Mille ulivi per Cochabamba: Giovanni Pellegrino e l’olio della Bolivia
Ecco: di tutte le esperienze che ha vissuto, noi abbiamo voluto approfondire con lui proprio la sua esperienza di… coproduttore d’olio in Bolivia. Giovanni Pellegrino: Questa storia comincia così. Un giorno di 8 anni fa scendevo in corriera per la prima volta da Potosì a Cochabamba. Incollato al finestrino osservavo i cambiamenti dell’ambiente dalle altissime valli della Cordigliera Real (parliamo di quattro, cinquemila metri sul livello del mare) a quelle medie, sui duemilacinquecento metri. Cominciavano ad apparire le piante mediterranee: gli ortaggi, i pomodori, i peschi, poi gli agrumi, poi ancora i fichi d’india… In mezzo a tutta quella vegetazione cercavo l’ulivo, ma niente! Nemmeno l’ombra. Eppure il clima e il territorio mi sembravano propizi. Giunto a destinazione, è stata la mia prima domanda: dove sono gli ulivi? Sicuramente ci ho messo un po’ di ansia! La risposta fu negativa, probabilmente anche un po’ scocciata: effettivamente mi trovavo lì per organizzare la costruzione di 700 pompe per l’acqua! Nei giorni successivi ho continuato a cercarli, gli ulivi, in tutti i miei spostamenti. Ne ho chiesto a tutti quelli che incontravo: nulla. Poi finalmente, dopo circa un mese, mi sono imbattuto in tre alberi in una strada secondaria: gli ulivi c’erano, dunque. E mi sono chiesto: Ma perché se ci sono le olive non c’è olio? Ho scoperto che il motivo è molto semplice.
Detto in due parole: prima della rivoluzione stava partendo eccome, il discorso dell’olio. Io per esempio ho trovato laggiù (e non… Per caso!) un albero enorme: “l’Ulivo della Compagnia” (io lo chiamo così perché è l’ultimo superstite di un uliveto del 1700 di proprietà del Monastero della Compagnia di Gesù). Il proprietario, prima di morire, aveva piantato 800 alberi di ulivo, ma dopo la Rivoluzione, con la riforma agraria e la ridistribuzione delle terre, i contadini non sapevano che farsene degli ulivi. Perché vedete: i boliviani sfruttano molto il pesco, da cui ricavano una bevanda che gradiscono molto. Quindi con gli ulivi hanno fatto legna da ardere, e al loro posto hanno piantato peschi. Tutto questo perché chi è subentrato non aveva le conoscenze per utilizzare gli ulivi che avevano piantato quelli di prima. Eccolo, dunque, il motivo: semplicemente mancava una cultura, una tradizione in questo senso. E’ un discorso facilmente comprensibile: se non ci sono le conoscenze, le competenze, non si crea nessuna attività e come conseguenza si avvia uno spreco di risorse, per ignoranza, magari anche in buona fede.
E così è stato a lungo anche da noi: fino a 20 anni fa per produrre l’olio, venivano costruiti enormi impianti, adatti solo a produzioni industriali. Ci volevano centinaia di ettari di uliveto per sfruttarli appieno: anche il costo era enorme. Quindi la produzione di olio richiedeva grandi capitali. Ma io ho scoperto che da 15 anni a questa parte si fabbricano anche piccoli frantoi, proprio per dare la possibilità a chi possiede pochi ettari di olivo ulivi, di fabbricarsi l’olio controllando così direttamente tutto il processo.
Allora mentre stavo in Bolivia, ho pensato di costruire localmente un frantoio. Utilizzando meccanici locali, e quindi risparmiando molto rispetto al prezzo in Europa. Inoltre, il basso costo dei tecnici era un vantaggio per me, che non avendo mai costruito un frantoio prima, avevo bisogno di sperimentare; così andavo dal tornitore e di volta in volta gli spiegavo quello che mi serviva, senza preoccuparmi troppo del conto. Per me è stata oltretutto un’occasione a basso costo per “pasticciare” a un progetto, e per togliermi -oltre a una soddisfazione personale- alcune curiosità. Per esempio: nella macinazione a freddo si usano tradizionalmente macine in pietra del peso di diversi quintali. Mica potevo pensare di fare una cosa così! Perciò ho provato con macine da 120 chili e ho appurato come le pesantissime macine tradizionali erano un’esagerazione. Stesso discorso per la pressa: ne esistono di gigantesche; io ne ho sperimentato una a manovella, che può essere gestita tranquillamente con una sola mano.
Questo dà la possibilità di costruire frantoi più piccoli anziché uno molto grosso; in questo modo è possibile spremere le olive pressoché sul posto. E’ infatti molto importante che il frantoio non sia troppo distante dall’uliveto.
Non bisogna dimenticare che le distanze, in Bolivia o più in generale in Sudamerica, sono notevoli, e come potete immaginare i trasporti risultano difficoltosi: trasportare le olive da un uliveto a un frantoio potrebbe voler dire imbarcarsi in un viaggio lungo, che rischierebbe di minare la qualità del frutto: l’olio non degenera facilmente, ma l’oliva sì.
