Dialoghi e pensieri in motocicletta in Bangladesh
Una montagna di sensazioni. Dove incominciare? Riuscirò a cogliere il senso vero di questo nuovo viaggio in Bangladesh ed accompagnare Padre Emilio fino alla soglia della nuova Missione? Purtroppo, tralascerò tante cose importanti! C’è l’amicizia di mezzo e tutto si potrebbe complicare o, forse, facilitare? Fra i momenti per sentire più da vicino Padre Emilio, ci sono certamente quelli a cavallo della sua “125 suzuki”, ormai un cimelio fra le centinaia di moto cinesi, anche qui invasori di ogni fetta consumistica. Ma la nostra è giapponese e confido che non ci tradirà, nonostante due pesi massimi.
Già dalla prima “gita” ho il “fondo schiena” ammalorato dallo sbordo sul mini portapacchi posteriore essendo la sella “già occupata”. Poi le cose migliorano grazie al sacco di juta risvoltato, a mò di cuscinetto, che la buona Mariarma (la mamma di Maria) sempre prepara preveggendo i miei dolori.
Sofferenza abbondantemente ripagata dalla gioia di sentirci liberi e, liberamente, dare sfogo al reciproco desiderio di novità da Chandpukur, Cernusco, Butahara o Cassina. Padre Emilio in moto si “lascia andare” forse più che in altre situazioni: tengo la videocamera sempre accesa, per non perdere lo “scoop”! Il nastro d’asfalto della strada principale è stretto mai scorrevole, slabbrato e dislivellato ai bordi. Il traffico, sempre notevole, è rallentato dai mezzi pesanti che quando s’incrociano, devono scansarsi a secondo della gerarchia e ingombro che determina il supposto diritto di precedenza.
Prima vengono i trucks, poi gl’intercity non meno prepotenti e chiassosi e, via via, gli altri: tutti strombazzano ossessivamente fin da lontano. Per salvare la pelle, talvolta ci si infila precipitosamente in banchina, se c’è. Nei sentieri polverosi laterali che si snodano all’infinito e che a me, incapace di coglierne le differenze, paiono tutti simili, i pericoli sono i sobbalzi fra i larghi trottatoi profondamente segnati dai solchi di carri trainati da pii buoi o bufali irrequieti.
E’ un momento febbrile della stagione secca pre-monsonica e l’intensità del verde crea non poco stupore.
Conferma Padre Emilio: “E’ vero. Anch’io resto stupito dalla potenza del verde. Solo qualche anno fa, il Bangladesh ha rischiato la desertificazione. Non so per quale miracolo, nonostante l’uomo, la “fame” ed il commercio talvolta illegale della legna, il grave pericolo appare scongiurato.” E ancora: “E se adesso senza pioggia, la situazione è questa, fra poco, coi monsoni, la natura scoppierà di vita in modo irresistibile. Ora l’attività è frenetica perché tutti ammassano quello che possono, legna, riso, foglie. Tutto ciò che serve e che poi durante il blocco non potrà procurarselo. Sempre che l’acqua non faccia disastri.” Cos’i come, anche qui, meraviglia l’avanzare delle costruzioni fino ai bordi delle strade. Una conferma negativa peraltro già constatata dai finestrini dei mitici coach (pulmann) bengalesi. Sarà questa una conseguenza della crescita della popolazione che in questo paese ha un trend di 2,5 milioni di abitanti l’anno? A Surla Village ci aspettano per la S. Messa e perché il capomastro- finanziatore (Padre Emilio) intende controllare il cantiere della nuova chiesetta-posto comunitario, dedicata a Santa Clotilde. Non mancano le mie prime capocciate contro gli stipiti e le basse falde in lamiera della vecchia chiesetta. Segue la benedizione speciale per un’enorme quantità di riso appena cotto per il pranzo comunitario di una festa di cui non ricordo il perchè. Caramelle acquistate un’ora fa al bazar di Bakrail (il Comune di Chandpukur) e palloncini italiani, non mancano mai per i piccoli, ormai “viziati” dal Father. La motocicletta è d’uso quotidiano, in genere al mattino dopo le nove, comunque sempre al termine delle infinite “udienze” che cominciano presto, poco dopo le sei e che vedono il BoroFather (il Parroco) impegnato in prima persona ad ascoltare. Al pomeriggio è proibitivo salirci: il rischio è la paralisi solare. I villaggi dove ci sono cristiani sono di tribali: Santa!, portati alla caccia di origine proto-australoide, gli Oraon o Urao, più agricoltori con ascendenza dravidica e i Garo-Mandi a singolare successione matrilineare, con avi fra i mongoli. Tutti sparsi nel raggio di 20/30 miglia, anche in contesti misti con mussulmani o indù.
