Caraibi, le “loro” isole

Adriatica sbarca in Martinica, dove Patrizio e Syusy hanno l'idea del giro del mondo...
Patrizio Roversi, 30 Ago 2010
caraibi, le loro isole
Ascolta i podcast
 
I Carabi sono la meta più gettonata, la vacanza “esotica” per eccellenza, che ti offre sole-mare-tropici fuori stagione (cioè nel nostro inverno), abbastanza lontana da essere un “altro mondo”, abbastanza vicina da costare relativamente poco. Noi ai Carabi ci siamo stati un paio di volte, cercando di esplorarli in tutti i modi. La prima volta siamo arrivati a Santa Lucia e Martinica, e avremmo dovuto imbarcarci su due charter differenti: una barca che avrebbe dovuto andare a nord con a bordo uno di noi con un operatore per fare una puntata di turistipercaso, e un’altra che avrebbe dovuto andare a sud con il resto del gruppo. Poi è finita che ci siamo imbarcati tutti sulla stessa barca (un catamarano) perché l’altra in realtà non era adatta e disponibile (incerti del mondo del charter…). A Martinica comunque è cominciata a maturare l’idea del Giro del Mondo di Adriatica: qui infatti abbiamo incontrato i primi navigatori, due coppie che avevano mollato tutto, si erano comprate ognuna una barca e avevano iniziato il loro Giro attorno al globo, con un enorme entusiasmo. Negli anni li avremmo incontrati ancora, lungo le tappe successive, a Panama o in Pacifico. Volevano l’avventura, e l’hanno avuta. La prima coppia di amici, a bordo di una deliziosa piccola barca di 11 metri, fecero naufragio in Pacifico, ma furono tratti in salvo. L’altra coppia si è separata, e lui è rimasto felicemente in Polinesia (e continua a mandarci i suoi diari di viaggio sul nostro sito di velistipercaso.it).

VARIABILITA’ TURISTICA CARAIBICA

Ma ai Carabi siamo andati anche ad esplorare cosa si prova facendo una Crociera su una grande nave. Ci siamo imbarcati su una città-galleggiante americana: al Porto di Martinica all’inizio l’avevamo scambiata per un palazzo di 5 piani. E’ più di un Hotel galleggiante, è proprio un Paese, abitato da più di 5.000 persone. In particolare è una sorta di Paese dei Balocchi, o meglio di Disneyland: c’è una enorme piscina, diversi teatri, casinò, piste per correre, si può fare anche golf, ci sono svariati ristoranti a tema, e una pizzeria aperta 24 ore al giorno dove, gratis, puoi mangiare anche il gelato. Ci sono gli animatori (io Patrizio ho vinto una gara a chi aveva il petto più villoso) e spettacoli continui. Si possono anche noleggiare abiti da sera (smoking!) per fare bella figura. Dopodichè il nostro Paesino galleggiante si sposta (soprattutto di notte) e attracca alle varie Isole, dove divisi per gruppi si possono fare le escursioni. Le navi americane propongono gite più pop, le crociere europee e italiane in particolare hanno attenzione anche per visite di spessore culturale. Mentre io-Patrizio ero all’ingrasso in Crociera, io-Syusy invece esploravo le Granadine via terra per conto mio, facendo ovviamente un sacco di magnifici incontri umani per-caso… Insomma, ai Carabi si va in barca a vela, in crociera, si può andare in un Villaggio turistico o ci si può spostare di isola in isola anche con le linee aeree interne, ma come sono, cosa sono, i Carabi?