Ma con il mio metodo, un primo, piccolo, frantoio in ferro è costato solo tremila dollari, e un secondo in acciaio realizzato poco dopo me n’è costato ottomila. E di questi ottomila dollari, quello che è costato di più sono stato io! Quando le cose stanno così, si può iniziare a pensare di costruirne più di uno e delocalizzare la produzione a beneficio dei lavoratori locali. Ma è stata un’impresa! Mancava tutto: denaro, mezzi e conoscenze… Durante le mie ricerche di ulivi, mi ero precedentemente imbattuto in una scuola di Agraria, in Patagonia. Il secondo frantoio era per loro, affinché potessero ricominciare a fare l’olio a 40 anni dall’ultima produzione: il vecchio impianto era ormai inutilizzabile.
Cominciai a costruirne uno nuovo per loro a Cochabamba: avevo improvvisato un’officina dove ultimare i lavori e trasportarlo in Patagonia. Ma a metà dell’opera venni a sapere che i costi per il trasporto di un oggetto così ingombrante e pesante sarebbero stati enormi, ridicoli: superavano addirittura i costi di costruzione. Dovevo fermarmi immediatamente. Decisi di imballare tutte le parti fin lì costruite in diverse casse del peso di più di mezzo quintale l’una, le unii alle mie valigie e caricai tutto quanto su una delle tipiche “corriere” del Sudamerica e viaggiai così da Cochabamba alle rive del grandioso Rionegro (circa cinque volte la portata del Po, ma di acqua pulita!), in Patagonia: sei giorni di viaggio per circa seimila chilometri, con la paura che una cassa venisse smarrita o che negli spostamenti si rompesse qualche cosa.
E’ stata davvero un’avventura, ma quello che alla fine contava era la qualità percentuale dell’olio estratto: dal 17 al 19 % di olio di prima spremitura ottenuto a freddo. Un risultato incredibile! Ma soprattutto è stata la dimostrazione che in un’area povera, con un po’ di ingegno e pochi soldi si può autocostruire un piccolo frantoio. Il che, oltre ad abbattere i costi, significa anche la possibilità, non presa in considerazione nemmeno in Italia, di farsi l’olio autonomamente, col vantaggio per l’agricoltore di controllare direttamente tutto il processo. La spremitura e il confezionamento dell’olio sono infatti operazioni molto delicate: il semplice fatto che le tue olive o la pasta in corso di lavorazione vengano a contatto con residui della lavorazione precedente, può compromettere la qualità di olive amorevolmente coltivate e raccolte. Se uno potesse farlo in casa, col suo frantoio, darebbe valore al proprio olio. Comunque questa prima fase è stata solo preparatoria: la cosa importante era capire se aveva un senso porre le basi per una piccola produzione. L’azione ha dimostrato come sia possibile costruire frantoi a basso costo, e anzi come sia possibile, in un futuro prossimo, abbattere i costi ulteriormente istruendo la manodopera locale. Dalle mie parti molte persone non sono mai uscite dall’Italia, e tutti sanno coltivare l’olivo. Potrebbe essere un’occasione per tanta gente che non saprebbe come affrontare un viaggio così lungo, di visitare il Sudamerica: ospitalità da parte dei locali in cambio di consigli e insegnamenti sulla produzione dell’olio e sulla coltura delle olive. Potrebbe nascere un modo nuovo di fare turismo, genuino e svincolato dai viaggi organizzati, e per la gente di cui ti parlo è anche l’unica forma di turismo che affronterebbero, e sono sicuro che sarebbero felicissimi di insegnare quello che sanno sulle olive.
E qui arriviamo al secondo fondamentale problema, vale a dire gli uliveti: non ne esistono di sufficientemente vasti o ricchi. I vivai, in Bolivia, hanno alberi da frutto a bizzeffe, ma di olivi neanche l’ombra. Per fare un esempio, dopo un po’ di tempo che mi trovavo in Bolivia ho deciso di piantare un albero di olive all’Ambasciata Italiana a La Paz (a quota 3.700 metri!), giusto perché non restassero dubbi sulla sua esistenza almeno ai pochi agronomi italiani presenti in Bolivia. Per trovarne una pianta ho dovuto girovagare per dieci giorni, per poi stanare finalmente un vivaio che ne aveva ben UNO. Costo: 20 euro: una fortuna! Una strada da tentare per risolvere il problema è quella di avvalersi di “talee”, producendole a partire da quegli ulivi che -nonostante tutto- ho scovato nei vari viaggi sulle montagne, ma che a quelle altitudini non si sono acclimatati molto bene (si parla di altitudini notevoli, e nonostante la longitudine in certe zone all’ombra si scende a zero gradi!).
L’olio andino è oggettivamente prezioso: non è solo saporito ma vanta qualità organolettiche molto importanti: l’olio di oliva migliorerebbe l’alimentazione delle popolazioni locali, arricchendola.
In Bolivia ho visto coi miei occhi che produrre olio di oliva è alla portata anche dei Paesi poveri, a condizione di… Fare economia. Per questo vorrei contattare dei tecnici del posto: in modo da preparare assieme un progetto che semplifichi il frantoio il più possibile per superare la costosa dipendenza dall’estero: le competenze sono fatte per essere trasmesse! Noi abbiamo “preso” dal Sudamerica la patata, il pomodoro, il mais… Che oggi costituiscono la base della nostra alimentazione, nonché ciò che ha contribuito a conferirci un’identità alimentare, e a darci prestigio nel mondo: è semplicemente l’ora di restituire il favore.
Tutte le iniziative di Giovanni Pellegrino al sito Emiliano Frignani Redazione Turistipercaso.It