Yemen: un viaggio possibile…
Indice dei contenuti
ecco come era ieri
Silvia: Dopo aver confrontato le opinioni a tratti discordanti sul viaggio nello Yemen, ne abbiamo parlato con Patrizio: confermi di considerarlo uno dei più bei viaggi? Patrizio: Assolutamente confermo. Èstato affascinante e bellissimo, una delle esperienze più belle che ho fatto da molti anni a questa parte, quando ho cominciato con Turisti e poi Velisti per caso!
S: Molti ci scrivono, è in corso una specie di dibattito sulla sicurezza e la burocrazia… Cosa puoi dirci in proposito? P: Effettivamente qualche problema c’è stato. Gli amici che ci hanno accompagnato ci hanno raccontato però che i problemi legati ai rapimenti erano relativi, amplificati dalle informazioni che sono filtrate a suo tempo: la questione dei rapimenti si riferiva a una situazione particolare legata all’incertezza dei confini tra Yemen e Arabia Saudita in cui vagavano gruppi di beduini che in qualche modo rivendicavano una loro autonomia. Adesso comunque, già da qualche anno, il problema è radicalmente e totalmente risolto perché i confini con l’Arabia Saudita sono stati fissati e lo stato ha inasprito le pene per coloro che utilizzavano il rapimento dei turisti per sollecitare il governo ad avviare opere pubbliche. È un paese molto controllato, ci sono posti di blocco che verificano, seguono e monitorano il tragitto dei turisti, per garantire la massima sicurezza.
S: Le agenzie consigliano di non andare da soli, è una precauzione necessaria? P: Certamente lo Yemen è uno di quei paesi in cui è giusto andare accompagnati. Ho avuto una guida unica: Marco Livadiotti, un signore che vive lì da decenni e che per questo si è rivelato l’interfaccia ideale. Si tratta di una persona estremamente colta che conosce perfettamente gli usi locali, ma te li racconta filtrati da una cultura che è appunto la nostra, italiana e occidentale. Da un punto di vista organizzativo non è un viaggio da affrontare da soli…
S: Tu consigli di andarci organizzati? P: Certamente sì, perché capire lo Yemen non è così semplice: serve un interprete che sia tale sotto tutti i punti di vista, non soltanto linguistico. Serve qualcuno che ti spieghi, ti racconti e ti introduca presso i personaggi locali. La gente è disponibile e ospitale, ma si tratta di colmare in poco tempo la distanza che ci separa da una cultura millenaria, più antica della nostra.
S: Ancora due parole sulle attrattive culturali ed estetiche dello Yemen… P: Da un punto di vista storico, religioso, architettonico e sociale lo Yemen è uno dei posti più interessanti del mondo. Ci sono città che mi hanno profondamente colpito, ma anche incontri più diretti, come quelli con gli artigiani di San’a o con i pescatori della costa del Mar Rosso.
S: A proposito di Mar Rosso, a bordo di Adriatica avete visto anche la costa? P: Sì. Adriatica è stata scortata dal Catarina, la barca di un altro italiano, Maurizio Pazzelli: l’unico skipper che riesce a fare charter con una barca in acque yemenite. Abbiamo visto alcune isole del Mar Rosso che appartengono allo Yemen, in particolare l’arcipelago di Zubayr. Isole vulcaniche bellissime, sembrano desertiche e alcune sono nere di lava; in realtà, esplorandole si trovano molti animali, non a caso le chiamano le “Galapagos del Mar Rosso” perché sono intatte e con fondali bellissimi. Sono disabitate e sono state visitate da pochissimi turisti; Maurizio ci raccontava di aver accompagnato in quei luoghi meno di mille persone, quindi si sono rivelate una grande scoperta per noi.