LA SOLITA STORIA…

Anche per i Carabi, come per tutte le mete del mondo, un po’ di storia non fa mai male, per capire dove si va. La parola Carabi deriva dalla parola Karipo, che il lingua Caribe voleva dire “uomo”. Ma di uomini, ai Carabi, ne sono passati tantissimi, di colore e di mentalità diversissime. All’inizio c’erano gli Aruaki, che erano paciosi e tranquilli, poi dal Sudamerica sono arrivati appunti i Caribi, bellicosi, navigatori e guerrieri, che prima di mischiarsi con gli Aruaki li hanno un pochino massacrati. Quindi sono arrivati gli Spagnoli, anzi, è arrivato Cristoforo Colombo (il 12 ottobre 1942) e il massacro è continuato, con metodi più “moderni”. Tutta la zona poi è stata conquistata e contesa dalle potenze coloniali europee: oltre agli Spagnoli sono arrivati Inglesi, Francesi, Olandesi e persino Danesi. Gli Indios Caribi però non ne hanno voluto sapere di lavorare per i nuovi padroni, perciò, per avere mano d’opera da impiegare nelle piantagioni, i Colonialisti hanno importato un sacco di schiavi neri dall’Africa. Da ultimi sono arrivati anche i nordamericani, che hanno “comperato” una parte delle Isole Vergini dai Danesi, all’inizio del ‘900, per 25 milioni di dollari… Ecco spiegata la varietà pazzesca di lingue che si parlano ai Carabi: il francese, lo spagnolo, l’inglese, l’olandese, il papiamento (spagnolo+portoghese), il creolo (inglese+francese+africano) e il patua (creolo+africano). Ed ecco spiegate le infinite varietà di colore di pelle, e anche – perché no – le diversità di carattere… A questo proposito azzardiamo una nota, magari politicamente scorretta, certamente discutibile, ma comunque condivisa da molti turisti: nelle Isole dove si parla spagnolo sembra di respirare una atmosfera più rilassata e accogliente. Dove si parla inglese si percepisce una maggiore tensione, sembra che resistano divisioni sociali più nette fra popolazione di colore e bianchi. Dove comanda ancora la Francia ci sono le contraddizioni tipiche dei territori d’oltremare, tipo Polinesia: i lati positivi innegabili sono però un notevole sviluppo e situazioni molto ben sostenute da finanziamenti e incentivi. Sono solo impressioni, naturalmente, ma supportate dalle diversità storiche delle varie Isole. E’ innegabile infatti che se tutti i coloni furono terribili, gli Spagnoli alla fine si son mischiati ai nativi e ai neri, i Francesi hanno patito ai primi del ‘800 una sorta di contraddittorio senso di colpa post-rivoluzionario, mentre gli Inglesi hanno sempre dato poca confidenza…

PIRATI & CORSARI

Molti di noi hanno cominciato a conoscere questi posti col nome di Mar delle Antille, descritti nei romanzi di avventura dei Pirati e dei Corsari, magari di Emilio Salgàri. Ma al di là della letteratura, ancora una volta è la storia a spiegare cosa è successo: in realtà, nel ‘600, per contrastare la flotta spagnola, Inglesi e Francesi e Olandesi hanno “autorizzato” gli equipaggi dei Corsari ad attaccare i galeoni ispanici. Dopodichè, finita la Guerra di Corsa vera e propria, i distinti Corsari non hanno smesso, ma si son messi in proprio, e sono diventati i sanguinari Pirati. Con la grave crisi economica pre-globalizzazione dei primi del ‘700, un sacco di gente (marinai, coloni) è rimasta senza risorse, e i Pirati sono diventati tanti e cattivi. Del resto un’altra crisi economica, questa volta della seconda metà ottocento, ha determinato l’assetto economico attuale delle isole: prima c’erano i latifondi di canna da zucchero, coltivati dagli schiavi; poi negli Stati Uniti e in Europa hanno cominciato a coltivare la barbabietola da zucchero, la schiavitù man mano è stata abolita, ed ecco serviti i presupposti dell’attuale crisi di vocazione economica e produttiva di questi luoghi. Era rimasta la pesca, e poi è arrivato il turismo. A parte Haiti, che non a caso – anche prima del terremoto – da allora non si è mai ripresa economicamente ed è uno dei Paesi più poveri e disgraziati del mondo.

DOVE ANDARE

Le Isole – per quello che abbiamo detto fin qui – sono quindi tanti mondi separati e diversi. Ovviamente tutti belli e interessanti. Il mare è sempre meraviglioso, da vedere. Da praticare non sempre: qui infatti non siamo in Mediterraneo, e l’Oceano (soprattutto da est, quindi sulle coste orientate a oriente) spinge forte: non è raro vedere dall’alto una spiaggia meravigliosa e poi scendere e scoprire cartelli dove è severamente proibito bagnarsi, pena essere trascinati al largo da un’onda.

Le Virgin Island, nella parte indipendente, sono isole stupende e ricche, soprattutto grazie all’ultima risorsa che, assieme al turismo “alto”, le hanno rese “belle e impossibili”: la finanza. Di queste parliamo dopo. Poi ci sono le Bahamas, anche loro per turisti d’alto bordo, piene di alberghi, villaggi, golf club e neri piuttosto ruvidi coi turisti, dove per chi vola da e per gli USA c’è (almeno c’era) già la dogana americana. Saltando a Martinica: è l’Isola di Giuseppina Bonaparte (vedi la sua casa-museo). E’ l’isola del rhum, che deriva dalla parola “rhumdillo”, cioè il casino che combinavano i pirati ubriachi. Il rhum è una filosofia: andate nei vari musei-degustazione e vi divertirete. E’ anche l’isola della banana, che ha salvato gli agricoltori dopo la crisi della canna. A Saint Pierre c’è il Vulcano, che nel 1902 ebbe una eruzione disastrosa: è chiamata la Pompei dei Carabi e la visita è interessante, anche per i suoi aspetti storico-sociali: si sapeva che il vulcano sarebbe esploso di lì a poco, ma la cittadina non venne sgomberata perché l’indomani avrebbero dovuto tenersi le elezioni… A Martinica io-Syusy ho conosciuto una naturopata-sciamana-guaritrice (Fidelina) che mi ha curato con l’aloe. Negli scorci dell’isola (tra il tropicale e lo stile new-Engrand) ci hanno girato anche alcuni film di 007. E qui ci siamo appassionati alle storie (vere) dei Pirati Dubuc e La Grenade, che combatterono tra loro nelle mangrovia della costa…

