La città fantasma
Girando per la Basilicata, sulle tracce letterarie di Carlo Levi, l’autore del libro Cristo si è fermato a Eboli, che racconta il Sud agricolo degli anni 30, durante il periodo in cui fu confinato qui dal Fascismo, mi sono imbattuto in una sorpresa, che si è rivelata una esperienza molto suggestiva, dai contorni prima emotivi e poi molto interessanti da un punto di vista anche razionale e di conoscenza dei meccanismi storici ed economici del territorio: sono arrivato a Craco. Se cercate sul Web trovate la seguente definizione: “Craco è un comune italiano di 762 abitanti della provincia di Matera in Basilicata, collocato a 391 metri sul livello del mare”.
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Il numero degli abitanti è del tutto relativo, e forse anche il numero che indica l’altitudine non è così preciso. Infatti, per colpa di una frana che ha fatto scivolare a valle le case, Craco è stata abbandonata e ora è una città fantasma. Per colpa di una frana. E di chi è stata la colpa della frana? Ma andiamo con ordine…
Una terra ricca
Prima ancora di arrivare dentro la cittadina, ho avvistato il suo monumento più antico, la Torre Normanna, che risale a poco dopo il 1000. La Torre si vede da lontano, perché dalla torre – come avrei scoperto poco più tardi – si vede lontano: si domina il territorio circostante, dalla Valle della Salandrella, alla Valle dell’Agri e del Sinni, fino al monte Pollino. Ma la storia di Craco è molto più antica. Era abitata fin dall’Età del Ferro (900 a.C.). E i Romani la chiamarono Grachium, che vuol dire campo arato. Tra l’altro, a Craco c’è anche l’acqua, quella del fiume Cavone. Tutto questo per dire che Craco non è mai stato un territorio sfigato e abbandonato da Dio, anzi. È un luogo ricco, dove la gente stava bene. Fin dai tempi di Federico II era un “Giustizierato”, cioè un’unità amministrativa gestita da un Giustiziere, che rappresentava in qualche modo la riforma di Federico contro la nobiltà e a favore di una classe media di possidenti terrieri. E le cose andavano bene, se è vero che – se-condo le cronache del tempo – da qui si ricavavano un sacco di tasse. Fatto sta che all’inizio del 1800, Craco aveva più di 1.700 abitanti e alla fine dell’800 arrivava a più di 2.000.
I monumenti
Non a caso ci sono dei monumenti bellissimi: ad esempio il Convento di S. Pietro, del 1600, che ha ospitato un grande personaggio, frate Nicola Onorati (1735-1822), detto il nuovo Columella, perché insigne agronomo, nominato da Gioacchino Murat primo docente della facoltà di Agronomia all’Università Federico II. E se qui c’era un grande agronomo, vuol dire che c’era una grande agricoltura e un territorio ricco. La maggior parte della gente campava della terra, e di conseguenza la città era fioriva, ci abitavano artigiani, notai, commercianti. In città ci sono ancora un sacco di Palazzi nobiliari: Rigirone, Cammarota, Simonetti, Grossi, Miadonna, Carbon. Oltre ai monumenti antichi, c’è ancora il municipio, le scuole, il cinema e le botteghe artigiane. C’è anche quel che resta (poco) della Chiesa di S. Nicola Vescovo, il patrono di Craco, del 1300. A Craco c’è ancora tutto, in uno scenario mostruosamente affascinante e toccante, che la fa assomigliare (almeno in termini emotivi) a una Pompei lucana medioevale. Perché non c’è più anima viva: Craco è stata completamente abbandonata nel 1963, dopo la frana. In genere, i miei racconti di viaggio sono corredati da poche foto, magari ricavate avventurosamente dai fotogrammi di un filmato. Stavolta invece, per fortuna, le belle immagini di Saverio Grippo, il fotografo del Parco Museale Scenografico di Craco, che mi ha accompagnato nella visita, raccontano meglio di me la bellezza del luogo.
Le frane
Intendiamoci, che il territorio fosse franoso non è una novità, di frane ce n’erano state tante, nella storia della cittadina, nel 1600, 1805, 1857, 1870 e nel 1933. Ma non erano mai state definitive, o tali da far abbandonare l’abitato. Geologicamente, il terreno a Craco è argilloso, e sopra c’è un cucuzzolo di arenaria e calcare. Tanto è vero che, ancora oggi, gli edifici più antichi, costruiti intelligentemente sulla roccia, hanno tenuto. Ma negli anni 50 e 60 il centro abitato si è allargato, senza rispettare alcune regole fondamentali legate alla morfologia geologica del terreno. Hanno sbancato un pezzo di terra per farci il campo sportivo. Poi le fogne e i tubi dell’acqua hanno cominciato a perdere, una prima frana li ha danneggiati e le perdite hanno aggravato il problema. E Craco all’inizio degli anni 60 è inesorabilmente smottata a valle. Poi la crisi economica del Sud ha fatto il resto: adesso Craco è deserta e i 762 ipotetici abitanti in realtà stanno nelle frazioni attorno. Ci abitano soltanto due asini, che girano indisturbati nelle strade. Quindi, tornando alla domanda iniziale, “Craco è stata abbandonata per colpa di una frana, ma di chi è stata la colpa della frana?”, la risposta, purtroppo, è che la colpa è per molti versi dell’uomo, e di uno sviluppo irrazionale e irrispettoso del territorio.
