Viaggio a Mauthausen

Pellegrinaggio nei campi di concentramento
Scritto da: fiorella_fiore
viaggio a mauthausen
Partenza il: 15/05/2009
Ritorno il: 17/05/2009
Viaggiatori: viaggio di gruppo
Spesa: 500 €
Partiamo il 15 maggio 2009 per quello che sarà il nostro pellegrinaggio a Mauthausen.

Siamo le ANPI di Pontedecimo, Bolzaneto e Isoverde. Il pullman ci porta su al nord, oltrepassiamo il Brennero, e tutto cambia: amplissimi prati verdi, chiesette col campanile augzzo o a cipolla, neve sulle montagne. La giornata non è delle migliori, piovicchia, ma per fortuna nel pomeriggio il tempo migliora. Breve sosta a Innsbruck per il pranzo e per una visita del centro storico. Bella cittadina che conserva nella chiesa imperiale il Cenotafio di Massimiliano d’Asburgo. Arriviamo a Salisburgo in serata, l’albergo è confortevole, domattina ci aspetta la visita dei campi di Mauthausen, Gusen e del Castello di Harteim, famoso per essere stata la clinica dell’eutanasia.

Il 16 maggio piove, partiamo quindi con gli ombrelli. Sappiamo già che quello che ci aspetta non sarà piacevole ma il cuore si stringe davvero in una morsa di ferro che crescerà mano a mano nella giornata. Dobbiamo percorrere circa 150 km e passare per Linz, unica città industriale dell’Austria. Mauthausen è a circa 20 km da questa città e si trova nella Alta Austria, quasi al confine con la Slovacchia. Questo campo è stato aperto l’8 agosto del 1938 sotto il comando di Franz Siereis ed è stato liberato il 5 maggio del 1945 dal 41° squadrone di ricognizione dell’11a divisione corazzata statunitense. Come altri campi di concentramento Mauthausen venne utilizzato come campo di sterminio da attuarsi attraverso il lavoro forzato e il denutrimento per intellettuali, persone e membri delle diverse classi sociali dei paesi occupati dalla Germania nazista. In campi come questi, ricchi di cave, le SS avevano mano d’opera a buon mercato… Qui circa 8000 italiani hanno perso la vita. Per essere qui “occorreva” essere socialisti, comunisti, omosessuali, rom, sinti, artisti, scienziati, insegnanti, professori universitari, repubblicani spagnoli nonché prigioneri di guerra sovietici, bulgari, rumeni, polacchi, ebrei, ungheresi e olandesi e comunque antifascisti e antinazisti. In un’area di circa 60 km quadrati vi erano inoltre una cinquantina di sottocampi, come Gusen e Ebensee, Melk nonché molti altri ancora. Arriviamo: piove e il campo si staglia grigio nell’erba verde. Ai piedi della collina è adagiato il pacifico villaggio di Mautausen immerso in una placida campagna e pieno di villette scenografiche. Gli abitanti avranno saputo e avranno fatto finta di nulla? Questo pensiero non ci da’ pace… L’odore di carne bruciata si sarà sentito nell’aria, pensiamo… Qui le camere a gas funzionavano ventiquatt’ore su ventiquattro… Com’era possibile non conoscere cosa si consumava dentro quel campo? Entriamo non dal portone principale e siamo nel cortile dove vi era la casa del comandante, gli alloggi delle guardie, i garage, i magazzini ecc. Tutto è grigio e tetro, le torrette ci sovrastano e le immaginiamo colme di soldati e di mitragliatrici. Il filo spinato non esiste quasi più ma ci avvolge comunque.

Abbiamo raccolto dal pullman le nostre bandiere e la corona di alloro e ci dirigiamo – come ha detto Rudy la nosta guida – verso la zona monumentale. Vi sono i monumenti di tutte le nazioni che hanno avuto morti in questo campo, e tutti sono pieni di fiori. Il nostro monumento – che è anche il più “incasinato”- è sommerso dalle corone, dai gaglierdetti, dalle targhe commemorative… La Presidente dell’ANPI Monte Sella depone la corona d’alloro che abbiamo portato dall’Italia poi il Presidente dell’ANPI di Pontedecimo, quello di Isoverde e un consigliere di Bolaneto vanno a rendere l’omaggio delle bandiere e poi sempre il presidente di Pontedecimo – con la voce rotta dal pianto – dice due parole. Ci guardiamo solamente ed è come se tutti volessimo abbracciarci stretti. Ci incamminiamo quindi verso il campo.

