grandi alberghi. Il visto (6 Rial pari a 12,00 €) viene rilasciato direttamente all’aeroporto di Muscat e allo stesso sportello è possibile cambiare valuta. Il viaggio è stato organizzato tramite un tour operator italiano ed un corrispondente in Oman, anch’esso, italiano che ci ha accompagnato per tutto il viaggio. Il gruppo era di 9 persone. Abbiamo pernottato sia in tenda che in albergo e per gli spostamenti abbiamo avuto a disposizione 3 Toyota 4×4, 3 autisti, di cui uno anche cuoco. E’ stato un viaggio dispendioso, non solo perché la scelta degli alberghi è ricaduta su quelli migliori, ma anche per il fatto che il tenore di vita in Oman è molto alto. Dopo un volo che da Roma – via Francoforte – ci ha portato a Muscat, capitale dell’Oman, siamo stati alloggiati presso il Muscat Holidays Hotel (4****), struttura alberghiera in linea con gli equivalenti standard europei. 1° marzo (secondo giorno) – Muscat –Montagne dell’Hajar – Nizwa Al mattino iniziamo il nostro tour con la visita della Grande Moschea di Muscat, fortemente voluta dall’attuale Sultano Qaboos Bin Said, che gli dà il nome. E’ l’unica moschea in Oman accessibile ai non musulmani. L’edificio è di nuova costruzione e riprende tutti i vari stili islamici dalla Spagna all’Asia. Nella parte di preghiera riservata agli uomini, su un tappeto di 4000 mq., composto da 48 pezzi annodati fra loro e del peso complessivo di 22 tonnellate, pende un enorme e sfarzoso lampadario in cristallo Swarovsky con oltre mille lampadine. Una robetta da niente! Quando la solennità e la calma del luogo vengono violate dall’arrivo di circa cinquemila crocieristi in gita, lasciamo la moschea per salire a bordo delle Toyota ed intraprendere il nostro viaggio attraverso le montagne dell’Hajar, una catena di monti alti sino a 3000 m. Che costeggia il mare. Muscat la visiteremo più compiutamente al termine del viaggio. Lasciamo presto la strada asfaltata e seguiamo una pista accidentata che ci conduce al passo, ad un altitudine di 200 m. La pista si snoda fra inquietanti costoni di roccia scura e affacci su gole illuminate da macchie verdi di palme selvatiche e aloe delle oasi di montagna. Foriamo una prima volta e comincia a piovere. Vedo gli autisti un po’ preoccupati: se la pioggia dovesse continuare potremmo avere difficoltà per uscire dal wadi[1]. Fortunatamente la riparazione della gomma, dopo un paio di tentativi, riesce e smette anche di piovere. Raggiungiamo quindi Al Hamra, un piccola cittadina immersa in un vasto palmeto. Qui le case sono costruite in “banco”, ovvero in mattoni di paglia e fango. Solo una parte sono ancora abitate, la maggior parte sono purtroppo abbandonate e fatiscenti in quanto gli abitanti, a causa della continua e costosa manutenzione, hanno preferito trasferirsi nella parte nuova della città. Che peccato! I muri intonacati, sicuramente più duraturi ed igienici, non hanno la suggestione delle pareti di terra. Visitiamo una vecchia casa dove le donne ci offrono caffè e tè. Per sdebitarci della squisita accoglienza, acquistiamo qualche confezione di kajal. Riprendiamo il nostro viaggio verso Nizwa dove arriviamo verso sera e ci concediamo un meritato riposo al Golden Tulip Hotel (4****) 2 marzo (terzo giorno) Nizwa – Hayma Iniziamo la visita della città di Nizwa partendo dal souk. Forse perché ristrutturato di recente, il mercato appare troppo ordinato, troppo silenzioso e pulito. Si visita in piena tranquillità e autonomia, ma è privo di quei colori, profumi e suoni tipici dei souk arabi. Colpisce il settore riservato alla vendita del pesce: non si avverte alcun odore! Nella zona dei prodotti locali è presente una buona selezione di artigianato omanita, ma evitiamo di fare acquisti, riservandoci le compere a fine viaggio per non appesantire i bagagli. Successivamente visitiamo il Forte, un’imponente costruzione risalente al VII sec., la più grande della penisola arabica. Il forte venne edificato dall’Imam Sultan Bin Saif Al Ya’Ruba per contrastare le forze nemiche attratte dalle ricchezze naturali della città e dalla sua posizione strategica al centro di rotte carovaniere. La sommità della torre, alta ben 40 m., che si raggiunge attraverso una stretta ed infida scala di pietra ricca di trabocchetti e botole segrete, regala una vista bellissima sulla città: lussureggianti palmeti di datteri e, sullo sfondo, le montagne dell’Hajar. Nonostante il programma prevedesse una sosta in città per il pranzo, decidiamo di lasciare Nizwa anzitempo, perché ci viene detto che è atteso il Sultano e questo, per motivi di