Il misticismo antico dell’India del Sud

“Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. E’ il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile” (R. Kapuscinski – In Viaggio con...
Scritto da: mapko64
il misticismo antico dell’india del sud
Partenza il: 25/12/2005
Ritorno il: 10/01/2006
Viaggiatori: da solo
Spesa: 2000 €
“Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. E’ il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile” (R. Kapuscinski – In Viaggio con Erodoto).

La spiritualità della civiltà indiana, che mantiene ancora oggi divinità e tradizioni antiche di millenni, ha sempre esercitato un grande fascino sulla mia fantasia, un modello contrapposto al materialismo occidentale. Un paio di anni fa avevo visitato il coloratissimo Rajasthan nel nord del paese ma era rimasto con il desiderio di tornare per esplorare regioni meno battute dal turismo. Ho scelto quindi il sud, culla della civiltà indù, viaggiando da solo con i mezzi pubblici come un vero indiano. L’India è un mondo a parte: al nord tuttavia le grandi migrazioni indoeuropee nell’antichità e le invasioni di gente islamiche in tempi più recenti hanno in qualche modo contaminato l’elemento originario mentre al sud tutto ciò non è avvenuto. La pelle scura della gente tradisce l’origine dravidica e i culti nei templi sono antichi di millenni. Persino la cucina, quasi vegetariana, sembra rispettare questa linea di tradizione: mai avrei pensato che si potesse mangiare così bene, gustando piatti vari e saporiti, eliminando totalmente la carne dalla propria dieta! Il viaggio di due settimane attraverso il Tamil Nadu e il Kerala, i due stati più meridionali, è stato una vera immersione nel misticismo del paese: le giornate passate nei templi di Madurai e Trichy mi hanno reso partecipe di cerimonie e culti affascinanti, mostrandomi una popolazione profondamente legata alla sua religione. Da un punto di vista artistico il sud non può competere con le meraviglie architettoniche del nord ma le montagne di statue nelle gopura dei templi rappresentano comunque un elemento originale ed avvincente; d’altra parte i templi della dinastia Chola sono dei veri gioielli come pure le sculture rupestri dei Pallava a Mamallapuram. L’aspetto più coinvolgente è stato senza dubbio l’incontro con la realtà indiana. Lasciando la vecchia Europa ho avuto l’impressione che un’astronave mi avesse catapultato su un altro pianeta. Un’umanità eterogenea anima le città: santoni dalle lunghe barbe con il volto dipinto da segni colorati vivono grazie alle offerte dei fedeli, vacche sacre con le loro curiose gobbe sulla schiena circolano liberamente nutrendosi di spazzatura. Le sensazioni e i ricordi sono veramente tanti, tali da provocare una sorta di stordimento. Le città sono dei formicai nei quali spesso l’unica attrattiva è il tempio. Un’eccezione è senz’altro Kanniyakumari, pittorescamente situata sulla punta estrema dell’India. In un viaggio dedicato alle città ho potuto ammirare il rigoglio tropicale delle palme e il verde smeraldo delle risaie, oltre che dai finestrini senza vetro dei bus anche durante la crociera sulle backwaters del Kerala, un’esperienza che temevo troppo turistica ma che invece si è rivelata coinvolgente per la ricchezza dei paesaggi e la visione della vita a stretto contatto con l’acqua della gente dei villaggi. L’India è un paese contraddittorio in cerca di un delicato equilibrio tra una millenaria tradizione di spiritualità e le esigenze di uno stato moderno. In alcuni settori, ad esempio nel campo informatico, ha raggiunto livelli d’eccellenza; al sud la classe media parla perfettamente inglese, un mezzo di comunicazione indispensabile nella babele linguistica. In molti casi però la civiltà moderna ha prodotto effetti devastanti, soprattutto nei centri abitati assediati dall’inquinamento atmosferico, dalla plastica e dalla spazzatura. Viaggiare per conto proprio con i mezzi locali mi ha consentito di immergermi nella realtà del paese. Naturalmente bisogna avere un certo spirito di adattamento, ma tutto sommato il sistema di trasporto è capillare ed efficiente se considerato con la giusta mentalità. Tornando a casa, più che in altri viaggi, mi sono sentito arricchito, portato a riflettere su questioni che la frenesia della vita moderna ci porta spesso a mettere in disparte.

Ed ora il diario di viaggio. In India ho seguito il seguente itinerario di massima: Chennai – Mysore – Cochin – Kanniyakumari – Madurai – Podicherry – Mamallapuram – Chennai 25 dicembre: Roma – Francoforte – Chennai Raggiungo l’India volando con la Lufthansa via Francoforte. All’aeroporto di Chennai, passata la mezzanotte, trovo ad attendermi il tassista dell’hotel Pandian, prenotato tramite Internet. 26 dicembre: Chennai – treno per Mysore Al Government Museum (250 rupie l’ingresso per gli stranieri!), dopo la confusa successione di statue delle varie dinastie, mi godo la galleria dei bronzi. Le rappresentazioni delle divinità sono affascinanti: mi colpiscono una serie di sensuali Parvati, dai fianchi stretti e il seno prominente, ma il vero capolavoro è la statua di Nataraja, lo Shiva Danzante tanto popolare qui al sud. La figura armoniosa poggia solo sulla gamba destra che schiaccia un demone con un cobra in mano. Il corpo si torce in un cerchio di fiamme, fissato in una posa della danza, con i lunghi capelli che formano un ventaglio attorno alla testa perfettamente frontale. Il dio indossa anelli, braccialetti e cavigliere, ma è praticamente nudo con le collane attorno alla vita che non celano il sedere muscoloso. Altrettanto affascinante è la statua di Ardhanariswara, rappresentazione duale di Shiva e Parvati. La metà destra, maschile, e quella sinistra, femminile, si fondono armoniosamente: il seno della dea lascia il posto al petto muscoloso del dio mentre da dietro il contrasto tra la spalla possente di Shiva e il fianco stretto di Parvati appare più accentuato. Una lunga passeggiata attraverso strade affollate e spesso maleodoranti, mi porta fino al Fort George, il primo insediamento britannico in India. La bandiera nazionale svettante su una lunga asta segnala l’ingresso al complesso, oggi sede di uffici e ministeri. L’edificio principale, il Fort House, si distingue per la sua architettura neoclassica con le colonne di marmo nero che contrastano con la bianca facciata. A fianco il Fort Museum ospita una piccola raccolta di ricordi dell’epoca coloniale ed una serie d’interessanti acqueforti di fine 700 dei Daniells, ammirate qualche mese fa a Roma in una mostra alle Scuderie del Quirinale. Oltre alle architetture della regione, mi colpiscono le rappresentazioni dello sbarco a Madras di nobildonne inglesi vestite di tutto punto con una schiera di locali seminudi impegnati a trasportarle su palanchini senza farle bagnare! A Chennai le donne indossano il sari mentre la maggioranza degli uomini veste all’occidentale anche se alcuni portano il dhoti, il tradizionale panno avvolto intorno alla vita e ripiegato davanti. Marina Beach è il simbolo delle contraddizioni di Chennai: una spiaggia immensa, larga centinaia di metri, potrebbe essere un posto da favola mentre invece è attraversata da canali maleodoranti pieni di spazzatura beccata da grossi corvi neri. Un monumento custodisce la tomba dell’amatissimo primo ministro del Tamil Nadu durante gli anni ottanta, un attore noto per la sua corruzione. Donne con sari dagli splendidi colori accompagnano sulla spiaggia bambine con il vestito della festa mentre gli uomini si arrotolano i pantaloni e “affrontano” le onde dell’oceano. Esattamente un anno fa la festa popolare di tutti i giorni si trasformò in tragedia quando l’onda dello tsunami travolse la gente sulla spiaggia. Come sempre e ancora di più in un paese induista, il ciclo della vita è ripreso e tutto è tornato come prima con i bambini che si rincorrono sulla battigia fuggendo le onde “normali” di questo pomeriggio. Proseguo la passeggiata verso sud; la sterminata distesa di sabbia è un’oasi di pace dopo il caos della città. Le barche dei pescatori sono tirate in secca a riva; un bianco edificio ricorda nel nome, The Ice House, il suo impiego nell’Ottocento da parte di una società che importava in India il ghiaccio dei paesi freddi! Un’imponente gopura d’inizio novecento è ricoperta da una selva di statue vivacemente colorate; donne dai brillanti costumi suonano strumenti a corda. Il tempio di Kapalishvara a Mylapore ricorda la trasformazione di Parvati in una femmina di pavone e un altare, vicino all’albero dove avvenne la metamorfosi, la rappresenta in questa forma mentre adora il linga. Bramini a torso nudo si affacciano dai vari santuari con un braciere dal quale i fedeli pescano la cenere da porre sulla fronte. Nel santuario principale l’ingresso è proibito ai non indù, ma ecco uscire musicanti con tamburi e una lunga tromba. Tutti si alzano in piedi mentre dalla porta spalancata s’intravede un gran fumo, rotto dalle luci dei moccoli. I bramini agitano torce e corone di fiamme mentre i fedeli all’esterno alzano le mani sopra la testa. Tace la musica e la preghiera di un bramino conclude la cerimonia. Alcune donne prendono delle lucerne e le fanno ruotare davanti alla porta prima di riporle su un tavolo. Un signore distinto, vestito all’occidentale, siede con le gambe incrociate e le mani con indici e pollici uniti, assorto in una profonda meditazione; poi compie una serie di prostrazioni, si alza e se ne và. Poco dopo la cerimonia si ripete in un altro tempio: questa volta la visuale è perfetta ma il significato dei gesti (bracieri accesi uno dopo l’altro, candelabri di moccoli fatti ruotare) ugualmente oscuro. Si è fatto buio e la selva di statue della gopura d’ingresso è illuminata dalla luce artificiale, con tanto d’insegna al neon. Cerco di dipanare la matassa ma anche questa volta il significato rimane arcano (riesco a malapena a riconoscere qualche Khrishna dall’incarnato blu!?). Nonostante l’affollamento, il risultato non è pacchiano. La bianca massa gotica della chiesa romana di Mylapore, dedicata a San Tommaso Apostolo evangelizzatore dell’India, fa un bel contrasto con il ricordo dei colori del tempio indù. All’interno il soffitto a crociera è in legno come una sorta di carena di nave rovesciata. In fondo al presbiterio Gesù in croce è completamente vestito con una corona da re sulla testa. Il guidatore di risciò s’informa se sono indù o cristiano e poi mi fa gli auguri di Natale. Il biglietto del treno notturno per Mysore acquistato su Internet è stato recapitato all’albergo come richiesto e il mio nome figura nella lista dei passeggeri attaccata alla porta della carrozza. Ho scelto una sistemazione 3-tier, tre livelli di cuccette. Sono in compagnia di una famiglia indiana; come altri membri della middle class incontrati in aereo, genitori e figli parlano tra loro in inglese. La notte in treno trascorre tranquilla e nella mia cuccetta superiore riesco a dormire abbastanza bene. Al mattino il treno è in ritardo e ne approfitto per osservare le campagne del sud, distese di campi coltivati spesso dall’aspetto brullo, cosparse di alberi di palme. 