Madagascar: tutto quello che avremmo voluto sapere prima
Quest’anno avevamo tutt’altri progetti per le nostre vacanze. Sull’onda dell’entusiasmo del tour negli Stati Uniti dell’anno scorso (vedere nostro diario) avremmo voluto fare subito il bis, magari visitando un’altra zona, e già avevamo raccolto informazioni e buttato giù una bozza di itinerario. Ma i primi mesi del 2016 hanno portato brutte sorprese alla nostra famiglia. Mia madre ci ha lasciato dopo una lunga malattia e settimane di degenza. Pianificare un altro viaggio fai-da-te on the road come quello dell’anno precedente in un periodo di simili preoccupazioni sarebbe stata troppo dura. Così abbiamo preferito cambiare meta e optare per un viaggio organizzato e ci è venuto in mente il Madagascar, un sogno lasciato per anni nel cassetto in attesa di tempi migliori, soprattutto per le nostre finanze. Ma ahimè, certe mete con il passare degli anni non diventano certo più economiche, anzi. E così ci siamo tappati il naso e ci siamo detti: “Va be’, prima o poi è un viaggio che dobbiamo fare, tanto vale toglierci il pensiero”.
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Scegliendo un viaggio organizzato da catalogo la meta era piuttosto scontata: Nosy Be, ovvero la zona turistica per eccellenza. Ma il Madagascar è un paese troppo grande e particolare per limitarsi a trascorrere 15 giorni chiusi in un villaggio su un’isoletta, per quanto bella sia. Tutti i documentari di viaggi visti in questi anni ci dicevano che la vera Africa era nella “Grande Terre”, l’isola grande del Madagascar. Soluzione? Abbinare un soggiorno di mare ad un tour nell’entroterra, il Tour del Nord, la scelta più logica per la vicinanza all’isola di Nosy Be. Il pacchetto che abbiamo scelto è quello di Bravo Club (gruppo Alpitour) comprendente un soggiorno di 10 giorni al Bravo Andilana Beach Resort di Nosy Be (scelto solo ed esclusivamente perché sapevamo trovarsi sulla più bella spiaggia dell’isola) e il Tour del Nord di 5 giorni denominato “Tour Avaratra”. È solo di quest’ultimo che vorremmo parlarvi in questo diario, non tanto perché Nosy Be non ci sia piaciuta (isola bellissima così come quelle limitrofe, villaggio stupendo, niente da dire), ma perché il Tour del Nord è stato il fulcro e il motivo principale del nostro viaggio, la vera esperienza africana. In 5 giorni il tour toccava le seguenti tappe:
Nosy Be – Ankify – Anbilobe – Diego Suarez – Montagne d’Ambre – Montagna dei Francesi – Tsingy Rouge – Riserva dell’Ankarana – Tsingy Grigi – Ankify – Nosy Tanikely – Nosy Komba – Nosy Be
La prima cosa che abbiamo notato prima della partenza è stata la scarsa disponibilità di informazioni sul tour. Non solo non se ne parlava quasi per niente nei vari forum in rete, ma lo stesso tour operator non si è particolarmente prodigato in materiale informativo, a parte la scarna paginetta sul catalogo che ti descrive in 20 righe un viaggio che promette meraviglie trascurando le informazioni più essenziali: che tipo di bagaglio portare, che capi di abbigliamento, com’è il clima, quali sono le condizioni delle strade (lo sperimenteremo presto, ahimè!), che tipo di valuta viene accettata, se sia consigliabile portare con sé farmaci particolari. Niente di niente. Intanto acquistate il pacchetto (a scatola chiusa e a caro prezzo) e poi vedrete. È anche per questo che abbiamo deciso di scrivere questo diario, nella speranza che possa essere utile a qualcuno che come noi qualche mese fa brancolava alla cieca in cerca di lumi.
C’è da dire che due giorni prima dell’inizio del tour viene fatto un briefing presso il villaggio durante il quale si danno tutte le informazioni del caso e viene consegnato quel benedetto foglio con il bagaglio consigliato. Peccato che le valigie le abbiamo fatte a casa in Italia, 3 giorni fa. Avremmo tanto voluto sapere allora cosa portare! OK, niente panico. Cosa dice l’elenco? Magliette, pantaloncini, almeno un paio di pantaloni lunghi, scarpe comode, se possibile da trekking (eh? scarpe da trekking non pervenute, quelle da tennis andranno benissimo per forza). E poi ancora qualche capo caldo per la sera (una felpa può bastare? mah…), un impermeabile in caso di pioggia (addirittura?). L’anfiteatro in cui ci hanno convocato per il briefing inizia a rumoreggiare. E purtroppo comincia la trafila delle domande intelligenti: “Ma l’impermeabile è proprio indispensabile?” Be’, a volte nei parchi è capitato qualche improvviso acquazzone. Se dovesse succedere, ad esempio, in mezzo alla foresta non ci sono ripari. “E se io non ho l’impermeabile ma ho l’ombrello? Devo portarlo?” Signora, veda lei, se non vuole bagnarsi è meglio che lo porti. “E come si fa per i propri bisogni fisiologici?” Negli hotel e nei ristoranti previsti dal tour ci sono le toilettes naturalmente. “E per strada o nei parchi?” Be’, lì ovviamente dovremo adattarci a fare i nostri bisogni “nella natura” (in parole povere niente autogrill, siamo in Africa!). Il responsabile del tour continua a ripeterci che questo è un viaggio che richiede un certo spirito di adattamento e un minimo di agilità (questo non c’era nel catalogo però eh…). Ed è proprio qui il bello: questi viaggi organizzati da tour operator blasonati sono sempre piuttosto costosi e di conseguenza i partecipanti il più delle volte sono o gente benestante con poco spirito di adattamento o ultrasessantenni tutt’altro che atletici che le scarpe da trekking le hanno viste solo in vetrina. E noi che siamo abituati a viaggi zaino-in-spalla e allenati a lunghe camminate e a condizioni meteorologiche estreme ci sentiremo spesso dei pesci fuor d’acqua in questa compagnia, nonostante paradossalmente siamo forse fra i pochi partecipanti veramente adatti. Ma le sorprese non finiranno qui. E allora partiamo!