Da Surla rientriamo con Padre Emilio in vena di confidenze: sarà per via del bicchiere di “birra di riso” che io ho rifiutato e lui no? Al Villaggio di Ekbarpur, resto stupefatto da un enorme buco, tutto a gradoni, che stimo profondo quindici metri. E’ il nuovo pukur (cioè lo stagno – riserva d’acqua vitale) riscavato dopo 40 anni di onorato servizio, per ripristinarne capienza e funzionalità. Si riempirà d’acqua con imminente stagione Inutile precisare da chi e con quali sforzi e fondi il lavoro è stato commissionato. Nella fanghiglia del fondo, non è infrequente ritrovarvi il lingam (monolite) di Shiva, simbolo della fertilità indù.
Guardando lo scavo, Padre Emilio commenta: “Tu non riesci nemmeno ad immaginare quanta acqua può venire dal cielo! I campi si allagano totalmente con una massa di acqua incredibile. Acqua che vaga inarrestabile sfondando terrapieni, distorcendo e scavalcando strade manufatti e ponticelli. Poi, pian piano, sarà assorbita dal terreno o troverà la via di fuga verso il fiume Atrai, più a valle. “ E all’improvviso: “Non è facile fare il bene!” La frase è talmente forte e, forse fuori posto in quel momento, che gli chiedo di ripeterla.
La conferma è secca: “Quando cerchi di fare il bene, tante volte non sei capito. Intendo il bene disinteressato e gratuito. Quello che arriva dal cuore e dalla nostra fede. Per un non cristiano è una cosa incomprensibile.”‘ Ancor più per un mussulmano. “ Mi porta, come esempio, proprio quanto successo in mattinata. Accenna alle difficoltà e resistenze “interne” (familiari e sociali) affrontate da una donna indù, di alta casta, che voleva donare alla missione qualche migliaio di taka (la moneta del Bangladesh). Ai miei occhi, Ekbarpur, appare povera e dimessa ma, forse, col nuovo pukur le cose cambieranno. Anche qui, come sempre, una marea di bambini. Al villaggio c’è una nuova costruzione in mattoni: la scuola a classe unica, anche questa voluta e realizzata da Padre Emilio. Il maestro è giovanissimo, capelli folti e sorriso smagliate. Faccio la figura dello stregone con la “magia” delle miniature digitali della camera o della video, con replay (gratis) immediato. L’indice della mia mano destra comincia ad avere qualche “crampo da click”.
Il bambini mangiano subito la foglia e diventano attori sul set improvvisato. Gli adulti sono scettici e ci vuole un po’ per togliere il sospetto di qualche stregoneria. Padre Emilio, poco distante, sogghigna fra i meandri della sua barba. Accetto kola (banane) e chapati (piadina azima) appena cotta per noi: saranno le mie uniche concessioni culinarie “esterne” alla Missione. Il resto che sempre ti offrono, acqua, riso e torcarry (intruglio giallastro a base di legumi di cui vanno matti i Bangladesh!) per me sono “off-limits”! Spero solo che non si offendano e tollerino i miei dinieghi perché non posso permettermi di star male.
Il caldo è atroce: “ Goron! Goron!” L’uso da parte mia dell’idioma locale che significa caldo molto caldo, crea stupore! Sorrido pensando alle fatiche del buon Bruno di Caserta che ha “zippato” un dizìonarietto bengalese (del quale sfrutto la parte fonetica) e inglese-italiano. Siamo completamente lavati e impregnati di sudore e polvere dalla testa ai piedi. Mi consolo vedendo che il Father “soffre” come me.