sicurezza, avrebbe comportato la chiusura di tutte le vie di accesso e di uscita dalla città. Sulla strada per Hayma, ci fermiamo presso un posto di ristoro. I ristoranti, secondo la nostra accezione del termine, in Oman esistono solo nelle grandi città. Al di fuori di esse, si trovano solo rare e piccole taverne, spesso di aspetto fatiscente e poco pulito, ubicate per lo più presso le stazioni di rifornimento. La scelta dei piatti è esigua e spesso limitata a un piatto di carne o di pollo e a un pesce arrosto. Poiché tutti i posti di ristoro sono gestiti in massima parte dalla comunità indiana, viene sempre offerto un piatto di dhal, la crema di lenticchie rosse, accompagnata da un’insalata. Nonostante l’ambientazione sia poco allettante, il cibo è sempre gustoso e, da un punto di vista igienico, si può mangiare tranquillamente tutto, insalata compresa. La situazione sanitaria in Oman è, infatti, eccellente. Da anni è stata debellata la malaria ed i tipici disturbi intestinali, di cui noi occidentali siamo spesso vittime quando ci rechiamo a latitudini più basse, sono inesistenti, in quanto tutta l’acqua proviene dal mare ed è desalinizzata. Non è potabile perché presenta un’alta concentrazione di cloro, ma l’uso che ne viene fatto in agricoltura e nella ristorazione evita la contaminazione di batteri nocivi. Il nostro viaggio riprende lungo una comoda e larga strada asfaltata e verso sera ci inoltriamo per qualche km. Tra le ultime propaggini del Reg[2] Rub Al Khali per fare campo. Le dune sono morbide e avvolgenti: eccolo finalmente il deserto! Con i suoi silenzi, i suoi colori, con quel senso di vastità che penetra nel cuore! Montiamo frettolosamente le tende assicurandoci che la loro entrata sia posizionata controvento perché di vento c’è n’è ed è molto fastidioso; poi ognuno di noi sceglie il suo “luogo” per salutare la fine del giorno e una pace immensa che ci penetra dentro. Il pasto serale ci riserva una sorpresa: non ce ne eravamo accorti, ma a Nizwa, il nostro cuoco/driver indiano aveva comprato al mercato del pesce adesso ci proponeva una cena a base di tonno, in carpaccio e in tranci alla brace! Che meraviglia! E pensare che siamo nel deserto! 3 marzo (quarto giorno) – Deserto del Rub Al Khali Usciamo dal deserto per riprendere la strada asfaltata che ci permetterà di entrare nel Rub Al Khali più a sud. Il trasferimento è un po’ noioso, ma dopo pranzo lasciamo l’asfalto per seguire una pista. Le dune che ci vengono incontro sono barcane, dalla sabbia soffice. Le crea il vento e il suo agire le fa spostare: non vi è quindi una pista da seguire, ma bisogna cercare il punto dove scavallarle e spesso e volentieri ci si insabbia. Tutti diamo una mano a spingere, spalare sabbia, a posizionare le piastre sotto le ruote… A fine serata siamo stravolti: abbiamo fatto venti km., ma in linea d’aria solo 8! Per fortuna il vento, che ha soffiato per l’intera giornata, cala con l’arrivo della notte. 4 marzo (quinto giorno) – Deserto del Rub Al Khali In mattinata non abbiamo miglior fortuna. Siamo ancora tra dune soffici e gli insabbiamenti si susseguono ogni due/trecento metri. Eravamo lì a tirar fuori una Toyota quando improvvisamente vediamo comparire una persona da dietro una duna. Ebbene sì, nel più grande deserto omanita, il c.d. Quarto Vuoto, ci eravamo imbattuti in un gruppo di turisti tedeschi che, oltre ad essersi insabbiati come noi, avevano anche problemi a un motore! Dopo aver risolto i nostri guai, andiamo in loro soccorso: facciamo ripartire il motore della jeep e cediamo anche un po’ del nostro carico: gasolio e carbonella. Il gruppo, poco prima dell’incidente aveva distrattamente attraversato il confine ed era stato fermato dalla polizia saudita, la quale aveva chiuso un occhio, ma non avrebbe fatto lo stesso in una seconda occasione. Facciamo quindi un po’ di strada insieme, poi, giunti su un pianoro, prendiamo direzioni diverse e ci separiamo. Ci addentriamo sempre più nel Rub Al Khali. Ora le dune sono più alte, di tipo stellare, e cominciano a prevalere i colori rossi della sabbia. Tra esse si creano spesso passaggi simili a laghi salati. Il paesaggio ricorda molto il deserto del Sossusvlei in Namibia. Raccogliamo alcune fragilissime rose del deserto e, per essere sicure che arrivino integre a casa, le mettiamo in un sacchetto colmo di sabbia. La sera facciamo campo su un altipiano sabbioso e il nostro cuoco indiano (un vero valore aggiunto al viaggio!) ci stupisce ancora una volta cucinando due filetti di manzo alla brace e patate al cartoccio. Abbiamo