…OGGi non è tanto diverSo
Tornando ad oggi: che cosa è cambiato da allora? In Yemen credo sia cambiato poco, se è possibile si è incancrenita e aggravata ancora di più la situazione internazionale che schiaccia lo Yemen dentro con-traddizioni ancora più forti: l’aggravarsi del conflitto israeliano-palestinese, l’incapacità di risolvere il conflitto in Afganistan e ovviamente in Iraq, la crisi con l’Iran e di conseguenza il terrorismo. L’ultima volta che ho visto il mio amico Marco Livadiotti, la mia straordinaria guida (a proposito, lo trovate a touring@utcyemen.com oppure marcoyemen@yahoo.com), era sfiduciato, e stava organizzando viaggi in Oman e negli Emirati Arabi piuttosto che in Yemen. Oggi i consigli della Farnesina non si possono ignorare, quindi, lo Yemen diventa un viaggio forse da raccontare, più che da raccomandare. Se per posti come Bali (dove sono accadute tragedie più gravi) tutti hanno ben chiaro che si è trattato di delitti organizzati dall’esterno, nello Yemen si ha il sospetto che il problema sia interno, anche se probabilmente non è vero. Una meta che fino a poco tempo fa era facile e vicina, ora si è allontanata. Eppure, dentro a coloro che ci sono stati, resta l’intima (e dolorosa) convinzione che questo sia una grande ingiustizia e anche un grande equivoco. Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così di chi ha visto lo Yemen, verrebbe da provare a spiegare le grandi contraddizioni del luogo, per farsi una ragione di questa sua immeritata sinistra fama. E per ripassare nel contempo le sue bellezze…
nel caravanSerraGlio
Arrivando a San’a con la compagnia aerea Yemenita ti davano in omaggio una statuetta, che raffigura la tipica casa locale: una specie di castello panna-e-cioccolata. È un po’ come se regalassimo ai passeggeri in arrivo a Roma una statuetta del Colosseo. E in effetti è un regalo utile: serve a prepararti psicologicamente, perché altrimenti quando arrivi rischi di non credere ai tuoi occhi. In effetti è proprio vero – come mi ripeteva Marco Livadiotti– che il viaggio nello Yemen è un viaggio nel tempo. Giri per strada, guardando i palazzi e le stradine, schivando asini e carretti, e ti vengono incontro figure che sembrano uscite dalla Bibbia. C’è ancora Mosè (col turbante, la barba, il caffettano e i sandali), ci sono i fabbri che seduti per terra soffiano sui mantici e c’è ancora, tale e quale, la bottega di San Giuseppe falegname. Gesù sarà quel bambino che gioca scalzo nel cortile polveroso di un caravanserraglio ingombro di spezie e di caffè. Forse stanno girando un remake delle Mille e una Notte di Pasolini, forse è una scenografia. Ma dietro la porta c’è un tizio che dorme per terra: evidentemente il caravanserraglio è vero, e funziona ancora da locanda e da mercato.
il mercante di caffè
Incontro un mercante che vende caffè, ne ha un cortile pieno, e parliamo del più e del meno. Parliamo? Come, visto che lui parla arabo-yemenita e io no? Eppure ci capiamo. Marco, che ci ascolta, ride e dice che non abbiamo equivocato nemmeno una parola. Il mercante mi racconta la storia del caffè: che è nato in Yemen, e poi è stato trapiantato altrove, ma senza ottenere la stessa qualità. Poi mi spiega bene come si fa il caffè, eccetera eccetera. Da allora bevo solo caffè 100% arabica. In questa occasione ho capito anche come sono andate le cose in Mediterraneo nei secoli passati, come è successo che gente di lingue diverse (Fenici, Greci, Egizi, Sabei, nordafricani) si sia capita, se la conversazione era pratica e concreta. E di come lo scambio commerciale sia stato la molla per i viaggi, le scoperte, le integrazioni culturali. Mi si è materializzata la scena della Via dell’Incenso, che dall’India arrivava in Mediterraneo passando appunto per l’attuale Yemen. Poco più avanti, al mercato, vendevanoi classici pugnali ricurvi, che si regalano ai ragazzi che diventano uomini. Alcuni (purtroppo) hanno il manico di corno di rinoceronte, che aumenta la virilità e i titoli del suo proprietario, ma diminuisce il numero dei rinoceronti. I venditori di pugnali mi mostrano la danza del pugnale, uno comincia a suonare, parte uno spettacolo in cui naturalmente mi coinvolgono. Non l’hanno fatto per venderne uno (infatti non l’ho comprato), l’hanno fatto per venire in contatto con uno straniero, per raccontarsi, per mostrarsi.