Qualcuno, impietosito, ci ripassa col gamchal degli uomini, un lungo e stretto pezzo di stoffa… “plurifunzione”. Ohi! Ohi! E’ più impregnato del loro “humus” che del nostro! Nemmeno il venditore di “ghiaccioli”, per me una novità assoluta all’inizio scambiato per un miraggio, riesce a scalfire la mia irremovibilità. Ma se io non posso, non vedo perché debbano rinunciarci i bambini. L’ambulante fa affari d’oro in un solo colpo con le mie taka: un “ghiacciolo” per uno, non fa male a nessuno! La notte seguenti, insonne, la mia mente è martellata: “ Non è facile fare il bene! “ A Lokkompur, un villaggio che conosco e da poco allargato al quartiere “Angelo”, arriviamo in ritardo per via di un ammalato che il rick-shaw-walla (l’uomo del risciò) intendeva scaricare al cancello della missione. Dal portichetto, Padre Emilio si accorge (non gli scappa niente) e scatta come una molla. Nel dialogo concitato che ne segue, riesco a capire che l’uomo non può restare qui. La situazione è drammatica, anche se consueta.
Davanti alla sofferenza il Father si addolcisce di colpo ed il tono, talvolta burbero, diventa conciliante e affabile. L’uomo sta veramente male, ha febbre alta, impossibilitato ad articolare e muoversi autonomamente. Sembra sia stato schiacciato da un macigno. Come gli aprono la camicia e sollevato la manica, scatto all’indietro con reazione incontrollata.
Orrore e disgusto m’invadono: la sua pelle è bugnata di centinaia di vescichette dentro le quali credo di scorgere “insetti neri”. Non resisto e il mio stomaco si ribella. Una bella figuraccia la mia, non c’è che dire! Ci vuole pazienza e determinazione per convincere i familiari a portarlo a Rajshai dal lecchese Padre Piero Parolari, almeno per un primo consulto. In moto vengo a sapere che prima di arrivare alla Missione era stato portato dallo “stregone” del villaggio di chissà dove e che dietro lauto compenso, gli avrà prescritto qualche “pozione miracolosa”. Artatamente, girerà poi la voce del “fallimento” della Missione cristiana! Mi ritornano le parole: “Non è facile fare il bene!” E forse incomincio a capirne i motivi.
Padre Emilio oggi non è in vena e non mi pare per via del contrattempo mattutino. La sua voce è roca, non è sereno ne loquace come al solito. Penso sia dovuto ad un “colpo d’aria fresca” prodotta dal mega-ventilatore che gira quando c’è “corrente, di fronte al quale indugia volentieri nell’ abbiocco pomeridiano. Lui sostiene che è come una “droga”. Beccandolo così nei rari momenti di relax, immagino che sogni torrenti gelidi, tormente di neve e ghiacciai alpini talvolta affrontati insieme in cordata, “tanti tanti chili fa”. Nonostante la sua riluttanza, scopro che la notte prima, in piena notte, è stato chiamato da Manu (Emanuele, uno dei primissimi orfani accolto in Missione) perché Babà (il papà adottivo), dava in escandescenze. Un fannullone e attaccabrighe che riesce a trovare soldi anche per “tirare”. Padre Emilio è accorso per difendere “verbalmente e fisicamente” la famiglia e, soprattutto, Ma (la mamma) dalle violenze dell’uomo ubriaco fradicio di banglà, (alcol a distillazione clandestina fatto con l’erba bhang). Una famiglia aiutata, nella quale la donna, come spesso accade, sopporta tutto il peso per mandarla avanti. Ancora mi torna in mente: “Non è facile fare il bene!” Rallentando alla curva e girandosi verso di me: “ Quando si percorre il Bangladesh, non si passa mai inosservati. Ti prendono sempre come piccioni al volo!” Mi sovviene un altro detto locale imparato anni fa: “ Qui le piante non hanno mai un davanti o un dietro!” Ossia: se dovesse scapparti all’improvviso, inutile cercare intimità presso l’albero, anche se tutt’attorno non vedi nessuno! Prima di entrare a Lokkompur, mi scarica brutalmente dalla moto. L’accoglienza rituale di danze e dhak (tamburi) è tutta per me con l’unica condizione di “lasciarti fare”. Invece la “lavanda dei piedi” spetta a tutti e due, stavolta accompagnata dal bacio: una goduria del fisico e dell’animo! Fotografo i bambini “per le adozioni a distanza”. Alla fine, tutti compresi, saranno oltre 330. Fra quelli della “seconda materna”, noto un bambino che mi sembra di riconoscere: si chiama Joy. Io qui ci sono stato cinque anni fa, com’è possibile? Cerco ed ottengo la risposta. Joy, a quel tempo, aveva solo qualche mese. L’avevo “già fotografato”, ecco perché lo conoscevo, nella sua culla di bambù agganciata al soffitto del portico di casa. Padre Emilio impartiva il “viatico” al suo giovane papà terminale di cancro, proprio sotto il cestello dove lui, ignaro di tutto, dormiva. Una fotografia che mi è molto cara ancora oggi. Joy è stato poi adottato da tutto il Villaggio. In Bangladesh, proprio non esiste il problema “adozioni”. Se c’è un bambino solo, trova subito il calore di una famiglia, anche se la povertà rasenta la miseria! Siamo pronti per Butahara Village, luogo della nuova Missione di Padre Emilio. Quello di “nuovi operai alla messe” sembra un fiore che non appassisce mai. A Chandpukur, siamo arrivati assieme a due nuovi Missionari, giusto per una conoscenza della realtà “sul campo”. Missionari di primo pelo, di stanza alla Pime House di Dhaka nche per imparare la lingua di Rabindranath Takhur “Tagore”. Padre Paolo, ex Assessore alle Finanze, è di Carrate, il paese di Don Felice Riganti. Padre Ruben (con il coetaneo Padre Ignatio rimasto a Dhaka) è colombiano di Medellin, dove, evidentemente, non cresce solo “coca”. Bellissimo: un paese con esigenze missionarie che sforna Missionari per un altro paese! Chiedo a Padre Emilio cosa c’è a Butahara oltre agli Oraon e diversi catecumeni che l’aspettano: “ Ma dai! Niente diamine! Cosa vuoi che ci sia? “ Ma che razza di domande faccio? Naturale no? Cosa può spaventare un Missionario? E ancora: “Tranquillo. Tranquillo. Non ti preoccupare per me. Ho già il fornello e la moka col caffè della Lucia. “ Eggià, il nuovo fornello con la scorta di bombolette acquistate a Dhaka poco prima di partire. Per arrivare all’ufficio vendite, abbiamo forzatamente rinunciato all’ascensore visto che si fermava puntualmente a metà mezzanino. Sette piani, sputacchiati qua e là di “rosso”. Io col “mantice” al limite, lui decisamente “fuori giri” ben più di me! Sarà la gioventù che avanza? Cerco di stuzzicarlo accennando al fatto che proprio adesso poteva tirare il fiato, alla soglia della pensione! Con lo stupore che si legge nei suoi occhi: « E’ lo stile del Pime. Si aiuta a crescere la Missione. Quando è “consolidata” dal tutti i punti di vista e la Chiesa locale è pronta, noi lasciamo volentieri per ricominciare daccapo da un’altra parte. “ Qualche obiezione alla logica del ragionamento? Per arrivare a Butahara è prevista una sfacchinata di almeno due ore per sola andata. Sono provvisto di cappellino e occhiali da sole, oltre ad una buona scorta di acqua nello zainetto. La videocamere “è già calda” con le batterie sature. Non posso permettermi di perdere l’occasione di fissare, dalla motocicletta, parole ed immagini del Father quando ci approssimeremo al nuovo posto. Sono qui anche per questo e chissà quanti amici vorranno condividere, almeno in video, l’avvenimento! La nuova