persino ancora un po’ di vino acquistato negli Hotel, ma la perfezione della serata viene un po’ rovinata dalle dimensioni significative di alcuni coleotteri, che ci svolazzano intorno attirati dalla luce quando, addirittura, non decidono di atterrarci addosso. Vedendo le distese di sabbia, si pensa sempre che gli ambienti desertici siano disabitati: niente di più falso. Il deserto è ricco di vita. Vi sono piante che riescono a sopravvivere solo grazie alla rugiada mattutina. E dove vi sono piante, vi sono animali. Il tutto sopravvive in condizioni climatiche per noi improponibili, ma la natura trova il modo di adattarsi e la scoperta della vita dove sembra regnare il nulla è un’esperienza toccante. Anche se si tratta di scarafaggi… 5 marzo (sesto giorno) – Deserto del Rub Al Khali Continua la nostra traversata del Rub Al Khali. Le dune sono sempre più rosse e più alte. Le Toyota prendono la rincorsa, si fermano quasi in bilico sulla loro sommità, e poi ridiscendono frenando, lasciando che la sabbia scivoli sotto le ruote per evitare un insabbiamento. Siamo sulle montagne russe di un Luna Park! Inaspettatamente (ma non per la guida) raggiungiamo un pozzo di acqua sulfurea dove a turno ci concediamo, sotto un forte getto d’acqua, una doccia un po’ puzzolente, ma certamente corroborante. Il viaggio riprende quindi con una continua gimcana alla ricerca di passaggi, di creste stabili, di lati battuti dal vento. I drivers cercano disegni sulla sabbia per capire dove passare, ma la foschia non aiuta ad individuare i dislivelli. Anche oggi, comunque, ci insabbiamo diverse volte. E’ proprio durante uno degli ultimi tentativi per tirare fuori una vettura dalla sabbia che vediamo un pick-up dirigersi verso di noi. Non è la polizia di frontiera, come immaginavamo, bensì un pastore che ci offre il suo aiuto e ci invita a vedere l’indomani mattina il suo gregge di cammelli. Dopo i tedeschi ora il pastore: mai visto un deserto così frequentato! La sera, al campo, siamo ancora allietati dalla presenza di quelle bestiole più simili ad elicotteri che coleotteri e, per non farci mancare nulla, anche da uno scorpione color sabbia di una ventina di cm. Che ci passeggia sotto al tavolo dove stavamo mangiando. Siamo nel mese di marzo, fa già caldo e gli scorpioni sono evidentemente usciti dal letargo. Ho visto la guida allarmarsi e richiedere subito un badile per ucciderlo. E’ stato impressionante udire il ripetuto rumore del pungiglione che batteva sulla pala. Forse, col senno di poi, avremmo potuto semplicemente spostare lo scorpione lontano dal campo e lasciarlo vivere, ma lì per lì è subentrato come uno spirito di sopravvivenza che ci ha fatto uccidere il “nemico”, quando il realtà il “nemico” eravamo proprio noi… 6 marzo (settimo giorno) – Deserto del Rub Al Khali Le dune, se mai era possibile immaginarlo, sono sempre più alte. Alcune non riusciamo a passarle. Il caldo le rende soffici e la sospensione di sabbia nell’aria va a discapito della visibilità. I colori si scompongono nelle mille tonalità degli ocra e dei rossi. Il deserto ci regala, comunque, una nuova esperienza: scavallando una duna più alta delle altre sentiamo un rombo sordo, quasi fosse un tuono vicino. E’ la duna tonante. Il suono, profondo ed inquietante, è dovuto alle vibrazioni indotte dalla discesa delle autovetture sulla sabbia. In mattinata, durante il tragitto, avvistiamo una lepre che fugge terrorizzata nella sua tana e un’upupa nascosta in un cespuglio. Da un altipiano scorgiamo una mandria di una cinquantina di cammelli al pascolo. Cosa bruchino in quello che a noi sembra una distesa di sabbia e sale non è dato sapere. Ancora vita in un posto surreale. Il campo notturno viene piantato su un pianoro disseminato di geodi. Sono formazioni rocciose perfettamente sferiche che vanno dai 3 ai 10 cm. Di diametro. Mi spiegano di raccogliere quelle che, se agitate, fanno un rumore al loro interno. Una volta aperte, le due semisfere presentano di cristalli bianchi che luccicano sotto il sole. Per l’ultima notte, il deserto ci regala un cielo inimmaginabile: un tappeto nero tempestato di diamanti. Il deserto è così. Non conosce vie di mezzo: amore o odio. Di giorno è torrido, freddo la notte, è razionamento di acqua, è fatica, pericolo, è sabbia in ogni indumento o lembo di pelle. Ma io lo amo. Lo amo perché mi regala sensazioni dimenticate, pace interiore, riscoperta di emozioni. I suoi orizzonti sconfinati rievocano in me la coscienza di appartenere a un tutto e di esserne al contempo una piccola e grande parte. E’ come