Una nuova vita… virtuale
In compenso Craco ha cambiato dimensione, ha “cambiato vita”: da cittadina vera e propria è diventata scenario immaginifico, set cinematografico per eccellenza. È impressionante la serie di film che hanno girato qui. Trascrivo l’elenco dalle cronache: La lupa di Alberto Lattuada, Il tempo dell’inizio di Luigi Di Gianni, King David di Bruce Beresford, Saving Grace di Tom Conti, Classe di ferro, Il sole anche di notte di Paolo e Vittorio Taviani, Terra bruciata di Fabio Segatori, Ninfa Plebea di Lina Wertmüller, Nativity di Catherine Hardwicke, The Big Question, diretto da Francesco Cabras, Alberto Molinari, Nine Poems in Basilicata di Antonello Faretta, Agente 007 – Quantum of Solace, regia di Marc Forster con Daniel Craig e Giancarlo Giannini, Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, Murder in the dark di Dagen Merrill e Un medico di campagna di Luigi Di Gianni.
Craco è anche sul manifesto del film forse più famoso, per il quale in realtà ci sono arrivato appunto anche io: Cristo si è fermato a Eboli, di Rosi, con Gianmaria Volontè, Irene Papas, Lea Massari, del 1979. Più di recente Mel Gibson ha ambientato qui la scena finale di The Passion (2004), con il suicidio di Giuda. Ma a Craco non può bastare essere diventata una scenografia, una Cinecittà del Sud…
Una nuova vita… futura & reale
I comuni della zona, anche in previsione di Matera & Basilicata Capitale della Cultura 2019, che potrebbe portate molti visitatori da queste parti e accendere i riflettori sulla regione, pensano a uno sviluppo futuro, non si rassegnano ad essere un “territorio fantasma”, sanno che hanno a disposizione luoghi, scenari, paesaggi, prodotti, tradizioni unici al mondo. E hanno chiesto un progetto. E a chi l’hanno chiesto? A un manager? A un economista? A un esperto di pubbliche relazioni? A un burocrate esperto di bandi europei? L’hanno chiesto a un signore che, in fondo, potrebbe intendersene di tutte queste cose, però si presenta come poeta-paesologo, Franco Arminio. In realtà è anche un operatore culturale, giornalista, documentarista, blogger. Il suo ultimo libro, Cedi la strada agli alberi, poesie di amore e di terra (Chiarelettere) ha venduto oltre 15mila copie (sette edizioni), ed è un caso editoriale. È soprattutto un filosofo. Cito parole sue: “abbiamo bisogno di cose profonde e invece zampettiamo in superficie”. Ha scritto, tra le altre cose, una lettera ai ragazzi del Sud. Chi sono i ladri del futuro dei ragazzi? “Chi non crede alle persone qualsiasi, ai luoghi qualsiasi. Bisogna dare fiducia al margine. Il ladro è chi sminuisce la vita dei piccoli luoghi, chi pensa che in un paese non si possa fare una grande vita”. Lo trovo che passeggia per le strade deserte di Craco, e vorrei capire, secondo lui, che vita può ancora avere un posto come Craco, che oggi sembra il massimo della marginalità. Parliamo del futuro di questo territorio. Scopro che Craco dovrebbe essere recuperato e valorizzato come luogo adatto a fini scientifici, culturali, cinematografici e turistici, con residenze e atelier per artisti. Per questo c’è il Parco Museale Scenografico con Atelier di arte, cinema e design e si sono realizzate infrastrutture scientifiche per un Laboratorio di ricerca e sperimentazione e formazione sulle nuove tecnologie per la difesa del suolo e il monitoraggio ambientale. Ma soprattutto, Franco Arminio parla di terra, di potenzialità agricole di un territorio ricchissimo di biodiversità, di prodotti che potrebbero avere un futuro economico. Quindi di uno sviluppo basato sul paesaggio, sulla bellezza, sull’ambiente e sul recupero ragionato delle tradizioni, culturali agricole e alimentari. Arminio sarà anche poeta, ma parla una prosa molto convincente…