donne in nero
C’è San Giuseppe e c’è Gesù, ma dov’è la Madonna? Le donne sono forse la cosa più impressionante: fantasmi neri, completamente coperti dalla testa ai piedi, guanti compresi. Marco mi spiega che questo non sarebbe il vestito tradizionale, è una consuetudine, a suo tempo imposta dall’Impero ottomano, e in effetti più tardi, in altre zone del Paese, vedrò donne col viso scoperto e vestite di stoffe sgargianti. Ma a San’a sono tutte in nero. E di primo acchito sono inquietanti. Alcune hanno addirittura un velo trasparente che copre anche la fessura degli occhi. Eppure da questa fessura partono sguardi brillanti, indagatori, curiosi, scintillanti: sembra che la compressione forzata di tutto il resto si sfoghi nella forza di questi sguardi. In compenso, nelle botteghe sono esposti i vestiti che le donne portano in casa, sotto: e sono abiti normali, molto femminili. Durante il mio soggiorno in Yemen ho potuto parlare con tre donne: la moglie di Marco, poi una nota intellettuale e giornalista che gira col viso scoperto e infine una ragazza palestinese, anche lei abbigliata all’iraniana, col fazzolettone, per intenderci. Tutte e tre, sia pure con toni diversi, mi hanno messo in guardia dai facili pregiudizi, e hanno smontato in parte il mio “scandalo”: il velo per le donne è anche davvero una loro scelta, un modo di gestire le relazioni con l’esterno, di selezionare. Maa, che di lavoro fa la stilista, in casa è vestita all’occidentale, dice che volendo potrebbe uscire senza velo, che la cosa sarebbe tollerata, ma in realtà le fa comodo coprirsi per non dover relazionarsi con tutti quelli che incontra per strada: le relazioni se le sceglie lei. E anche il diritto di famiglia in Yemen sta cambiando: il marito sta perdendo i suoi atavici privilegi. Il velo non annienta la vita sociale extrafamiliare: mi raccontano che tra uomini e donne c’è un fitto scambio di messaggi e bigliettini, e in effetti, dopo qualche giorno mi accorgo che – a saper guardare – il velo non riesce, alla fine, a nascondere del tutto bellezza e femminilità. Al check-in di un aeroporto però vengo fermato da duedonne poliziotto, completamente velate: mi chiedono i documenti, mi fanno aprire i bagagli ecc. Sono inquietanti. E allora capisco che in Yemen, o comunque in un Paese islamico, dove sono ospite, accetto di buon grado. Ma a casa mia, non sarei in grado di tollerare di avere a che fare con persone che nascondono la propria identità. Capisco che tutto questo in Yemen va benissimo, capisco che sono patetico a voler giudicare un mondo diverso dal mio, capisco che loro stanno bene così e che soltanto metterli in discussione è una violenza. Ma capisco anche che siamo diversi, e io, un’impiegata delle poste, o una maestra, o una poliziotta completamente velata, in Italia, non la potrei sopportare.
democraZia? forSe…
Sono stato in Yemen nel 2004, in un periodo in cui i rapimenti sembravano superati, e ho avuto la fortuna di girarlo in lungo e in largo. Con amici dell’Università di Napoli, ad esempio, siamo andati nel nord del Paese, nella zona che sarebbe diventata la più pericolosa, a visitare scavi archeologici dalle parti di Baraquish, che raccontavano l’Arabia Felix, e prima ancora i fasti della Regina di Saba, dei Sabei e dei Minei, quando una grande Civiltà era riuscita a costruire dighe e sistemi di irrigazione che avevano reso questa regione un Paradiso Terrestre. Qui ho avuto la sensazione di essere arrivato in quella che chiamano la Culla dell’Umanità. E questo ti porta a guardare con rispetto anche gli aspetti attuali di questo mondo: come un anglosassone dovrebbe andarci piano prima di giudicare il diritto romano, noi post-romani dovremmo rispettare un popolo venuto qualche millennio prima di noi, che non siamo riusciti a conquistare…
Con Marco che mi faceva di interprete, e con David Riondino come compagno di viaggio, sono riuscito a chiacchierare con militari che dietro alle mitragliatrici facevano la guardia al nulla. Ricordo che abbiamo parlato di “democrazia”. In effetti lo Yemen, da un punto di vista politico, ha avuto una storia recente travagliata, ha dovuto subire influenze esterne che si sono illuse di poterne condizionare l’identità (lo Stato è stato diviso in due, uno filo sovietico e l’altro filo-occidentale, e la tormentata riunificazione e successiva democratizzazione risale a pochi anni fa). Ho chiesto cosa pensassero della Democrazia, se andavano a votare ecc. Dalle risposte ho capito che il principio “una testa e un voto” per loro non ha senso. Loro sentono di appartenere ad un clan, a un gruppo familiare allargato. Per cui votano (e pensano) quel che decide il capo. In una situazione del genere io impazzirei, ma loro ci stanno bene, e non mi sembravano ansiosi di cambiare. Mi è tornata in mente una conversazione con un giovane egiziano: mi aveva spiegato che riescono ad adattarsi alla loro realtà, perché ognuno ha un destino segnato, cui è inutile ribellarsi. Rigettano i valori occidentali (il libero arbitrio, la volontà individuale, ecc) perché sarebbero destabilizzanti e li porterebbero alle nostre nevrosi e schiavitù materiali, alla nostra infelicità e solitudine. Altro che esportare la democrazia…
pacifici, ma col fucile
Dopo i sosia di Mosè, dopo le donne che sono inquietanti sagome nere, la cosa che ti colpisce di più in Yemen sono le armi: tutti i maschi adulti sono armati, di pugnali, di pistole ma soprattutto di khalasnikov. Si vedono uomini che passeggiano tenendo in spalla il fucile, pe-scivendoli che faticano a caricare i loro carretti, dovendo tenere a tracolla il mitra. Mi hanno spiegato che, per loro, il fucile è il corrispettivo della nostra cravatta: un (vero) uomo non può uscire di casa senza. Eppure, paradossalmente, questo atteggiamento (che a noi appare folle) non si traduce in un diffuso senso di violenza. Anzi. Mentre attraversavamo il deserto i beduini che ci scortavano hanno sfidato per scherzo le nostre guide a una gara di tiro e hanno quasi costretto me e Riondino (pacifisti irriducibili) a partecipare. Anche se non avevo mai sparato ho colpito una sigaretta a cento passi: la forza di un fucile mi ha impressionato. Ovviamente – perché non ammetterlo – è stato divertente e anche eccitante, e mi ha trasmesso una sorta di delirio di onnipotenza, ma proprio per questo ne sono rimasto atterrito: probabilmente gli Yemeniti hanno un modo tutto loro di controllare e sublimare l’aggressività, ma per noi occidentali non è il caso di maneggiare le armi. Questo è un altro mistero dello Yemen.
ruminando il Qat
Mio nonno aveva una “bogna” sulla guancia, cioè una grossa cisti dentro la guancia. Arrivo in Yemen e mi accorgo che ce l’hanno tutti! Saranno tutti miei cugini? No, masticano continuamente un bolo di qat, un’erba che qui è come il cappuccino da noi: diffusissima. Me la descrivono come una droga, ma non capisco che effetto abbia. C’è chi mi dice che è eccitante, altri dicono che è rilassante, altri ancora specificano con aria misteriosa che «dipende da te…». La provo, sembra di masticare foraggio. Mi sento una mucca e la sputo. Gli yemeniti invece la masticano per ore. Un altro mistero dello Yemen…
incredibile Shibam
Mi accorgo che sono alla fine e in pratica sono ancora fermo a una “introduzione allo Yemen”. Non ho ancora introdotto il dove e il come. Cosa vedere in Yemen? Di questi tempi dovrei dire “cosa sarebbe bello vedere”. Tutto. E se volete altre informazioni, vi rimando agli itinerari del sito. Ma mi preme sottolineare un’altra caratteristica del territorio e delle città: quella di essere intatti. Non è come da noi, dove accanto a monumenti meravigliosi, trovi invariabilmente una bruttura, un condominio anni ’70, un capannone prefabbricato, per cui se vuoi fare una foto devi stare attento all’inquadratura. In Yemen è tutto intatto. Non c’è quel degrado tipico del terzo mondo, che sta invadendo anche le nostre periferie. E ci sono delle eccellenze che devo definire straordinarie, anche se il termine è abusato. Non ho fatto in tempo a raccontarvi di quella volta in cui siamo partiti all’alba per il deserto, nell’Hadramut, con i beduini che pregavano al primo sole, mentre sgonfiavano le gomme per avere più aderenza sulla sabbia. Oppure del mercato del pesce di Al Hudaydah, pieno di squali. Poi c’è Shibam, la “Manhattan del deserto” coi suoi palazzi altissimi di fango e paglia. È incredibile. Ricordo che m’è venuto un dubbio “filologico”, relativo appunto ai fili della luce: in un’urbanistica antichissima e intatta, infatti, l’unico segno fuori dal tempo erano i fili della luce. Era giusto che ci fossero? Stavano bene o male? Ho concluso che stavano benissimo, e meno male che c’erano: assolvono alla funzione del pizzicotto di fronte a uno spettacolo da sogno, ti fanno capire che sei sveglio, che quello che vedi è vero, che la gente è vera e abita davvero questo posto, non sono le comparse di un film, Shibam non è una scenografia. È di più: è incredibile, ma vera.
L’appello di Pasolini
Uno dei primi a scoprire lo Yemen fu Pier Paolo Pasolini, che nei primi anni ’70 ha girato a San’a Le Mille e una Notte. Poi, innamorato del posto, con la pellicola avanzata, ha girato il documentario, Le Mura di San’a. Il mio amico Marco Livadiotti, assieme al padre (medico del califfo nel regime precedente) è stato la guida di Pasolini. E il testo del documentario, che è un vero e proprio appello all’Unesco perché lo Yemen sia preservato, è un testo fondamentale, che è bello rileggere…
«Ci rivolgiamo all’Unesco perché aiuti lo Yemen a salvarsi dalla sua distruzione, cominciata con la distruzione delle mura di San’a. Ci rivolgiamo all’Unesco perché aiuti lo Yemen ad avere coscienza della sua identità e del paese prezioso che esso è. Ci rivolgiamo all’Unesco perché contribuisca a fermare una miseranda speculazione in un paese dove nessuno la denuncia. Ci rivolgiamo all’Unesco perché trovi la possibilità di dare a questa nuova nazione la coscienza di essere un bene comune dell’umanità, e di dover proteggersi per restarlo. Ci rivolgiamo all’Unesco perché intervenga finché è in tempo a convincere una ancora ingenua classe dirigente che la sola ricchezza dello Yemen è la sua bellezza; che conservare tale bellezza significa oltretutto possedere una risorsa economica che non costa nulla, e che lo Yemen è in tempo a non commettere gli errori commessi dagli altri paesi. Ci rivolgiamo all’Unesco in nome della vera se pur ancora inespressa volontà del popolo yemenita, in nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri, in nome della grazia dei secoli oscuri, in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato».
L’Unesco ha poi accolto l’appello di Pasolini, i restauri sono stati fatti. E gli Yemeniti hanno capito, e hanno difeso la propria identità, la propria storia, il paesaggio. Purtroppo ora i problemi sono diversi e ancora più complicati. A proposito: non vi pare che – oggi, quando tutti ormai sono convinti che il turismo sia restata l’unica risorsa – l’appello di Pasolini per lo Yemen di 40 anni fa si adatterebbe perfettamente all’Italia?! Purtroppo la nostra classe dirigente non è più abbastanza “ingenua”.