27 dicembre: Mysore Il palazzo del maharajah a Mysore, costruito all’inizio del novecento, si presenta come un vasto edificio di stile eclettico. Il loggiato frontale con gli archi trilobati alleggerisce notevolmente la struttura piatta, movimentata verticalmente da loggette con cupole rosse di stile mogul e da una specie di campanile centrale, chiuso da una cupola dorata con tanto di lanterna. La visita degli interni non è confortevole per la folla di turisti locali ma per fortuna gli spazi sono ampi e i ventilatori sui soffitti rinfrescano gli ambienti. La Durbar Hall è una vasta sala divisa da pilastri formati da colonne affiancate, dipinta con colori pastello; da un lato si apre sul giardino attraverso una specie di teatro con gradinate. Gli archi trilobati danno un tocco islamico ma l’impressione generale è troppo moderna e perfetta. Molto carino è invece il lato aperto sul giardino, ideale per le grandi cerimonie del maharajah. Il Devaraja Market è considerato uno tra i più interessanti dell’India del sud. Il mercato ortofrutticolo è un vero tripudio di colori; un vecchio siede davanti ad una montagna di zucche dalle forme svariate, alcune lunghe fino ad un metro. Una sezione è dedicata ai prodotti ricavati dalla lavorazione del sandalo, profumi ed essenze, mentre su altre bancarelle spiccano i coloratissimi mucchietti di polvere di kumkum, utilizzata dagli indiani per segnarsi la fronte. Mentre mi aggiro nel vasto complesso la mia presenza non passa inosservata: giovani procacciatori cercano di portarmi al loro negozio, alcuni adducendo il pretesto di farsi tradurre degli scritti in italiano. L’effetto del turismo è evidente, compensato dai continui scorci pittoreschi che sollecitano l’istinto del fotografo. Seguendo i consigli delle guide cerco di farmi portare in vetta alla Chamundi Hill per affrontare i mille gradini in discesa ma non riesco a convincere l’autista del risciò. Devo quindi rassegnarmi alla lunga ascesa come un pellegrino. Unica attrazione dopo 700 gradini una maestosa statua monolitica del bue Nandi, scolpita in un blocco di granito. In vetta spicca la gopura del tempio, alta 40 metri, questa volta sobriamente color crema ma sormontata da due corni d’oro inframmezzati da puntali. L’interno (pago 10 rupie per evitare la fila) è affollato di fedeli. I riti sono molteplici: s’inizia toccando due piedini d’argento su un altare dorato con un bassorilievo di Nandi; si prosegue nella cella sfiorando la fiamma del braciere tenuto dal solito bramino a torso nudo e poi portando le mani sulla fronte. Facendo il giro attorno al santuario centrale ci si cosparge la fronte con la cenere presa da un altare e poi si poggia devotamente la testa su un punto preciso del muro perimetrale. Sulla spianata in cima alla collina si trova un altro paio di templi; uno dall’aspetto antico è in restauro, con il santuario avvolto da impalcature di legno. Mi infilo ugualmente all’interno, invitato da un operaio; la cella dal soffitto basso è retta da colonna formate da anelli concentrici. Una lunga fila di bancarelle collega il tempio principale al Godly Museum, una stanza dove dipinti e pupazzi illustrano la tragica situazione dell’umanità prossima alla sua fine: il ciclo cosmico ha ormai raggiunto l’età della decadenza e Dio provvederà a riavviare il tutto con una nuova età dell’oro non prima però di avere distrutto l’umanità corrotta. In una visione sincretica non manca un’immagine di Cristo in croce. E’ l’ora del tramonto ma la città più in basso è offuscata dal sole frontale. Le scimmie scese dai tetti del tempio si aggirano tra la gente mentre qualche mucca bruca le cartacce, agitando la coda. 28 dicembre: Somnathpur – Mysore – bus per Ernakulam Il bus per Bannur viaggia in mezzo alla campagna correndo su strade piene di buche. Sono l’unico straniero ma mentre soffro per i continui sobbalzi, gli indiani leggono tranquillamente il giornale. A Bannur salgo su un risciò per Somnathpur ma dopo qualche metro il motore si spegne; la candela di scorta si rivela inutile e devo cambiare mezzo. Attraversiamo alcuni villaggi di capanne di stuoie e qualche casa in muratura, alcune addirittura con tanto di bella veranda. Lungo la strada procedono carretti trainati da buoi. Il tempio di Somnathpur, uno dei tre capolavori lasciati dalla dinastia Hoysalas, è un tripudio di sculture. Un recinto con portico colonnato racchiude il complesso mentre il tempio centrale di piccole dimensioni è interamente ricoperto di bassorilievi. Su una piattaforma a stella sorge una struttura “a tre picchi”, con una torre sopra ciascuna cella. Tutta la parte inferiore dell’edificio è ricoperta da fasce continue di bassorilievi: la più bassa rappresenta una processione di elefanti incolonnati come formiche, la successiva una di cavalieri. Seguono poi scene tratte dal Ramayna e dal Mahabharata: eserciti che sfilano, scene apparentemente di vita comune (una donna allatta un bambino, altre trasportano cibo sulla testa), santoni in meditazione, una caccia al cervo. In corrispondenza delle torri la struttura si arricchisce con altre fasce; sopra, le varie divinità sono scolpite più grandi. Ascoltando la guida di un gruppo di francesi, apprendo che sono presenti un po’ tutte le più importanti, intervallate da donne formose dalle tette rotonde (non manca nemmeno il raro Brama, un “signore” barbuto con tre facce). L’interno è altrettanto affascinante: l’ambiente scuro è tutto in pietra nera con colonne che sembrano lavorate al tornio. Dalle cupolette sul soffitto pendono decorazioni in pietra che ricordano un fallo mentre in ciascuna delle tre celle è collocata una statua di Vishnu nelle rappresentazioni di Keshava (il più anziano, al centro, con quattro braccia che reggono ciascuna uno scettro), Venugopala (a destra, sempre con quattro scettri ma questa volta uno poggiato per terra) e Jagannath (a sinistra, nell’atto di danzare e suonare il flauto). Quest’ultima figura molto bella e aggraziata, rispetto alle altre due statiche, presenta orecchini, collane, un gonnellino, cavigliere e una profusione di anelli. Mi fermo ad ammirare l’ambiente, l’armonia dell’unico colore nero e il fascino delle colonne che sembrano trasformate in pietra dall’argilla o dal legno. Per tornare a Bannur prendo il bus pubblico (5 rupie contro le 60 del risciò dell’andata). E’ affollatissimo ma gli indiani anziché imprecare schiacciati nella calca sorridono divertiti. L’autista del bus Bannur – Mysore è molto più tranquillo del collega dell’andata mentre il mio vicino è interessatissimo alla Rough Guide. I colori vivaci dei sari delle donne ravvivano l’atmosfera. Tornato a Mysore, pranzo all’Om Shanti dell’Hotel Siddartha dove gusto uno squisito South Indian Thali. Si tratta di un pasto completo, naturalmente vegetariano, con varie salsette a base di verdure, zuppa di ceci, ecc., accompagnate dal chapati e dal riso. I sapori sono squisiti, non troppo speziati come spesso accade al nord. Dopo pranzo passeggio per Mysore raggiungendo l’Indira Gandhi Rashtriya dove un’esposizione è dedicata all’arte folcloristica della regione, insieme ad alcune interessanti fotografie di primitive pitture rupestri trovate in vari siti sparsi per l’India. Al Cauvery Arts & Craft Emporium, emporio di stato, i prezzi non saranno i più convenienti ma si può fare shopping tranquilli senza l’assillo dei venditori. Alcuni tavoli intarsiati in legno sono stati già venduti e presto saranno spediti in America (i prezzi si aggirano sui 2000 euro); sono massicci e con belle rappresentazioni colorate sul piano. La mia spesa è molto più limitata: il sandalo è il legno tradizionale di Mysore e così acquisto un profumo, un paio di maschere per il viso e di bustine per profumare armadi, tutti all’essenza di sandalo. Il Jaganmohan Palace era la residenza dei maharajah nell’ottocento, prima della costruzione del nuovo palazzo. Oggi ospita un’Art Gallery con ricordi legati al passato, tra i quali foto in bianco e nero della Dussehra, la celebre festa di Mysore. I quadri che ritraggono le storie del Ramayana con lo stile occidentale mi dicono ben poco; più interessante è l’ultimo piano, con lunghi strumenti musicali a corda (tanduri e sitar) e centrini a croce che fungono da scacchiere accompagnate da pezzi da gioco in osso. Per cena scelgo il Park Lane Hotel dove la scelta non è limitata alla cucina indiana; mi aspetta una notte in bus e vorrei mantenermi leggero, per cui mi “limito” a un pork noodle. Il ristorante è ospitato in uno scenografico roof garden e sembra molto apprezzato dagli stranieri (non manca l’albero di Natale). Vasi di piante pendono dal pergolato, le candele sui tavoli creano un’atmosfera soffusa ma è la mia prima cena interamente circondato da turisti e mi fa uno strano effetto. La partenza del bus notturno per Ernakulam è fissata alle 21:15 ma appena salito a bordo vengo fatto scendere perché si tratta della corsa precedente in ritardo. Il mio bus arriverà solo dopo un bel po’ e alla fine partirà con un’ora di ritardo. Lo spazio tra i sedili reclinabili è abbastanza confortevole ma le mie capacità di dormire in queste situazioni sono molto scarse e passerò una notte insonne. La maggioranza dei passeggeri è locale ma non manca qualche turista. Nel cuore della notte ci fermiamo per una pausa. Apro gli occhi e mi si offre uno spettacolo surreale: ci troviamo in cima ad un passo e sotto di me si scorgono centinaia di coppie di fari. La discesa, infatti, sarà una continua successione di tornanti intasati da un’impressionante colonna di camion. 29 dicembre: Ernakulam – Mattancherry – Fort Cochin – Ernakulam Alle nove del mattino siamo ad Ernakulam. Mi sistemo all’Hotel Luciya, a fianco della stazione degli autobus, visto che domani dovrò ripartire in bus la mattina presto. La stanza è una singola spartana e costa solo 165 rupie, il prezzo più basso del viaggio. Ernakulam è la parte moderna di una città estesa sulle isole e penisole di una baia. Per raggiungere i quartieri storici mi imbarco sul traghetto di linea (3,65 rupie!), iniziando la visita da Mattancherry. Le case del vecchio quartiere ebraico sono tutte occupate da negozi di antichità e souvenir ma l’aspetto delle abitazioni con i tetti di tegole è rimasto caratteristico. Gli ebrei hanno vissuto in questa regione dell’India per millenni; i primi problemi sono iniziati con l’arrivo dei portoghesi finché negli anni cinquanta del novecento sono emigrati quasi tutti in Israele. Rimane a ricordarli la sinagoga affiancata da una graziosa torre con orologio. L’interno presenta un miscuglio di stili, dalle mattonelle bianche e blu dipinte da mani cinesi, ai lampadari a gocce europei. Il palazzo di Mattancherry fu costruito dai portoghesi ma rimaneggiato dagli olandesi per poi tornare residenza dei maharajah. I dipinti murali al suo interno sono attraenti ma spesso di difficile lettura per la luce infelice e il groviglio di figure. In una sala sono rappresentati episodi del Ramayana, dalla nascita degli eroi “in presa diretta”, alla battaglia finale con il demone in primo piano armato di archi dalle molte frecce. Più semplice è la comprensione delle rappresentazioni a sfondo erotico della camera da letto delle donne. Shiva amoreggia con Vishnu nella sua forma femminile, suscitando l’ira di Parvati; Khrishna è sdraiato circondato da provocanti pastorelle; Shiva tiene Parvati sulle ginocchia toccandole un capezzolo (tutti i personaggi femminili si distinguono come al solito per il seno rotondo). Raggiunto Fort Cochin in risciò, pranzo ad un chiosco vicino le fishing net ma il grilled fish prima è poco cotto poi dopo che lo ho rimandato indietro troppo secco. Le fishing net sono veramente imponenti: introdotte nel quattrocento dai cinesi, funzionano in base ad un sistema di leve e corde che per essere azionato necessita fino a dieci uomini. La spiaggia invece è un letamaio pieno di spazzatura; significativamente i gabbiani sono assenti, sostituiti dai corvi a loro agio in questa situazione. Uno dei posti tanto decantati è quindi una delusione tremenda. La chiesa di San Francesco è considerata la più antica dell’India: anche qui per entrare bisogna togliersi le scarpe (sincretismo religioso?!). L’interno è spoglio con arcuate capriate di legno che sostengono il tetto in lamiera. In un angolo un grande albero addobbato ricorda il Natale. Agli indiani deve sembrare un oggetto esotico e un ragazzo si fa fotografare davanti. Passeggiando per Fort Cochin sembra di essere in un angolo d’Europa con le case dai tetti di tegole e le persiane. Una palazzina imbiancata è considerata la residenza di Vasco de Gama che morì a Cochin e fu sepolto nella chiesa di San Francesco prima di essere portato a Lisbona. Il portoghese fu un violento sterminatore ed il cinquecentesimo anniversario del suo arrivo in India provocò qualche anno fa molte polemiche. Numerosi sono anche i bungalow con verande e porticati, circondati da giardini, ma basta fare pochi passi per ritrovare i cumuli di spazzatura. Tutto sommato sono da troppo poco in India per cercare già la vecchia Europa.