1° giorno: Nosy Be – Ankify – Diego Suarez
La partenza dal villaggio è prevista per le ore 7.00. Scendiamo alle 6.30 per colazione e individuiamo alcuni dei nostri compagni di avventure. Oh mio Dio, c’è uno vestito da Indiana Jones, per favore ditegli che non andiamo alla ricerca dell’Arca perduta… Recuperiamo il nostro bagaglio e andiamo a metterlo in fila agli altri in attesa del pullman. Da persone abitualmente pratiche abbiamo optato per bagagli leggeri, due capienti zaini e un borsone morbido di medie dimensioni. E sconcertati notiamo invece una certa proliferazione di valigione rigide di dimensioni mostruose. Vedrete su che imbarcazioni le dovrete caricare!
Siamo un gruppo di 27 partecipanti ma ci divideremo in due gruppi più piccoli, ognuno con la propria guida, su due pulmini di piccole dimensioni. Le nostre guide sono due ragazzi malgasci simpatici e preparati che con interessanti informazioni e singolari aneddoti ci faranno pian piano scoprire il vero Madagascar. Dal villaggio ci dirigiamo verso il porto di Hell-Ville, il capoluogo di Nosy Be, dove ci imbarcheremo per raggiungere il porto di Ankify, sulla costa della “Grande Terre”. La guida ci dice che prenderemo delle barche veloci e che la traversata durerà circa 45 minuti. Ora la definizione di “barca veloce” in Madagascar va interpretata. Non aspettatevi certo un aliscafo. In realtà si tratta di piccole lance che ospitano al massimo 7-8 persone (più i bagagli), completamente esposte agli spruzzi d’acqua per la gioia vostra e delle vostre valigie. Che siano veloci non ci sono dubbi, anche perché guidano come pazzi, il che rende caldamente raccomandato indossare quel giubbotto salvagente che vi daranno, per quanto sia sporco e bagnato. Insomma, il capitolo “spirito di adattamento” è già iniziato. E mi raccomando non sedetevi davanti, perché sentirete ancor più gli scossoni violenti delle onde prese a tutta velocità da quei pazzi scatenati.
Dopo 45 minuti esatti approdiamo sull’altra sponda col sedere ammaccato, pensando che comunque il peggio sia passato. E invece il bello comincia adesso. Ci separano da Diego Suarez circa 250 km, un tragitto tutto sommato neanche tanto lungo, eppure impiegheremo ben 7 ore soste escluse. Il motivo: l’unica strada che collega Ankify a Diego Suarez è praticamente inesistente, più che una strada con delle buche è uno sterrato devastato da veri e propri crateri con qua e là qualche residuo di asfalto. Non sarebbero forse stati meglio dei fuoristrada che dei pulmini? Per carità, come vi dicevo noi siamo persone adattabili e non soffriamo il mal d’auto, ma 7 ore di pullman su strade in queste condizioni metterebbero a dura prova chiunque, specie chi ha problemi di schiena. Anche di questo nessun cenno sul catalogo di Alpitour. La guida continua a invocare il nostro spirito di adattamento e a ripeterci di avere pazienza, che questo sarà il giorno più duro del viaggio, che più avanti le condizioni della strada saranno anche peggiori e loro sanno bene che prima di sera finiremo per odiarli. “Stasera non ci vorrete nemmeno parlare”. Testuali parole.
Per fortuna arriviamo alla nostra prima sosta, una piantagione nei pressi di Anbilobe dove possiamo vedere da vicino piante di caffè, ananas, cacao, canna da zucchero, spezie varie e uno strano frutto chiamato jackfruit. La sosta è utile per sgranchirci le gambe e provvedere ai bisogni fisiologici, “nella natura”, come sarà consuetudine per i prossimi 4 giorni. Poco dopo ci fermiamo nuovamente per una veloce visita al mercato di Anbilobe, una toccata e fuga secondo noi tranquillamente evitabile avente il solo scopo di farci acquistare gli anacardi dai venditori ambulanti. Dopo un veloce pranzo in un ristorante all’interno della Riserva dell’Ankarana ci rimettiamo in viaggio.
Nel pomeriggio come previsto le condizioni della strada peggiorano con grande gioia del nostro stomaco. Non sarebbero previste ulteriori fermate per non ritardare il nostro arrivo a Diego Suarez, ma probabilmente impietosite dalle condizioni del gruppo le nostre guide ci concedono un altro paio di rapide soste prima di affrontare l’ultima parte veramente terribile del tragitto. Arriviamo a Diego Suarez verso le 17.00 impolverati e visibilmente provati. Ah, dimenticavo: i nostri pulmini sono molto spartani e ovviamente non sono dotati di aria condizionata. L’unico modo per non soffocare è quello di lasciare i finestrini aperti, il che lascia però anche entrare polvere e smog, per la gioia dei nostri polmoni e delle nostre povere gole. Già di per sé questo mieterà qualche vittima nel gruppo.