Missione è ricavata dallo smembramento della parrocchia di Rohampur, la sua prima Missione in Bangladesh, diventata troppo vasta. Guardando la mappa, annoto che in questa zona, a nord-ovest del Bangladesh e cioè il triangolo oltre il Padma (Gange) e il Jamuna (Brahmaputra) proprio a ridosso del West Bengala indiano, si concentrano tante Missioni cattoliche. Tutto pronto? Via col gas! Alt! Alt! Che c’è? Perché ci fermiamo? Sister Anjioli, la Superiora-Nurse del dispensario, ci viene incontro dal vialetto: ahimè, dobbiamo rinunciare alla “gita”. Il Parroco si “è dimenticato” che stamattina ha un matrimonio! Mannaggia agli sposi! Possibile? O non l’avrà fatto apposta?! Al pomeriggio rimediamo per un obbiettivo più vicino. Non ricordo il nome del villaggio, forse Chabravilla o qualche cosa di simile, più noto come Santa Maria per via della nuova chiesetta. Il Villaggio di Gojarpur, abitato da veri artisti delle ceste di bambù è proprio qui di fronte quasi attaccato, ma non ci si arriva perché da mesi, manca un ponticello. C’ero stato dieci anni fa. Santa Maria è immersa nel verde, un luogo decisamente privilegiato. E’ riservato ad incontri di spiritualità per gruppi e collettività. Ai lati dell’ingresso, sono cresciute due palme piantate da Don Bruno e dalla Marisa di Cassina. Dove avrà “plagiato” l’idea Padre Emilio? Nel 2000, sulla spiazzo vicino, è stato celebrato il Giubileo che ha coinvolto una marea di gente. Nei tragitti in moto, Padre Emilio si ferma ai cigli delle strade quando incrocia persone, bambini e ragazzi che lo conoscono. Sono sempre momenti delicati, semplici dove il sorriso e gli occhi abbondano. Che meraviglia! Sulla strada del ritorno: “A Dhaka, andremo dalle Missionarie della Carità a trovare due donne.” Ricordo bene il posto per esserci già stato, proprio nelle vicinanze del porto in piena città vecchia. La moschea è proprio li di fianco, incombente sul minuscolo fazzoletto di amore e di pace.
Accenna: “Durante i lavori di ristrutturazione della moschea, sono arrivati al punto di accaparrarsi mezzo metro di terra delle Sister, modificando i confini. Pensa te che grande conquista territoriale!” Come non pensare a: “Non è facile fare il bene!” Quando c’è di mezzo “Mother Teresa” è sempre per un problema di maternità “difficile”. Lasciando intendere la “disinvoltura” del soggetto, parla del primo caso: “A quella, prima o poi doveva capitare!” . Per l’altra è diverso: “Una bellissima ragazza, Santal, innamorata e ricambiata, da un mussulmano! Un vero inghippo familiare sociale e religioso!” II sorriso di Padre Emilio non riesce a nascondere quante difficoltà a “sistemare” le due questioni per “proteggere” la maternità. Aggiunge: «I bambini sono già nati l’anno scorso ed hanno trovato subito una nuova famiglia. Le donne staranno li ancora un anno prestando opera come inservienti, curando altri bambini. Col gruzzoletto che accantoneranno, non faranno fatica a sposarsi!” Facile a dirsi. O no? A Biljikary Village ci aspettano da un pò. Arriviamo da una piccola strada asfaltata da pochi giorni, un primo pomeriggio particolarmente soffocante. Siamo di passaggio per una meta più lontana e che, haimè, sarà l’ultima! Qui eravamo già diretti qualche giorno addietro, fermati da una tripla foratura. Non è stata la “suzuky ” a tradire, ma un velenoso filo di ferro che si è risvoltato più volte nella posteriore. Padre Emilio mi ha nominato guardiano della moto, mollandomi ai margini della strada in balia di passanti e curiosi. Avviandosi al villaggio vicino per cercare soccorso, ho la conferma che il problema all’anca