La giornata veramente calda richiede una sosta ristoratrice: ai tavoli del Kashi Art Cafè, piacevolmente ombreggiati da una tettoia di legno, sono circondato da ragazze bionde; sono forse tornati gli olandesi? Buoni sia la torta al cioccolato che il caffè espresso; un’oasi di pace il locale con musica soffusa in sottofondo e alle pareti dipinti di artisti contemporanei. Ripenso alla delusione di Cochin: anche la baia con le incombenti installazioni del porto sembra avere perso il fascino che tanto aveva colpito Pierre Loti, viaggiatore d’inizio novecento. Alle cinque del pomeriggio raggiungo il teatro per il make-up anche se lo spettacolo inizierà solo alle sei e mezzo. Il Kathakali è una forma di teatro tradizionale del Kerala con rappresentazioni tratte dalla mitologia. Il trucco è importantissimo perché consente di riconoscere i personaggi. Un giovane attore è sdraiato per terra con il truccatore in azione: il suo volto è già rosso, con gli occhi e la bocca neri ma ora è il momento di aggiungere con un pennello le strisce bianche. Rappresenterà il cattivo Dussasana, secondo dei fratelli Kaurava; altri tre personaggi per il momento provvedono al trucco da soli. Si tratta di Khrishna con il viso dipinto di verde, Bhima secondo dei fratelli Pandava nella sua forma furiosa e Panchali, moglie dei cinque Pandava con il volto giallo e gli occhi neri. Il trucco di Dussasana si complica: vengono aggiunte delle creste bianche intorno alla faccia. Finito il trattamento, il truccatore passa uno ad uno agli altri personaggi. Finalmente ha inizio la rappresentazione, tratta dal Mahabarata. Panchali viene umiliata da Dussasana, che vorrebbe addirittura toglierle i vestiti ma Khrishna le dona delle vesti magiche per coprire le nudità. La donna (rappresentata da un uomo) giura vendetta: si laverà i capelli con il sangue del suo aguzzino. Nella successiva battaglia Bhima mette in atto la vendetta squarciando il petto del nemico: la rappresentazione è molto cruenta con Bhima che si tinge le mani di rosso con l’ausilio di un aiutante (per la verità piuttosto pasticcione) ed estrae le interiora del nemico. Bhima con le mani grondanti di sangue lava i capelli della moglie ma alla fine si pente della sua spietatezza e si rivolge a Khrishna che lo consola dicendogli che ha fatto solo la volontà di Dio. La rappresentazione è accompagnata dal suono ritmato di tamburi e piatti mentre i personaggi esprimono i loro stati d’animo con la mimica del viso e i gesti delle dita. I costumi sono molto belli e colorati e l’effetto pittoresco anche se un po’ turistico. Ceno all’Old Port accanto al teatro con un buon masala fish.

30 dicembre: Ernakulam – Alappuzha – crociera sulle backwaters – Kollam – Varkala Sveglia alle sei; dopo un’ora e mezzo di bus raggiungo Alappuzha, punto di partenza della crociera sulle backwaters fino a Kollam. Scelgo la soluzione più semplice, il battello turistico a due ponti (300 rupie). Nell’attesa della partenza raggiungo un piccolo tempio sul viale principale; è l’ora della cerimonia mattutina ed i fedeli arrivando si disegnano il terzo occhio con la polvere colorata. Un bramino apre la porta della cella e dietro appare la statua dorata della divinità con ghirlande di fiori al collo ma dopo avere distribuito con un bricco l’acqua ai fedeli, la porta viene richiusa. Dopo qualche minuto di rullio di un tamburo, la porta si riapre e il bramino questa volta passa una lucerna davanti al dio. Segue un’innaffiata d’acqua sui fedeli e poi la distribuzione di petali di fiori. Terminata la cerimonia, la porta della cella rimane aperta e continuano a sopraggiungere fedeli per una rapida preghiera, una rinfrescata all’occhio e qualche petalo. Al bazar acquisto da un ambulante un pettinino di corno per sole 20 rupie. Si tratta del primo affare della giornata e quindi bacia i soldi e si tocca la fronte. Le strisce di palme e banani in mezzo alle acque, le macchie verdissime delle risaie, gli uomini che si lavano, le donne che fanno il bucato, le capanne su lingue di terra: lo spettacolo delle backwaters scorre davanti ai miei occhi mentre viaggio sul traghetto per turisti Alappuzha-Kollam. Una casa in muratura tinta di rosa con il tetto di tegole si affaccia sul canale; dietro brilla il verde di una sterminata risaia; uomini come puntini bianchi affondano curvi nelle coltivazioni. I canali, le tradizionali vie di comunicazione della regione, sono ampi come autostrade. Mi rimane il disappunto di non avere il tempo per un’escursione nei rami secondari, tra i villaggi di questa gente che vive nell’acqua. Proseguono le attività della giornata: un uomo porta una grossa fascina sulla testa, un pescatore con l’acqua fino alla cintola sbarca il frutto della mattinata. Incrociamo varie kettu valam (house boat), le tradizionali imbarcazioni, sorta di case galleggianti di giunco. Non mi trovo certo nel paese del buon selvaggio: non mancano gli elementi di modernità, una piccola draga a motore, i tralicci della corrente elettrica, un resort con un traghetto ancorato davanti ma per fortuna sono incontri rari e discreti, a volte necessari per salvaguardare la terra (come i bassi muretti di protezione in pietra). Ci fermiamo a raccogliere due turisti italiani che hanno trascorso la notte in un villaggio. Falce e martello dipinti su una parete ricordano che il Kerala è stato il primo stato ad eleggere democraticamente un governo comunista. C’infiliamo in un canale più stretto con tanto di segnalazione stradale per Kollam. Un paio di ponti stradali scavalcano le acque marroni; case e villaggi hanno l’aspetto molto più moderno. Cambiamo canale e questa volta siamo circondati da una fitta vegetazione. Le risaie sono scomparse e le palme regnano incontrastate; alcune si allungano protendendosi verso l’acqua. Per il pranzo ci fermiamo ad un resort dove ci vengono serviti, su una foglia di banano, verdure e mango, delicate salsine con le quali condire il riso e un pesce alla griglia. La navigazione riprende passando un tratto larghissimo; ormai abbiamo superato la chiusa che separa le acque dolci da quelle salate. Centinaia di fishing net sembrano renderci omaggio, piegate in un inchino, mentre le attraversiamo schierate in doppia fila. Molte sono il trespolo ideale per bianchi e slanciati uccelli dal becco nero a punta; in alto volteggiano numerosi falchetti, splendidi con le ali spiegate al vento, la testa bianca e il corpo bruno. Procediamo lentamente lungo un canale dalle acque verdissime e poco profonde. A destra opere di contenimento a protezione dalla forza del mare, a sinistra palme illuminate dalla bassa luce del tardo pomeriggio. La navigazione lentissima induce una grande serenità allietata dalla luce del sorriso dei bambini che strillano “Please one pen!”. Si riaprono le backwater, il sole è al tramonto e i pescatori calano le reti. Con le barchette si avvicinano ai quattro bastoni delle fishing net e attaccano la rete mentre gli uccelli si scatenano, pronti a cogliere l’occasione. Il disco infuocato del sole comincia a scomparire dietro le palme lontane e subito dopo le acque si aprono in un grande lago che presto sarà scavalcato dal ponte di cemento in costruzione. La facciata rosa di una chiesa cristiana spunta tra le palme; è una delle tante osservate durante la navigazione. Temevo che la crociera fosse troppo turistica, troppo imperniate sulle direttrici principali ma non è stato così. Le nove ore di navigazione sono state entusiasmanti, una successione di paesaggi diversi con il filo conduttore dell’acqua e delle palme. Siedo nell’attesa del grilled fish al Kerala Coffee House di Varkala, lontano dall’India dei templi e delle vacche sacre. Su una lunga scogliera a picco sul mare, è stato costruito un vero “villaggio turistico”: lungo la passeggiata pedonale, si allineano ristoranti e beach resort, un vero paradiso per il vacanziere. Potrei essere in qualsiasi parte del mondo, in un centro del circuito internazionale del turismo; difficile giudicare al buio sulla “qualità del mare” ma almeno le strutture ricettive sembrano piacevoli e di basso impatto. Sono arrivato tardi in modo un po’ avventuroso: da Kollam non c’erano bus per Varkala, situata fuori dalla direttrice principale. Insieme con uno sparuto nugolo d’occidentali ho preso quindi un bus per Kallambalam, seguendo le indicazioni dei locali per individuare la fermata giusta tra le tante; un secondo bus fino alla stazione di Varkala, una corsa in risciò fino all’helipad e, una volta imboccata la passeggiata pedonale lungo il cliff, ecco sparita l’India. Sono quasi le nove di sera, domani è l’ultimo dell’anno e tutti i resort sono pieni. Rinuncio alla pretesa di una bamboo hut ma insisto nella ricerca. Gli indiani sono gentili e prodighi di suggerimenti; un tizio mi accompagna attraverso le buie stradine dell’interno dove ho qualche speranza di trovare un alloggio. Alla fine la ricerca ha successo e mi sistemo al Sun & Sand in un’ampia camera doppia. Per cena scelgo il Kerala Coffee House. I tavoli all’aperto sono illuminati da candele; stelle lampeggianti di carta e un gabbiotto di bamboo su una palma rallegrano l’ambiente mentre la musica in sottofondo è decisamente occidentale. Nel frattempo il pesce ordinato non si vede, speriamo che sia all’altezza del prezzo notevolmente superiore a quello delle cene passate! Alla fine l’attesa è ripagata da un buon pesce alla griglia, insaporito da aglio e qualcos’altro. 31 dicembre: Varkala – Kanniyakumari Questa mattina il mare Arabico è una tavola azzurra che, raggiungendo la spiaggia sotto il cliff, si frange in onde lunghe e roboanti. La giornata luminosa esalta i colori del paesaggio e le tonalità rossastre delle rocce. Qualche “adoratore del sole” è già in azione laggiù in basso sulla spiaggia mentre io decido di concedermi una mattinata di tutto relax. Inizio facendo colazione all’Oottupura Vegetarian Restaurant, seduto ad ammirare l’oceano. Il ristorante è vuoto ma il servizio lento come già ieri sera a cena. Varkala sta facendo grossi passi per diventare un polo turistico: ormai il cliff è interamente occupato mentre all’interno fervono i lavori di costruzione. Qualche dettaglio però deve ancora essere migliorato: ieri sera è mancata la corrente ed ho tremato perché senza l’azione delle pale del ventilatore sul soffitto la stanza era un forno. Per fortuna più tardi è tornata anche se questa mattina mancava di nuovo. Se si vuole attrarre un certo tipo di turismo, bisogna fare attenzione a questi particolari! In giro si vedono pochi stranieri (staranno ancora tutti dormendo!?); sulla passeggiata pedonale sfrecciano i risciò e qualche immacolata Ambassador. Finalmente arriva l’idly, tre palle di mollica di riso da intingere in due salsette speziate, una bianca e una rossa con ortaggi e ceci. A ruota segue il wheat puttu con miele, latte e banana (buono ma avrei gradito più miele). Un santone, dalla barba bianca e una lunga collana sul torso nudo, siede sulla sabbia officiando un rito per una giovane donna. Questo settore della spiaggia mi riporta in India. La sezione sotto il cliff è frequentata dagli occidentali amanti della tintarella ma a qualche centinaio di metri ecco di nuovo gli indiani. Molti vestono di giallo, i sari delle donne sono vivacissimi. Nel frattempo i petali consacrati con la preghiera vengono posti in una foglia di banano. La donna si prostra davanti ad essi e il santone si alza: gli involtini sono pronti ed entrambi si avviano verso l’acqua tenendoli sopra la testa. Arrivati sulla battigia lanciano tutto in acqua volgendo le spalle al mare. Intorno le donne timorose si “rimboccano” i sari per bagnarsi piedi e caviglie, mentre gli uomini con un panno intorno alla vita si lanciano in acqua scherzando e giocando. L’atmosfera è di festa e tutti sembrano divertirsi. L’attesa alla stazione è stata lunga: sono arrivato con un’ora d’anticipo, preoccupato dalla fila alla biglietteria, ma il treno diretto per Kanniyakumari, proveniente dalla lontana Bombay, era annunciato con un ritardo sempre maggiore, riportato su una lavagna più volte cancellata e riscritta. Nell’attesa ho fatto un po’ di conversazione con un indiano: ha 30 anni, è sposato con una bambina. E’ stupefatto che in Italia guadagniamo 1000/1500 euro ma non ci avanzano montagne di denaro ogni mese. La stazione è piena di pellegrini con vesti gialle, accorsi a Varkala per la festa che si è