Diego Suarez (Antsiranana in malgascio) è la principale città del nord del Madagascar, una città priva di particolari attrattive e caratterizzata dall’architettura coloniale e dalla presenza di numerosi insediamenti militari risalenti al dominio francese. In seguito all’indipendenza del Madagascar dai francesi nel 1960, gli edifici originariamente molto belli lasciati dai colonizzatori sono passati sotto la tutela dello Stato, che li ha semplicemente lasciati andare in malora. Per le prime 3 notti del tour alloggeremo al Grand Hotel, il miglior hotel della città situato in posizione centralissima sulla Rue Colbert. È dotato di ampie stanze elegantemente arredate e di una scenografica piscina nel cortile interno, a bordo della quale vengono serviti i pasti. Il wifi è a disposizione gratuitamente in tutta la struttura. I pasti sono di buona qualità anche se non molto vari, mentre il servizio è un po’ lento, in perfetto stile malgascio “mora mora”. Nota decisamente dolente: il caos proveniente dalla strada e dal pub di fronte, soprattutto nei weekend. Ovviamente la nostra stanza è proprio fronte strada e almeno la prima notte non chiuderemo occhio prima delle 6.00 di mattina, cioè quando ci saremmo dovuti alzare. Proprio quel che ci vuole dopo una giornata di viaggio devastante.
2° giorno: Montagne d’Ambre – Baia di Diego Suarez – Montagne des Français
Questa giornata sarà dedicata alla visita del Parco Nazionale Montagne d’Ambre situato ad una trentina di km da Diego Suarez, che sulle strade di cui sopra significano circa un’ora di gimkane fra le buche e conseguente sballottamento dei nostri poveri sederi, stomaci e… non aggiungiamo altro. Durante il tragitto incontriamo dei gruppetti di persone che corrono esultanti sventolando una specie di bandiera. Pare si tratti di qualche festeggiamento, forse in occasione di una circoncisione. Buon divertimento allora. Chissà se il bambino oggetto della festa è altrettanto felice!
I ritmi di vita dei malgasci sono sempre molto rilassati e allegri. Passando per i villaggi troviamo bambini che ci vengono incontro salutandoci sorridenti, sentiamo spesso musica e vediamo gruppi di persone ballare, pare ci sia sempre qualche motivo per festeggiare e ci chiediamo se ogni tanto lavorino. La guida ci spiega che vivono quasi esclusivamente di agricoltura e allevamento, ma non disponendo di macchinari e svolgendo tutto il lavoro manualmente si alzano molto presto al mattino per far lavorare gli animali nei campi nelle ore più fresche (gli zebù che vediamo un po’ dappertutto nel paese), avendo quindi poi gran parte della giornata libera. Sembrano molto felici nonostante le loro modeste condizioni di vita, incuranti di vivere in capanne di paglia in cui magari piove dentro, di camminare scalzi tra il fango o gli sterpi, di non avere energia elettrica, acqua corrente e tutte quelle comodità che per noi sono irrinunciabili e che chiamiamo “civiltà”. Noi li vediamo vivere in queste condizioni per noi miserabili e crediamo che siano poveri, ma in realtà non lo sono. Hanno i frutti della terra, il bestiame e un tetto sulla testa e questo per loro è sufficiente, non aspirano ad avere di più. Riflettiamo quindi quando pensiamo che si tratti di popoli poveri e bisognosi. Forse loro sono felici così.
Fra le condizioni della strada e le soste arriviamo all’ingresso del parco della Montagne d’Ambre verso le 11.00. La guida ci ha raccomandato di indossare pantaloni lunghi e comode scarpe chiuse perché la giornata prevede una camminata di circa due ore nella foresta alla scoperta della flora e della fauna del parco. In aggiunta alle nostre guide saremo accompagnati da altre due guide locali per la verità piuttosto superflue: oltre a saper parlare solo due parole di italiano stentato, riusciranno a mostrarci ben pochi animali, vuoi perché in giro ce n’erano pochi, vuoi perché noi probabilmente facevamo troppo rumore e li spaventavamo. Fatto sta che riusciamo ad individuare solo qualche piccolo geco mimetizzato sui rami e alcuni gruppi di lemuri nascosti tra il fogliame sulle cime degli alberi, impossibili da vedere se non con il binocolo, figuriamoci da fotografare. Anche le due cascate che raggiungiamo non sono niente di sensazionale, l’unica particolarità è che sono considerate luoghi sacri per i malgasci, che sono animisti e credono che le anime dei loro antenati dimorino nella natura, sia essa una cascata, un albero, una montagna. Notiamo infatti alcune monetine lasciate ai piedi delle cascate come offerta votiva.
Usciamo dal parco verso le 13.00 per la verità un po’ delusi, non senza aver lasciato una generosa mancia alle due (superflue) guide. OK, mettiamola nel conto delle opere di beneficenza. Peccato che una delle due guide abiti in una residenza di tutto rispetto, un’autentica villa in confronto alle capanne dei suoi “compaesani”, come constatiamo sgomenti accompagnandolo a casa con il nostro pullman. Hai capito le mance… La sosta per il pranzo è prevista in un lodge all’interno del parco, un’oasi di pace con vista panoramica sulle montagne circostanti. I pasti di questi giorni prevedono sempre la scelta fra due menu, uno di carne e uno di pesce, in genere zebù (l’equivalente della nostra mucca) e mérou (una specie di cernia). Nonostante la cucina sia buona dopo qualche giorno la ripetitività inizia a venirci un po’ a noia e sarà motivo di allegre risate nel gruppo: “Cosa prevede il menu stasera? Zebù o mérou?” sarà il tormentone del tour.