si è acuito. Cammina storto ed il suo peso non facilita il passo. Per la sua salute e sperando non siano necessari pesanti interventi ortopedici a breve, si rende necessario l’acquisto urgente di un pick-up. E’ un impegno che prendo li sul posto e che intendo proporre a tutti. Appiedato e circondato, mi sento sperduto. Confidò nella “fortuna” che mi accompagna in questi frangenti. Infatti, si ferma e si fa largo fra il gruppuscolo, il “solito emancipato” con barba e zucchetto bianco. Col sussiego tipico del “ci penso io” corredato da un inglese molto molto “basic”, il mio interlocutore si fa avanti “rompendo il ghiaccio” (!) Sfruttando i miei potenti mezzi fotografici, creo un minimo di dialogo, decantando e dimostrando le virtù del digitale. Lui è in giuggiole perché fra gli astanti gli è confermato il ruolo di prestigio. Non capisce niente di digitale, ma questo è secondario. Finalmente, prima del previsto, ritorna Padre Emilio su motocarro di “linea” ad uso promiscuo, azionato da propulsore a scoppio: altro non è che una pompa d’irrigazione adattata! Incredibile. Tutti questi mezzi di trasporto, ad iniziativa individuale, funzionano così! L’ennesima conferma dell’inventiva e dell’arrangiarsi dei Bengalesi. A Biljikary, tutti sono in attesa del Father. Assisto e documento immagini che difficilmente dimenticherò. A malapena intuisco il significato della gestualità degli infiniti “contatti” manuali fra Padre Emilio e gli indigeni. Abbondo del migliore namaskar (saluto) che mai ho pronunciato. Non ci possiamo sottrarre, ci mancherebbe, all’agognata “lavanda”. Provo vergogna a tastare lo zaino alla ricerca della mia acqua “sicura”! Cosa potrei fare di diverso? Ci accomodiamo in una casa di fango, molto buia. Ancora abbagliato dal sole, li dentro inspiro il fresco del ventaglio rotante di juta, imperniata sull’asticella di bambù, che una ragazza manovra ritmicamente.
Di lei vedo solo gli occhi e il riflesso immacolato dei denti. Quelli degli adulti sono tutti ingialliti dal “rosso del pan”, la cicca energetica avvolta nella foglia di bètel che si mastica di continuo e che si può confondere col “rosso del sangue”, ben descritto nella “Città della Gioia”. Padre Emilio è perfettamente in sintonia con tutto e con tutti e non si sottrae agli obblighi che gli competono. Per lui ancora torcarry e “sgarganellate” di acqua del pozzo. Se non è vaccinato lui chi lo è? Qui si “festeggia” il trigesimo di morte di un cristiano di cui poi Padre Emilio benedirà la tomba. Dalle pentole vuote ancora sui choula (fornelli di terracotta alimentati a legna) ormai smorzati, capisco che devono aver consumato una quantità enorme di riso. A mangiare c’erano sicuramente tutti, compreso parenti lontanissimi e alla lunghissima e, forse, anche qualche “portoghese”. Che sia l’effetto dei residui del dna di qualche ascendente colonizzatore dai cognomi comunissimi qui: Rosario, Costa, Ribeiro, o Gomes ? Penso alla Missione dove, in quattrocento, mangiano riso. A sokal (mattino) un po’ slavato: a dupur (mezzogiorno) un piatto enorme con verdura e a shondha (sera) forse un po’ meno. Che questa gente abbia il riso al posto del sangue? Per le esigenze della missione, ho visto scaricarne 10 tonnellate pari a 200 sacchi. In capo ad un anno i sacchi saranno 1.200! I facchini erano quattro ragazzi. Dal camion al ripostiglio con andirivieni frenetico in pratica saltellando per ammortizzare il peso, hanno impiegato meno di un’ora. Due tonnellate e mezzo, cioè 50 sacchi ciascuno, sulla testa! E’ la conferma che nulla è d’impedimento alla forza dei “man power”.