tenuta nel tempio. Finalmente con due ore di ritardo arriva il treno; con il mio biglietto di seconda classe, il più economico, salgo su una vettura “AC 3 tier”, tanto mi hanno assicurato che nessuno controlla. Del resto il treno è molto lungo e raggiungere le affollatissime vetture di seconda classe sarebbe un’impresa. Saranno i postumi di Varkala ma ho voglia di stare comodo e approfittare della carrozza vuota sulla quale sono salito casualmente. Passano pochi minuti ed ecco il controllore! Mi chiede se voglio rimanere dove siedo e alla mia risposta affermativa provvede a farmi pagare la differenza di 164 rupie. Mi sposto nel passaggio tra le carrozze per eludere i vetri fumé e godermi il paesaggio dalla porta spalancata (tutti i mezzi in India viaggiano con le porte aperte!). Palme e banani fittissimi ricoprono tutta la piana fino alle montagne che corrono più dietro. Passano i chilometri e gli alberi si diradano lasciando il posto a risaie verdissime. E’ l’ora che volge al tramonto, quando tutto si anima; uomini e donne fanno il bagno in fiumi e laghetti scrollandosi di dosso il sudore e la fatica di una giornata. Mi sento un po’ strano, unico passeggero nella carrozza ormai sigillata; anche l’addetto alle pulizie ha finito la sua opera, piegate coperte e lenzuola, riposti tutti i cuscini. Il treno con me al suo interno è un corpo estraneo nel rigoglio tropicale dell’estremità meridionale dell’India. Attraversiamo alcuni villaggi di case in muratura con il tetto di rami e fogliame dall’aspetto più misero ma la gente mi appare sempre dignitosa. La loro pelle è scurissima, segno di un’origine dravidica non indoeuropea, antica e remota quanto la loro religione. Ormai il tramonto sui mari di Kanniyakumari è perso ma il disco infuocato e le nuvole “arrossite” sulla linea delle palme sembrano volermi consolare. Nel tempio di Kanniyakumari gli uomini devono entrare a torso nudo. Vengo subito intercettato da un tizio che si offre di istruirmi. Mi tolgo la maglietta ed entro seguendo i suoi passi. Scavalchiamo tutte le file, ma la corsa di sala in sala mi impedisce di gustarmi l’architettura del tempio in pietra nera. Molti pilastri recano bassorilievi di divinità ma il mio accompagnatore ha fretta di farmi compiere il giro per consumare il cerimoniale. Acquisto dell’olio che verso su una fiaccola; passiamo al volo in una stanza con quattro colonne dorate, girando poi intorno al sancta sanctorum decorato esternamente da bassorilievi. Nuova tappa davanti ad una nicchia con statua; prendo un piatto di metallo con cinque moccoli che accendo da una fiaccola, facendo poi compiere al piatto una serie di cerchi davanti alla divinità. Sempre istruito dal mio precettore, lascio un moccolo da una parte e il piatto con i restanti quattro da un’altra. Ma è tempo di scappare: riprendiamo la corsa sbucando all’aperto e concludiamo il tour con tre genuflessioni fino a toccare con la testa un gradino. Naturalmente è giunto il momento di “premiare” il mio tutore e devo sborsare 150 rupie. Il fascino del rito, già rovinato dalla corsa nella “corsia preferenziale”, è del tutto andato (che mercimonio, tutto il mondo è paese!). Ceno insieme ai locali all’Hotel Saravana davanti al tempio, evitando il cenone di fine anno on the roof dell’Hotel Maadhni dove alloggio. Mi viene servito un thali suntuoso; il cameriere ammiccante mi voleva indirizzare sui celebri piatti del nord ma qui nella punta meridionale dell’India non potevo rinunciare al piatto tipico del sud. Il riso è accompagnato da una decina di ciotoline, un trionfo della cucina vegetariana: patate, lenticchie, ceci, un intruglio giallo buonissimo e tanti altri ancora, tutti speziati e saporiti. Non mancano un paio di brodini. Butto il riso al centro del grande piatto e provvedo a innaffiarlo. Concludo con lassi dolce. 1 gennaio: Kanniyakumari – Madurai Dalla terrazza sopra l’albergo si domina l’oriente; salgo per assistere alla prima alba del nuovo anno. L’edificio si staglia come un gigante sulle casette del paese più in basso. Molte sono dipinte con l’azzurro dei bramini; i tetti di tegole si alternano a quelli di paglia. Solo qualche scogliera protegge queste case dal mare; le barche prive di un ricovero sono tirate in secca sulla spiaggetta. Quale deve essere stata la devastazione dello tsunami lo scorso anno quando l’onda enorme sopraggiunse proprio da quel oriente verso il quale sono affacciato! A destra, oltre la punta, due isolotti rocciosi sono sormontati da una sorta di Statua della Libertà, in realtà un poeta santo tamil, e dall’edificio con cupola del Vivekanda Memorial. Sul lato opposto la notevole massa di una chiesa protende il suo gotico campanile. La vista è affascinante, unico assente il sole nascosto dalle nuvole basse sull’orizzonte. Spira un vento fortissimo e sono l’unico occidentale insieme a numerosi locali che vogliono vedere l’alba del 2006. La terrazza è stata utilizzata per il veglione e i resti si vedono ancora in giro. Finalmente il sole scavalca la barriera di nuvole e già forte lancia i suoi raggi sul nuovo anno. Torno in stanza per recuperare un po’ di sonno ma più tardi sono nuovamente sulla terrazza per ammirare il panorama alla luce del giorno. Il fascino del luogo è accresciuto dal pensiero che mi trovo sulla punta meridionale dell’India, al confine di un mondo e di una cultura così vasti e affascinanti. Per colazione torno all’Hotel Saravana dove ordino la quintessenza della cucina del sud: idly (dolce di riso bollito) e vadai (torta di lenticchie), accompagnati da un lassi dolce. Kanniyakumari è una città piacevole, situata su un promontorio, incontro di tre mari: il golfo del Bengala, il mare Arabico e l’oceano Indiano. E’ una meta frequentatissima del turismo indiano mentre in giro si vedono pochi stranieri. Molti uomini, seguendo la tradizione, girano a petto nudo con lunghe collane al collo. Tutto intorno al tempio si estende un animato bazar: ne approfitto per acquistare un paio di forbicine che non avevo potuto includere nel mio bagaglio unicamente a mano. Ritorno al tempio, questa volta visitandolo come gli indiani: tolta la maglietta, mi accodo alla lunga fila. Entriamo nella corte interna procedendo incolonnati lungo la parete. Davanti all’ingresso del santuario centrale si leva la solita alta colonna dorata. Ogni volta che superiamo una soglia i devoti la toccano con la mano che poi portano alla fronte. Una breve galleria conduce alla sala delle quattro colonne dorate in fondo alla quale si trova la cella con la statua della dea alla quale il tempio è dedicato. Sopra la sua testa splende un occhio luminoso. Girando esternamente ammiro i bassorilievi del sancta sanctorum e faccio ritorno nella corte. Un lato è porticato; sui pilastri poggiano statue di dee dalle tette tornite che recano moccoli nelle mani giunte. Sui capitelli sono scolpiti cobra ed uccelli mentre sui pilastri osservo tra gli altri una scimmia a testa in giù e un santone contorsionista. La visita è stata emozionante, ben diversa da quella di ieri. Un tempo, la terra non era una sfera ma aveva i suoi confini invalicabili: le colonne d’Ercole, il capo di Buona Speranza e per il mondo indiano Cape Comorin. Tre mari s’incontrano e per gli indiani la tentazione di bagnarsi contemporaneamente nelle loro acque è irresistibile. Alcune donne s’immergono vestite facendosi immortalare con una vecchia macchina fotografica. Quanti pensieri induce questo luogo! Il Gandhi Memorial, costruito per conservare alcune ceneri di quel grande uomo di pace e di pensiero, unisce nella sua architettura elementi indù, islamici e cristiani, come sarebbe piaciuto al suo ospite. Pochi giorni fa ricorreva un anno dallo tsunami ed è stata inaugurato un piccolo monumento in ricordo delle vittime: un’onda incombe su un braccio che cerca di arrestarla mentre un altro regge una fiaccola. Sull’isolotto di fronte la statua del poeta tamil Thiruvalluva volge lo sguardo verso il suo paese, un gigante contornato dalle formiche visitatrici. Il battello per il Vivekanda Memorial fa la spola avanti e indietro in un mare agitato dal forte vento che sembra ammonire che oltre non si può andare. Mi accodo agli indiani per l’amatissima gita ai due isolotti davanti al promontorio. La folla è numerosa ma l’organizzazione efficiente consente di procedere abbastanza rapidamente. Due battelli vecchi e arrugginiti fanno la spola, stracarichi di passeggeri. La prima fermata è all’isola del Vivekanda Memorial. In ricordo del santone che nell’ottocento raggiunse l’isola a nuoto trascorrendovi qualche giorno in meditazione, è stato costruito un edificio dominato da una cupola. Sotto, in una sala buia si medita davanti all’aum, simbolo del Dio assoluto, essenza del Veda, coscienza totale umana e divina (così recita il cartello esplicativo!). Brevissima traghettata e sono sull’isola della gigantesca statua del poeta santo. Dalla tunica spuntano i piedoni e un gruppo di ragazzi riposa sdraiato su di essi. Siedo su un vero bus indiano, privo degli inutili vetri ai finestrini. E’ arrivato puntualissimo alle tre del pomeriggio come mi aveva anticipato ieri l’addetto alla biglietteria mentre oggi al bus stand nessuno sembrava conoscerne l’orario. Una ragazza indiana stressatissima chiedeva informazioni a tutti, innervosendosi alle risposte differenti mentre io, entrato ormai nella mentalità locale, aspettavo tranquillo (la timetable diceva alle 15:00 e alle 15:00 è arrivato!). La tipa aveva inoltre forti problemi di comunicazione poiché qui al sud le lingue sono molteplici e il personale non parlava inglese. Lasciamo Kanniyakumari attraversando risaie verde smeraldo; nelle pozze d’acqua le ninfee formano macchie di colore mentre le foglie dei banani sembrano luccicare! Mentre attraversiamo alcuni paesi il nostro indemoniato autista si scatena strombazzando con il clacson. I paesaggi diventano più monotoni, scende la notte e alle nove e mezzo arriviamo a destinazione. 2 gennaio: Madurai Per visitare il celebre tempio Sri Meenakshi e Sundareshwarar seguo il percorso canonico, entrando dal lato orientale. Una lunga galleria, la Sala degli Otto Dei, è occupata da bancarelle che vendono ghirlande di fiori e quanto altro serve per la puja. Raggiungo la Tank of Golden Lotus. Nella vasca spiccano una colonna e un fiore di loto d’ottone mentre alcuni devoti si bagnano, purificandosi prima di accedere ai santuari. Percorrendo il porticato con doppia fila di pilastri che circondata la vasca, alzo lo sguardo in alto e da ogni parte spuntano maestose gopura, ricoperte da selve di statue colorate. In fondo si trova il santuario dedicato a Meenakshi, la Parvati locale, ma l’ingresso è consentito solo agli indù. Piego quindi verso nord; un lungo corridoio rettangolare corre tutto intorno al tempio di Sundareshwarar (Shiva). Subito di fronte una splendida statua monolitica di Ganesh, in pietra nera: si tiene la proboscide con la mano sinistra, intorno al collo reca una ghirlanda di fiori mentre un panno gli copre le gambe. I fedeli ricevono da un bramino la polvere con la quale segnarsi la fronte. Gli alti pilastri del corridoio sono decorati con figure di draghi, elefanti, donne “tettone” con una torcia in mano. Varie nicchie custodiscono il sacro linga che spunta da un panno e alcuni fedeli pregano meditando. Davanti al tempio di Sundareshwarar otto pilastri sono coperti da sculture a tutto tondo, le più belle del tempio: Shiva balla sopra un mostro, Shiva e Parvati siedono sul bue Nandi, due divinità maschili e una femminile si bagnano le mani con un’ampolla. In mezzo un’alta colonna d’ottone e una statua di Nandi sono venerate dai fedeli che si prostrano per terra davanti ad esse. In un angolo un altare reca le statue dei pianeti con il sole al centro. Una galleria, ancora più grande di quella percorsa appena entrato, conduce all’altro ingresso orientale, dominato da un’alta gopura. La Sala delle Mille Colonne, trasformata in museo, è una profusione di statue sui pilastri. Le sculture non sono proprio dei capolavori ma esotiche e interessanti: una donna suona una cetra, una “tettona” ha il viso di uomo con i baffi, Ganesh balla tenendo una donna su una gamba. Terminato il giro, prendo a vagare per il tempio. Un gruppo di donne sedute in circolo ha disegnato delle stelle sul pavimento e ora le ricopre di fiori. Al centro pone delle ciotoline con dei fiammiferi e li accende. Le donne