Dopo pranzo facciamo rientro a Diego Suarez dove visitiamo la baia con la singolare isoletta di origine vulcanica dalla forma appuntita denominata Nosy Lonjo (“pan di zucchero” in malgascio). Anche questo è un luogo sacro per gli animisti ma potrebbe esserlo anche per i cristiani, perché da una certa angolazione la sommità dell’isola sembra il profilo del volto di Cristo addormentato. La visita prosegue verso la Montagna dei Francesi, un massiccio calcareo così chiamato poiché un tempo fu campo di battaglia tra le forze coloniali francesi e inglesi e che ancor oggi ospita la necropoli dei vecchi colonizzatori. La Montagna dei Francesi è nota anche per i baobab che ne ricoprono le pendici, anche se a dire il vero non in grandissima quantità e di una specie endemica di questa zona che non ha la spettacolarità di quella della più famosa Allée des Baobabs di Morondava. Sulla Montagna dei Francesi ci aspetta una merenda gentilmente offerta dal nostro hotel di Diego Suarez (sicuramente compresa nel costo del tour), che però rimane quasi intatta sui tavoli avendo finito di pranzare solo due ore prima. Attendiamo quindi che cali il tramonto per ammirare il suggestivo panorama della baia, con le mangrovie che fanno capolino sul pelo dell’acqua e i profili dei baobab che si stagliano grigi contro il crepuscolo sul crinale della montagna.
La giornata si conclude con una cena in un ristorante francese non particolarmente degno di nota se non per la lentezza del servizio e l’esasperante lunghezza del pasto. Se c’è una cosa che detestiamo dei viaggi organizzati è proprio questo indugiare ai ristoranti, tempo prezioso sottratto alle visite o anche solo ad un meritato riposo. Tra l’altro per restare in tema “gastronomico” scopriamo che nel gruppo già parecchi sono stati colpiti dalla cosiddetta “sindrome del viaggiatore” o “vendetta di Montezuma”, quel fastidioso insieme di disturbi gastro-intestinali ben noti a chi ha visitato paesi tropicali, specie se del terzo mondo. Noi per ora sembriamo esserne immuni, speriamo che la fortuna continui, anche perché in zone come queste le toilettes non sono proprio a portata di mano! Passeggiatina dopo-cena fino all’hotel e via subito a nanna, sperando che stasera il pub di fronte ci lasci dormire.
3° giorno: Tsingy Rouge – Diego Suarez
Il programma di oggi prevede la visita tanto attesa al parco degli Tsingy Rouge con partenza dall’hotel alle ore 8.00 a bordo di fuoristrada invece dei nostri soliti pulmini, essendo il parco raggiungibile solo su strade sterrate. Subito tutti pensiamo a quanto sarebbe stato comodo avere a disposizione i fuoristrada per l’intera durata del tour e non solo per la giornata odierna e ci chiediamo quanto questo sterrato possa essere peggiore delle cosiddette “strade” percorse finora con il pullman. La guida in effetti ci confessa che fino a qualche anno fa gli tsingy erano raggiungibili anche con i pulmini, ma il governo ha imposto l’utilizzo dei fuoristrada solo ed esclusivamente a beneficio delle compagnie di autonoleggio. Della serie: come promuovere il turismo. Asfaltare le strade magari? Per la cronaca: l’unica strada pseudo-asfaltata che abbiamo percorso avanti e indietro per 5 giorni da Ankify a Diego Suarez risale agli anni ’90 e da allora non è mai stata oggetto di alcuna manutenzione.
Comunque sia, approfittiamo della nostra fortuna odierna e saliamo su questi benedetti fuoristrada: uno, due, tre, quattro… Ops! Pare non ce ne siano abbastanza per tutti. Roba da non credere: il tour operator conoscerà il numero dei partecipanti da quanto tempo? Qualche mese, qualche settimana di sicuro. E ci ritroviamo il giorno dell’escursione con un fuoristrada in meno? Ebbene sì, niente da fare, non ci resta che aspettare che ne arrivi un altro. Passa mezz’ora, tre quarti d’ora… Ad un certo punto l’autista del nostro fuoristrada mette in moto e partiamo senza il resto del gruppo. Per andare dove? A gonfiare le gomme, non ci posso credere! Siamo stati fermi ad aspettare tre quarti d’ora! Non poteva venirti in mente prima che avevi le gomme sgonfie? OK, inutile arrabbiarsi, immedesimiamoci nella mentalità malgascia e cerchiamo di avere pazienza. Gonfiamo queste benedette gomme e finalmente ci mettiamo in marcia… ai 30 allora! “Andiamo mora mora” ci dice il nostro autista (n.d.r.: “mora mora” in malgascio significa “piano piano”). Mora mora? Ma se siamo in ritardo di un’ora! La nostra avversione per i tour organizzati aumenta in maniera esponenziale di minuto in minuto.