BALENIERI & VACANZIERI

Poi c’è Santa Lucia, contesa da inglesi e francesi tanto che è passata di mano 14 volte nella sua storia, dove io-Patrizio sono andato per mercatini e mi sono imbarcato sulla Crociera, mentre io-Syusy facevo amicizia con gli abitanti del paesino di Soufriere e andavo a fare le terme naturali, create sulle solfatare del Vulcano. A St Lucia abbiamo partecipato ad alcune feste in strada, meravigliose, con musica e parate, in periodo di Carnevale. A Bequia c’è poco da coltivare, quindi sono da sempre pescatori: abbiamo conosciuto due famiglie scozzesi che ancora praticano (a scopo “culturale” e controllato) la pesca tradizionale alla balena. Noi abbiamo avuto il piacere di parlare con Olivier, che ora dovrebbe avere quasi 90 anni, che era il decano dei balenieri e ci ha raccontato la storia di questa pratica, ora divenuta inutile e odiosa: una sorta di Achab, vero… A Bequia abbiamo trovato Fabio, un vicentino rasta, che ci ha accompagnato in giro raccontandoci l’Isola, e che ci ha presentato Brother King, che cura le tartarughe. E che ci ha mostrato i cedri, che gli inglesi hanno piantato per costruire le navi. Ma Bequia ormai è un angolo di mondo globale: c’è il villaggio degli architetti-ecologisti, e uno dei migliori ristoranti era gestito da una svedese. Palm Island invece è ciò che rimane del mito della Frontiera, cioè della Terra Libera e selvaggia: infatti qualche lustro fa un americano, John Caldwell, l’ha colonizzata e trasformata nel suo privato Paradiso. Ma ormai pare che di isole disabitate non ce ne siano più. Certo non è disabitata Moustique, che vorrebbe dire moscerino. Nonostante questa fama non usurpata di Isola delle zanzare, ci stanno i VIP: ci sono le case delle star di Hollywood, che arrivano qui magari direttamente da New York con l’idrovolante privato. Mike Jagger non ci ha ricevuto, in compenso noi abbiamo fatto amicizia con i camerieri delle ville, abbiamo visitato il loro villaggetto e abbiamo mangiato aragosta a buon mercato (io-Syusy no, perché sono contraria al consumo di aragoste, che di questo passo saranno estinte).

Teoricamente Carabi significano anche Santo Domingo e Cuba, ma per raccontarle ci vorrebbe un intero numero della nostra rivista: magari lo faremo in una prossima occasione. Ma ora, per parlarvi in modo magari minimalista del viaggio in altre isole (Antigua,Tortola ecc) prendo la parola io-Patrizio, proponendovi dei brani del mio diario di bordo, quando son tornato ai Carabi con Adriatica. Tra l’altro sono stato, “per Caso” ad Haiti…

DURANTE IL GIRO DEL MONDO

Eravamo partiti da Gibilterra il 4 febbraio, con il mio amico Cristoforo (letterato-classico) che citava Dante, che a sua volta citava Omero, che a sua volta faceva parlare Ulisse nell’atto di passare le Colonne D’Ercole: “fatti non fummo per viver come bruti ecc”. Il nostro equipaggio (Marco, Vanni e Marianna) aveva in Cino Ricci il proprio santo protettore: che però non ha potuto evitare un’onda anomala che ci è arrivata nel pozzetto e quindi in una cabina, bagnando la nostra attrezzatura tecnica e di montaggio. L’incidente ci aveva costretto a tornare alle Canarie, dove Giacomo, Giovanni e Paolino (i tecnici-cameramen-montatori) avevano dovuto rimettere tutto in sesto. Con una settimana di ritardo avevamo quindi affrontato la traversata dell’Atlantico: 18 giorni per circa 6.000 chilometri di mare aperto. I primi 3 li ho passati in cuccetta, col mal di mare, poi mi è passato. Durante la traversata: qualche “groppo” (temporale), un po’ di vento strano (l’aliseo che ha soffiato da sud-est quando avrebbe dovuto soffiare da nord-est e viceversa), l’incontro con una tartaruga, con una barca di pensionati americani che tornavano a casa spaventati dal terrorismo a cui abbiamo regalato del Parmigiano, e una quasi-collisione con il relitto (inquietante) di un catamarano e Cino che ha pescato un sacco di dorados, lampughe e qualche tonnetto. Poi siamo arrivati ai Carabi! Quelle che seguono sono delle note scarne, che avevo scritto per il sito velistipercaso. Per caso ci siamo fermati in una isoletta sulla costa di Haiti. E quelle poche note di viaggio, allora piuttosto superficiali, ora suonano in modo più drammatico.

