Sentieri di pace in Slovenia
Sono tanti i motivi per cui si può decidere di intraprendere un viaggio: un libro, il racconto di un amico o un film. Anche un anniversario può essere un buon motivo, soprattutto se celebra un evento che ha lasciato una traccia profonda anche nella nostra storia attuale e certamente ha colpito profondamente anche il nostro vissuto familiare.
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I cento anni della Prima Guerra Mondiale (1914- 2014) sono l’occasione innanzitutto per un “ripasso” storico: iniziata (dicono i sussidiari scolastici, tra le tante altre cose superficiali e discutibili) a causa dell’assassinio a Sarajevo dell’Arciduca Francesco Ferdinando, è durata fino al 1918 e ha coinvolto 70 milioni di soldati, di cui 9 milioni sono deceduti assieme a 7 milioni di civili: 16 milioni di disgraziati morti senza un vero perché, e tutta Europa costretta alla fame. Le conseguenze nefaste di questa follia hanno determinato l’avvento di nazismo e fascismo, che a loro volta hanno provocato la Seconda Guerra Mondiale, che a sua volta ha fatto 50 milioni di morti e ha generato una crisi economica che praticamente è durata fino agli anni Sessanta. In questo senso sono avvenimenti che riguardano tutti noi. Non c’è famiglia (italiana e non solo) che non abbia avuto un parente coinvolto: Io-Patrizio da parte mia vado fiero di un prozio che fu un irriducibile pacifista e si rifiutò caparbiamente di combattere. Resta il fatto che l’anniversario della Prima Guerra Mondiale è un ottimo pretesto per visitare quella che è stata per noi fino a ieri una “terra di confine”: la Slovenia. Per me è stato un viaggio pieno di belle sorprese.
UN CONFINE TORMENTATO
Scusate se continuo col “ripasso” storico (che vi prego di approfondire a vostra volta) ma è impossibile venire e capire queste zone senza conoscere – almeno a grandi linee – la storia di questi posti, che è la nostra storia e ha lasciato degli strascichi pesantissimi di dolore e di polemiche, al netto dagli orrori reciproci delle foibe. Questa è stata una zona di conflitti profondi: esserne consapevoli significa valorizzare e apprezzare ancora di più il presente. Dopo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale ci sono voluti 30 anni e tre trattati per risolvere il tema dei confini fra Italia e Jugoslavia: nel Trattato di Parigi del 1946, Trieste e Capodistria sono stati assegnati di fatto a una gestione mista. Col trattato di Londra del 1954, Trieste, la Benecìa e le valli del Natisone tornano all’Italia ma non per questo finiscono i conflitti: le rispettive minoranze vengono di fatto perseguitate, in un contesto di guerra fredda molto aggressiva. Per esempio, nelle zone di confine noi italiani abbiamo proibito l’uso della lingua slovena, abbiamo cercato di soffocarne l’identità, abbiamo per anni “blindato” questo confine con iniziative tipo l’associazione “segreta” Gladio. C’è voluto il Trattato di Osimo per definire questo conflitto strisciante, e c’è voluto purtroppo il terremoto del 1976 per creare una situazione in cui la solidarietà fra italiani e sloveni – che tra la gente comune non era mai mancata – ha saldato finalmente un rapporto. Adesso l’unico segnale che ti avverte che dall’Italia stai passando in Slovenia è il trillo del telefonino, che ti segnala che stai passando da un operatore a un altro. Non c’è più nessuna frontiera, e la cosa stupisce ancora molti abitanti del luogo. Adesso è arrivata l’Europa! Qui si tocca con mano cosa vuole dire. Adesso la Slovenia non è più, in nessun modo, “territorio nemico”. Adesso, assieme al Friuli, può essere davvero la Porta di accesso e lo snodo naturale fra Est e Ovest.
KOBARID (CAPORETTO)
Però è culturalmente molto interessante vedere come l’ex-nemico rappresenta storicamente il passato. E il mio viaggio è iniziato nel luogo più significativo della storia della Prima Guerra Mondiale: Caporetto, che in realtà si chiama Kobarid, perché è appunto in territorio sloveno. Il 24 ottobre 1917 e nei tre-quattro giorni successivi, si è consumata una tragedia grottesca che è costata agli italiani 11.600 morti (in parte uccisi dagli austro-tedeschi e in parte fucilati sommariamente come disertori dal nostro stesso esercito, di fatto abbandonato a se stesso), 30 mila feriti e 265 mila prigionieri. Come dire: gli abitanti di un Paese tutti morti, gli abitanti di una cittadina tutti feriti… Il paesino di Kobarid è già di per sé molto interessante: si respira un’aria “pulita”, in tutti i sensi. Non c’è lo sviluppo tipico delle nostre località turistiche, è tutto ben conservato a livello di piccolo centro di media montagna. E la prima tappa, naturalmente, è al museo della Prima Guerra Mondiale, dove non è difficile trovare il direttore in persona, Joze Serbec, che dice di non parlare bene italiano e invece lo parla benissimo. Lo trovate a volte che fa personalmente da guida, e avendo montato lui il museo ed essendo un grande esperto di storia e di vicende belliche, è un vero pozzo di informazioni affascinanti.
IL MUSEO DI KOBARID
Ma in generale il museo parla da solo, ed è un’ottima introduzione al territorio e alla sua storia. All’ingresso due pareti: da una parte delle croci di cemento, segnate dal tempo, con tanti nomi di nazionalità diverse, dall’altra una serie di foto di volti di militari e non solo. Più avanti a destra una sala dove si proietta un filmato che ricostruisce le fasi della guerra e della battaglia in particolare, in più lingue, fatto benissimo. Ai piani superiori ci sono le varie sale, dedicate ognuna a un tema: ad esempio quello del freddo, che ha perseguitato ferocemente i militari inchiodati nelle trincee. E poi reperti storici (armi, arnesi) giustapposti a decine di fotografie, il tutto allestito con un’estetica a volte dichiaratamente artistica, un’estetica espressiva che racconta – sia pure con leggerezza – cose terribili. C’è il plastico della zona, con la ricostruzione della battaglia, condotta (si fa per dire) da una parte dai comandi italiani guidati da Cadorna e dall’altra dai tedeschi, giunti in aiuto degli austriaci. C’era anche un giovane ufficiale, Rommel, che studiava già da “Volpe del Deserto”. Quanto fosse furbo Cadorna, viceversa, si evince dalla storia stessa: non solo non capì l’evolversi della situazione, ma poi accusò i poveri soldati italiani di codardia. Ma la sala più impressionante è l’ultima, al secondo piano, dove si può toccare con mano l’orrore della guerra, con foto di mutilati e soprattutto foto di soldati che – emaciati e sfiniti – assistono magari a una messa in cima ad una montagna brulla. Questo museo mi ha ricordato quello di Ho Chi Minh City (ex Saigon), che racconta in modo esemplare gli orrori della guerra del Vietnam. Alla fine qui a Caporetto, lungo le scale, c’è (incisa sul bronzo) la dichiarazione della vittoria italiana finale, che suona come un capolavoro di retorica.
I SENTIERI DI PACE
Ma il vero museo è all’aperto, ed è costituito da un interessante esperimento che mette insieme passato e futuro, storia e ambiente. Si tratta di un percorso, di un sentiero, che per ora collega il Passo di Predil a Gorizia, ma che presto arriverà fino al mare, fino a Duino sull’Adriatico, non lontano da Trieste. L’iniziativa è slovena, il progetto evidentemente è europeo. Qui attorno a Kobarid il sentiero coincide con il fronte della prima guerra, lungo il fiume Isonzo, e il cammino si snoda fra le vecchie trincee. E mostra bene come sono fatte: scavate tenendo conto del territorio, sfruttando le buche e le doline carsiche, larghe circa un metro e mezzo e alte altrettanto, in alcuni casi protette da sacchi di sabbia e da un tetto di legno. Per terra c’era una specie di pagliolato in legno, sotto al quale scorreva l’acqua, assieme agli escrementi. Adesso non c’è più, ma allora c’era tutto attorno la puzza delle latrine e anche dei cadaveri lasciati a decomporsi nelle zone franche. Qui ho incontrato Michail e Vlado, due signori sulla sessantina, uno perfettamente vestito da alpino italiano e l’altro da ufficiale austriaco! Fanno parte della Associazione 1313 (che è appunto la quota del vicino Monte Rombon) che si occupa di ricostruire, raccontare, divulgare la storia della vita in trincea, da ambo le parti del conflitto. E allora vieni a scoprire tra l’altro cosa mangiavano i fanti: paradossalmente all’inizio della guerra gli italiani si trattavano bene, poi man mano hanno fatto la fame. Spesso fra austriaci e italiani – infilati nella terra a pochi metri di distanza gli uni dagli altri – ci si scambiava pane con tabacco: se ti scoprivano erano 10 anni di galera, per “intelligenza col nemico”. In effetti sì, si trattava di “intelligenza”, quella che mancava ai generali.
UN TERRITORIO MAGNIFICO
Michail (un altro, omonimo ma più giovane), responsabile dei Sentieri di Pace, ci apre una scatola metallica, da cui estrae un registro e un timbro: chiunque passa può registrarsi, come si fa nei pellegrinaggi. E – a tutti gli effetti – la “gita” lungo i Sentieri di Pace è un pellegrinaggio, durante il quale i Cimiteri di Guerra e le trincee parlano da soli, accanto alle bellezze naturali e alle tappe eno-gastronomiche. A proposito di pace: a due passi c’è una strana torretta in cemento, una specie di pollaio. Di che si tratta? È la postazione dei militari jugoslavi durante la Guerra Fredda: come dire che abbiamo giocato alla guerra fino a pochissimo tempo fa. Molti visitatori hanno magliette e distintivi che li definiscono ex-combattenti della recente guerra (per fortuna poco più che simbolica) fra Slovenia e Jugoslavia per ottenere l’indipendenza della prima, sulla spinta naturalmente della Germania, che qui ha e aveva grossi interessi economici. Ma basta storia: veniamo alla bellezza dell’ambiente: Michail ci consiglia una serie di itinerari, lungo l’Isonzo e dintorni. Un territorio ancora perfettamente conservato da un punto di vista naturale.
L’ISONZO
Lo guardi in foto e non ci credi, pensi subito a un filtro-colore o a un intervento in Photoshop: l’Isonzo è azzurro- Polinesia! Eppure la sua acqua ha affettivamente questo colore incredibile, questo azzurro chiaro e splendente, sia sotto il sole, sia sotto le nubi, a contrasto col grigio del cielo. Merito del calcare delle Alpi Giulie. Eppure c’è stato un momento in cui è stato rosso, rosso sangue: sulle sue rive sono morti, durante la prima guerra mondiale, 300 mila soldati… L’Isonzo comincia in Val Trenta e finisce in Adriatico, non lontano da Monfalcone, davanti all’Isola della Cona, dove tra l’altro c’è un gran bel Parco. Io l’Isonzo l’ho visto dalle parti del Ponte Napoleone, un posto molto significativo. Si tratta di una gola stretta e bellissima, dove è successo di tutto: un primo ponte risale al 1600, poi distrutto dai Veneziani, quindi ricostruito alla fine del 1700, tanto che sopra c’è passato Napoleone col suo esercito (da cui il nome). Poi lo distrussero gli Austriaci e lo ricostruirono gli Italiani, quindi lo difesero i partigiani Jugoslavi… scusate se insisto, ma qui tutto ha una storia! Adesso comunque è uno dei luoghi più fotografati dai turisti. Il fiume è il paradiso dei canoisti e di quelli che fanno rafting: io ho preferito seguirlo via strada. E sono arrivato fino alle Gole di Tolmin, che davvero sono state uno degli spettacoli naturali più suggestivi che io abbia mai visto.
TURISMO & AGRICOLTURA
Se per Syusy il tema ricorrente dei suoi viaggi sono i misteri, per me è l’agricoltura. Sono convinto che sia legata strettamente all’identità e alla conservazione di un territorio, nonché alla sua economia. E da queste parti ho visto alcuni esempi davvero significativi: aziende agricole che da una parte conducono ancora una agricoltura multifunzionale (cioè non estensiva ma che si adatta all’ambiente), che conserva perfettamente il paesaggio e nel contempo sviluppa un’economia parallela basta sul turismo. Noi turisti ne guadagniamo in opportunità e le produzioni locali trovano un mercato in cui vendere i propri prodotti direttamente, a prezzi adeguati, senza intermediari. Per esempio, vicino al villaggio di Cadrg, non lontano dalle Gole di Tolmin, alle pendici del Monte Rosso, ho conosciuto il casaro Danilo: ha 25 vacche al pascolo libero, che assieme ad altre 60 di altri contadini, producono 18-20 litri di latte al giorno (la metà di una vacca di pianura, ma con maggior qualità). Lui lavora il latte di tutti e nel suo piccolo caseificio artigianale produce il Tolminc DOP, un formaggio tipico locale, oltre alla ricotta salata. Nel suo agriturismo mangi solo prodotti fatti da lui e da sua moglie, dal pane fatto in casa ai succhi di frutta: in Slovenia in questo senso i controlli sono rigorosissimi e non c’è il fenomeno del ristorante/albergo travestito da agriturismo. Branco invece – un altro agricoltore che ho incontrato vicino a Kobarid – sui suoi 12 ettari ha un po’ di tutto: orto, frutteto, allevamento di bovini, maiali, cavalli e anche daini. Ha 10 letti per i turisti e ti offre un pranzo ricchissimo, con patate lesse, polenta, ricotta, salumi di ogni tipo e soprattutto yogurt artigianale speciale al mirtillo. Branco faceva l’operaio, ma la sua fabbrica è stata… delocalizzata (ormai succede anche all’Est) e lui, perso il lavoro, è tornato alla terra. Buon per lui (e per noi).
Patrizio Roversi