Finalmente dopo un po’ il gruppo si ricompatta e iniziamo ad accelerare in direzione degli tsingy, almeno per quel che ci consentono le condizioni della strada. Addirittura ad un certo punto si innesca una vera e propria gara tra fuoristrada con tanto di sorpassi spericolati e gimkane fra le buche. Yuhuuu! Arrivati all’ingresso del parco imbocchiamo lo sterrato vero e proprio ma dobbiamo subito fermarci dopo pochi metri: pare stia arrivando un altro mezzo in senso contrario e la strada non è abbastanza larga per due, così il convoglio di fuoristrada è costretto a spostarsi per quanto possibile in una specie di piazzola che sembra fatta apposta per questo genere di intoppi, solo che per raggiungerla bisogna entrare in una serie di vere e proprie voragini e qualche fuoristrada ovviamente si pianta. OK, tutti giù a spingere, anche questo fa parte dell’avventura! Finalmente arriva questo misterioso mezzo a cui abbiamo lasciato il passo: un folkloristico e coloratissimo trattore con rimorchio carico di gente, bagagli e suppellettili. Un autobus del trasporto pubblico, insomma! Chissà cosa ci fa qui in mezzo.
Proseguiamo su uno sterrato rosso vivo che pian piano scende verso il fondovalle in tornanti e discese anche piuttosto ripide, molto divertenti da percorrere in fuoristrada. Ad un tratto scorgiamo in lontananza delle fratture nel terreno di un rosso ancor più acceso, facciamo una sosta e la guida ci indica un sentiero che dovrebbe condurci ad un viewpoint: ci incamminiamo poco convinti senza grandi aspettative e invece giunti in fondo al sentiero ci si spalanca davanti un vero e proprio canyon scavato da un fiumiciattolo dalle acque color mattone. Le pareti del canyon sono una meraviglia di guglie e pinnacoli coloratissimi, dal bianco, all’arancio al rosso vivo. Sono questi appunto gli “tsingy”, termine che in malgascio significa “ago”, “punta”. Si tratta di formazioni rocciose calcaree scolpite dall’azione degli agenti atmosferici nel corso di milioni di anni. Ci ricordano un po’ il Bryce Canyon visto l’anno scorso nello Utah durante il nostro tour americano, anche se in scala ridotta. Dopo alcune foto dall’alto ci spostiamo a bordo dei fuoristrada verso la base del canyon, per poi scendere a piedi lungo un ripido sentiero fin sulla riva del fiume Irodo, dove possiamo avvicinarci agli tsingy fino a toccarli.
Peccato che dopo solo mezz’ora dobbiamo già risalire, l’inconveniente del mattino con i fuoristrada ci ha fatto perdere molto tempo e siamo in forte ritardo per il pranzo. Stavolta però la salita dal fondo del canyon non è altrettanto divertente della discesa, è l’una e il sole a picco si fa sentire. Ma la nostra guida ci ha promesso che al ritorno avremmo trovato ad attenderci una sorpresa… un bel cesto di salviette rinfrescanti imbevute di essenza profumata di ylang ylang. Eh be’, in un tour come questo anche il lusso vuole la sua parte. Approfittiamo volentieri delle salviette per avere un po’ di refrigerio e ci accorgiamo che a contatto con la nostra pelle diventano marroni! Accidenti! Siamo proprio belli impolverati, non c’è che dire. La seconda sorpresa è un bel casco di banane che ci attende all’ombra di un capanno, una piccola merenda per spezzare il digiuno in attesa del pranzo tardivo.
Rientriamo a Diego Suarez che sono quasi le 15.00 e pranziamo in un ristorante in riva al mare. Il pomeriggio lo dedichiamo alla visita della città: il porto carico di variopinti container, il belvedere con la statua del generale Joffre che ha contribuito allo sviluppo della città, gli edifici coloniali (o meglio quel che ne resta), gli insediamenti militari lasciati dai colonizzatori francesi. La città non ci lascia una gran bella impressione: splendidi edifici di epoca coloniale sono in stato di abbandono, pericolanti e sorretti da improvvisate impalcature in legno che garantiscono ben poca protezione, nei giardinetti affacciati sul mare i bambini giocano tra i rifiuti abbandonati, mentre il singolare gazebo al centro dei giardini è stato preso d’assalto da insegne pubblicitarie di una delle compagnie telefoniche locali. Tutto dà un’immagine di decadenza e degrado. Le uniche zone che conservano un certo decoro sono l’ex quartiere residenziale della marina francese, ora di proprietà dell’esercito malgascio, e la centralissima Rue Colbert, dove trascorriamo un’oretta alla scoperta delle sue botteghe artigianali prima di rientrare in hotel per la cena.
4° giorno: Riserva dell’Ankarana – Tsingy Grigi
Oggi lasciamo definitivamente Diego Suarez e ci dirigiamo verso la nostra prossima meta: il Parco Nazionale dell’Ankarana. La strada che percorriamo è la solita (e unica) dell’intero tour e inutile dire che dopo qualche giorno diventa davvero pesante. Ad ogni sosta del pullman tiriamo un sospiro di sollievo e anche una volta scesi per un po’ continua la strana sensazione di ballonzolare su e giù tra le buche. Perciò chi è delicato di stomaco o ha problemi di schiena ne tenga conto, perché nessun catalogo di nessun tour operator ne farà mai alcun cenno.