Ormai siamo in sella per un’altra buona mezzora di moto, verso Sapkury. Per ora la motocicletta è ancora pulita e fiammante. Ieri pomeriggio i ragazzi (e Padre Emilio) si sono divertiti un mondo a spruzzarla con al nuova pipe-line (canna di gomma) acquistata a Dhaka. Un sacco di gente ad assistere all’evento ed una vera meraviglia a vedere il getto e… I “gavettoni” del Father! Le bambine ne hanno subito approfittato per lavare anche la stalla dato che è loro preciso compito giornaliero provvedervi. Sono partiti “ordinativi” per l’acquisto di altri spezzoni di canna per qualche famiglia abbiente! L’acqua è questione basilare. Chi dovesse ripassare da Chandpukur, non la riconoscerebbe più.
In moto ne parliamo: “Ti sarai accorto che tutte le case hanno un servizio igienico in muratura, realizzato col contributo della Missione. Inoltre non c’è patio cortiletto interno o casa senza fontanella con tanto di rubinetto e acqua corrente.” II progresso igienico-sanitario è fortissimo. I ragazzi usano l’acqua in continuazione. La toccano, la bevono, la palpano, si lavano e lavano i propri vestiti, si “pucciano” senza sosta: le bambine molto più dei maschietti. Il pukur, almeno qui, stà perdendo l’atavica funzione “igienica” e i risultati si vedono. Dalla pelle dei ragazzi sono quasi sparite dermatiti, croste, eritemi, infezioni: cioè le “cartine geografiche” difficili da diagnosticare, non senza contare i benefici effetti “gastrointestinali”! Sapkury è il villaggio di Anondo Linda, un ragazzo di dieci anni morto il 3 agosto 1995 nella Missione. In quella notte caldissima, cercava il fresco. Lasciato il tavolaccio, si era sdraiato e addormentato sulla nuda terra. Era il primo della fila ed il serpente l’ha colpito al lobo dell’orecchio, senza scampo. Due ore di sofferenza atroce fra la braccia di Sister Santhi, l’infermiera. Circondato da tutta Chandpukur, prima di morire, ha chiesto di essere battezzato. Era mussulmano come tutti al suo villaggio. Ogni tanto Padre Emilio torna da mamma e papà, fattisi cristiani dopo la morte del figlio. Quella tragica notte lui era a Dinajpur, ma anche se ci fosse stato, cosa avrebbe potuto fare?A Sapkury, è in previsone una chiesetta-scuola. Al villaggio non c’è nulla, salvo l’immancabile madrassa, la scuola cranica che il Governo attuale accetta come parificata a quelle normali! Da un po’ di tempo a questa parte, dopo che i genitori sono stati emarginati, le cose stanno cambiando. I cristiani formano un gruppetto e la famiglia di Anondo reintegrata.
Abbraccio papà e mamma la quale, con materna preoccupazione, guardando il cielo imbronciato, ci sollecita a partire. Dalla moto intravedo il piccolo cimitero cristiano dove Anondo riposa per sempre. Acceleriamo. Nubi minacciose incombono e non ci va di prenderla. E’ l’ultimo giorno, domani rientro a Dhaka. Padre Emilio ne approfitta per ricordarmi di: “Salutare e ringraziare tutti, e non mollare assolutamente le adozioni che devono continuare. E dire alla Lucia di mandare sempre il caffè!” Appena dopo l’incrocio di Rangipur a qualche miglio a sud di Chandpukur, in lontananza fra il verde intenso, intravedo movimenti colorati. Dapprima sparpagliati poi sempre più concreti e definiti. Sciamano da destra e sinistra verso un’unica direzione. I bambini “hanno già sentito” in lontananza il rumore della motocicletta del loro Father. Corrono a scavezzacollo verso la strada, abbandonando armenti e animali al pascolo. Sono sicuri di riuscire a salutarlo e vederlo anche solo per qualche secondo. E lui rallenta …
Prima della pioggia, l’afa è insopportabile ma io sento freddo: ho la “pelle d’oca”. Dal cielo, le prime gocce d’acqua fresca si mischiano a quelle calde che scendono dalle mie guance.
Forse ho capito perché “Non è facile fare il bene!” E’ il nostro cuore che non sa accettarlo.
SERGIO POZZI, giugno 2005.