Ci ritroviamo nel cortile dell’appello. Qui tre volte al giorno i prigionieri macilenti e stanchi dovevano rispondere all’appello delle SS, solamente che non avevano più nome ma un numero e questo numero era gridato in tedesco quindi qualcuno che ancora non lo conosceva a memoria poteva non rispondere all’appello, per cui veniva ripetuto fino a quando tutti i numeri avevano risposto… Stavano anche tre ore sotto il sole, la pioggia, la neve, il gelo, aspettando che questa tortura finisse…

Il muro dei lamenti pieno di targhe commemorative, fiori e corone ci fa piangere. Qui, dove c’era la doppia fila di filo spinato, i prigionieri si gettavano per essere ammazzati dai soldati sulle torrette o per rimanere fulminati dalla corrente che correva lungo il filo: era il suicidio di chi non reggeva più l’orrore. Nel granito si staglia la figura di un uomo, apprendiamo poi essere quella di un generale sovietico, che per aver tentato la fuga viene lasciato nudo, di notte, al gelo, annaffiato d’acqua fredda con le manichette… Al mattino era morto assiderato…

Le baracche sono state ricostruite in quanto quando sono arrivati gli alleati le condizioni igieniche erano tali che non era rimasto altro da fare che bruciarle. In queste baracche di legno coi letti a castello nei quali dormivano anche in tre o quattro persone in ogni “loculo” hanno vissuto al massimo per circa sei-sette mesi ciascun prigioniero: era difficile che qualcuno sopravvivesse oltre se non si era – all’entrata – perfettamente sani. Dovevano lavorare per 10/12 ore alla cava di granito ed erano denutriti, nessuno li curava, solo un miracolo li avrebbe fatti vivere oltre. Campavano con una zuppa calda al mattino, un’altra a pranzo con dentro 20 gr. Di grasso ed un’altra zuppa la sera con l’aggiunta di 3-400 gr. Di pessimo pane e due fettine di insaccato. A volte la domenica veniva loro concesso 20 gr. Di ricotta o di marmellata. Con questo nutrimento dovevano scavare nella cava e trasportare pietre dal peso di 50-60 kg. Per 186 scalini attraverso quella che è stata definita la “scala della morte”.

Ciascun prigioniero aveva uno zainetto di legno – sembrava tipo un seggiolino per bambini – che dovevano caricarsi sulle spalle con il peso del granito. Salivano tutti in fila questa lunga scala per arrivare fino in cima dove c’era la teleferica che avrebbe trasportato i massi ai camions. Hitler che era dei dintorni di Linz voleva che questa città fosse abbellita da questa bella pietra… Le SS avevano inventato il gioco del domino: spingevano alla sommità della scala le prime file di prigionieri carichi e queste si abbattevano sugli altri… Il domino al massacro… Così come il “muro dei paracadutisti”: sull’orlo del precipizio della cava venivano spediti a calci in culo i prigionieri che così volavano…

Il campo della quarantena è quello dove venivano lasciati morire i prigionieri che stavano male… Qui anche tremila donne – tutte partigiane della resistenza – trovarono la morte.

Al centro del grande e lungo cortile rettangolare vi è una tomba ricoperta di fiori e corone: qui è stato sepolto un corpo che è commemorato come il prigioniero ignoto e che rappresenta tutti quelli che non sono stati riconosciuti e che sono morti qua dentro (circa 44.000).

Rudy ci porta quindi di sotto: siamo dove gli uomini – questo era un campo prevalentemente maschile, in quanto campo di lavoro – dovevano spogliarsi e dovevano fare la doccia al loro arrivo, poi risalire in superficie, nudi, non importa se era caldo o freddo, e veniva data loro la casacca a righe, le scarpe oppure zoccoli, la piastrina di riconoscimento col loro numero.

Visitiamo la sala della disinfezione e il luogo dove i prigionieri venivano impiccati ad un cappio di ferro attaccato ad un trave. Qui vi è una targa che recita “ Trave di ferro – sotto la trave, che serviva da forca, si trovava un tavolo pieghevole. Centinaia di persone – soprattutto cittadini sovietici ed ebrei – sono stati qui giustiziati” ma una mano ignota – giustamente – ha cancellato “giustiziati” e ha scritto ASSASSINATI.

Entriamo quindi nella camera a gas – mascherata da docce – e stiamo stretti stretti, noi che siamo 44. Rudy ci dice che entravano in un centinaio e che impiegavano da mezz’ora a 10 minuti per morire… Dopo di che li aspettavano i forni… Non posso descrivere ciò che abbiamo provato… Un singhiozzo profondo… Un dolore al cuore…. Nessuno di noi riusciva a trattenere le lacrime. Abbiamo cercato di fotografare più che si poteva perchè questo orrore deve essere tramandato con lo scopo che non si ripeta più… Dopo aver visto campi come questi cambia davvero la visuale della vita… Nella sala attigua vi è un grosso tavolo in granito: qui venivano messi i cadaveri ai quali venivano tolti i denti d’oro o la pelle dove erano incisi tatuaggi…

In una teca – tra i vari orrori – una siringa con la quale le SS si divertivano a far morire i prigioneri riempiendola di benzina ed iniettandola… I barattoli di “Zyklon B” ci sono ancora, anche se i nazisti scappando hanno cercato di distruggere gran parte di documenti, materiali ecc.

Nel campo hanno trovato la forza di formare un nucleo di Resistenza clandestina che ha accolto gli alleati quando sono entrati nel campo.