Durante il tragitto notiamo ai bordi della strada uomini e donne accovacciati accanto a montagne di sassi che cercano di frantumare con dei martelli. Sono i cercatori di zaffiri dell’Ankarana. Avete capito bene: qui, come in altri siti del Madagascar, vi sono giacimenti di pietre preziose, rubini, smeraldi, zaffiri, di cui il Madagascar è uno dei principali produttori al mondo. Altro paradosso di questo straordinario paese: hanno una natura rigogliosa, terra e animali in abbondanza e addirittura filoni di pietre preziose. Sono un paese potenzialmente ricco eppure vivono in condizioni che noi non esiteremmo a definire misere. Perché? Sfruttamento da parte di governi sciagurati, corruzione e malgoverno e forse anche incapacità di reagire da parte di un popolo tenuto nell’ignoranza? Tante le domande, difficili le risposte.
Fatto sta che da quando sono stati scoperti i primi filoni di pietre preziose migliaia di malgasci si sono precipitati in massa in prossimità dei giacimenti, dove da un giorno all’altro sono spuntati come funghi villaggi fatti di capanne di rami e fango o baracche di legno, intorno ai quali si sono sviluppati mercati, locande e altre attività commerciali. In questi villaggi i cercatori estraggono le pietre dal sottosuolo senza alcuna concessione governativa e a rischio della propria vita, per poi lavorarle e rivenderle a mercanti e intermediari che il più delle volte li sfruttano. Ecco perché i pullman dei turisti vengono letteralmente presi d’assalto nella speranza di riuscire a realizzare qualche buon affare. Peccato che noi non siamo grandi estimatori di pietre preziose e soprattutto non abbiamo a disposizione tanto contante (inutile dire che non accettano carte di credito…). Ci limitiamo quindi ad una veloce visita del villaggio, con le botteghe degli artigiani che a cielo aperto lavorano e lucidano le pietre con attrezzi rudimentali e il variopinto mercato dove un piccolo coccodrillo fa mostra di sé a beneficio dei turisti, mentre un mercante estrae da un sacco una curiosa mercanzia: una volpe volante. Anzi no, un cadavere di volpe volante! Avete presente quelle specie di pipistrelli giganti? Ebbene se le mangiano, puah…
Arriviamo al nostro lodge all’interno del parco dell’Ankarana per l’ora di pranzo. Wow! Che posto meraviglioso! Siamo all’Iharana Bush Camp, un lodge a 5 stelle di proprietà di Alpitour che a detta della nostra guida è il più bello nel suo genere di tutto il Madagascar. Il lodge è costituito da palafitte in legno in stile malgascio affacciate direttamente su un suggestivo lago ai piedi degli Tsingi Grigi, una catena montuosa calcarea emersa dal fondo dell’oceano e poi erosa dagli agenti atmosferici fino a formare delle singolari e acuminate guglie di colore grigio. All’interno del lodge le stanze sono molto spaziose, c’è un ingresso con salottino, la camera da letto vera e propria con letto protetto da zanzariera e un’ampia doccia con servizi igienici separati. Non c’è telefono, né TV, né wifi nel pieno rispetto dell’ambientazione naturalistica del lodge, ma potete usufruire di una graziosa piscina, una spa e soprattutto godere dell’incanto di una natura selvaggia e incontaminata.
Nonostante il lusso però il soggiorno qui non è proprio per tutti e richiede un certo spirito di adattamento. Se può essere suggestivo ammirare dal letto il cielo stellato (il tetto non copre completamente la capanna), magari è meno piacevole veder scorrazzare sul soffitto ogni genere di insetti. Meno male che c’è la zanzariera! Quindi siate preparati a qualche incontro ravvicinato con la fauna locale, contro cui nulla potranno i rudimentali infissi in legno protetti da semplici tende, dalle cui fessure (o meglio voragini) entra ogni sorta di ospite indesiderato: le rane ad esempio sembrano trovarsi bene nel bagno di alcune camere, mentre ragni e scarafaggi sono all’ordine del giorno. E infatti all’ingresso del nostro alloggio ci accoglie un ragnone mostruoso che sta facendo la siesta sul nostro divano. Ecco, ora è sparito. Aiuto, dove si sarà nascosto? Non credo di riuscire a dormire stanotte…
L’escursione agli Tsingy Grigi è prevista nel pomeriggio e durerà circa 3 ore. La guida ci raccomanda di indossare scarpe comode, ma vi diciamo subito che devono essere almeno scarpe da tennis, meglio ancora se da trekking leggero. L’escursione è infatti una vera e propria arrampicata su un ripido sentiero attrezzato per niente banale che richiede una certa agilità e un po’ di allenamento. E ve lo dice una coppia di appassionati di trekking abituata a percorsi dolomitici anche piuttosto impegnativi. Ovviamente nessun cenno di ciò sul catalogo, per non parlare delle guide che alle nostre richieste di informazioni ci rispondono: “Non siamo in grado di dirvi se ce la farete o meno, mettetevi in cammino e poi se proprio non ce la fate una guida vi riaccompagnerà al lodge”. Davvero illuminante. E infatti dopo neanche mezz’ora il gruppo comincia a perdere i pezzi: i meno allenati iniziano a fermarsi rallentando gli altri, finché ad un certo punto sono costretti a desistere e a fare dietro-front, magari dopo aver lasciato qualche centimetro di pelle sugli spuntoni acuminati degli tsingy. Certo poi c’è sempre qualcuno che ci mette del suo: forse si potrebbe evitare di arrampicarsi sulle rocce con i sandali o le ciabatte…
Il bello poi viene quando arriviamo all’ingresso della grotta: armati di torcia frontale come dei veri speleologi ci infiliamo in uno stretto budello nelle viscere della terra alla scoperta di una delle tante formazioni carsiche del parco dell’Ankarana. L’oscurità è totale e il gruppo procede un po’ a rilento fra i gridolini terrorizzati di chi appoggia la mano su un ragno o un millepiedi e le imprecazioni di chi, come la sottoscritta, dà qualche crognata alle stalattiti nonostante le raccomandazioni della guida di abbassare la testa. Ad un certo punto arriviamo in un passaggio della grotta veramente stretto ed è uno spasso assistere alle contorsioni dei più corpulenti che cercano in tutti i modi di assottigliarsi con l’unico risultato di rimanere incastrati tra gli anfratti. L’esperienza alla Indiana Jones, emozionante per alcuni, si conclude per altri con qualche escoriazione e qualche slogatura e il giorno dopo sarà tutto un lamentarsi di muscoli indolenziti e ginocchia rotte, che vanno ad aggiungersi ai disturbi gastro-intestinali e ai sintomi influenzali da clima-tropicale-germi-patogeni-strade-dissestate e chi più ne ha più ne metta.