APPUNTI DAL DIARIO DI BORDO DI ADRIATICA

Antigua, Caraibi, Sabato 2 Marzo 2002, ore 08:00 Oh… Sulla terraferma! Antigua, primo giorno a terra dopo la traversata atlantica. Sono partito dall’Europa, sono arrivato in America: dovrei essere dunque in un “altro” mondo, o no? Invece sto per scendere a terra e mi ferma un italiano, un simpatico farmacista toscano che ha mollato tutto ed è venuto qui, e mi racconta in due minuti la sua vita. Faccio pochi metri in banchina e incontro 9 reggiani, che hanno noleggiato un catamarano e sono qui in vacanza. Faccio altri due metri e incontro il gestore del Bar del porticciolo, italiano anche lui. Poi, seduto al bar, saluto una ragazza italiana, che lavora ad un ristorante italiano. Il padrone del ristorante si scopre che è un velista amico di Cino Ricci. Cosa si fa dopo una traversata di 18 giorni in mare, senza toccare terra? Ci si lava, ci si rade. Poi si fa il giro dei negozietti ad acquistare delle cazzatine che magari ci sono mancate. La cosa che ho apprezzato di più è stata un bicchiere d’acqua minerale gassata con una fettina di limone, dopo un bel po’ di giorni di acqua potabilizzata con l’amukina. Antigua, Caraibi,

Domenica 3 Marzo 2002, ore 08:00 E’ strano ma quando arrivi in un posto via mare, le cose si vedono in modo diverso. Ti senti meno obbligato a capire e vedere tutto, in termini turistici. Oggi siamo andati, io, Cino, Cristoforo e Paolino, in canotto, a girare una scena su una spiaggetta: la ricostruzione parodistica dello sbarco di Colombo. E, finito il lavoro, mi sono gustato il mio primo bagno ai Caraibi. Poi, finalmente, sono uscito dal porto, a piedi, e sono andato a vedere questo famoso English Harbour, la base navale inglese che alla fine del 1700 fece la differenza fra la flotta di Nelson e le altre potenze europee coloniali. Hanno ricostruito tutto il vecchio arsenale. Sembra un angolo di vecchia Inghilterra. Non è male, soprattutto perché dentro al contesto storico hanno impiantato attività economiche attuali, vere, ancora legate alla risorsa fondamentale del luogo, cioè la navigazione e le navi. Per esempio, dentro ad un vecchio magazzino di Nelson, c’è una moderna veleria. Dove, tra l’altro, dovremmo farci riparare il fiocco che si è tagliato strofinando sulla crocetta. E magari farci fare anche un bel tendalino contro il sole tropicale, che buca il cranio…

Antigua, Caraibi, Domenica 3 Marzo 2002, ore 22:00 La sera Antigua sembra un pochino una Alabama-on-the-beach, coi neri ciondoloni ma belli e simpatici, i bianchi un po’ fighetti vestiti da yacht-men. Molti macchinoni americani, fuoristrada. Le casette di legno, belle, colorate, con le verande. Le palme. Di sera c’è abbastanza vita. Vicino al porticciolo c’è un locale-ristorante-balera gestito da due simpaticissimi napoletani, l’Abracadabra. I napoletani sanno interpretare sempre al meglio le potenzialità dei vari posti in cui emigrano, ma sui Caraibi sono imbattibili: mischiano rilassamento e arguzia, simpatia ed estetica. E si mangia bene.

Antigua, Caraibi, Martedì 5 Marzo 2002, ore 09:00 Ieri sera qui ad Antigua ho conosciuto Cesare Cremonini e Ballo, i musicisti ex-Lunapop, quelli che hanno avuto un successo strepitoso con la canzone sulla Vespa, che sono arrivati con il loro produttore Walter… Mi hanno fatto subito una impressione allegra e positiva. Sono arrivati puntuali in banchina con… tre magnifiche valigie rigide! La classica gaffe del neofita. Ci abbiamo riso su, loro per primi. Siamo andati a mangiare dai nostri amici napoletani dell’Abracadabra, che ci hanno fatto un sacco di feste e ci hanno fatto mangiare benissimo, all’italiana. Meno male che ci hanno anche offerto la cena: Antigua è cara, un ghiacciolo costa un euro, un arancio un dollaro. Siamo salpati verso le 11. Cesare è un ragazzone alto alto, molto ironico. Alterna discorsi scazzati a discorsi molto seri. Ballo è un ragazzino biondino, magro e saltellante, vulcanico, con i capelli da rasta e il pizzetto. