Sorprendenti Balcani

Croazia e Bosnia, con una deviazione in Serbia, una tappa in Slovenia, e alcuni ricordi di Montenegro e Albania... Il fascino delle frontiere, i segni della storia, e tante nuove scoperte
Scritto da: ludiaman
sorprendenti balcani
Partenza il: 15/08/2015
Ritorno il: 03/09/2015
Viaggiatori: 3
Spesa: 1000 €
Quello che segue non è un vero e proprio diario di viaggio. È piuttosto il racconto di come una “normale” vacanza al mare in Croazia si sia trasformata strada facendo in una sorprendente scoperta dei Balcani e della loro storia. Ogni tappa, ogni frontiera attraversata, è evocativa di mondi e popoli diversi, e ci spinge a esplorare un po’ più in là, a fare memoria di un evento storico, a ricordare un altro viaggio fatto in passato…

L’unico programma certo, fino a pochi giorni prima della partenza, era una settimana in Croazia, a Senj, dove avevamo prenotato un appartamento con amici. Quattro adulti e due bimbi, di due e tre anni, per alternare mare e turismo tra le città, i parchi e la costa dalmata. Ma siccome non siamo capaci di stare fermi, abbiamo macinato parecchi chilometri per esplorare i dintorni. Poi, salutati gli amici, abbiamo proseguito verso sud: quattro giorni con base a Ploce per conoscere la costa meridionale. E poi, prenotando di volta in volta la tappa successiva su internet, ci siamo mossi verso l’interno: Mostar, Sarajevo, Mokra Gora (Serbia), ed infine verso nord per tornare (con calma) a casa, attraversando ancora Croazia e Slovenia.

I dettagli logistici e li lasciamo in fondo: per chi vuole, andate all’ultima pagina. Noi intanto cominciamo raccontando impressioni e suggestioni.

A proposito delle frontiere (quelle fisiche e quelle mentali)

Muovendosi nei Balcani ci si rende conto di tre cose: primo, le dogane esistono ancora (e chi se le ricordava dopo Schengen?!). Secondo, la cortina di ferro non esiste di più, ma nelle nostre teste è ancora lì e non si smuove. Terzo, le frontiere sono bellissime (le dogane invece no).

Sul primo punto c’è poco da dire: per arrivare a Dubrovnik, per esempio, bisogna passare in Slovenia, poi in Croazia, poi in Bosnia per una decina di chilometri, poi di nuovo in Croazia. Code, documenti, carta verde… non siamo più abituati, per fortuna!

Il secondo punto è più interessante: provate a chiedere a qualcuno di parlarvi degli stati Europei o dei Paesi nostri vicini. Vi parleranno, con maggiore o minore cognizione di causa, della Francia e della Svizzera, forse dell’Austria e poi allontanandosi della Germania, della Spagna… Ma la Slovenia in quanti la citeranno? La Bosnia, così piena di turisti tedeschi, da quanti italiani è visitata? E dell’entroterra croato cosa sappiamo, a parte che c’è un bel parco a Plitvice? Non è ignoranza, e se lo è ne siamo vittime tutti: è proprio una forma della nostra mente che quando guarda una cartina d’Europa vede solo la parte a ovest e quella a nord. Come se le Alpi Giulie fossero una barriera invalicabile. Curioso, no?

Terzo punto: a volte in un viaggio all’estero il fascino non lo dà la distanza, ma la frontiera. Non solo varcarla, ma viverla (“Io danzo sulla frontiera”, canta Jovanotti). I Balcani sono affascinanti per questo, sono un crocevia incredibile di popoli: italiani e veneziani, austriaci e ungheresi, turchi, greci, slavi, illiri, romani… Rimaniamo ad oggi: basta viaggiare su un’autostrada croata in stagione turistica e si vedono targhe italiane, tedesche, austriache, slovene, ungheresi, polacche, slovacche, ceche, serbe, bosniache, turche, romene: quante di queste ne vediamo da noi? Chi se lo ricordava che il continente europeo è composto anche da questi Paesi?

E sulle strade poi non ci sono solo i turisti. Istruttiva in proposito la coda che abbiamo trovato in autostrada, al ritorno, alla dogana fra Serbia e Croazia: per rientrare in UE bisognava incolonnarsi, e a lungo. E nella colonna si vedevano automobili con targhe diverse, tra cui tante italiane, francesi e tedesche. Belle macchine, per lo più. Ma non trasportano borse da mare e ombrelloni. Niente barche a rimorchio, nessun gommone sul portapacchi. Solo montagne di sacchetti e valigie e borsoni. E volti, acconciature e vestiti evidentemente turchi, slavi, orientali: erano i migranti che rientravano dalle vacanze, dopo qualche settimana passata a casa con le famiglie.

Qualche anno prima avevamo avuto modo di vedere come nelle campagne albanesi i matrimoni si celebrassero tutti in agosto: villaggi quasi deserti durante l’inverno, abitati solo da pochi anziani, si ripopolavano di giovani emigrati e si animavano di feste.

Ma purtroppo non c’è solo chi ha cambiato casa da tempo e si è costruito una vita altrove: pochi giorni dopo il nostro passaggio, giornali e televisioni ritraevano gli stessi valichi attraversati da noi, ma questa volta vedevamo folle, famiglie a piedi, soccorsi, polizia, e anche respingimenti e cortine di filo spinato, per coloro che in fuga dalla Siria ripercorrevano le stesse rotte balcaniche seguite da tanti prima di loro.

Come cambiano i paesaggi

Partiamo dalla assolata pianura padana proprio il giorno di ferragosto, e attraversiamo il primo valico a Gorizia: anche la storia di questa città è stata tristemente segnata da un confine, ma oggi il valico autostradale si può distinguere solo perché occorre comprare la vignetta per le autostrade slovene. Ma poco dopo il valico, il paesaggio cambia drasticamente, e iniziano monti e foreste.

Prima del confine i fiumi veneti e friulani, nonostante i nomi famosi che ogni studente ricorda, erano ridotti a rigagnoli che scorrevano fra piatte distese di ciottoli bianchi (il caldo estivo? la siccità? lo sfruttamento?); subito dopo invece Slovenia si presenta, come sempre, incredibilmente verde.

La toponomastica intanto ha cominciato a ricordarci il peso della storia: guardando una cartina si individuano presto Caporetto, il monte Canin del famoso canto alpino, il Monte Nero a cui è intitolato (per esempio) un viale qua a Milano… A proposito, evidentemente buona parte dei toponimi milanesi deve essere stata scelta tra le due guerre: abbiamo scoperto che i nomi di tante vie e piazze della città, di cui non conoscevamo l’origine, corrispondono alla denominazione italiana di altrettante località slovene e croate: abbiamo via Veglia, via Arbe, via Parenzo, oltre ai più noti viale Zara, via Pola… Probabilmente non c’è isola del Quarnaro che non abbia un corrispondente nella toponomastica italiana: segno evidente dell’irredentismo che imperava allora.

Ma torniamo a noi: dopo Lubiana ci accoglie la pioggia, mentre lasciamo l’autostrada per dirigerci verso la poco frequentata frontiera di Metlika / Jurovski Brod. Sempre tra boschi, campi, e paesi che paiono tedeschi o austriaci.

Pochi minuti in dogana, ed eccoci in Croazia. Man mano che si percorre l’autostrada verso sud, ci si rivela un paesaggio inatteso: siamo su un altopiano, e a dispetto delle nostre ipotesi su paesaggi mediterranei e caldo torrido, più scendiamo verso il meridione e più troviamo abeti, betulle, nonché ampie distese brulle costellate da rocce calcaree bianche, cespugli, sterpaglia e radi alberelli.

Dev’essere questo il misterioso luogo di cui parla Paolo Rumiz, quando nel suo reportage “Il guardiano del faro” descrive “una steppa che pare la Mongolia, tanto è desolata e battuta dal vento. Si dice che su tale altopiano l’erba sia pettinata in una sola direzione, quella di Borea, e gli abitanti – derisi per questo dai popoli della costa – nutrano un sacro terrore del mare. Ma è solo l’inizio di un viaggio complicato, pieno di sorprese e di visioni…”

Ed è da qui che all’improvviso caliamo su Senj, lungo una strada tortuosa e poco trafficata, tra boschi, nubi basse di pioggia, e poi macchia, fumo di incendi, venditori di miele e formaggio ai lati della strada, poche auto e qualche camper tedesco.

In Croazia

Senj è una cittadina interessante: poche mete turistiche, nessuna spiaggia famosa, ma una storia da scoprire. Porto di grande importanza fino alla seconda guerra mondiale, è stata per secoli il centro del territorio degli Uscocchi, marinai di grande abilità che riuscirono ad opporsi sia a Venezia che ai Turchi, navigando nelle acque del Quarnaro.

Acque difficili, si dice: i venti che si incanalano dall’altopiano si riversano sul mare, accelerando man mano che percorrono le valli, tanto che lungo alcuni ponti la strada costiera è fiancheggiata da alti muri, eretti con lo scopo di proteggere gli autisti e soprattutto i camion dalle raffiche di Bora.

I canali tra un’isola e l’altra potrebbero benissimo essere scambiati per canali patagonici, o per insenature irlandesi, se non fosse per la macchia mediterranea che cresce dal lato sottovento (il lato sopravento di molte isole, viceversa, è completamente spoglio, deserto: non un albero, non un cespuglio).

Cediamo alla tentazione di far parlare ancora un momento Rumiz, che scrive meglio di noi: “Dopo le lande pastorali, il Mediterraneo riappare in fondo a un possente vallone tra i querceti, oltre il quale si intravedono le prime isole. In quell’arcipelago, si dice, approdarono gli Argonauti, e verrebbe spontaneo proseguire per quella rotta, ma sotto costa il vento picchia con tale violenza che anche i capitani più navigati preferiscono stare alla larga. La strada di terra non è meglio: vi si para davanti un monte altissimo e precipite, segnato da una strada tortuosa a picco sulle scogliere, dove le raffiche sono in grado di far rotolare in basso anche i rimorchi dei carri pesanti.”

A testimonianza del periodo uscocco, rimane a Senj una meravigliosa fortezza, e qualche reperto raccolto nel piccolo museo cittadino, così poco frequentato che la custode accende le luci e apre le porte solo quando un visitatore varca l’ingresso. Ne vale la pena, però, anche per scoprire un’altra particolarità storica della regione: la scrittura glagolitica, antenata del cirillico, unica scrittura al di fuori del latino in cui sia mai stato scritto un messale fino al Concilio Vaticano Secondo. Non poco, per una cittadina di cui fino a ieri non conoscevamo nemmeno il nome!

Senj è anche un buon punto di partenza per visitare tante mete nei dintorni, a circa un’ora o due di automobile: a nord troviamo Fiume, apparentemente gemella di Trieste come struttura e in parte come storia, ma a dire il vero meno interessante, più disordinata, più trasandata. Lungo la strada per arrivarci, si trovano numerose calette di acqua trasparente e meravigliose spiagge di sassi; e a un certo punto la deviazione per Krk, grande isola collegata alla terraferma da un ponte. Ulivi, mare, macchia mediterranea, in un paesaggio che cambia continuamente a ogni curva e a ogni valico.

Verso sud, invece, c’è Zara: si abbandona l’altopiano, e ci si ritrova immersi fra i turisti. Ma le pietre bianche della città fortificata mantengono il loro fascino, e il tramonto sulle isole merita di essere goduto sorseggiando un bianco della zona in uno dei locali del lungomare. Tramonto decantato perfino da Hitchcock come “il più bel tramonto del mondo”, citazione che da quelle parti non mancano di ricordare ai turisti (sempre ammesso che faccia buona pubblicità l’opinione estetica di un regista noto essenzialmente per saper mettere paura).

Abbiamo detto: Fiume a nord, Krk a ovest, Zara a sud… e ad est? Naturalmente, Plitvice.