la navigazione in mare aperto con una barca a vela. Sei nulla, solo un insignificante punto nell’universo, ma prendi coscienza della tua esistenza e dell’appartenenza ad esso. 7 marzo (ottavo giorno) – Deserto del Rub Al Khali – Shisr – Salalah Lasciamo le avvolgenti montagne di sabbia rossa attraverso un difficile passaggio, quindi una corsa nel serir[3]. Dal nulla compare una spartana pompa di benzina con annesso punto di ristoro alquanto fatiscente. Facciamo rifornimento e mangiamo in maniera più che decorosa. I cellulari vengono riattivati ed improvvisamente tutti sembriamo avere la necessità di collegarci con il mondo, necessità effimera visto che nessuno ne aveva sentito bisogno nel mare di sabbia. Siamo ora nel Dofhar, una regione che non ha sempre avuto rapporti amichevoli con il resto dell’Oman. Solo con l’ascesa al trono dell’attuale Sultano Qaboos Bin Said la situazione è radicalmente migliorata; gli ingenti capitali derivati dal commercio del petrolio sono stati, infatti, utilizzati per la costruzione di scuole, ospedali e altre strutture sociali. Gli stessi componenti dell’esercito armato delle montagne (firka) hanno trovato lavoro. Nonostante ci si trovi in un paese dove è in vigore la pena di morte e dove i diritti fondamentali dei sudditi sono fortemente limitati, la politica del sultano attuale è principalmente orientata verso il benessere della popolazione. L’istruzione è gratuita fino alle superiori e la situazione sanitaria è buona. Le donne sono inserite nel mondo del lavoro, guidano la macchina e, anche se la quasi totalità di loro indossa la abaya[4], è anche vero che questo indumento non è obbligatorio. Da alcuni anni è in corso in Oman il c.d. Processo di omanizzazione, ovvero la sostituzione della forza lavoro degli immigrati con quella degli omaniti. E’ pertanto difficile andare a vivere in Oman, tuttavia ci sono, al momento, ancora due modi per farlo. Il primo è semplice, ma non alla portata di tutti: occorre depositare in una banca locale un importo non inferiore ai 300.000,00 €, tanto per tranquillizzare le autorità locali. In questo modo si diventa “investitori” e si ha diritto all’acquisto di una abitazione e all’esercizio di un’attività imprenditoriale. Qualora non si sia in possesso di tale somma, occorre trovare uno sponsor omanita che garantisca per voi e che sarà intestatario dell’attività produttiva nonché beneficiario di parte dei guadagni. Sostiamo nei pressi di Shisr, nell’oasi di Ubar, un insediamento crocevia delle carovane dell’incenso che si riteneva perduto per sempre e che è stato ritrovato negli anni ’90 attraverso le immagini satellitari. Ben poco rimane della città, anche se sono in corso ancora degli scavi. Purtroppo la riscoperta del sito archeologico ha comportato uno sconsiderato sfruttamento delle acque sorgive e quello che doveva essere un rigoglioso palmeto è ora ridotto un pugno di palme avvizzite. Cominciano a vedersi gli alberi di Boswellia, endemici della regione del Dofhar, dai quali si ricava l’incenso. L’albero di per sé non è molto bello. Alto 2-3 metri, presenta una corteccia chiara che sembra spellarsi, il tronco è molto ramificato ed ha foglie piccole. L’incenso si ricava dalla resina che scaturisce dalle incisioni fatte sulla corteccia. La qualità più pregiata è quella di colore giallo carico. L’incenso, oltre ad essere commercializzato in tutto il mondo da secoli, viene comunemente utilizzato in Oman non solo per profumare, ma anche per allontanare insetti o a scopi terapeutici. Arriviamo a Salalah verso sera. Questa città, capitale della regione del Dofhar, si estende lungo la costa del Mar Arabico. E’ percorsa da lunghe ed ordinate vie, poco trafficate, che si snodano tra bianche e basse costruzioni, circondate dal verde. Il porto, di recente costruzione, è in grado di accogliere grandi navi cargo ed è anch’esso dimostrazione della lungimiranza dell’attuale governo nella gestione della cosa pubblica che, in previsione dei giorni in cui il petrolio non potrà più essere la principale forma di ricchezza dell’Oman, sta approntando nuove forme di ricchezza per il Paese. 