Cronisti per Caso: La visita a Manguinho, favela di Rio de Janeiro di Jvan

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"La visita a Manguinho, favela di Rio de Janeiro"

Una delle porte della favela. È...
Turisti Per Caso.it, 12 Feb 2007
cronisti per caso: la visita a manguinho, favela di rio de janeiro di jvan
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“La visita a Manguinho, favela di Rio de Janeiro”

Una delle porte della favela. È un arco. Stretto. Testoline si affacciano da scale, finestre, tettoie, onduline, brecce nei muri, curiose e sospettose. Attente. Sentinelle.

Gli aquiloni impazziti sopra le nostre teste attendono impazienti di sapere che ci facciamo lì.

Fabio è qui da parecchio. S’è preso un anno di aspettativa e lavora qui, per i preti (non andrebbe sbrigata così in fretta, ma non mi è ancora chiaro quanto mi stia bene o male tutto quel mondo – certo è che a Fabio ha fatto bene e anche agli amici che si è fatto qui); s’è conquistato il rispetto. Lavora con i bambini. L’acceso gli è stato consentito. E noi siamo con lui.

Mi rendo conto che c’è sempre qualcuno che ci segue comunque.

Ci fermiamo in un bar dove Fabio compra un po’ di roba da mangiare. Crocchette di riso.

Strada facendo le lasciamo ad un vecchio che vive nelle immondizie. La casa è scavata nelle immondizie. Non si può muovere perché è senza gambe, però Fabio dice che qualche volta si sposta un po’ camminando sui moncherini.

Vedo dei ratti di dimensione felina a pochi centimetri dal vecchio e lo avverto. Per tutta risposta lui divide le crocchette con loro, in parti uguali. Che imbarazzo. Sono piuttosto domestici in fondo.

Il nonno saluta cordialmente e ci ringrazia con passione stringendoci le mani energicamente.

Cuore grande e saluto sincero penso… Forse ci stiamo ambientando un po’, ma abbiamo occhi ovunque e ovunque hanno occhi per noi.

Di fatto trovarci tutto d’un tratto in situazioni così diverse dalle nostre ci impaurisce un po’.

Fabio, con una loquacità che non aveva, ci racconta anche di guerre tra trafficanti di coca che si risolvono sempre in decine di morti: l’ultima è di qualche giorno prima.

La nostra vulnerabilità di stranieri e la paranoia dei soldi nelle mutande ci mettono leggermente a disagio. Ammetto che se fossi da solo invece che con Mary sarei più tranquillo… Ma la cordialità della gente che ci viene presentata per le vie della favela ci scioglie ben presto.

Qui le costruzioni sono in muratura, salvo la “periferia”, e l’impressione che ne consegue è di relativa tranquillità. Il degrado è comunque assoluto, ma traspare l’impegno individuale a rendere civile la situazione: vuoi nella radio di quartiere allacciata con fili scoperti alle linee aeree. Vuoi per i murales abilmente dipinti sui muretti di amianto. Vuoi per l’assoluta umanità che esplode per le strade.

Saliamo nel quarto.

Scalette rubate tra una costruzione e l’altra ci fanno salire di livello in livello. Sembrano spesso ignorare le leggi della fisica. Per salire al terzo piano attraversiamo almeno venti proprietà. In lungo e in largo. Quando arrivi in cima devi tornare giù. Mi vengono in mente quei quadri in cui i piani prospettici si confondono in un caleidoscopio irrazionale.

In uno dei pianerottoli ci sono dei bambini. Svaccati. Svaccati e armati.

Fermano Fabio e gli parlano. Sorrisi. Anche a noi. Proseguiamo cercando dove mettere i piedi senza trovare arti o caricatori. Fortuna che Fabio li conosce.

Il quarto è un quarto. Nel senso che è una stanza. Due per due, forse. Le amache le tiriamo in diagonale una sopra l’altra. Tre. Fuori c’è un terrazzino con vista sui tetti. Offre una buona visuale (che non vuol dire un bel panorama).

Non è la Rio che sogni. È Rio.

In strada tantissimi bambini che giocano a calcio; tutti scalzi, neri, a petto nudo e con una vitalità che la maggior parte dei nostri non conosce.

In cielo, ovunque, centinaia aquiloni di tutti i colori che, legati a noi solo da un invisibile filo, sembrano voler ballare un allegrissimo samba all’insegna della libertà.

Sono forse il simbolo delle contraddizioni di cui vive questo Brasile. All’immagine poetica che evocano si contrappone una cruda realtà: in realtà quei balletti aerei sono vere e proprie guerre, poiché, mi viene spiegato, i ragazzi bagnano i fili degli aquiloni con colla vinilica e poi li cospargono di polvere di vetro, così durante quelle spettacolari evoluzioni si abbattono l’un l’altro.

Sogni infranti. Tirati giù.

Cosa più di questo può rappresentare la guerra tra poveri, dove non c’è posto per tutti e il tuo giustiziere è quanto di più vicino a te possa esistere.

Anche qui, dove la povertà è ovunque, i commenti all’abituale notiziario che parla dell’ennesima strage di meninos da rua rivelano la tolleranza per questi infanticidi, se non addirittura la loro giustificazione incondizionata. Credevo fossero pratiche assassine sollecitate e finanziate solo da una fascia ricchissima e perbenista della popolazione, ma l’intolleranza che fa da humus a questa realtà appartiene paradossalmente anche agli strati più poveri della popolazione. Senza generalizzare. Perché isole di assoluta umanità e solidarietà emergono necessariamente proprio solo da qui.

Conosciamo i vicini. Hanno un quarto gemello di fianco a quello di Fabio. Sono padre e figlio; una famiglia. Si scaldano da mangiare in una lattina su un fornellino da campeggio. E tutto in giro il bucato, immacolato, nei suoi mille colori ad asciugare al sole.

Dignitosissima miseria.

Da lì vedi il cielo. Con tutti i suoi aquiloni.

E la terra. Con tutta la sua merda.

I bambini armati da basso vogliono dormire almeno stanotte nel quarto di Fabio. Scopro che non li conosce nemmeno lui. È meglio lasciarli fare.

Sul muro sopra la porticina del quarto fa bella mostra di se una raffica di nonsochecalibro. Meglio lasciarli fare.

La comunità vicina in qualche modo a Fabio e ai preti si fa velocemente conoscere. Ci accolgono meravigliosamente. Si sparge la voce che ci sono due stranieri e siamo circondati da curiosissimi bambini. La maggior parte suona percussioni improvvisate e ballano. Sembrano felici.

La più grande e suo fratello ci invitano per la sera alle prove dello spettacolo che hanno l’indomani. Accettiamo entusiasti.

Decidiamo di cenare. Fabio ci porta in un ristorantino molto decoroso nella sua semplicità. La presenza di tranquille famigliole quasi stride con l’ambiente circostante. Sembra di essere in una “bolla” di normalità indifferente all’inferno che la circonda. Tavolini sulla strada e un tipo con la chitarra che canta “No woman no cry”.

La musica è assordante e la gente in giro fa festa.

Facciamo un po’ di fatica a capirci, ma Fabio ha una gran voglia di raccontarci quello che ha fatto in questi sei mesi e, soprattutto, ciò che ha intenzione di fare nei mesi a venire. Sta bene; comincia ad avere qualche problema di soldi, ma sta bene. E, soprattutto, quello che sta facendo gli dà soddisfazione.

Entro alcuni mesi vuole finire un capannone, all’interno del quale troverebbero posto dei macchinari per la pulizia e raffinazione dei prodotti delle fazendas. Questo permetterebbe di comprare all’ingrosso dai proprietari terrieri il prodotto del lavoro dei loro “dipendenti” che, sottoposti – si può dire – a schiavismo, non possono usufruirne. Il lavorato andrebbe ridistribuito agli stessi in maniera equa.

Ho capito che operazioni di questo tipo qui sono molto pericolose.

Pestare i piedi a questa gente vuol dire anche ipotecare la propria vita, anche se si è coperti da un’organizzazione riconosciuta.

Comunque questo è un discorso che non merita di essere trattato così superficialmente. Rimando l’approfondimento a quando ne saprò di più.

Discutendo col padrone se ha vinto più coppe la Juve o il Flamengo ci congediamo. Cena ottima e spendiamo veramente poco.

È ora di andare ad assistere allo spettacolo dei bimbi. Ci portano in un cortile chiuso tra quattro mura. È un piccolissimo campo da calcio. Hanno sistemato un palco e un impianto sonoro.

Tutto è già cominciato e lo spettacolo che ci troviamo davanti ci lascia senza parole. C’è una dozzina di bambini, ognuno con uno strumento a percussione e delle bacchette artigianali.

Il ritmo è scatenato.

In mezzo al semicerchio formato dai strumentisti due bambine ballano con un’abilità innata.

È inutile; qui il ritmo ce l’hanno nel sangue.

Mi spiegano che quello è un miscuglio di ritmi, importato in parte da Salvador de Bahia, definito però nei secoli nelle favelas di Rio. Comunque trae origine dai ritmi tribali africani degli schiavi neri.

Sarà per i 6-7 litri di birra bevuti al ristorante, ma riesco a capire e a spiegarmi benissimo.

Sto bene. Anche Mary.

L’indomani ci vengono a prendere. Andiamo da qualche parte, con i bambini della banda tirati in divisa e pronti a sfidare i vicini con le loro percussioni.

A lato della strada c’è una scrofa di dimensioni folli con la sua numerosa cucciolata che grufola tra l’immondizia. Non so se è cinismo occidentale che mi porto dietro o cosa, ma la prima cosa che ho pensato è come mai non la mangiano visto che molti hanno veramente fame. In realtà, mi viene spiegato, è parte integrante della comunità e nessuno si sognerebbe di farle del male.

Paradossalmente attraversiamo quello che dovrebbe essere un campo da calcio, ma che è una distesa sassosa disseminata di masserizie. In mezzo una costruzione in mattoni forati, posati a secco; due metri per due e alta un metro. Una finestra su un lato e nel mezzo una mitragliatrice piazzata ad altezza uomo che guarda con aria sonnacchiante i bambini rincorrere quegli agglomerati di stracci che usano come palloni.

Lì dentro c’è gente che si dà il cambio a controllare il circondario.

È normale, dicono.

Passiamo alcuni giorni a curiosare in giro. Petto nudo e bermuda che si veda che non abbiamo niente di interessante addosso. Ovviamente no macchina fotografica, no orologio, no catenine, no portafogli (non che a Milano o Napoli vada meglio…). La nostra presenza incuriosisce parecchio. È evidente che si chiedono cosa ci facciamo lì. Per quanto si tenti di apparire rilassati traspare la nostra non-appartenenza a quei luoghi. Credo pensino che o siamo pazzi o siamo coperti da qualcuno di importante tra i trafficanti della zona. Ne avrò conferma più avanti.

È sera. Caldo torrido appena attenuato da un’Antartica d’ordinanza sul tavolino ripiegabile di ferro del chioschetto angolo strada. Fabio ci viene a prendere. Ci aspettano. Bisogna andare.

Saliamo su un vecchio VW, quelli che io chiamo Elah perché assomigliano a una caramella mou, e ci portano su, su, su, fino al Cristo Redentòr.

Deve essere una sorpresa, quindi il viaggio, a tutta velocità per motivi di sicurezza, tra le colline sopra Rio è una botta tremenda.

È notte. La “cartolina” è quella tipica. Adelaide, carioca di Manguinho si appoggia alla balaustra ad ammirare la baia. In estasi. Come noi. È uno spettacolo meraviglioso. Senza soluzione di continuità. Senti la vita salire. Aggrapparsi alle rive della collina a tirarsi su; anche di un solo miserabile metro.

Un insegnante portoghese in Rio, di fianco a me, indica a Marta il lontano, minuscolo agglomerato di luci che è Manguinho: “Vedi? È là! Quello è questo e questo è quello!”.

E Marta lo guarda incredula. Guarda il portoghese, guarda Manguinho e guarda Rio. Uno zoom al quale i suoi occhi non sono abituati.

È la prima volta che esce da Manguino. Il suo quartiere. È la prima volta che vede Rio da lassù. È la prima volta che si rende conto di dove vive.

Nei suoi occhi c’è incredulità. Forse anche paura. Scaraventata in una realtà che forse non è la sua.

Alcune sere dopo ci viene chiesto se desideriamo assistere a un rituale tradizionale. Non è una cosa preconfezionata per noi. Loro andranno lo stesso e se vogliamo posto sul solito furgoncino VW ce n’è.

Ci aggreghiamo alla numerosa compagnia.

Il sacerdote si presenta e con lui altre decine di persone, soprattutto donne, vestiti in abiti tradizionali. Tuto bem, tuto bom. La sala è adornata di statuette raffiguranti santi dell’iconografia cristiana e altri personaggi. Quando non c’era libertà religiosa, gli schiavi celavano il culto delle loro divinità importate dall’Africa dietro alle sembianze dei vari santi. Sincretismo religioso.

Questo culto in particolare è “Candomblè de Caboclo”.

Ai bambini viene da ridere davanti ai lunghissimi rituali e vengono ripresi di continuo. Il rituale dura tutta la notte e i ritmi martellanti ad altissimo volume mandano in trance più d’uno. Spiriti si incarnano momentaneamente in alcuni dei partecipanti e il sacerdote li libera. È quanto mi spiegano.

Continuano a distribuire piccole porzioni di cibo vario avvolte in foglie di banano. Visto lo spettacolo mi chiedo se ci siano allucinogeni nascosti a campione nei pasti… Mary si fa suggestionare. Non ha mangiato nulla ma va fuori lo stesso. Mi preoccupo. Effettivamente la musica ossessiva e la stanchezza dopo numerose ore possono suscitare reazioni emotive imprevedibili.

Tornando al quarto notiamo degli “altarini” allestiti in mezzo agli incroci delle vie che tutti si guardano bene di evitare. Ci sono santini, bicchieri di cachaça mezzi pieni, polli sgozzati, carte da gioco e piccoli oggetti d’artigianato vario.

Meglio andare a dormire. È mattina inoltrata e non stiamo più in piedi. Le emozioni sono state piuttosto forti in questi giorni.

Ho scoperto che i tatuaggi che porto addosso suscitano curiosità e cautela nei miei interlocutori. È come in Italia decine di anni fa, quando il tatuaggio era sinonimo di galera. Conciato come sono, mi spiegano, devo essere certamente un membro di qualche banda di narcotrafficanti ospite presso un capo del posto. E poi non sono qui con i preti anche se conosco Fabio che lavora per un’onlus rispettata. Non so se la cosa mi protegga o al contrario mi crei rischi inutili. Certo le domande si fanno sempre più pressanti.

Già a Nova Irão, a nord di Manaus in Amazzonia, un mese fa, mi sono trovato in una situazione simile: pensavano fossi un killer assoldato da un mio connazionale che si è fatto dei nemici in un municipio sul Rio Negro. Solo le rassicurazioni decise dell’italiano hanno placato gli animi.

Dal terrazzo del quarto noto che tutte le sere, alla stessa ora, il nostro vicino, si ferma nel cortile della casa di fronte: ha sempre con se un secchio ed alcuni mattoni.

Scopro che finito di lavorare incassa la giornata, un paio di Reales, e che dal cantiere porta via un po’ di polvere di cemento; strada facendo ruba alcuni mattoni qua e là e alla fine prosegue l’edificazione di quella che sarà la stanza di suo figlio. Tutte le sere aggiunge un mattone o due (e ora è quasi al secondo piano) a un muretto senza finestre né porte, ma pur sempre più solido di un accumulo di cartone od onduline, con stoica costanza. L’altra settimana poteva aggiungerne tre. Questa solo due; se va bene. E il bimbo va a scuola, con le braghette a righe colorate e la maglietta “Ordem y Progresso” linda come la mia non lo è mai stata e la dignità che solo una vita come questa ti può imprimere sul viso.

Andarsene, banale dirlo, è dura come sempre. Certo, questa è un’esperienza difficilmente ripetibile; vuoi perché non tutti i giorni si presentano le condizioni per effettuare un viaggio così in relativa sicurezza, vuoi perché secondo me programmare troppo le cose priva di emozione l’esperienza. Non ultimo, per esperienza, non capita spesso di trovare la compagnia di viaggio giusta; ci siamo trovati in situazioni talvolta pericolose, ma la mia compagna è stata sempre all’altezza della situazione. Anzi, un paio di volte, se non c’era lei… Insomma, nel dubbio, meglio dover rispondere solo di se stessi.

Jvan



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