La fitta folla di visitatori non riesce a rovinare questo spettacolo della natura: costretti a percorrere solo le apposite passerelle in legno, i turisti non compromettono più di tanto il paesaggio, e si può godere comunque la vista di boschi verdi, laghi turchesi, cascatelle, muschi, specchi d’acqua trasparenti, tronchi che emergono, rocce, cascate, torrenti… Tutto un gocciolare e un trasudare di acqua che crea un paesaggio magnifico e colorato.

Verso sud: nuovi confini e ricordi d’Albania

Riprendendo il viaggio dopo Senj percorriamo lunghe ore di autostrada fino ad arrivare a Ploce (Porto Tolero, in italiano). Qui finisce l’autostrada, ma non la Croazia. Il paesaggio si fa decisamente più balcanico e mediterraneo: montagne brulle e calcaree, odore di macchia, case piatte e piccoli obbrobri architettonici in cemento armato. Caldo e cicale.

Il nome italiano lo dice chiaramente: qua si arriva per il porto. Ci si imbarca e si raggiungono isole, penisole, e mete turistiche, ma il paese in sé è solo un punto di passaggio.

Più a nord visitiamo la costiera di Makarska, che attira i turisti per via del bel mare; qui invece vediamo solo un pullman di polacchi, che si ferma in visita ai laghi e alla foce del fiume Neretva: scendono in uno spiazzo erboso, fanno picnic, qualcuno si tuffa in acqua, mentre un musicista tira fuori la fisarmonica e comincia a suonare per tutti.

In auto si può anche raggiungere l’incredibile città vecchia di Spalato, verso nord, o le mura di Dubrovnik verso sud: città meravigliose, pietra bianca, strade lastricate e lucide per il passaggio di migliaia di persone. Città però molto turistiche, dove il centro perde un po’ il fascino dell’autentico, costellato com’è di localini e negozi di souvenir. Sembra un po’ di muoversi a Venezia, verso piazza San Marco, per intenderci. Meglio visitarle al tramonto, quando il caldo si fa sentire un po’ meno e i turisti sbarcati dalle navi da crociera tornano a bordo.

Ci concediamo un’ultima citazione (promesso), sempre di Paolo Rumiz, che solo dopo questo viaggio abbiamo capito di quali posti parlasse nel suo libro: “A quel punto la strada si perse per valli lunghe, in un arcipelago di villaggi sparsi, dentro uno scenario inquieto, quasi balcanico, o forse anatolico. Come sull’altopiano del Karaman Türkleri, vidi resti di caravanserragli e venditori di formaggio di capra fermi nel vento sul bordo di strade segnate da pochissimo traffico. Cenai con agnello allo spiedo e vino resinato. Ero su una frontiera, a due passi dai minareti, nel cuore di un mondo dalla lingua forte e densa di consonanti nervose, ma capace di addolcirsi in vicinanza del mare.”

E come non dimenticare infine la placida penisola di Peljesac, con magnifici vigneti, muretti a secco, allevamenti di ostriche, saline… E la vecchia cittadina di Ston, con le sua mura, che si inerpicano su per la montagna come una muraglia cinese in miniatura.

I paesaggi mediterranei, ma soprattutto le montagne dell’entroterra ci riportano alla mente viaggi passati: le impervie montagne albanesi, il lago di Scutari, la costa montenegrina con l’isola di Sveti Stefan (la Mont Saint Michel dei Balcani)… E’ tutto lì a due passi, ormai, ma il nostro itinerario ci spinge verso l’entroterra, non verso sud. Strano pensare a questa vicinanza, perché i nostri viaggi albanesi sono sempre stati per via aerea, e arrivare via terra dall’altro lato fa un po’ effetto. Occorrerebbero molti diari per raccontare questi ricordi di Albania, l’ospitalità incredibile che abbiamo trovato tante volte da quelle parti, i paesaggi ancora selvaggi, le antiche tradizioni, i segni di una storia travagliata e la grande povertà in un contesto che però di anno in anno migliorava…

Tutto questo ci ritorna alla mente ora, nel sud della Croazia, sia perché siamo vicini, sia perché ci rendiamo conto che i Balcani sono un mosaico dove tutto cambia rapidamente, ma dove anche tante cose rimangono simili. I vecchi albanesi che si distillano la raki non sono molto differenti dai contadini serbi o croati che preparano rakia o slivoviza (sempre grappa fatta in casa, sempre fortissima, sempre profumata, sempre segno di accoglienza per l’ospite che arriva). Il burek venduto all’angolo della strada cambia forma tra Fiume e Tirana, cambia forse qualche ingrediente, ma di fatto è sempre quel magnifico piatto di sfoglia farcita di formaggio bianco o carne e cipolle, e percorre i Balcani fino a ritrovarsi anche a Istanbul (luogo da dove, probabilmente, era partito secoli fa).

La bellissima casa ottomana che a Scutari ospita il museo archeologico ha praticamente la stessa struttura della casa visitabile a Sarajevo.

Le musiche e i balli dei matrimoni albanesi non sono poi così diversi da quelli che si vedono in un film di Kusturica, ma la lingua cambia. Le stesse parole da Lubiana a Belgrado suonano all’incirca uguale, ma sono scritte in caratteri differenti. In giro si trovano ancora cartelli in doppia lingua (alfabeto latino e cirillico), probabili residui dei tempi di Tito; lungo le strade della Croazia e della Bosnia però si vedono grandi macchie di spray nero che cancellano il cirillico, mentre in Serbia e in repubblica Sprska (parte della Bosnia Erzegovina a maggioranza serba) gli stessi spray cancellano il latino

A Tirana invece la lingua è totalmente diversa, e la bellissima cantilena dell’Albanese marca un mondo a sé stante, antico illirico, isolato dal resto dell’Europa da montagne, invasioni turche, domini veneti, ingerenze italiane, dittature…

Un cortocircuito nella Storia

Torniamo al nostro viaggio: attraversiamo di nuovo il confine vicino a Ploce, diretti verso Mostar. Il paesaggio rimane più o meno invariato, le strade anche, senonché dopo pochi chilometri si cominciano a notare delle differenze.

Scompaiono le automobili dei turisti italiani, che intasavano la costa e le strade di Dubrovnik. Le automobili dei locali sono mediamente più vecchiotte, la benzina ai distributori costa decisamente di meno.

E infine arrivano le moschee e i minareti; il vecchio villaggio di Pocitelj lungo la strada, e poi il monastero di Blagaj, e lì tanti caffè e banchetti di souvenir “orientali”: oggetti in rame, bricchi per preparare il caffè turco, tazzine colorate, succo di melagrana, antiquariato, fermacarte fatti con vecchi proiettili e residuati bellici… In piena Europa, stiamo entrando in un mondo ottomano.

Mostar poi è una sorpresa: vie tortuose che si inerpicano sulle colline, stradine acciottolate, l’acqua turchese della Neretva, canali, ristoranti, ponticelli, moschee, la luna piena dietro i minareti e il canto del muezzin, e poi ovviamente il famoso ponte vecchio.

A quanto pare la città è tuttora divisa: dicono che ci sia una posta per i bosniaci/musulmani (stiamo generalizzando, ma è per capirsi) e una per i croati/cattolici, una scuola per i bosniaci e una per i croati, e poi qualche serbo qua e là… Tutto questo lo leggiamo, lo sappiamo, ma non siamo in grado di vederlo col nostro sguardo veloce ed estraneo. Siamo turisti: ci accolgono, ci sorridono, e nulla traspare.

Il tuffatore gira su e giù per il ponte, camminando sul parapetto, e con tipico atteggiamento balcanico, un po’ sornione, esorta i turisti a lasciare un’offerta; raggiunta la cifra desiderata si issa in cima al muretto e si butta nelle Neretva, ventiquattro metri più sotto.

La guerra pare lontana, a meno di non andare a vedere le foto nel museo: una gracile passerella di corda stesa tra le macerie, al posto del meraviglioso ponte ora ricostruito. E poi ancora oggi lungo la vecchia linea del fronte si vedono edifici bruciati, palazzi crivellati, e segni di pallottole un po’ su tutte le facciate. Incredibile pensare nella serenità di una sera estiva e cosa dovesse essere la città vent’anni fa.

La notte trascorre insonne, tra incubi di assedi, guerre e cecchini. Colpa forse di un letto scomodo e dell’assenza di scuri alle finsestre, ma forse anche dei fantasmi che si addensano su questo luogo così affascinante, evocativo, ma anche traumatizzato.

E poi via verso Sarajevo, attraversando valli magnifiche.

La nostra casa nella capitale si trova sulle colline, vicina al centro. Per dirigersi in città, la via più breve attraversa un parco e un cimitero. Belli questi cimiteri islamici: non c’è recinzione, li percorrono strade, vie e sentieri, ci passano i taxi, le coppie di innamorati e le signore che vanno a far la spesa. La città dei morti convive con la città dei vivi senza che nessuna delle due categorie possa infastidire l’altra.

Risalire per quella via al tramonto o sotto la luna ha un fascino unico, per nulla lugubre. Tutto il panorama della città sotto di noi, e i minareti da cui si levano uno dopo l’altro i canti dei muezin. Lungo il percorso, casca lo sguardo su lapidi a caso. Un uomo, non abbiamo notato il nome, è nato nel 1907 e morto nel 1997. Un pensiero: quest’uomo ha visto almeno tre guerre. Sarà stato presente al corteo imperiale del principe Francesco Ferdinando? Tutto si è svolto poche centinaia di metri lì sotto: il principe ereditario assassinato. Le voci che si rincorrevano, i timori. La prima guerra mondiale, iniziata proprio dietro casa. E poi la seconda guerra. E i partigiani di Tito. E il comunismo. E la guerra civile. E l’assedio. E la pace, finalmente. Il Novecento, nelle sue espressioni più drammatiche, inizia e finisce a Sarajevo. Un cortocircuito nella storia del secolo scorso… e quest’uomo lo ha visto tutto.

Lui, come tanti altri.

Il dramma della guerra più recente lo si intuisce particolarmente in tre aree della città: all’aeroporto, dove un museo (malissimo indicato!) mostra l’unico tratto ancora aperto del tunnel che, passando sotto la pista, costituiva l’unico collegamento tra la città assediata e il mondo esterno. Poi, la cosiddetta via dei cecchini, dove alti palazzi e grattacieli presentano tutti ancora immancabilmente i segni delle granate e degli spari sulle facciate. E infine il mercato, luogo di una delle stragi che più ai tempi avevano fatto scalpore. Lì vicino, accanto alla cattedrale, si può vedere una delle ultime “rose di Sarajevo”: i buchi nell’asfalto lasciati dalle granate, che erano stati riempiti con una resina rossa a perenne testimonianza. Poi le strade vengono rifatte, le cicatrici scompaiono, ma qualcosa è stato lasciato, come promemoria per il turista distratto.

Rimane invece un po’ nascosto il dramma più vecchio, quello che diede il via alla prima guerra mondiale: il luogo dell’attentato è identificato da una targa seminascosta. Il viale dove passava il corteo reale è di fatto uno stretto e trafficato lungofiume, e il fiume stesso è appena un torrente.

Al di là dei drammi, il centro storico è una meraviglia, tra moschee, vicoli, piazze, turisti che sgranocchiano pannocchie e locali che chiacchierano nei caffè… Il paesaggio è diverso rispetto a Mostar: le colline e le montagne intorno a Sarajevo non sono più i brulli monti mediterranei, ma verdi campagne, boschi di conifere, e covoni di fieno esposti al sole.

Lasciamo infine Sarajevo e percorrendo questi paesaggi più freschi ci addentriamo nella repubblica Sprska; passiamo il bellissimo ponte ottomano di Visegrad, e giungiamo infine in Serbia alla dogana di Mokra Gora.

Un salto in Serbia e via verso casa

Mokra Gora è una meta obbligata per gli amanti del regista Emir Kusturica, e per gli amanti dei treni: la vecchia ferrovia a scartamento ridotto, che una volta collegava Belgrado a Dubrovnik e rappresenta la perduta unione della Jugoslavia, in questo tratto è stata restaurata ad uso turistico. Si può alloggiare nell’hotel della stazione, ripitturata di fresco e coi gerani alle finestre, e poi fare un viaggio di un paio d’ore sui vecchi vagoni, godersi il paesaggio e i boschi, e andare infine nel villaggio di Kustendorf.