8 marzo (nono giorno) – Salalah – Khor Rori – Salalah Giornata rilassante. Siamo all’Hilton Hotel (5*****) e passiamo le prime ore del mattino nel grande giardino antistante il litorale. Ogni tanto un po’ di relax e una superdoccia non sono proprio da disdegnare! In tarda mattinata usciamo con le nostre macchine per visitare i dintorni. Attraversiamo grandi piantagioni di palme e ci fermiamo ad un chioschetto per gustare un cocco: il latte fresco è veramente una delizia in queste giornate un po’ torride. Proseguiamo verso la baia di Khor Rori, una grande insenatura desertica separata dal mare da una lingua di sabbia. Al centro di uno sperone roccioso ci sono le rovine dell’importante porto di Sumhurum, risalente a 1000 anni fa e centro della via dell’incenso che, via mare, veniva spedito in Mediterraneo e quindi in Europa. Dal 1966 una missione dell’Università di Pisa lavora nella zona con lo scopo di studiare e continuare gli scavi. Ed è proprio Silvia, una ricercatrice universitaria, che, prendendo una pausa dal lavoro, ci accompagna nella visita, contenta di poter trasmettere l’entusiasmo del ritrovamento di preziosi reperti a un gruppo di connazionali che fino a qualche settimana prima, non dico che non sapessero dove fosse l’Oman, ma che sicuramente ignoravano l’esistenza di siti archeologici così importanti. Nel pomeriggio riprendiamo la strada verso Salalah, attraversando campi tenuti a pascolo per i cammelli. Ci fermiamo per scattare alcune foto, ma veniamo raggiunti da un fuoristrada con a bordo un iroso signore appartenente alla comunità beduina dei jabali. E’ molto adirato perché teme che abbiamo fotografato la sua tenda, ma gli mostriamo le foto per rassicurarlo che non abbiamo violato la sua privacy. Questo è stato l’unico incontro poco cordiale: in tutto il viaggio i rapporti con la popolazione locale sono sempre stati caratterizzati da squisita ospitalità. A Salalah merita senz’altro una visita il museo. Moderno, tranquillo e dotato di audiovisivi, è interessante per capire le rotte commerciali dell’incenso che in passato hanno fatto la ricchezza dell’Oman. Terminiamo la giornata con la visita del souk di Al Haffah. Anche qui tutto è ordinato e pulito. Si gira con tranquillità, senza timore di scippi o richieste insistenti dei commercianti. Non si può andare in Oman e tornare senza un sacchettino di incenso, così, visto che siamo nella regione del Dofhar patria del migliore incenso del mondo, decidiamo di acquistare un paio di confezioni di Frankincense, quello della qualità migliore. Non so bene cosa ne faremo, visto che, oltre ad avere un odore penetrante e, per noi occidentali, evocativo di cerimonie religiose, l’incenso produce anche un denso fumo, ma tant’è…. Le botteghe sono a conduzione familiare e spesso, insieme al marito, vi è anche la moglie che indossa l’abaya e la Birka, la tipica maschera omanita di stoffa nera con una piccola intelaiatura di legno o stoffa nella parte centrale. Per scattare qualche foto, acquistiamo un po’ di incenso in una bottega, poi, dopo aver contrattato il prezzo come è abitudine nei paesi arabi (ma senza troppo successo devo dire), chiediamo il permesso al capofamiglia di immortalare la sua signora. E così, un po’ di incenso qui, un braciere là, un pezzetto di carbonella altrove, si riesce alla fine a portare a casa un po’ di scatti e tutto l’ambaradam per utilizzare l’incenso, se mai me ne venisse voglia, cosa di cui dubito fortemente. 9 marzo (decimo giorno) – Salalah – Wadi Salafan Quando avevamo avvistato lo scorpione giorni addietro, la nostra guida, per tranquillizzarci, ci aveva detto di essere in possesso di un rimedio eccezionale per neutralizzare gli effetti velenosi della puntura: la pietra nera. Così, dopo le nostre insistenze, oggi decide di mostrarcela. Essa è piatta, lunga un 5 cm., di color nero opaco, con un peso specifico più simile a quello di un osso piuttosto che della pietra. Sembrerebbe – e qui il condizionale è d’obbligo – che posata sulla ferita, si attacchi alla pelle, per staccarsi dopo aver “assorbito” il veleno. Una volta usata verrebbe rigenerala mettendola nel latte. La sua preparazione, ad opera dei padri bianchi, consisterebbe nelll’immersione dell’osso in un miscuglio di erbe per alcuni mesi. Va da sé che la ricetta sarebbe segreta, così come sarebbe segreto il suo principio di funzionamento. Al mattino, prima di lasciare Salalah, facciamo una sosta ad un crocevia dove un gruppo di anziani omaniti vende armi e pugnali. E’ un posto al contempo intrigante ed inquietante. Gli uomini vestiti nella tradizionale dishdasha[5], indossano in vita il khanjar[6], il tipico pugnale ricurvo. Posati per terra cartuccere, proiettili fucili e pugnali. Scattiamo foto, sperando che nessuno se ne abbia a male…. Ci fermiamo anche al mercato ortofrutticolo per fare un po’ di provviste visto che i prossimi pernottamenti saranno in tenda, quindi proseguiamo nuovamente verso est, lasciando la costa per salire sul Jebel Samhan, il grande massiccio montuoso che racchiude la pianura di Salalah. Raggiungiamo un altopiano brullo intagliato da doline dove pascolano cammelli, quindi ci inoltriamo nella discesa del Wadi Salafan. La pista, scoscesa e serpeggiante, si riduce a poche tracce ricavate nel greto del wadi. Il contrasto tra le pareti scure e il fondo della ghiaia chiara è spettacolare. Al campo, il nostro meraviglioso cuoco-driver tira fuori la spesa fatta al mercato e in men che non si dica ci prepara spaghetti all’aragosta (!) e barracuda arrosto. Sono dibattuta tra il pensiero di trasferirmi in Oman, e quello di rapire questo meritevole uomo per portarlo in Italia! 