Ma una volta arrivati in cima agli tsingy lo spettacolo è assicurato e ci ripaga di tutta la fatica e gli incidenti di percorso: da lassù la nostra vista spazia sulle punte aguzze delle rocce circostanti, sulla vallata e sulle acque suggestive del lago alla luce del crepuscolo, dove i meno atletici che sono tornati a valle si stanno divertendo a fare una gita in piroga. Ma sta calando il tramonto e dobbiamo affrettarci a ridiscendere prima che faccia buio per godere di un’ultima emozione: le rocce grigie degli tsingy che si incendiano di rosso alla luce degli ultimi raggi di sole specchiandosi nelle acque del lago. Uno spettacolo da cartolina. E così si conclude la nostra escursione sugli Tsingy Grigi. Bella tosta, non c’è che dire. Peccato non essere riusciti a scorgere i lemuri, messi in fuga dal vociare del nostro gruppo rumoroso. E peccato anche per la mancata traversata del ponte sospeso tanto sbandierato dalle foto del catalogo, che scopriamo trovarsi sì nel parco, ma in un altro dei tanti percorsi ben più lungo e impegnativo.
La serata prevede una cena a base di grigliata, dopo di che il gruppo fa lentamente ritorno ai propri alloggi. Qui non c’è molto da fare, niente TV, niente Internet, nessun intrattenimento. Non resta che sedersi in riva al lago, sollevare lo sguardo e rimanere incantati dalla miriade di stelle che illuminano il cielo: incredibile quanto siamo brillanti in assenza della luce artificiale, è uno spettacolo a cui noi “cittadini” purtroppo non siamo più abituati. Ma fa freschino e domani ci attende l’ultima levataccia, meglio andare a dormire, sempre se ci riusciamo. Vado in bagno, controllo che nel lavandino non ci siano rane, poi ripenso con un brivido all’enorme ragno di poco prima chiedendomi dove mai si sarà nascosto, sollevo le coperte del letto e controllo scrupolosamente che non ci siano intrusi. Dopo aver perlustrato ogni centimetro quadrato della stanza mi decido finalmente ad infilarmi sotto le coperte e con un occhio aperto e l’orecchio teso cerco di addormentarmi. Esperienza unica ed emozionante la notte “into the wild”, ma vi giuro, una basta e avanza!
5° giorno: Ankify – Nosy Tanikely – Nosy Komba – Nosy Be
Oggi sveglia nientemeno che alle 5.00 e sapete perché? Perché ad Hell-Ville proprio oggi inizia il Carnevale e si prevede il blocco del traffico, per cui dobbiamo cercare di arrivare prima delle 15.00 altrimenti rischiamo di rimanere bloccati fino a sera. No comment. Innanzitutto cosa c’entra il Carnevale ad agosto!? Semplice, cercano di festeggiarlo nel periodo meteorologico più favorevole dell’anno, perché se lo facessero a febbraio come noi ricadrebbe nel periodo caldo-umido delle piogge e correrebbe grossi rischi di essere rovinato. Seconda domanda: oggi il nostro tour prevede l’escursione alle isole di Nosy Tanikely per lo snorkeling e Nosy Komba per ammirare le colonie di lemuri. Come acciderbolina facciamo a fare tutte queste cose e rientrare a Nosy Be prima delle 15.00, considerando che dal parco dell’Ankarana al porto di Ankify ci sono ben 130 km, ovvero tre ore buone di strada ad essere ottimisti? Misteri dell’organizzazione malgascia.
Ma tant’è. Lasciamo il lodge alle 6.00 e dopo una rapida sosta alla piantagione di Ambilobe già visitata all’andata ci imbarchiamo al porto di Ankify alle 9.30 diretti verso il parco marino di Nosy Tanikely, dove sbarchiamo alle 10.15. L’isola è meravigliosa, con un mare cristallino ricco di pesci e tartarughe, un paradiso per gli appassionati di snorkeling. Ma ahimè troppo poco il tempo a disposizione! Solo un veloce bagno e qualche foto e già dobbiamo risalire per una passeggiata lampo fino al faro in cerca delle colonie di lemuri. Alle 12.00 già lasciamo l’isola in direzione Nosy Komba dove abbiamo appuntamento con il ristorante per il pranzo. Dovrebbe essere questa l’isola dei lemuri ed è qui che avremmo dovuto trascorrere il pomeriggio e invece ripartiamo subito dopo pranzo senza vedere praticamente nulla se non il rettangolo di spiaggia sul quale siamo approdati. E colmo del paradosso: sbarcati al porto di Hell-Ville saliamo sui fuoristrada che dovrebbero ricondurci al villaggio Bravo Andilana… solo per rimanere bloccati in mezzo al traffico! Ebbene sì, non sono ancora le 15.00 ma le strade sono già chiuse per consentire la sfilata dei carri allegorici. Tanta fatica per niente. Non ci resta che rassegnarci e armarci di pazienza.
