Un viaggio lungo un anno
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Un progetto educativo, un’esperienza di vita
Cristina, volontaria di Intercultura Onlus.
Quello promosso da Intercultura è un progetto educativo che coinvolge i ragazzi, le famiglie, le scuole e noi, i volontari. Non siamo un’agenzia di viaggi in cui si sceglie dove andare a stare per un po’, ma costruiamo assieme a ciascun ragazzo un percorso personale. Cerchiamo di stabilire attraverso dei test se e quanto ogni ragazzo sia pronto a un’esperienza più o meno lunga lontano da casa e valutiamo le sue inclinazioni. Con noi si parte tramite borsa di studio e si va a frequentare regolarmente la scuola del paese prescelto, per cui bisogna essere in pari con gli studi e non avere debiti formativi, ma non importa avere una media scolastica molto alta, né la perfetta conoscenza della lingua, anzi… Incidono piuttosto la motivazione e l’apertura verso il mondo. L’esperienza di vita all’estero è un’esperienza totalizzante, che permette di entrare davvero in contatto con realtà diverse dalle propria, tornando poi a casa con un bagaglio culturale arricchito, maggiore predisposizione all’adattamento e alla tolleranza, e con una bella rete di contatti e relazioni interculturali da coltivare e ampliare. Le famiglie ospitanti, nel nostro caso, sono tutte volontarie e mettono a disposizione casa, tempo e affetto agli studenti, accolti di fatto come veri e propri membri del nucleo famigliare.
Cristina
Honduras: uno shock culturale!
L’esperienza di Carlotta.
Ho deciso di partire da piccolissima, avrò avuto 7 anni quando un’amica dei miei genitori di ritorno da un anno in Canada mi ha incantato involontariamente con i suoi racconti. Già lì mi son detta: lo farò anch’io. Ho scoperto Intercultura a scuola, tappezzata di volantini, e l’ho scelta perché mi è sembrata l’associazione che dà la maggiore copertura rispetto a qualsiasi problema tu possa avere e, sopratutto, è quella che permette di andare nel maggior numero di paesi, non soltanto nei soliti.
Ho scelto l’Honduras perché volevo vedere una realtà completamente diversa dalla mia, volevo avere uno shock culturale e non si può dire che il mio desiderio non sia stato esaudito! Ho passato un anno a Tegucigalpa, frequentando la 4 superiore in un collegio internazionale e partendo senza conoscere una parola di spagnolo… Sapevo dire a malapena ciao, grazie, ho fame, lo stretto necessario per la sopravvivenza. L’impatto è sicuramente molto forte: attorno persone che parlano velocissimo una lingua che non capisci, abitudini e regole di comportamento completamente diverse da imparare, una nuova famiglia e dei nuovi amici da conoscere e con cui convivere. Ma ci si adatta molto in fretta: dopo due settimane ero già in grado di fare un po’ di conversazione e alla fine dell’anno suggerivo i compiti di spagnolo ai compagni di classe! Un anno sembra molto, ma è il tempo perfetto: è il tuo momento e sapendo che hai una scadenza sei invogliato a provare tutto. Avevo già fatto esperienze precedenti di vacanza studio, ma non c’entra, una vacanza può dare solo una vaga idea di cosa voglia dire staccarsi dalla famiglia e trovarsi di fronte uno scoglio linguistico, ma non è sufficiente a immergersi in una cultura e viverla a fondo.
L’Honduras è un paese particolare, con abitudini e regole molto diverse dalle nostre. In un primo tempo si instaura il meccanismo per cui pensi che l’Italia sia comunque meglio, poi ci si rende conto che è semplicemente un altro contesto e ci si abitua in fretta, adattandosi, ma anche conquistando qualche compromesso. Sicuramente impari in fretta ad arrangiarti: quando ho capito che la dieta honduregna prevede sempre fagioli a colazione, pranzo e cena, ad esempio, ho iniziato a cucinare io… Ho fatto sia la pasta, che la pizza e alla famiglia sembra anche essere piaciuta! Lo stesso per la lingua, all’inizio mi appoggiavo sul fatto che i miei compagni di scuola parlavano tutti molto bene inglese e mi vergognavo a tentennare con lo spagnolo, ma incoraggiata da tutti, facendo per un po’ delle costruzioni grammaticali tremende, alla fine ho imparato bene.