Non si riesce a descrivere lo strazio provato davanti a quei luoghi, a quelle foto, a quello che si sta scrivendo ora… In questo campo sono stati internati anche 270 genovesi, o comunque liguri, principalmente coloro che sono stati presi dopo lo sciopero del 1944 nelle fabbriche genovesi, 20.000 bambini e giovani tra i 13 e i 18 anni, 8000 donne circa delle quali solo 4000 vennero identificate. Una parte di queste serviva per il bordello di Mauthausen…

Siamo usciti da Mauthausen e abbiamo percorso – in discesa – i 186 scalini della scala della morte, ci siamo fermati alla stele del “muro dei paracadutisti”, abbiamo raccolto una pietra, una piccola pietra di granito fuori dalla ex cava per portarcela a casa, per non dimenticare mai questo orrore, per farla vedere ai nostri figlio ed ai figli che avranno..

Il 5 maggio 1945 almeno 103.000 persone erano ancora vive, anche se altre moriranno subito dopo la liberazione. Nel pomeriggio ci aspettava ancora il campo di Gusen …

Intanto era uscito il sole, l’erba verde brillava sotto il cielo azzurro e sembrava un panorama sprofondato nella pace della campagna se non fosse stato per quel camino alto di mattoni rossi…

Siamo arrivati a Gusen nel primo pomeriggio: il campo non esiste più, se lo sono mangiato le case… Una villa bianca ha fatto suo il portone grigio di ingresso pincipale al campo, costruendovi sopra la casa… Le bandiere del Memoriale ci accolgono, leggiamo la scritta che il gruppo di veterani americani ha lasciato nel 1964 non riuscendo a dimenticare l’orrore al quale avevano partecipato.

I deportati in questo campo hanno dovuto scavare sotto le colline qua attorno un labirinto di gallerie dove la Masserschimdt e la Steyr hanno impiantato le loro attrezzature e i macchinari per fabbricare parti di aerei e pistole automatiche al riparo dei bombardamenti degli alleati. Oltre al primo campo – mano a mano che i prigionieri aumentavano – sono stati costruiti altri due campi di Gusen denominati KZ II e III. Si presume che complessivamente nei campi di Gusen sono morte 105.000 persone. Ne rimasero vivi circa 2000, così sfiniti che morirono nello stesso campo o in ospedali della zona.

L’Associasione dei superstiti ha acquistato un lotto di terreno e vi ha costruito una struttura commemorativa opera dell’arch. Lodovico Barbiano, anch’esso prigioniero a Gusen e sopravvissuto. All’interno di questo edificio, la cui materia e il cui spazio alludono all’universo chiuso e al labirinto di morte costituiti dal lager, è stato collocato il forno crematorio che visitiamo, piangendo, e dove – sul muro al lato – vi sono targhe e fotografie degli assassinati in questo luogo…

Finalmente riprendiamo il pullman e ci avviamo verso Hartheim… Altro luogo della morte… Questo casello si trova in Alta Austria lungo la strada che da Linz porta a Passau. All’inizio era solamente un sanatorio ma nel 1941 i nazisti allontanarono le suore che lo reggevano e cominciò quello che poi è passato alla storia come “l’istituto per l’eutanasia”. Ciò significa che gli ammalati di mente o con difetti fisici venivano ammazzati con il gas in quanto la razza ariana doveva essere “pura” e si cominciarono anche a fare esperimenti sui malati. Dopo di che toccò ai prigionieri, agli omossessuali, agli oppositori del regime, . Le persone venivano quindi usate per “esperimenti” medici, assassinate e poi cremate in quanto anche qui avevano installato dei forni … ora non esiste più nulla, possiamo solo immaginare quello che è stato… Pensare che visto dall’esterno è un castello davvero bello. In questo luogo furono assassinati almeno 10.000 persone anche se l’ultima esecuzione di prigionieri provenienti da Mauthausen avvenne il 12.10.1944. Anche qui vi sono molte corone e fiori provenienti da tutta Europa. Finalmente riprendiamo il pullman per rientrare a Salisburgo, la giornata di oggi è stata davvero pesante…nessuno di noi potrà mai dimenticare ciò che ha visto.

Il 17 maggio visitiamo brevemente Salisburgo – che è davvero notevole – e poi torniamo in Italia dove arriveremo a tarda sera. E’ stato un grande viaggio a ritroso nel tempo, per quel che riguarda Mauthausen, che ci ha fatto ricordare la follia e gli orrori di quegli anni. Ne siamo usciti con la convinzione ancora più tenace che occorre impegnarsi sempre su qualsiasi fronte aperto dalla democrazia per salvaguardare i diritti di tutti i popoli, di tutte le persone, specialmente in questi bui anni dove si stanno affacciando intolleranza e razzismo che sembrava impossibile potessero albergare nell’animo degli italiani. Chi è uscito da Mauthausen, Gusen, Ebensee, Harthein e da altri campi passando per il camino dovrà essere l’ultimo ad averlo fatto, non dobbiamo permettere che ciò si ripeta, dobbiamo cercare di far si che le guerre, i massacri e i genocidi perpetrati in questi anni abbiano fine.

Chi è stato là, come noi, ha capito che occorre lottare perchè il futuro non possa mai più ripetere quegli errori che milioni di persone hanno pagato con la vita.



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