Syusy racconta: il viaggio in Senegal, Mali e Togo
Samira: Mi sembra di avere capito che in Africa ci sono peculiarità di antichissima risonanza che appena uscite fuori hanno fatto la fama di qualcuno, mentre in quel contesto sono viste come gli antipodi della civilizzazione occidentale. Non ti sembra un paradosso?
Syusy: Certamente è vero. Quando arrivi in Africa non vedi grandi città, grandi costruzioni, ecc ma c’è una storia antichissima: lì sono state trovate tracce dei primi ominidi sulla terra come l’homo sapiens sapiens. Il deserto nasconde reperti preziosi, noi stessi abbiamo trovato un’ascia fatta con pietra scheggiata (che ovviamente abbiamo lascito lì). È una zona che ha rappresentato un po’ la culla dell’umanità da cui, secondo i più recenti studi di paleoantropologia, sono partiti i primi ceppi della nostra specie. Le costruzioni chiaramente erano di fango e mattoni e sono state distrutte facilmente dal tempo, ma i miti sono sopravvissuti.
Di cosa narrano i loro miti? – Syusy: I miti Dogon parlano dell’incontro con gli dei che hanno fatto l’uomo, i “Nommo”, che sono usciti dal mare travestiti da pesce. Erano come anfibi e hanno insegnato loro tutto quello che sanno, compresa l’esistenza di Sirio b, una stella invisibile a occhio nudo, una nana bianca gemella di Sirio che noi abbiamo potuto vedere solo grazie a strumenti complicatissimi. Loro conoscevano questa stella, ma sappiamo in realtà come hanno fatto? Beh, su questo argomento hanno scritto numerosi libri, ci sono ipotesi diverse, tipo di una conoscenza astronomica derivante dalla vicinanza con la cultura egizia. Lo scrittore Robert Temple ha ipotizzato che i Dogon conoscessero questi fatti da almeno 500 anni, e che li avessero appresi dagli esseri anfibi provenienti, appunto, da Sirio. In realtà tutte le ipotesi sono basate su elementi inconsistenti, è un vero e proprio mistero.
Cosa ci racconti dei Dogon? – Syusy: I Dogon sono scappati nella falesia (un costone roccioso quasi inaccessibile, N.D.R.) per sfuggire all’espansione islamica, e così hanno salvaguardato di più la loro identità culturale e religiosa. Per questo i loro miti sono arrivati quasi intatti fino a noi. La loro mitologia rappresenta un po’ tutta quella parte d’Africa, perché le altre etnie che si sono rivelate più permeabili all’islam hanno dovuto ibridare la propria cultura.
La falesia era disabitata? – Syusy: No, i Dogon hanno sostituito i Telem che vivevano nelle grotte nella falesia, ed è molto strano che una popolazione di agricoltori si sia adattata a vivere in un paesaggio così inospitale. Hanno organizzato la loro vita in modo da potere restare in quel posto come contadini, coltivando dei pezzi di terra fertile attorno a rivoli d’acqua sopra una falesia in cui non c’è niente.
Come sei arrivata ai Dogon? – Syusy: In un Internet cafè ho contattato un giovane che faceva la guida (che poi ho scoperto essere il nipote di Ogotemmeli) per farmi accompagnare. Sono andata col libro che conteneva le leggende raccolte da Griaule, che lui non aveva mai letto. Non solo: ricordava vagamente queste leggende. In pratica io ho raccontato le storie del nonno a lui che non le conosceva perché c’è stata una generazione di buio in mezzo. Praticamente se non ci fosse stato Griaule a scrivere le leggende e io a leggerle, il ragazzo non ne sarebbe venuto a conoscenza. Poi gli ho regalato il libro. Questa è la dimostrazione che le culture orali rischiano di scomparire, basta una generazione per dimenticarle. Ogotemmeli ha avuto la lungimiranza di donarle a un bianco per trascriverle e lasciarle a futura memoria. Il ragazzo diceva “Mio nonno sapeva le cose perché parlava coi Telem”. Per loro i Telem sono una popolazione mitica e Ogotemmeli aveva una specie di contatto privilegiato coi loro spiriti.
In che altri posti sei stata? – Syusy: Ho visitato Djenne, un posto meraviglioso. In una scuola coranica mi hanno letto un versetto del Corano contro gli infedeli, un vecchio mi ha raccontato la storia della moschea, che ha davanti un bellissimo mercato. La moschea è fatta di argilla e ogni anno tutti la rifanno. La ristrutturano dopo le grandi piogge che la danneggiano.
A proposito di luoghi sacri, che impressione hai avuto sulla religiosità degli abitanti locali? – Syusy: Lì convivono diverse religioni. Come dice Jesus, la popolazione locale è per il 90% islamica, per il 10% cattolica, e per il 100% animista. Molti sono stati costretti a convertirsi a una religione monoteista, all’islam o al cristianesimo, per avere la cittadinanza senegalese. Come mi ha raccontato Jesus, la conversione era condizione per acquisire i diritti civili, perché chi rimaneva animista non aveva cittadinanza, era considerato un selvaggio di cui poter fare qualsiasi cosa. Molti si sono convertiti all’islam, ma è un islam moderato, sufico, meno duro di quello ortodosso. Per esempio, le donne non sono obbligate a coprirsi con i veli.
Samira: questa tendenza sembra rispondere al bisogno di aggrapparsi a un mondo per loro “civilizzato”. Sì perché chi rimaneva animista non si poteva inquadrare, poiché ogni villaggio ha i suoi geni, i suoi riti, i suoi ruoli, dunque è incontrollabile, mentre per irreggimentare la popolazione serviva il monoteismo. È stato anche un modo per limitare il potere delle donne che nelle culture animiste era fortissimo, mentre le religioni monoteiste sono maschiliste.
Syusy: Le persone nate da rapporti fra africani ed europei avevano una serie di privilegi, tipo la cittadinanza francese, mentre i locali che non vivevano nelle città dovevano sottostare a questo ricatto religioso.
Sei andata a Timbuctu? – Syusy: Andando verso Timbuctu, dove arrivavano le carovane, ancora vicino al fiume, abbiamo attraversato una zona di passaggio, non ancora deserto ma non più fiume. Lì si nota la differenza con le altre popolazioni come i tuareg che sono i commercianti evoluti, i padroni del deserto che si rivoltano spesso contro il governo centrale del Mali. Timbuctu era un posto mitico per gli occidentali, dove arrivavano le carovane del sale dal deserto che riportavano indietro spezie, oro, prodotti locali. È un punto di passaggio e di scambio. Una specie di porto, se paragoniamo il deserto a un grande mare. Si diceva che fosse pieno d’oro, perché un africano che era stato catturato dagli italiani e interrogato dal papa aveva raccontato di questo posto mitico. Gli europei però non lo trovavano: o morivano prima per le malattie o venivano scoperti e sterminati.
Renée Caillè è riuscito ad arrivarci, ha dedicato tutta la vita a questa impresa, ha dovuto imparare l’arabo e travestirsi da pellegrino diretto a La Mecca. Raccontava di essere stato catturato dagli europei e di essere riuscito a fuggire. Quando ha raggiunto la meta, ha scoperto di essere in un villaggio importante, ma non così mitologico.
Hai attraversato il deserto?– Syusy: Attraversato no, ma siamo andati dietro alle carovane di sale fino alle dune. Da lì bisogna conoscere la localizzazione dei pozzi per andare avanti. Bisogna conoscere una strada non segnata… Sono giorni e giorni di cammino e se gli animali riescono a sopravvivere a lungo senza bere, gli uomini devono conoscere i posti dove c’è l’acqua, per resistere a quelle temperature.
Hai anche visitato una biblioteca? – Syusy: Sì, sono stata alla Bibliothèque Commémorative Mamma Haidara, a Timbuktu, che conserva un sacco di manoscritti di tutti i tipi e in molte lingue, addirittura codici arrivati direttamente da Alessandria d’Egitto. La cultura araba è antichissima e noi occidentali dobbiamo molto alla sua forza, visto che aveva potuto attingere alla cultura egizia. I codici giravano anche lungo le vie delle carovane nel deserto.
Poi sei stata in Togo, se non sbaglio… – Syusy: Per andare in Togo abbiamo costeggiato tutto il confine con il Burkina Faso. Il viaggio è stato scomodo, lì abbiamo sentito la durezza del deserto, la sabbia che entra dappertutto. Abbiamo anche visto le condizioni di vita delle persone.
Ti viene voglia di aiutarli? – Syusy: Sì, da un lato senti forte il richiamo ad aiutarli, basterebbe fare un pozzo per esempio, ma ti rendi conto che nello stesso tempo devi agire con molta prudenza. Si rischia di rompere equilibri lunghi secoli con interventi che possono sconvolgere la cultura e le abitudini e il loro adattamento a quel tipo di vita. Per loro vige ancora la selezione naturale: a un bambino fino a tre mesi di vita non danno nemmeno un nome, perché non ha molte probabilità di sopravvivere. Si adattano a quel niente che hanno, sono attaccati alle loro abitudini, anche se si aspettano un po’ d’aiuto.
Forse è anche una questione di ritmi? – Syusy: Certo perché per loro modificazioni che per noi sono normali, come costruire un pozzo o usare il trattore nei campi, rappresentano lo sconvolgimento di ritmi lenti cui sono abituati da secoli, legati anche alla loro organizzazione sociale. Inoltre bisogna portare loro manufatti compatibili con l’ambiente: da poco per esempio sono arrivati i sacchetti di plastica e sono sparsi dappertutto…
E il ruolo delle donne qual è? – Syusy: Le donne fanno tutto, reggono l’economia locale, si occupano della famiglia.
E gli uomini? – Syusy: Si occupano dei commerci, ma passano il tempo chiacchierando, per lo più stando seduti al bar.