poi toccano il fuoco e portano i fiori alla fronte. Un pilastro reca un bassorilievo del dio delle scimmie; l’immagine è ricoperta da qualche sostanza che la rende rossa ed è toccata dai fedeli con grande devozione. Intorno al collo qualcuno ha messo del ghee, davanti un fiore di loto è coperto di moccoli. La processione dei fedeli è continua: tutti raccolgono la polvere rossa e poi si toccano la fronte. Un signore pone affettuosamente dei fiori ai piedi della statua e gira attorno al pilastro. Ormai sono le 12:30, il tempio chiude e la gente si affretta alle uscite, invitata dai bramini. Di fronte all’entrata orientale del tempio una vasta sala colonnata ospita il mercato tessile. Tra le divinità indù addossate sulle decine di pilastri, i sarti sono al lavoro con vecchie macchine per cucire. In poco tempo sono in grado di confezionare un vestito su misura ma io opto per qualche acquisto più prosaico: un paio di pashimine per le mie donne (mamma e moglie) e un copri cuscino ricamato con gli elefanti. A nord del tempio si trova il mercato, naturalmente ortofrutticolo in un paese di vegetariani. E’ molto pittoresco, con capanne di bamboo coperte da tetti di paglia. Rispetto a quello di Mysore è più povero, tutto rivolto ai locali e quindi più autentico. Le vacche vagano per i corridoi in terra mangiando gli scarti mentre la solita ampia scelta di vegetali fa bella mostra di sé sui banchi. Un vecchietto pesa le spezie che sta vendendo con una bilancia tradizionale; una vecchia pulisce la canna da zucchero con un coltello. Nell’edificio in muratura al primo piano è ospitato il mercato dei fiori, ancora più affollato. I fiori sono venduti al peso e le donne fanno ressa per acquistarli. Un commerciante mi regala un fiore rosa dal dolce profumo, un simpatico gesto di benvenuto. Per pranzo mi avvicino all’Hotel Supreme, dove soggiorno: all’Anna Meenakshi Restaurant ordino un kaima parata. Mentre aspetto ripenso alla mattinata a Madurai: la città è un immenso bazar, botteghe ovunque, un gran brulicare di persone, un traffico pazzesco. Per le strade mucche, mendicanti e scocciatori che cercano di abbordarti. Tutto questo insieme al tempio e al mercato ortofrutticolo è l’India che pensavo. La sensazione di miseria si avverte maggiore rispetto alle altre città finora visitate. Donne e bambini mi chiedevano continuamente l’elemosina. Un brusco ritorno alla realtà dopo un’India nella quale la povertà mi era parsa molto diminuita o per lo meno nascosta! Altro aspetto negativo ma tollerabile, i numerosi importunatori che cercano di portarti nei loro negozi con la scusa della vista sul tempio, che sarà anche bella ma poi con gli acquisti come la mettiamo!? Arriva l’ordinazione: nel piatto la solita montagna di verdure speziate veramente squisite. Spaventato dal cameriere prendo anche del plain rice per spegnere il fuoco concludendo con un black coffee. Madurai è una delle città più antiche dell’Asia meridionale, in contatto con il mondo classico greco e romano. Quella età dell’oro però è terminata da tempo e nulla rimane a ricordarla. Il tempio e il palazzo sono molto più recenti. Il Nayak Palace fu costruito nel seicento ma oggi sopravvive solo in parte. Visito una corte all’aperto, circondata da imponenti colonne e da un porticato influenzato dalle architetture mogul. L’aspetto monumentale si evidenzia ancora nella sala ottagonale sormontata da una cupola, circondata da colonne massicce e archi trilobati. Il museo è ospitato nella vasta sala immortalata dai Daniells ma l’aspetto antico oggi è rovinato dalle colonne fiammeggianti e la profusione di statue, assenti ai loro tempi, appare eccessiva. Le gopura del tempio sono montagne di statue. La targa sotto quella meridionale, la più grande, parla di oltre 1500 statue per 48 metri di altezza. Seduto sui gradini della vasca cerco con il binocolo di dipanare la matassa. La piramide è formata da sei livelli sormontati da una specie di cofanetto rosso con sette puntali. Al centro coppie di dee con veli aderenti alle gambe, che fanno pensare agli attuali pantacollant, affiancano ciascuna una porticina. Sui lati il groviglio si complica. A destra una figura ha cinque livelli degradanti di teste e decine di braccia; sotto Shiva e Parvati cavalcano il bianco bue Nandi. A sinistra una figura, ancora con decine di teste, questa volta tutte su un livello, cavalca un uccello. Negli anni cinquanta le gopura avevano perso il colore ma un referendum stabilì di ripristinarlo e l’operazione viene ripetuta ogni dieci anni. Il ripetersi quotidiano delle cerimonie al tempio ricorda il ciclo della vita. La mattina, la sera, con i loro riti, non sono altro che un passaggio, come la vita dell’uomo dalla fanciullezza alla vecchiaia. Ciò che importa non è il singolo episodio o individuo ma il ciclo che continua eterno. Le centinaia di devoti che si aggirano per il tempio, prostrandosi per terra, toccando le statue, accendendo moccoli, come accade da sempre, mi sembrano emanazioni di un’unica totalità che procede sempre uguale a se stessa. Eppure un vecchio si appoggia al suo bastone e mi protende la mano mentre il bramino rispettato mostra, orgoglioso, i suoi simboli. Ingiustizia sociale!? Capacità individuali!? Esseri entrambi necessari per l’armonia del cosmo!? L’universo procede rigenerandosi continuamente e per questo è giusto adorare lo shivalinga, l’elemento attraverso il quale il ciclo delle nascite si realizza e trova una spiegazione questo tempio. L’unione tra un uomo e una donna può generare una vita ma quella tra un dio e una dea un mondo intero. La mia giornata al tempio non è altro che un granello di sabbia ma senza i granelli la sabbia non esisterebbe. Il tempio di Madurai è il tempio dell’amore, del matrimonio tra Shiva e Parvati, nella versione locale Sundareshwarar e Meenakshi, la dea dai fascinosi occhi di pesce. Ogni sera le statue della coppia divina, dopo una complessa cerimonia, sono condotte nella camera da letto per una notte di passione. Alle otto e mezzo ha inizio la cerimonia da me lungamente attesa. Il santuario di Shiva chiude i battenti e il suo “occupante” esce, condotto su una portantina d’argento. Un drappo con la rappresentazione del linga lo nasconde agli sguardi indiscreti. Il corteo accompagnato da musicanti ha una gran fretta di raggiungere l’amata dea, appena il tempo di onorare il figliolo Ganesh. Davanti al santuario di Meenakshi i portantini si fermano e la folla procede attorno al dio. Terminata la cerimonia finalmente la portantina si avvia nel tempio della dea, per un’altra folle notte d’amore. Ceno di nuovo all’Anna Meenakshi Restaurant, accompagnando il riso biryani con verdure speziate. 3 gennaio: Madurai – Tiruchirapalli Ieri ho acquistato il biglietto del treno per Trichy. Ancora non sono ben entrato nei meccanismi delle classi dei treni indiani. Sul biglietto è indicato solo il giorno; per evitare le sorprese della volta scorsa mi sistemo in una carrozza “chair” ma presto arriva il “proprietario” del “seat” e devo sloggiare. Mi spiegano che il mio biglietto è senza un posto assegnato e devo quindi raggiungere le apposite carrozze in testa al treno che naturalmente sono le uniche piene! Non mi resta che viaggiare in piedi, unico occidentale. Il treno parte alle 6:45 e arriva puntuale a destinazione dopo due ore e un quarto. Mi sistemo all’Ashby Hotel vicino alla stazione, recuperando la colazione saltata. Le stanze dell’edificio ad un piano, dalle belle porte di legno, si aprono attorno ad una corte con pergolato. Si tratta di un albergo tradizionale, ben diverso dai moderni hotel multipiano; anche la mia enorme camera, benché un po’ decadente, riprende lo stile con pannelli di legno e rosoni stuccati sul soffitto. Proseguendo nella mia giornata da vero indiano, prendo il bus numero uno per raggiungere il tempio, situato oltre il maestoso fiume Kaveri nel sobborgo di Srirangam. Il bigliettaio segnala le fermate al conducente con un fischietto (un fischio fermati, due riparti). Il monumentale tempio di Ranganathaswamy è il più importante tra quelli dedicati a Vishnu nel sud shivaista. Le linee sulla fronte dei bramini passano da verticali ad orizzontali. Il tempio è formato da sette corti, ma le prime tre, piene di negozi e bancarelle, sono parte della città. La gopura più esterna, completata nel 1987, è una gigantesca piramide di livelli degradanti anche se meno ricca di statue. La sua monumentalità mi lascia la stessa impressione di freddezza delle porte imperiali pechinesi. Superate la seconda e terza gopura, si arriva alla vera entrata del tempio, segnata al solito dal chiosco per depositare le scarpe. La quarta gopura è la più bella, ricca di sculture. Raggiunta la quinta corte, il mio cammino si arresta perché ai due livelli più interni possono accedere solo gli indù. Uno stand vende il cibo da offrire al dio per la puja. Nella sala colonnata figure di governatori Nayak poggiano sui pilastri; alcuni hanno una notevole pancia e i capelli raccolti su un lato, altri lunghe collane, un pugnale alla vita e un alto cappello. Al centro un santuario ospita una grossa statua seduta di Garuda. I suoi arti inferiori sono avvolti da un panno giallo, dal quale spuntano i piedi con gli artigli mentre il resto del corpo è umano. Sul lato settentrionale della quarta corte si trova il tempio della dea ma anche qui l’accesso mi è proibito mentre sull’asse centrale un’alta sala sopra una scalinata reca affreschi con Vishnu che riposa sul serpente (tema simboleggiato dal tempio su un’isola), insieme a due raffigurazioni di un mostro che divora un umano. Tornando verso l’ingresso raggiungo la sala delle mille colonne, in restauro. La forma grezza dei pilastri ricorda dei tronchi, come se la sala proseguisse la tettoia di legno situata subito davanti. Nella Sheshagiriraya Mandapa si trovano le sculture più belle: cavalieri armati di lancia su destrieri imbizzarriti colpiscono belve feroci, formando uno sbarramento contro l’avanzare dell’islam. Poco oltre un bramino siede accovacciato in un minuscolo tempietto; onorato dai fedeli li benedice con l’”acqua santa”. Un’altra corsa con il bus numero uno mi porta verso il Fort Rock, davanti alla bianca massa gotica della cattedrale di Lourdes. Pranzo nei paraggi al Banana Leaf, tornando dopo tanti giorni alla carne. Ordino un tandoori chicken; il cameriere preoccupato mi dice che è “dry”, facendomi capire che dovrei accompagnarlo con qualche bel piatto di verdure, ma io tengo duro. I due sostanziosi pezzi rossi hanno un sapore semplice, proprio come ci voleva dopo tanti giorni di spezie. In cima al Rock Fort la vista spazia sulla città di basse case dai colori delicati mentre, oltre il fiume, le gopura del tempio si levano sul mare verde delle palme. In una vasta pianura questa roccia alta ottanta metri sembra uno scherzo della natura. In una terrazza laggiù in basso una donna tiene in mano un libro che legge ad un gruppo di donne sedute in circolo. Più lontano bambini in divisa si rincorrono giocando su un vasto campo in terra. Su tutto veglia Ganesh, nell’altare proprio in cima. Mi siedo all’ombra dell’albero frondoso appena sotto la scalinata che conduce al tempio. Un gruppo di scimmie vaga alla ricerca di cibo; qualcuno offre loro un regalo scatenando una rumorosa contesa. Big Bazar Road si dirige verso sud, allontanandosi dalla collina del forte. La roccia in lontananza rimane sempre incombente, un gigante che veglia sulle attività umane del commercio. La strada appare tranquilla, confrontata al traffico di Madurai. Le persone sono molto gentili, poco avvezze al passaggio dello straniero, ancora considerato un ospite di riguardo non una gallina dalle uovo d’oro da spennare. Il gestore dell’”internet point”, un computer solitario acceso apposta per me (veloce la connessione, 15 rupie l’ora), mi stringe la mano; un pasticciere mi regala un dolcetto. In fondo alla strada, superato un arco, si trova il mercato. Tra la solita abbondanza di rigogliosa frutta e verdura, tutti mi salutano sorridendo al mio passaggio. Per cena raggiungo lo Sree Krishna’s, di fronte alla stazione dei bus. Ordino un iddlis, “mollicone” imbevuto di verdure. Il cameriere solerte mi vede un po’ sull’indeciso e rovescia tutta la ciotolina, che io centellinavo, sulla mollica! Visto l’ottimo risultato mi lascio consigliare e ordino anche un manchurian dosa, una specie di crepe croccante, ripiena di verdure speziate a pezzetti, sulla quale gettare le solite salsette. Molto saporita! Alla fine con l’acqua minerale la spesa è di 44 rupie che arrotondo a 50 per ringraziare il cameriere che ha passato metà del tempo a controllarmi. 4 gennaio: Tiruchirapalli – Thanjavur Sveglia alle 5:50 e dopo venti minuti sono già sul bus per Thanjavur. Questa notte la stanza era piena di zanzare ma la mia zanzariera, appesa al solito tubo al neon, ha retto all’urto. In un’ora e un quarto raggiungo il new bus stand di Thanjavur, situato in mezzo al nulla; una corsa in risciò mi porta all’Hotel Lion City. Il tempio di Brihadishwara, costruito poco dopo il mille, è la massima manifestazione della dinastia Chola, il cui regno si estese per gran parte dell’India; dopo il bagno di religiosità di Madurai e Trichy, rappresenta il trionfo dell’arte, come riconosciuto dall’Unesco che lo ha dichiarato patrimonio dell’umanità. L’ingresso, rivolto ad oriente, avviene attraverso due gopura: più grande la prima, parzialmente in restauro e quindi avvolta dalle solite buffe stuoie intrecciate, più bella la seconda, ricca di splendide sculture tra cui due giganteschi dvarpala, guardiani dai lunghi canini ricurvi. Le figure con il busto e il volto frontali, hanno le gambe di profilo e indossano un perizoma che copre appena il sedere; la loro presenza si ripeterà attorno ad ogni porta del complesso. Superata la seconda gopura si entra in una vastissima corte, circondata da un porticato. Al centro svetta il tempio principale, preceduto da un padiglione con una statua monolitica di Nandi, la terza per dimensioni dell’India, e una colonna d’ottone. La vimana, torre centrale, supera in altezza le gopura con i suoi sessanta metri, contrariamente a quanto avverrà successivamente (a Madurai e Trichy), segno di un’epoca nella quale non si voleva ancora proteggere il tempio dalla contaminazione del mondo esterno (forse per questo motivo oggi mi è consentito di arrivare fino alla cella del santuario). La torre è formata da una serie di livelli decrescenti coperti da sculture ed è sormontata da una pietra monolitica, almeno così si dice, una specie di grande fiore con un puntale dorato. Sono state fatte varie ipotesi su come sia stata portata fino a quell’altezza, probabilmente con una rampa lunga chilometri come quelle usate per le piramidi egiziane. Finalmente viene il momento di entrare nel tempio. Una lunga mandapa, sala colonnata, porta fino all’ardhamandapa, anticamera del garbha griha, la cella finale. Al suo interno un gigantesco linga in pietra nera viene onorato dai fedeli che ricevono dai bramini la polvere bianca da mettere sulla fronte. Percorro il porticato che racchiude il complesso: un’interminabile sequenza di linga si allinea davanti alle pareti affrescate. Altri tempietti, sparsi intorno, sono dei veri gioielli: quello nell’angolo nord-ovest presenta una fascia irregolare di colonnine decorate, sormontata da sculture che continuano nella torre. Gli elefanti con le loro proboscidi fanno da balaustra alla scala d’accesso. Mi siedo per godermi la pace del luogo, altro elemento non trascurabile nel caos dantesco dell’India e dei suoi templi. E’ un vero peccato che il cielo coperto non esalti il colore dell’arenaria utilizzata per gli edifici. Il ricordo di Angkor in Cambogia si fa sentire mentre l’equilibrio delle decorazioni si discosta decisamente dagli eccessi scultorei delle gopura delle epoche successive. Attratto come da un magnete, torno dallo shivalinga. La pietra nera, sormontata da un cobra dorato a cinque teste, è decorata con ghirlande di fiori colorati. I fedeli consegnano le offerte ai bramini, dall’aspetto un po’ viscido. Questi iniziano a pregare cospargendole di fiori e poi porgono un braciere con la cenere ai fedeli che si segnano la fronte. La frutta offerta viene restituita e consumata avidamente in un rito che ricorda la nostra eucaristia. Prima di abbandonare il tempio, nella mandapa a fianco del padiglione di Nandi, osservo la statua di una dea che abbraccia con trasporto il linga. Dopo un tandoori chicken al Sathar’s, raggiungo il museo di Thanjavur nell’antico palazzo reale. Visito varie sezioni, scalo un’alta torre non senza qualche equilibrismo, ma niente può competere con la meravigliosa collezione di bronzi, apprezzabile per numero e bellezza dei pezzi esposti. Cronologicamente s’inizia con i Vishnu dell’epoca Pallava (VIII sec.) ancora senza profondità, per arrivare al periodo d’oro dei Chola e concludere con quello successivo dei Vijayanagar. Tra i tanti capolavori mi colpiscono in particolare alcune statue (sono tutte numerate): il numero 124, una Parvati dal grande seno, con il naso lungo e sottile, le dita rappresentate con grande dettaglio piene di anelli (XIII sec.); il numero 97 ancora una Parvati, questa volta seduta con una gamba avanti e l’altra ripiegata, praticamente nuda con un seno immenso, fianchi stretti, spalle larghe e un corpo di una sensualità incredibile; la statua 174 Kannapa Nyakar, cacciatore devoto di Shiva, con barba, baffi, gonnellino ricamato e sandali (X sec.); la coppia divina al numero 86-87, Shiva ha un turbante di serpenti dal quale scendono sulla nuca ciocche di capelli, un orecchio lungo alla Budda, l’altro con un grosso orecchino, le gambe incrociate, una poggiata sulle punte, mentre Parvati, un po’ “chiattona”, ha i fianchi larghi, un volto da principessa con lunghe orecchie e indossa un panno simile a un peplo greco che le avvolge le gambe insieme a un’alta corona. Il parallelo con il mondo classico mi stupisce: alcune sculture sembrano provenire dall’antica Grecia. Un’intera sala è dedicata ai bronzi che ritraggono Nataraya, Shiva danzante, ma il più bello è il numero 41 (XII sec.), leggero quasi fluttuante, con le mani piegate in modo aggraziato e i capelli al vento. La luce del tardo pomeriggio in un cielo tornato azzurro mi spinge nuovamente al tempio. L’arenaria della torre centrale ha assunto una tonalità calda. Mi siedo ad ammirare i particolari. Sopra l’alto plinto corre per tutto il tempio una fascia d’iscrizioni: racconta le glorie passate, le centinaia di danzatrici, musicisti, artigiani al suo servizio. Oltre una seconda fascia con rappresentazioni di leoni, iniziano due livelli di statue con le divinità principali mentre più in alto la torre-piramide è decorata da specie di ventagli e ancora da statue; infine lassù il fiore, la cupola monolitica che sfida la gravità. Nel frattempo, animati da un fresco vento, gli uccelli volano scatenati, cinguettando. Come si dice in questi casi: “Nella splendida cornice del padiglione del bue Nandi” ha luogo un evento speciale nell’ambito del festival di danza, l’esibizione di un gruppo di danzatrici della Malesia, ulteriore elemento di fascino per questo splendido tempio. Per cena torno al Sathar’s proseguendo nella mia abboffata di carne con il mutton. 5 gennaio: Thanjavur – Kumbakonam – Gangaikondacholapuram – Darasuram – Kumbakonam Sveglia alle cinque. Nella hall dormono in due per terra: uno davanti alla porta dell’albergo, l’altro nella reception. Mi tocca svegliarli per il check-out (per fortuna questi alberghi offrono il check-in/check-out H24). Raggiungo il piazzale a sud del tempio dove passa il bus per Kumbakonam. La Lonely Planet sostiene che parte proprio da qui ma in realtà il capolinea deve essere stato spostato al new bus stand. Poco male, risparmio una corsa in risciò e prendo il bus alla fermata davanti ad un chiosco. Viaggio su un bus “di lusso”, dotato persino di televisore che trasmette un’interminabile sequenza di video tratti dai melensi film indiani. Dopo un’ora e un quarto raggiungo Kumbakonam dove mi sistemo all’Hotel Raya’s. Una doccia ristoratrice e sono di nuovo al bus stand ma questa volta mi tocca un vecchio catorcio con un groviglio di file al posto del cruscotto. Attraversiamo una campagna spesso allagata, fino al villaggio di Gangaikondacholapuram dove sorge il tempio di Brihadishwara. Piove ed è tutto fangoso perciò mi consentono di tenere le scarpe, togliendole sono dentro gli edifici. La vimana si staglia maestosa davanti a me; il suo colore rosato, molto più chiaro rispetto al tempio di Thanjavur, le conferisce una grazia estrema. Un grosso Nandi, anche questo in pietra, mi volge le spalle, rivolto verso la torre. Mi fermo al coperto a guardare le statue della vimana con il binocolo. Sono piccole e aggraziate; riconosco le divinità più note ormai diventate familiari. All’interno del santuario centrale si ripete la struttura di Thanjavur: una lunga sala colonnata porta all’anticamera con i due ingressi laterali e in fondo alla cella contenente il linga, sempre in pietra nera, addobbato con corone di fiori. Gli ambienti sono bui e devo farmi luce con la torcia. Voltandomi verso la porta d’ingresso scorgo il candido muso di Nandi che fa capolino, in contrasto con l’oscurità della sala. All’esterno mi soffermo ad apprezzare le statue: sopra l’ingresso secondario settentrionale, una dea con cappello ad ombrello, è collocata proprio in cima e poggia con un braccio sul “muretto”; in una nicchia Shiva e Parvati incoronano re Rajendra I che estese i confini dell’impero chola fino al Gange. Tornato a Kumbakonam, pranzo all’Arogya, con il buon vecchio thali, arricchito questa volta da una deliziosa zuppa di spaghettini al cocco. Speriamo bene, visto che la mia pancia sta cominciando a dare segni di cedimento e mi sono impasticcato. In risciò raggiungo il tempio di Darasuram; se Thanjavur e Gangaikondacholapuram sono il trionfo della possanza e della maestosità dell’arte chola, Darasuram rappresenta il trionfo della raffinatezza dei dettagli decorativi. Superara la gopura esterna ci si trova di fronte ad una meraviglia, la mandapa su un alto plinto, decorata interamente di sculture. Di lato una parte si protrae in avanti formando un porticato d’accesso che simboleggia un carro, come evidenziato dalle coppie di cavalli e dalle ruote. Le colonne esterne poggiano su yaali, esseri mitologici unione di cinque animali: hanno testa d’elefante, criniera di leone, coda di bue, corna d’ariete e orecchie d’asino. I pilastri invece sono scolpiti con riquadri che presentano storie e miti. L’oscura mandapa è una selva di pilastri decorati: raffigurazioni floreali con volute di ghirlande oppure figure umane molte delle quali danzanti. Il soffitto e gli architravi scolpiti completano l’effetto. Sulla parete di fondo, quattro statue di basalto nero rappresentano due belle dee e due dei, Shiva nella veste di un canuto cacciatore armato di arco, con un cervo sulle spalle, Areha (mezzo Shiva, mezzo Vishnu), un giovane con una lunga spada a tracolla. Facendo il giro intorno al santuario, ammiro un’altra statua di basalto nero: rappresenta sotto un albero Dakshinamurti, Shiva “rivolto verso sud”, che schiaccia un ometto sotto un piede. Qualcuno lo ha vestito con un panno giallo, collane e ghirlande di fiori. Il volto, con i capelli fluenti, un lungo orecchio con buco e l’altro con un grosso orecchino a cerchio, è molto bello. Il mio driver si è stancato di aspettare ma l’interno del tempio apre solo tra un’ora. Lo liquido con 60 rupie, invece delle 80 concordate per l’andata e ritorno, sperando di trovare qualcuno per tornare a Kumbakonam. Mi sistemo quindi nella mandapa per godermi l’ambiente e origliare le spiegazioni delle guide. Ad intervalli regolari alcuni pilastri presentano più livelli di piccole architetture, nicchie, tempietti, porte, dalle quali si affacciano le divinità: sono dei veri gioielli! Nel porticato torno ad ammirare le rappresentazioni dei riquadri sui pilastri: il matrimonio di Shiva e Parvati, un gruppo di donne che adora il linga, una scena di battaglia, una donna che esce dall’acqua, Shiva sopra una montagna con in basso gli animali tra gli alberi. La visita dell’interno non aggiunge nulla alla bellezza del tempio. Il tempio di Nageshwara a Kumbakonam non è certo attraente con le sue statue moderne vivacemente colorate, effetto Disneyland, ma nasconde qualche spunto interessante. All’esterno del santuario centrale sono sopravissute alcune statue dell’epoca chola, tra le quali le voluttuose vergini di corte lasciano veramente ammaliati. La città è tutta una successione di templi; le alte gopura con le bolgie di sculture colorate campeggiano sopra le case ma dopo una giornata sotto la pioggia preferisco ripiegare in albergo. 6 gennaio: Kumbakonam – Chidambaram – Pondicherry Sveglia alle sei; due ore e mezzo di bus, con video indiani a palla mi portano a Chidambaram. Il bigliettaio mi fa scendere direttamente al tempio di Sabhanayaka, davanti alla gopura meridionale; gli sono grato visto che ho con me lo zaino (per altro di dimensioni molto ridotte). La giornata di sole esalta i vivaci colori delle sculture da poco ridipinte; riconosco la rappresentazione del “tiro alla fune” tra dei e demoni, ricordo cambogiano di Angkor Watt. Il tempio è formato da tre recinti concentrici; procedo in quello più esterno fino all’unica gopura ancora da “rinfrescare”. Impressionanti impalcature di legno arrivano fino in cima. Nella vasta piscina sul lato settentrionale un vecchio procede al bagno rituale mentre un bramino prega benedicendo la frutta e il riso, disposti su foglie di banano. Siamo nel tempio di Shiva Danzante e nel porticato attorno al santuario di Parvati una fascia di centinaia di bassorilievi ritrae musici e danzatrici. Dopo un’occhiata ad un Ganesh in pietra, gemello di quello di Madurai, entro nel tempio (secondo recinto). L’interno rimbomba di preghiere: decine di bramini seduti uno di fronte all’altro salmodiano, leggendo dai libri sacri. Indossano vesti bianche; alcuni recano le tre strisce orizzontali sulla fronte, altri invece un punto rosso circondato da linee gialle. Ma ecco che un clamore di trombe e tamburi mi richiama da un’altra parte: da una porta esce un grande palanchino sopra il quale è sistemato un altare con Shiva e Parvati. E’ condotto a spalla da decine di giovani che si tengono abbracciati a coppie. Un bramino procede alla benedizione, prega agitando fiaccole e lanciando petali di fiori. I portatori ripartono, uscendo all’aperto dove l’altare viene adagiato su un carro. La cerimonia si ripete con altre statue, destinate evidentemente ad una processione. Rientro nel tempio; attorno al fuoco un gruppo di bramini prega facendo un gran trambusto, dato che ognuno va per conto suo. Tre file di mattoni formano un quadrato nel quale è stato acceso un focolare. Il bramino-chef getta sul fuoco, prima del riso poi dell’acqua prendendola con un lungo bastone d’argento; su fronte e braccia ha disegnate terne di strisce bianche, al collo gli pendono collane con grossi medaglioni mentre i lunghi capelli sono legati in una crocchia laterale. Decine di pentoloni sono pronti per l’uso. Un altro bramino si lega i capelli lunghissimi ma rasati davanti, urlando la sua preghiera. Un gruppo di donne dai sari colorati siede in attesa, gettando un’occhiata alla cerimonia e una a me che scrivo. Lasciati i bramini al loro pranzo mistico, proseguo nell’esplorazione del tempio, raggiungendo la Nritta Sabha (dance hall) sul luogo dove Shiva sconfisse Kali nella danza. Il terzo recinto è quello più sacro. Pagando un biglietto accedo al Chit Sabha, il santuario centrale del tempio. Si tratta di una sala loggiata, in fondo alla quale alcuni gradini e un recinto d’argento proteggono la statua di Nataraya, quasi interamente ricoperta di paramenti e corone di fiori. I bramini procedono ad una cerimonia per poi tirare una tenda dietro la quale si cela qualcosa estremamente importante di cui mi sfugge il significato. Leggendo sulla guida scoprirò che si tratta del linga più sacro, invisibile perché di etere. E’ mezzogiorno, due musicanti con tamburo e lunga tromba annunciano un’importante cerimonia, prima della chiusura pomeridiana del tempio. Una folla di fedeli è in attesa; tutte le porte della loggia del Chit Sabha sono state spalancate per consentire la visione e vari pentoloni sono pronti. Un bramino bagna con del latte una statuetta di bronzo. Un piccolo linga dorato è collocato su un piedistallo anche questo dorato, e un altro bramino versa su di esso del latte che incanalato scorre fino ai fedeli. Questi lo raccolgono nel palmo della mano, alcuni bevendolo, altri bagnandosi i capelli. Dopo un lavaggio purificatore, il linga viene coperto con il ghee e poi di nuovo lavato. Una campanella dà un segnale e in un istante le porte sono chiuse. Penso che tutto sia finito ma non è così: passano pochi minuti e le porte si riaprono. Il linga è coperto da una montagna di riso che il bramino officiante provvede pazientemente a rimuovere. Seguono una serie di lavaggi e poi è la volta della farina a ricoprire il mistico fallo. Nuovo lavaggio e alla fine il linga viene chiuso sotto un coperto dorato ma anche questo deve essere trattato con il latte, lavato e ricoperto di fiori. Nel frattempo la lunga cerimonia non sembra turbare più di tanto i venditori sotto il porticato che continuano ad intrecciare le loro ghirlande. Tutte le porte eccetto una vengono chiuse: è il momento della preghiera collettiva finale. I fedeli si battono le guance con i palmi delle mani e passano poi a toccare il fuoco sacro preparato dal bramino. Terminata la visita al tempio, raggiungo la stazione dei bus dove pranzo all’Anuupallavi con il solito thali/meals. Dopo due settimane in India rimango ancora sconcertato quando ad una mia domanda rispondono “yes” scuotendo la testa come facciamo noi per dire “no”. Due ore di bus mi portano a Pondicherry, ex colonia francese. Finalmente una piazza! A Pondicherry l’effetto della presenza francese protrattasi fino agli anni cinquanta si avverte nei nomi delle strade e nella vasta piazza centrale con giardino nella quale fervono i lavori per sistemare malmessi vialetti e panchine, premessa per la creazione di un’oasi di tranquillità. Su un lato il bianco palazzo neoclassico, sede in passato del governatore francese, oggi ospita quello dei Territori di Pondicherry sorvegliato dalla gendarmeria che ha conservato la divisa coloniale con il caratteristico cappello. Al centro un arco bianco quadrifronte reca una scritta in latino, opera del governatore Dupleix per conto di re Luigi XV. Dopo il turbinio di clacson delle città indiane, il lungomare di Podicherry chiuso al traffico propone suoni altrove sopraffatti: il vociare delle persone, la campanella di un venditore, la risacca del mare. Ritrovo la baia del Bengala lasciata a Chennai ma qui le acque arrivano ad una decina di metri dalla strada, arrestate soltanto dai massi frangiflutti. Un monumento ricorda il Mahatma: la sua statua su un alto piedistallo, collocata in una rotonda circondata da colonne dall’aspetto antico, forma un bello scorcio. Davanti è stato allestito il palco del tredicesimo Yoga Festival. Questo genere di spettacoli contorsionisti tuttavia mi impressiona sempre negativamente, ancora di più questa volta perché non si tratta della solita ragazzina magrolina ma di un uomo muscoloso e di un ragazzo grassottello (campione internazionale). Passeggiando per rue e avenue dall’elegante aspetto residenziale, raggiungo la chiesa di Notre Dame des Agnes dove è stato appena celebrato un matrimonio. La sposa indossa un sari dorato ma ha un velo bianco di stampo occidentale. Tutti gli invitati uomini vestono un classico europeo mentre le donne si sbizzarriscono con i sari. Ceno sulla terrazza del Rendezvous. Il menù presenta un’ampia scelta di piatti francesi e approfitto dell’occasione per interrompere la dieta indiana. Inizio con un’ottima bouillabasse seguita da un pesce ricoperto da una salsa con i funghi, anche se in realtà avevo ordinato pesce al vino bianco e quello che è arrivato, benché saporito, è un po’ troppo “burroso”. Non mi resta che concludere con un suntuoso creme caramelle. Accompagno la cena con la Kingfisher, birra indiana dal 1857 come reca l’etichetta che specifica anche che viene prodotta appositamente per Pondicherry (e non può essere venduta in Karnataka dove è imbottigliata). La cena mi costa 450 rupie, pari a dieci volte una cena media indiana ma si tratta solo di nove euro; ne valeva la pena! 7 gennaio: Pondicherry – Mamallapuram La comunità francese di Pondicherry è ancora numerosa nel vecchio quartiere coloniale. Questa mattina un papà passeggia in compagnia della figlioletta dai lunghi boccoli castani, salutando i guidatori di risciò; da una casa si affaccia un uomo il cui volto sembra corrispondere allo stereotipo del francese; sul lungomare una signora porta a spasso il cagnolino. Mi siedo su una panchina di fronte al mare a leggere il giornale che ho trovato in albergo sotto la porta della stanza. Ripresi i contatti con il resto del mondo, proseguo la mia giornata francese facendo colazione al Satsanga, sotto un bel portico. Scelgo crepe al miele, muesli con cereali e black coffee. In India i corvi con il loro gracchiare sono ovunque: mentre aspetto, si spingono arditi sopra i tavoli vuoti beccando qualche avanzo. In sottofondo la musica cubana di “Buenavista Social Club”. L’elefante davanti al tempio è dolcissimo; indossa cavigliere, ha le unghie dipinte e il terzo occhio. Quando un bambino gli porge da mangiare ringrazia con la proboscide. Un vecchio dorme sulla porta di casa sopra una sedia con un libro in mano; un uomo riposa completamente nascosto dalla coperta sopra un misero carretto. Raggiungo il Sri Aurobindo Ashram, centro di meditazione famoso in India, fondato da Aurobindo, sostenitore di una sintesi tra yoga e modernismo. Alla sua morte il “comando” passò a “The Mother”, una donna francese morta nel 1973 a 97 anni. Entrambi sono ricordati dal samadhi (mausoleo), collocato sotto un albero, coperto di fiori e circondato da persone che pregano in ginocchio con la fronte poggiata sul marmo. Solo il gracchiare dei corvi rompe il silenzio totale del luogo. L’associazione è una vera potenza a Pondy: possiede molti immobili, trasformati in guesthouse per i pellegrini. Nella piazza centrale gli scalpellini sono al lavoro per ricavare lastre per la nuova pavimentazione. Naturalmente tutto a mano, con martello e punteruolo. Nel museo resti di anfore greche e romane testimoniano antichi commerci; una stanza contiene i soliti bronzi chola (bel Nataraja); al primo piano mobilio coloniale francese (due rupie l’ingresso!). Il bus per Mamallapuram è di lusso, con sedili imbottiti dotati addirittura di braccioli; anche la strada è la migliore del viaggio con tanto di pedaggio. Mi rendo conto che in tutto il mio percorso di risalita verso nord da Kanniyakumari non ho incontrato un solo turista sui mezzi di trasporto pubblico. Scendo all’uscita per Mamallapuram e raggiungo il villaggio in risciò. Per queste ultime due notti vorrei una sistemazione superiore alla media del viaggio ma gli alberghi segnalati dalle guide sono pieni; devo quindi ripiegare sul Lakshmi Lodge, trovato tramite un procacciatore, dove mi propinano una sistemazione spartana per 300 rupie. La Lonely Planet lo definisce “long standing backpacker place” ma si trova comunque vicino alla spiaggia e possiede addirittura una piscina. Per pranzo raggiungo il ristorante del Mamalla Heritage Hotel, dove avrei voluto soggiornare. Il thali è ricchissimo (dieci ciotoline più un dolcetto) ma i sapori non sono quelli mitici di Mysore. Seduto ai piedi della roccia del tempio del Vecchio Faro aspetto il tramonto. Mamallapuram è racchiusa tra il mare e un “ammasso” di rocce vulcaniche, utilizzate dagli artisti dell’epoca Pallava (VII sec.) per le loro sculture: una Petra in miniatura trasportata in India. Nella parete verso il villaggio sono stati ricavati il Khrishna Mandapa e l’Aryuna’s Penance. Rivolti ad oriente si prestano ad una visione mattutina che non mi farò mancare. Il Khrishna Mandapa presenta bassorilievi con figure enormi: Khrishna solleva il monte Govardhana, simboleggiato dalla roccia sovrastante, tenendolo con un braccio solo; ricompare poi mentre munge una mucca, circondato da gopas e gopis (pastori e pastorelle); alla sinistra un gruppo di leoni, uno con il volto umano. La mandapa colonnata davanti alla parete scolpita è un’aggiunta molto successiva (XVII sec.). Poco oltre l’Aryuna’s Penance è un trionfo di sculture: sulla destra una famiglia di elefanti, con il grande maschio zannuto che domina gli elefantini, in mezzo una spaccatura rappresenta il Gange insieme ai naga, spiriti dell’acqua a forma di cobra, a sinistra Aryuna, uno dei cinque fratelli Pandava protagonisti del Mahabarata, famoso arciere. E’ rappresentato scheletrico, in piedi su una sola gamba, mentre fa penitenza davanti a Shiva. La moltitudine di figure lascia stupiti. A breve distanza dalla parete scolpita sorge un tempietto monolitico coperto di bassorilievi, il