Questo paesino è la ricostruzione di un vecchio villaggio serbo, tutto in legno, molto caratteristico, fatta fare dal regista Kusturica per il suo film “La vita è un miracolo”, che era ambientato per l’appunto tra il villaggio e la ferrovia. Ora il complesso è stato trasformato in un albergo, ma è anche abitato da persone del posto (e anche dal regista stesso, si dice), ed è dotato di chiesa, asilo e minimarket.

L’indomani ci dirigiamo di nuovo verso la Croazia attraversando monti, boschi e valli. Ci salva il navigatore, altirmenti l’interpretazione dei cartelli in cirillico avrebbe prolungato i tempi di indecisione ad ogni bivio.

Costeggiamo la Drina, e nei pressi Zvornik assistiamo a strani paradossi balcanici: dal nostro lato, in Serbia, solo la statale, quattro case, e alcune donne musulmane che camminano lungo la strada. Alla nostra sinistra, un ponte presidiato con dogana, in stile cortina di ferro (anche se probabilmente l’attraversamento è decisamente più semplice). Al di là del ponte, la città bosniaca, grande, dominata da un’enorme chiesa ortodossa. Tutto il contrario di quel che ci si aspetterebbe…

Purtroppo non abbiamo tempo per approfondire, perché dobbiamo arrivare in Croazia prima di sera.

Nel frattempo ci rallenta un corteo di auto. Spesso si fermano, scendono persone, si aggregano altri, espongono manifesti e bandiere. C’è qualcosa di sospetto: non è una partita di calcio, sembrano foto da manifesto elettorale. I personaggi hanno un po’ la stessa aria della gente che si fa intervistare in alcuni raduni politici delle nostre parti… E difatti alla fine arriva il segnale inequivocabile: da una macchina all’altra si salutano con le tre dita aperte (pollice, indice e medio) segno distintivo dei nazionalisti serbi. A parte l’intralcio al traffico, non si riesce proprio a provare simpatia per questa gente dopo aver visitato Mostar e Sarajevo…

Arriviamo infine a Vukovar, in Croazia, lungo il Danubio. È tardi, ma facciamo in tempo a notare la cisterna dell’acqua, bucata e semidistrutta, che domina la città ed è illuminata come un monumento.

Avevamo scelto questa destinazione semplicemente per la sua posizione comoda sulla via del ritorno, e anche perché ci avrebbe permesso l’indomani di esplorare un po’ la Slavonia, regione poco descritta dalle guide turistiche (che parlano solo del mare!).

Scopriamo ora che questa città è un’altro luogo tristemente famoso per la guerra: assediata dai Serbi, ha opposto una lunga resistenza ed è stata praticamente rasa al suolo. I feriti presenti nell’ospedale sono stati sterminati prima che arrivassero gli osservatori Onu, e la distesa di croci bianche sulla fossa comune all’interno del cimitero cittadino dice più cose di qualsiasi altra descrizione si potesse leggere. O forse no, un elemento più inquietante ancora c’è: le numerosi lapidi, nel cimitero, che stranamente non riportano la data di morte. Talvolta nemmeno l’anno. Dispersi? Ritrovati successivamente? Vittime di pulizie etniche e campi di concentramento? In ogni caso, qui accadde qualcosa che oggi pare quasi inconcepibile, almeno per una cittadina che, visitata con calma alla luce del giorno, sembra una serena, moderna e normalissima città mitteleuropea.

Visitiamo anche Osijek, famosa per la sua bella cattedrale: qui ormai siamo in piena Austra-Ungheria, e si trovano caffetterie in stile austriaco ed edifici liberty. La gente si rivolge in tedesco agli stranieri, e spesso è l’unica lingua che conoscono oltre al Croato. Il paesaggio è piatto: abbiamo ormai abbandonato le asperità balcaniche che ci hanno accompagnato finora, e siamo entrati nell’enorme pianura mitteleuropea dei grandi fiumi, il Danubio, la Drava… Pare che qua dicano che i punti più alti in tutto il territorio siano le cime dei cavoli.