10 marzo (undicesimo giorno) – Wadi Salafan – Shuwamiyah Scendiamo gradualmente dalle montagne; il wadi è ora meno serpeggiante e sempre più ampio. I piatti rilievi montagnosi si perdono all’orizzonte, e gruppi di acacie danno quasi l’impressione di trovarci in Africa. Attraversiamo velocemente la zona di estrazione petrolifera: centinaia di pompe in funzione. Il petrolio è a soli 200-300 metri di profondità e mi rendo improvvisamente conto di camminare su un materasso di petrodollari: Gli impianti petroliferi sono considerati di importanza strategica al pari delle costruzioni militari e quindi sono vietate sia le foto che le riprese. Giudiziosamente, nessuno del gruppo tenta di rubare qualche immagine: per quanto questo Paese possa essere tollerante, nessuno di noi ha intenzione di visitare le patrie galere per scoprire se i diritti fondamentali dell’individuo siano in tutto o in parte esercitati… La strada prosegue verso il canyon di Shuwamiyah che in origine era un fiordo che si inoltrava per 3 km nell’entroterra. Il panorama dall’alto è molto bello. Scendiamo verso la costa disseminata di piccole abitazioni bianche, barche di pescatori in secca e cammelli che pigramente passeggiano lungo la spiaggia, per poi riprendere la pista dentro il canyon. Ci fermiamo ad un’oasi dove la vegetazione di palme e felci prende il sopravvento sulla dura roccia. Sulla sommità della montagna la sorgente d’acqua crea una cascatella naturale che si getta nel sottostante laghetto, la cui acqua trasparente permette di avvistare pesciolini. Incredibile Oman! Facciamo campo su un terrazzamento del canyon: è l’ora del tramonto e i colori delle pareti di questa maestosa frattura nella roccia vanno dal bianco accecante del calcare all’ocra intenso dei costoni. E’ un posto magico. 11 marzo (dodicesimo giorno) – Shuwamiyah – Ad Duqm – Al Khaluf Mattinata di trasferimento su strada asfaltata. Ci fermiamo lungo la via per bere qualcosa di fresco e dall’interno del chiosco sentiamo le voci concitate di omaniti che sembrano seguire una partita di calcio. Ma non si tratta di calcio, bensì di una corsa di cammelli; gli uomini ci invitano a sederci fra loro così che da lì a breve siamo tutti a tifare il cammello omanita… che perderà indecorosamente contro quello saudita! Una seconda sosta viene effettuata nei pressi della città di Duqm, in un posto conosciuto come Stone Garden. Su un terreno sabbioso si ergono grossi massi di pietra levigati dagli agenti atmosferici. Le rocce assumono forme spettacolari e contorte e sembra di passeggiare sul suolo lunare. Ci saremmo attardati in questo posto surreale se uno del gruppo non avesse individuato sulla sabbia le tracce fresche lasciate da un serpentello e, non nutrendo la curiosità di sapere se fosse velenoso o meno, in breve ci siamo ritrovati tutti a bordo delle auto per continuare il viaggio. Viaggio che ora percorriamo sulla spiaggia: il mare sulla nostra destra e davanti a noi stormi di decine e decine di gabbiani che, disturbati, si levano in volo per atterrare pigramente dopo il nostro passaggio. Non una casa, non una persona, solo qualche sparuta barchetta tirata in secco. Uno spettacolo! La sera facciamo il campo nella baia di Al Khaluf, una bellissima insenatura della costa dell’Oman, dove dune di sabbia bianca si perdono nelle acque verdi dell’oceano. Ci tuffiamo: l’acqua è calda e la stagione balneare non poteva iniziare in modo migliore! 