Sui fuoristrada fermi in mezzo al traffico dopo un po’ soffochiamo, per cui decidiamo di scendere e già che ci siamo approfittarne per dare un’occhiata alla sfilata. Cerchiamo di farci largo fra la ressa ma è un’impresa, e anche un po’ pericolosa a pensarci bene: abbiamo abbandonato tutti i nostri bagagli sui fuoristrada rassicurati dalle guide, ma ci sarà da fidarsi? Sarebbe uno scherzo approfittare della baraonda in cerca di un facile bottino. Per fortuna fila tutto liscio. Il corteo carnevalesco non è esattamente come noi ce lo immaginiamo: non ci sono dei veri e propri carri con maschere di cartapesta, a sfilare sono più che altro gruppi folkloristici, majorettes, ballerini, auto scassatissime tutte inverniciate con musica a tutto volume. La sfilata ci tiene fermi più di un’ora, dopo di che la folla comincia lentamente a defluire e noi possiamo rimetterci in marcia. Arriveremo al villaggio alle 17.00 avendo praticamente buttato una giornata senza vedere quasi nulla. Non sarebbe stato meglio rispettare il programma ed eventualmente posticipare il rientro anziché anticiparlo? Di sicuro avremmo preferito visitare Nosy Komba o rimanere un po’ di più sulla spiaggia di Nosy Tanikely piuttosto che imbottigliati in mezzo al traffico sotto il sole. Misteri imperscrutabili dell’organizzazione Alpitour. In conclusione, il nostro giudizio sul tour e qualche consiglio:
Strutture ricettive: ottime, il meglio di ciò che offre il paese, considerando anche gli standard alberghieri del Madagascar.
Mezzi di trasporto: pullman sicuramente di lusso per gli standard malgasci, ma poco confortevoli per un tour di 5 giorni e assolutamente inadeguati alle condizioni pessime delle strade. Sarebbero stati meglio dei fuoristrada per l’intera durata del tour e non solo per l’escursione agli Tsingy Rouge.
Clima: ad agosto fa caldo durante il giorno, perciò bene magliette e pantaloncini, ma di sera fa piuttosto freschino ed è consigliabile avere sempre una felpa o un golfino. Piogge noi non ne abbiamo trovate, essendo anche il periodo secco, ma una giacca a vento leggera per ogni evenienza non guasta.
Bagaglio consigliato: borse morbide di medie dimensioni o trolley piccoli e ovviamente zaini, utilissimi per le escursioni giornaliere. Da mettere in valigia: magliette, pantaloncini, pantaloni da trekking per le escursioni e pantaloni lunghi per la sera, qualche felpa o maglia a maniche lunghe sempre per la sera e un k-way in caso di pioggia, costume da bagno e sandali o ciabatte per l’escursione alle isole, scarpe da tennis o da trekking leggero per le escursioni ai parchi.
Farmaci: portateli senz’altro con voi. È più facile che ne abbiate bisogno qui che nei resort di Nosy Be, che sono soggetti a disinfestazioni continue e controllatissimi dal punto di vista sanitario, specie il Bravo Andilana. Consigliati soprattutto antidiarroici e disinfettanti intestinali, antipiretici, analgesici e magari un antibiotico ad ampio spettro. Per quanto riguarda la profilassi antimalarica noi non l’abbiamo fatta, tanto più che agosto è il periodo secco e di zanzare ce ne sono veramente poche, ma ovviamente è una scelta personalissima.
Valuta: meglio portare con sé gli ariary. Gli euro sono accettati nei resort e nei grandi hotel, ma non certo nei villaggi o nei mercati malgasci. Tenete poi anche conto delle inevitabili mance che dovrete dare alle guide e agli autisti: anche loro preferiscono gli ariary perché le monete di euro non possono essere convertite in moneta locale, a meno che non siate disposti a dispensare continuamente banconote da 5 euro!
In conclusione, ci sentiamo di consigliare questo tour? Certamente sì per le meraviglie dei luoghi uniche al mondo, tenendo però presente che si tratta di un tour faticoso e non per tutti e che vi trovate pur sempre in un paese del terzo mondo che ogni tanto richiede più di un certo spirito di adattamento. Ma ahimè certamente no per la formula “tour organizzato”. Se da un lato questo fa risparmiare la fatica dell’organizzazione individuale del viaggio e dà la sensazione di partire più “tranquilli”, dall’altro lato bisogna essere disposti ad accettare alcune rigidità nei programmi ed essere preparati agli inevitabili inconvenienti e perdite di tempo dovute al fatto di viaggiare in un gruppo di tante persone con esigenze diverse. Ovviamente si tratta di un parere personalissimo di una coppia amante dell’indipendenza dei viaggi fai-da-te. Comunque sia, da soli o in gruppo, il Madagascar è un paese unico e magnifico e vi regalerà sicuramente esperienze memorabili. Buon viaggio allora!