È stato solo un assaggio, ma adesso ci viene voglia di esplorare meglio quest’area: la Serbia, la Romania, l’Ungheria…

Quando infine arriviamo al confine con la Slovenja, ecco che ritornano i monti. Il paesaggio torna più verde, si passa dalle enormi distese gialle dei campi di cereali alle colline ondulate ricoperte di vigne. Un paio di notti rigeneranti dei dintorni di Velika Dolina, ad esplorare cantine, caseifici e terme, e poi finalmente in Italia.

Con una lista nuova di Paesi da visitare in futuro, dalla Macedonia all’Ungheria, perché i Balcani richiedono ben più di una vacanza.

Note pratiche

Delle mille cose che si potrebbero dire, solo qualche nota veloce (abbiamo gia scritto troppo… casomai contattateci pure):

  1. Tenere sempre conto delle code in dogana, perché soprattutto nella stagione turistica possono portare via diverse ore.
  2. Dormire a Senj: ci sono un mucchio di appartamenti, ma noi consigliamo vivamente “Apartmani Devcic Franjka” (www.apartmani-devcic.t-com.hr). La proprietaria è un’anziana signora gentilissima, dolcissima e davvero accogliente. Alla partenza ci ha regalato fichi e vino bianco, e pur non parlando né inglese né italiano siamo riusciti a capirci benissimo (occhio solo che alle mail rispondono utilizzando Google Translator… con tutti i possibili errori del caso).
  3. Plitvice: il parco è davvero bello, ma molto affollato. Scegliete percorsi alternativi, e non acquistate i biglietti al parcheggio: lì dovreste fare (come noi) un’ora di fila, mentre basta andare fino agli ingressi e troverete biglietterie vuote. L’organizzazione non pare il loro forte…
  4. Mangiare in Croazia: si mangia davvero bene e i costi sono contenuti. Sia cucina balcanica, sia cucina italiana. E anche nei luoghi turistici si riesce a non spendere troppo.
  5. Mare sulla costa dalmata: il bello è esplorare le calette! Molti lamentano l’acqua fredda e le spiagge sassose. Ma i sassi rendono l’acqua trasparente (e non è vero che per i bimbi ci vuole per forza la sabbia). E la temperatura varia tantissimo a seconda delle spiagge e del clima, soprattutto a seconda di come soffia il vento. Niente che ci abbia mai impedito di fare il bagno, comunque.
  6. Bosnia e Serbia sono mete per tutti: le infrastrutture ci sono, le strade sono buone, l’acqua è potabile ovunque, la cucina è ottima, i costi veramente irrisori. Si può cenare in tre con 15 euro e dormire in tre con 20 euro. Come in tutti i Balcani, ogni volta che abbiamo cercato una camera doppia grande o una tripla abbiamo trovato inclusa la cucina, che in effetti è molto comoda.
  7. Dormire a Sarajevo: non si trova su Tripadvisor e non ha un sito proprio, ma proprio per questo vogliamo pubblicizzare “Apartments Druga Kuca” (si trova on line anche come “Apartments Another Home”, probabilmente per non confonderlo con la Guesthouse Druga Kuca, che ha un nome simile ma non c’entra nulla). Appartamento bellissimo, moderno, ben arredato, in posizione comoda e piuttosto economico. La proprietaria è una ragazza gentilissima, l’unico difetto è che il posto non è contrassegnato da targhe o insegne, quindi trovarlo è stato molto molto difficile. Conviene telefonare (parla inglese).
  8. Relax nella campagna slovena: consigliamo “Apartma Vinska Trta”, a Jesenice na Dolenjskem ( ). Una villetta tra vigne e prati, la signora ci ha accolto con torta di mele, sciroppo fatto in casa e la possibilità di cogliere l’uva matura nella vigna. Sono organizzati meravigliosamente, e hanno fatto dei coupon che si possono utilizzare per ottenere sconti e visite presso varie realtà dei dintorni: una fattoria, un mulino, una latteria, un caseificio, diverse trattorie, il panettiere… Si potrebbe passare qua una settimana solo ad esplorare la campagna.


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