L’Honduras è considerato un paese tendenzialmente pericoloso, per cui molte libertà a cui noi non facciamo quasi caso non possono essere date per scontate: ad esempio non si può camminare in giro per la strada da soli, girare con i finestrini della macchina abbassati in certe strade, rispondere al telefono nei tratti di passaggio da quando vieni scaricato dalla macchina a quando entri in casa del tuo amico… Non puoi andare a scuola con lo smalto, oppure tingerti i capelli. Cose così. Hanno un forte senso della famiglia e nel weekend si passa il tempo tutti assieme, qualsiasi cosa succeda. Anche la scuola è diversa dall’Italia, a partire dalla comprensione, ho trovato molto più dialogo tra insegnanti e studenti. Le strutture che loro considerano basiche sono attrezzatissime rispetto ai nostri standard: computer nelle classi, campi sportivi per tutte le attività, ampi spazi. È anche previsto che le scuole più ricche, come quella che frequentavo, si impegnino socialmente dando una mano ai bambini dei quartieri più poveri, a cui noi studenti davamo lezioni pomeridiane.
Con me sono stati tutti pazienti e curiosi, così come noi sappiamo poco e niente dell’Honduras anche gli honduregni sanno poco e niente di noi e ci si confronta sui reciproci stereotipi: ho risposto alle domande più assurde, da “Di che colore è l’erba in Italia?” a “Avete tutti quanti Lamborghini e Ferrari?”… Prima di partire, io stessa immaginavo di trovare foreste e liane e ho fatto la mia dose di domande stupide, tipo “Lo sapete che cos’è un termosifone?”. Devo dire che, come noi, loro non sono particolarmente interessati a quello che succede fuori dal paese e nell’arco di un anno ho avuto pochissime notizie dell’Italia, che ho cercato da sola su internet. Ma non mi è pesato, anzi, ho tenuto in generale contatti sporadici perché era il mio anno lì e lì volevo stare! Avrò usato Skype sì e no 6 volte in un anno…
È impossibile raccontare un anno di vita, ne sono successe di tutti i colori, dalla vacanza che abbiamo fatto con il gruppo di exchange students sul Mar dei Caraibi alla festa per la consegna dei diplomi… Il punto è cercare di non fissarsi solo su quello che si conosce, ma andare un pochino oltre. Anche tornare a casa, poi, è come ripartire per un altro anno all’estero! Mi sono trovata un po’ disorientata e molto cambiata, con molte cose da raccontare e molte da sentire. I rapporti si recuperano in fretta, ma tutti pensavamo che sarebbe rimasto tutto uguale e non è così. Di certo è un’esperienza che va fatta adesso, a 17 anni. Non vale la pena aspettare di essere più grandi, immergersi in una cultura diversa ti fa valutare tutto con spirito critico e per quanto la famiglia honduregna ha dato tanto a me, sono certa di avere a mia volta dato tanto a loro.
Carlotta
“Welcome Bruna!” l’altra Dallas
L’esperienza di Bruna.
Sono venuta a sapere di Intercultura attraverso la scuola dove insegna mia mamma e con lei ho fatto un patto: se fossi stata promossa senza alcun problema, mi avrebbe permesso di frequentare un anno di scuola all’estero! Quale migliore motivazione? Volevo andare dappertutto, in Cina, in India… poi sono finita a Dallas… Ma non la Dallas famosa del Texas, Dallas in Oregon. Una piccola cittadina della provincia statunitense con 11 mila abitanti e una sola high school, dove ogni volta che giravo per la strada incontravo tutti i miei compagni di classe!