12 marzo (tredicesimo giorno) – Al Khaluf – deserto di Wahiba Sands – Ras El Hadd Al mattino presto ci concediamo un altro bagno in queste acque calde. Lasciamo che lo staff si attardi nel sistemare i bagagli e ne approfittiamo per fare una lunga passeggiata sul bagnasciuga. Il mare omanita è talmente pescoso che la risacca getta a riva pesciolini vivi che noi raccogliamo e rigettiamo in mare per dar loro un’altra chance. Lungo il nostro percorso non incontriamo nessuno: solo granchi, uccelli, paguri e, sotto costa, alcuni delfini in cerca di cibo. Il mare qui non è stato ancora sfruttato intensivamente, si pesca solo per il fabbisogno personale o per soddisfare la richiesta quotidiana dei souk più vicini. Quando le auto ci raggiungono, riprendiamo la nostra corsa sulla spiaggia, incontrando solo qualche pescatore che raccoglie il pescato e un paio di dhow[7] alla fonda. Centinaia di gabbiani ed altri uccelli intorno e sopra di noi in volo. Pranziamo al sacco all’ombra di uno spuntone di roccia, condividendo con un gruppo di bambini-pastori le nostre lattine di coca cola e aranciata. Dopo complessivi 60 km di corsa sul bagnasciuga, attraversiamo il piccolo insediamento di Mahoot, addentrandoci nel deserto delle Wahiba Sands. In pochi km. Veniamo immersi in un mondo di dune altissime di sabbia gialla che si perdono in un mare turchese. Giungiamo quindi ad Al Askharah, cittadina portuale sulla costa dell’oceano per proseguire, poi, verso Ras El Hadd, un promontorio della penisola arabica, dove si trova la zona protetta per la riproduzione delle tartarughe. La sistemazione alberghiera è in bungalows spartani, ma vicini alla spiaggia dove le tartarughe depositano le uova (Turtle Beach Resort). Con il buio raggiungiamo la zona protetta. Veniamo accompagnate da una guida locale che ci fa strada con una torcia a luce rossa. Ci vieta di usare torce, di scattare foto e di far rumore perché potremmo spaventare le tartarughe che ritornerebbero in acqua depositando là la covata che andrebbe, di conseguenza, persa. Marzo non è il mese ideale per osservare le tartarughe, tuttavia sembra che ne sia stata avvistata una poche ore prima. Mentre un aiutante va ad ispezionare la spiaggia, la guida ci fornisce interessanti informazioni sulle abitudini delle tartarughe. La femmina della tartaruga, che si differenzia dal maschio solo perché ha la coda più corta, dopo circa due settimane dalla fecondazione, deposita le uova nella spiaggia in cui è nata, di notte. Scava una buca di ca. 1 metro di profondità di grandezza tale che possa contenere il suo carapace, quindi crea un’altra piccola buca nella quale deposita a strati circa 900 uova dalla consistenza gelatinosa. Dopo aver ricoperto le uova con la sabbia, crea sul lato opposto un’altra buca simile a quella dove sono le uova per ingannare il predatori. Qualora le uova siano state deposte su sabbia umida con temperatura di 28°, la covata darà solo tartarughe di sesso maschile; se la sabbia sarà più asciutta, con temperatura superiore ai 29°, si avranno solo tartarughe femmine; mentre tra i 28° e i 29° si avranno esemplari di entrambi i sessi. Tuttavia, in tutti i casi, solo i 2/3 dei piccoli sopravviverà a granchi, uccelli o altri predatori naturali. Ed è proprio a un enorme granchio che getteremo la sabbia addosso per permettere a tre spaesati tartarughini di raggiungere l’oceano. 13 marzo (quattordicesimo giorno) – Ras El Hadd – Sur – Muscat Il viaggio sta volgendo al termine. Prendiamo una bella e comoda strada che attraversa un paesaggio di colline pietrose per raggiungere Sur, una piccola cittadina racchiusa in una baia naturale, abitata soprattutto da pescatori le cui case, in perfetto stile arabo, hanno i portoni in legno massiccio intarsiato e decorati con borchie. Visitiamo una fabbrica di dhow: le imbarcazioni sono imponenti e l’intera costruzione è fatta manualmente, dalla curvatura del fasciame, ai madieri, al pagliolato. Hanno il fascino incredibile del legno e le loro curve raccontano di storie di mare, di commerci, di pirati… Proseguiamo ancora lungo la costa fino alle rovine di Qahlat, un antico insediamento risalente al II sec. A.C. Di cui rimane unicamente il mausoleo di Bibi Mariyam in grave stato di abbandono. Nel pomeriggio arriviamo a Muscat (Falaj Mercure Hotel 4****). 14 marzo (quindicesimo giorno) – Muscat – rientro in Italia Muscat è una città deliziosa, incastonata tra monti aguzzi e mare turchese. E’ anche molto verde e pulita. Abbiamo la mattinata libera e, in quattro, decidiamo di avventurarci nella città. Per prima cosa, dopo aver concordato il prezzo, raggiungiamo in taxi un quartiere residenziale e ci concediamo una bellissima passeggiata sul lungomare. Tutte la case, rigorosamente bianche ed in perfetto stile arabo, sono immerse in giardini di bouganville e si affacciano su un mare smeraldino. Un posto dove rimanere a vivere! Per tutto il viaggio avevamo evitato di fare acquisti per non appesantire il bagaglio, ma oggi cadiamo in tentazione. I prodotti qui esposti sono di qualità molto buona, certamente non economici, ma un minimo di trattativa si può fare. Presso un antiquario acquisto un tipico pugnale ricurvo con il fodero ricamato in argento che costa una piccola fortuna (€ 300,00), ma è il più bello che ho visto sinora e il venditore riesce ad intortarmi con i suoi modi cortesi. Lascio gli occhi su dei bellissimi cassettoni finemente intarsiati e con rifiniture in ottone, chiamati mandu che servivano un tempo a riporre la dote. Con un altro taxi ci facciamo scarrozzare lungo la corniche. Il nostro taxista è squisito: non conoscendo l’inglese, chiama un suo amico che lo parla per poter accontentare i nostri desideri e, quando il traffico dell’ora di punta ci costringe a qualche rallentamento, scende dalla macchina per andare a comprarci delle bibite! Siamo semplicemente esterrefatti da tanta gentilezza e ospitalità! Raggiungiamo l’Hotel Al Bustan che ci era stato segnalato come uno dei più belli edifici di Muscat. Costruito nel 1985 per volere del Sultano, per ospitare i partecipanti del “Consiglio della cooperazione del Golfo”, unisce la grazia dell’architettura islamica con lo stile raffinato degli hotel moderni. Per i non clienti è possibile visitare solo l’immensa hall di marmi bianchi sormontata da una immensa cupola. Nell’aria un discreto profumo di incensi. Nel pomeriggio, in attesa che apra il souk, decidiamo di entrare in un grande ipermercato per spiare come gli omaniti fanno la spesa. C’è di tutto: il prezioso zafferano iraniano, vegetali dall’aspetto sconosciuto, i pc di ultima generazione… Ci dirigiamo poi, attraverso un imponente viale, al palazzo del Sultano, residenza utilizzata per ricevere delegazioni ufficiali e per le feste, la cui architettura è alquanto bizzarra: una sorta di egiziano moderno. Molto bella è invece la moschea personale del Sultano, completamente ricoperta di mosaici azzurri. Infine raggiungiamo il souk che si trova proprio di fronte al porto di Mutrah, da cui prende il nome. Questo souk, a differenza degli altri sinora visitati, è vecchio e, pertanto si snoda, attraverso stradine strette e tortuose, tra odori di spezie, incensi e profumi, ricreando quell’atmosfera un po’ confusionaria e colorata che si respira nei paesi arabi. Vi sono prodotti di vario genere, dai gioielli in oro e argento venduti a peso, ai prodotti locali, ma c’è anche molta merce di importazione, soprattutto indiana e pakistana (qui si possono acquistare a prezzi eccellenti calde ed avvolgenti pashmine). Particolarmente interessante è una bottega che si trova lungo la strada principale, subito dopo l’entrata. E’ impossibile mancarla perché il suo ingresso è completamente rivestito da collane dalle fatture più disparate. Al suo interno si può trovare di tutto: dal puff in pelle tempestato di pietre semipreziose, alle cianfrusaglie più kitch, dai blocchi di ambra ai bastoni da passeggio finemente decorati con l’argento. Il proprietario è un omanita che ha ereditato dal padre l’arte del commercio. Vestito con la tipica ed immacolata tunica bianca, con tanto di khanjar legato in vita, è estremamente affabile ed è un piacere conversare con lui per farsi raccontare un po’ delle tradizioni del suo popolo. Ma c’è un aereo che ci aspetta. Dobbiamo salutare questo distinto signore e tornarcene a casa, portando con noi non solo foto e souvenirs, ma lo stupore per aver scoperto un Paese così vario, ospitale ed ancora incontaminato.


[1] Letto di torrenti che può riempirsi repentinamente di acqua con le piogge.

[2] Deserto di sabbia

[3] Deserto di ghiaia e sabbia

[4] Veste nera che copre dal capo ai piedi

[5] Ampia tunica di cotone lunga fino alla caviglia. Solitamente di colore bianco, ha un fiocco che pende dalla scollatura (farakha) sul quale vengono messe alcune gocce di profumo.

[6] E’ un pugnale ricurvo un tempo usato per la difesa personale, mentre oggi è più semplicemente un elemento decorativo e di prestigio. E’ caratterizzato da una lama ricurva e dal suo fodero che è finemente decorato in oro o argento. L’impugnatura può essere in vari materiali, dal vietatissimo e costoso corno di rinoceronte al legno.

[7] Caratteristiche imbarcazioni a vela latina in legno di tek o sheshan, del peso di anche 500 tonnellate, la cui intelaiatura viene approntata, a differenza di quanto accade in Occidente, solo dopo aver fissato il fasciame ricurvo. Originariamente le assi erano legate con corde di fibra di cocco e, solo successivamente all’arrivo dei Portoghesi, vennero utilizzati i chiodi.




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