Ganesh Ratha; nella cella ospita una statua di Ganesh. Una gigantesca roccia sferica, denominata Khrishna’s Butter Ball, giace pericolosamente in equilibrio su un pendio. Ormai è venuto il momento di salire sulla collina rocciosa per proseguire l’esplorazione. Scavata nella roccia, la Varaha Mandapa ha due colonne d’ingresso con leoni alle basi e quattro pannelli di bassorilievi tra cui mi colpisce l’incarnazione di Vishnu con testa di cinghiale. L’area più alta della collina è dominata da un faro e da una roccia sopra la quale sorge il compatto tempietto Olakanesvara, ai piedi del quale ora siedo nell’attesa del tramonto. Prima di salire, sotto la roccia ho ammirato nella grotta di Mahishasuramardini due bei bassorilievi: il primo con Vishnu che riposa sdraiato sul serpente, il secondo che ritrae la terribile dea Durga con le otto braccia armate mentre combatte a cavallo di un leone contro il demone Mahishasura dalla testa di bufalo, armato di clava e possente ma piegato indietro dalla forza d’urto della dea. Dalla cima della roccia la vista spazia tutto intorno: verso il mare oltre il faro si scorge lo Shore Temple, nelle vicinanze un bel paesaggio di massi rocciosi e alberi verdi, verso l’interno una distesa di lagune e risaie allagate. Il sole riflettendosi nell’acqua produce un effetto suggestivo ma le nuvole sull’orizzonte fermano lo spettacolo prima del tramonto. Davanti alla “Penitenza di Arjuna” è stato allestito il palcoscenico del festival di danze indiane che si tiene a gennaio; anche questa volta lo scenario è incomparabile, con le sculture sulla roccia che fanno da quinta scenica. Questa sera è prevista la Baratha Natyam, danza del Tamil Nadu. In scena sale una danzatrice scalza, con le piante dei piedi dipinte di rosse, come anche le punte delle dita della mano; nel mezzo dei palmi un cerchio sempre rosso. Il trucco esalta i grandi occhi sbarrati. Naturalmente non capisco cosa stia rappresentando ma la mimica facciale e i gesti delle mani dovrebbero chiarire le vicende. Accompagnata dal canto di una solista e dalla musica, si muove quasi come un burattino. Per cena, dopo uno scroscio di pioggia, raggiungo il Village Inn dove mi propongono di visionare e scegliere il pesce da cucinare ma poi finisco per seguire i loro consigli. Sono le otto e sono l’unico cliente; è presto oppure è un brutto segno in un paese pieno di turisti !? Mamallapuram è il classico villaggio “stravolto” dal turismo. Le botteghe di souvenir si succedono una dopo l’altra e molte propongono insegne accattivanti che segnalano prodotti da tutte altre parti dell’India (addirittura dall’Himalaya!). Almeno il turismo è servito per mantenere in vita la tradizione scultorea, con il suono degli scalpellini che mi ha accompagnato mentre passeggiavo per il paese. Alla fine i miei dubbi sono dissipati: il pesce alla griglia e le patatine fritte sono buoni (il prezzo di 170 rupie nettamente superiore alla media del viaggio). 8 gennaio: Mamallapuram – Kanchipuram – Mamallapuram Sveglia alle 4:45. Al bus stand l’autista ha dormito dentro il bus per Kanchipuram e si è appena svegliato. Ne approfitto per fare colazione ad un chiosco con biscotti e black tea. Alle 5:20 puntuali si parte. Kanchipuram è una città ricca di templi. Inizio il giro raggiungendo in risciò il Kailasanatha Temple, alla periferia ovest della città. Sono l’unico visitatore. Il piccolo complesso dell’epoca Pallava (VIII sec.) è affascinante, carico di sculture nelle mura del recinto: una successione di colonnine rette dal mitico yalis, delimita piccole nicchie con bassorilievi di Shiva e Parvati. In alcuni punti si distinguono ancora tracce di affreschi. La torre centrale in pietra chiara ha invece un aspetto più recente. L’interno è chiuso e devo rinunciare alla visione del linga, terzo per dimensioni in tutta l’Asia. Un’altra corsa in risciò mi riporta in centro all’Ekambareshvara Temple. Si tratta del tempio più grande di Kanchipuram, dominato da monumentali gopura in restauro, ma ormai la successione di mandapa non mi dice molto. Nella vasta piscina un vecchio si lava coperto solo da un fazzoletto sul davanti mentre i pesci sguazzano disegnando cerchi. Un albero di mango, o meglio quanto ne rimane, segna il luogo del matrimonio tra Shiva e Kamakshi. Nel Kamakshi Amman Temple ritorna la Parvati locale che proprio a Kanchipuram riuscì a adescare Shiva. La torre centrale con gopura è coperta da vernice dorata. Nuova corsa in risciò alla periferia est della città per visitare il Varadarajaperumal Temple. Appena entrati una mandapa presenta guerrieri su cavalli ritti su due zampe, tema caro ai Vijayanagar già incontrato a Trichy. Stranamente riesco ad arrivare quasi fino al santuario centrale, raggiungendo una sala con affreschi ben conservati. Finito il giro dei templi è il momento dello shopping. Per evitare interferenze da parte dei guidatori di risciò mi faccio portare al TM Hotel, fingendomi un cliente. Lungo l’ampio viale, molti negozi trattano la seta; Kanchipuram, infatti, è considerata la capitale indiana del sari. Alla fine scelgo un negozietto che espone i prezzi sulla vetrina e non ha procacciatori. I commessi parlano un inglese molto scarso ma riusciamo ad intenderci un minimo. Scelgo un modello bordeaux con finiture oro, riuscendo a spuntare uno sconto del 30 %. Speriamo che il regalo sia gradito a Stefania. Pranzo al Saravana Bhavan, ristorante dell’Hotel Jaybala International, cercando di mantenermi leggero con un riso biryani, visto che oggi mi sento molto stanco (sarà l’effetto della levataccia!?). Le strade di Kanchipuram sono piene di carretti trainati da buoi dalle lunghe corna, più volte incontrati nel mio precedente viaggio in Rajasthan ma finora assenti al sud. Davanti ad un tempio un mendicante ha una caviglia deforme, tremendamente gonfia, una visione impressionate che mi ricorda quanta gente in India sia storpia e soffra la fame, come del resto purtroppo in molti altri paesi del terzo mondo. Il bus stand è una bolgia dantesca e mentre cerco il mezzo per Mamallapuram deve stare con gli occhi ben aperti per non essere stritolato dai mezzi in manovra. Niente più della stazione dei bus è emblematico dell’India. A Chengalpattu devo cambiare mezzo; donne dagli splendidi sari con colori vivacissimi si aggirano in mezzo a cumuli di sporcizia in un caos totale. I venditori ambulanti cercano di concludere qualche affare con i viaggiatori gridando i loro prodotti; donne sedute per terra intrecciano ghirlande di fiori e il contrasto tra lo sfacelo di ciò che è pubblico e il gusto di ciò che è privato è evidente. I mendicanti protendono le mani verso i finestrini privi di vetro; un ciabattino aggiusta sandali all’ombra di un telo mentre le bottegucce di cibo sono affollate di avventori. A Mamallapuram per l’ultima cena del viaggio scelgo una soluzione romantica al “Luna Magica”, locale proprio sulla spiaggia. Spira un discreto venticello e il sottofondo del mare mi fa compagnia visto che sono solo. Anche questa volta mi portano il pesce da visionare e ripeto il menù di ieri con grilled fish e chips ma le porzioni sono molto più abbondanti. 9 gennaio: Mamallapuram – aeroporto di Chennai Undici ore di sonno mi rimettono in sesto. Faccio colazione al Sea Queen, con un banana pancake dolcissimo e immangiabile, accompagnato da un lassi. Lo Shore Temple, costruito all’epoca dei Pallava, oggi è protetto dal mare con uno sbarramento di rocce ma l’effetto dell’erosione si vede sui consumati bassorilievi. Si tratta del tempio in pietra più antico dell’India del sud e il suo stile ebbe un’influenza profonda che si estese fino all’Indocina. Tra le due torri di altezze differenti, una cella ospita Vishnu dormiente mentre quella della torre più grande contiene un linga a prisma e una colonia di pipistrelli appesi al soffitto. Tutto intorno corrono bassi muretti sormontati da decine di consumati Nandi. Termino il mio pellegrinaggio attraverso i templi del Tamil Nadu con il più antico, in un percorso che da Kanniyakumari a Mamallapuram mi ha portato indietro nel tempo attraverso le tre grandi dinastie dei Vijayanagar (Madurai e Trichy), Chola (Thanjavur) e Pallava (Mamallapuram). Il sole, assente da un po’ di giorni, cerca di farsi largo tra le nuvole; si odono solo la risacca del mare e il gracchiare dei corvi. La roccia delle Penitenza di Arjuna illuminata dal sole è un tripudio di sculture, uno degli spettacoli più belli del viaggio. Mi soffermo ad ammirare i particolari: i topi giganti che insidiano un santone, Arjuna ridotto ad uno scheletro, la famiglia di elefanti in tenera processione. La giornata è di tutto relax: dopo avere ordinato una sari bloose fatta su misura (ma manca Stefania da misurare!?) bisso la colazione al Tina Blue View Roof Top Restaurant, dove il banana pancake con miele è buono anche se un po’ stucchevole. Il mio viaggio si conclude artisticamente davanti a cinque capolavori, i Pancha Pandhava Rathas. Vi arrivo percorrendo una strada che risuona degli scalpelli degli scultori. Le loro opere, spesso di notevoli dimensioni, non sono destinate ai turisti, come avevo pensato in un primo momento, ma a rifornire i templi indù di tutto il mondo. I rathas sono carri portati in processione durante le feste ma a Mamallapuram si sono trasformati in cinque tempietti monolitici scavati nella roccia e coperti da bassorilievi. La visione d’insieme è eccezionale come anche i particolari. Il carro di Dharmaraja, il più alto, culmina con una piramide a livelli decrescenti, decorati con mini tempietti a bauletto. Intorno, tra le varie figure scolpite ritrovo Ardhanarisvara (mezzo Shiva, mezzo Parvati). Subito dietro il carro di Bhima è il più lungo e il meno completo. Gli artisti procedevano dall’alto verso il basso ma in questo caso non scolpirono mai i pannelli. Le colonne del portico sono rette dai soliti mitici leoni. I successivi due carri, dedicati ad Arjuna e Draupadi, condividono la stessa base. Il secondo presenta un tetto originale che richiama una capanna. Ai lati tre splendide sculture di animali: Nandi accovacciato da un lato, un elefante e un leone dall’altro. L’ultimo carro di Nakula e Sahadeva, isolato rispetto alla fila degli altri, ha un elemento di originalità nell’abside e si presenta come un piccolo tempietto molto rifinito. Mamallapuram merita senz’altro il titolo di patrimonio dell’umanità attribuitole dall’Unesco. Fa un caldo notevole e mi siedo all’ombra di un albero per scrivere e ammirare i tempietti. Le macchie colorate dei sari delle donne danno un ulteriore tocco di esotico allo spettacolo dell’arte pallava. Pranzo al Moonrakers con un saporito curry fish. Per raggiungere l’aeroporto di Chennai da Mamallapuram ci sono due possibilità: un comodo taxi oppure un bus per locali. Per coerenza con il resto del viaggio scelgo questa seconda soluzione. Il bus è stracolmo di scolari che tornano a casa e procede lentamente passando di villaggio in villaggio. Il bimbo accanto a me è molto sorpreso di vedermi e quando gli spiego che sto per prendere un aereo e fare un volo di 10 ore risponde con un “ooooh!!”. Anche questa volta raggiungiamo Chengalpattu, da dove una superstrada a due carreggiate si dirige verso Chennai. Gli indiani poco avvezzi a questa situazione guidano in modo ancora più pericoloso del solito: mezzi lenti si tengono a destra (la guida è a sinistra) e i sorpassi avvengono da tutti i lati. Alle sette sono in aeroporto; bastano un centinaio di metri dalla fermata dell’autobus, lungo un caotico viale della periferia di Chennai, e l’India non c’è più. Dentro l’aeroporto l’aria condizionata a tutta forza per poco non mi fa venire un “coccolone”. L’ambiente è asettico, tutti hanno le scarpe e ci sono persino i cestini per la spazzatura. Noto comunque una certa insofferenza “pedestre” e appena seduti gli indiani tendono subito a sfilarsi le scarpe. Mi aspetta una lunga attesa visto che nell’area check-in si potrà entrare sono alle 9:30 mentre l’aereo partirà addirittura alle due di notte. 10 gennaio: Chennai – Francoforte – Roma A Francoforte siamo in pieno inverno e il freddo si fa sentire nel breve tratto all’aperto sotto il nevischio. In compenso l’aeroporto è perfettamente riscaldato, cosa che non accade a Roma dove il gelo avvolge i corridoi a discapito del povero passeggero proveniente dal caldo dei tropici.



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