Com’è andata? All’inizio, come per tutti, è stato un shock. Il viaggio di andata nel mio caso è stato lungo e estenuante, siamo arrivati di notte e abbiamo dormito in un’università con stanze piccole e claustrofobiche in attesa di conoscere le nostre famiglie il giorno dopo. Lo sconforto però si è subito sciolto quando ho visto la mia nuova famiglia venirmi incontro con un cartellone di benvenuto… diceva “Welcome Bruna” e da lì è stato tutto molto naturale. È normale avere qualche difficoltà all’inizio: pensi di cavartela bene con l’inglese e poi vai a cena al ristorante la prima sera e scopri di non capire quasi nulla, devi adattarti a abitudini che non conosci e prendere confidenza con i nuovi famigliari, che nel mio caso avevano già ospitato altri studenti prima di me ed erano fin troppo rilassati. All’inizio, ad esempio, ero in imbarazzo ad andare in bagno perché per raggiungerlo dovevo attraversare la camera dei genitori e non sapevo quando potevo bussare… Oppure mettevo mano al portafoglio ogni volta che si trattava di pagare qualcosa. Poi le cose si sono chiarite: ho imparato a chiedere quando avevo bisogno, a capire le situazioni e a sentirmi a tutti gli effetti un membro della famiglia, accettando anche che i miei nuovi genitori pagassero per me come per gli altri loro figli quando facevamo cose tutti insieme.
Il problema è che le persone partono per vivere queste esperienze con già in testa un’idea di come sarà e questo è sbagliato. Io per prima immaginavo che avrei avuto una famiglia fantastica, bellissima, dei supereroi! Mentre quando ci sei, ti rendi conto che si tratta di famiglie assolutamente normali, che come tutti hanno dei difetti, ma che fanno un grande sforzo dal punto di vista economico e morale per accogliere in casa un’altra persona e questa è davvero una cosa fantastica. La mia famiglia non era certo perfetta, ma che senso avrebbe avuto andare in una casa che sembra un hotel?
Negli Stati Uniti, poi, il concetto di famiglia è davvero molto forte. Ero partita pensando di passare molto tempo per conto mio coltivando i miei interessi, ma ho capito subito che si sarebbero davvero offesi se non avessi partecipato attivamente alla vita della famiglia! Anche se non facevamo niente di speciale, il tempo dedicato alla famiglia è molto importante: guardavamo insieme la televisione, giocavamo a carte o a giochi di società, facevamo escursioni nel weekend. Mi hanno portato nel Far West e sono stata varie volte a Portland, la grande città più vicina.
La scuola americana assomiglia a quella che si vede nei film, ma a Dallas c’è solo un liceo e la situazione è più intima di come la si immagina. Sì, ci sono le squadre di football e di rugby e tutti vanno in giro con la propria uniforme, tutti i pomeriggi ci si trattiene dopo la scuola per fare sport e altre attività extrascolastiche, ma non ci sono super bulli e super sfigati come si vede nei film. Anzi, lì nessuno giudica nessuno e ci si sente veramente liberi di essere sé stessi, coltivando le proprie passioni senza paranoie molto più che nella scuola italiana. Pur essendo una cittadina piccolissima, la mia scuola ospitava ben 13 exchange students. Questo, oltre a far riflettere sulla predisposizione della gente ad aprire molto di più le proprie case ad esperienze interculturali di scambio, è un aspetto importante perché ci si può confrontare con altri ragazzi nella stessa situazione e ci si sente meno soli, costantemente in contatto con culture diverse dalla propria. Con gli altri exchange students, ad esempio, abbiamo fatto una bellissima vacanza alle Hawaii a un certo punto!
Si cresce molto in un solo anno, perché si ha tempo di concentrarsi su sé stessi facendosi molte più domande. –Se una certa cosa non me la fanno gli altri, come posso risolverla?– ci si chiede continuamente. Anche mia mamma dice che sono cambiata in meglio: prima polemizzavo per ogni stupidaggine, ora so anche lasciar correre. Il profitto scolastico non ne risente, anzi, il cervello si apre e siamo più abituati a imparare! Rientrando in Italia ho avuto un consiglio di classe comprensivo, ma a scuola di fatto vado uguale a prima. E per quanto riguarda gli amici, se uno li sceglie con criterio e un po’ di esclusività, ci si ritrova e ci si accetta anche nei cambiamenti.
Bruna
L’articolo è pubblicato anche su Turistipercaso Magazine di Febbraio 2014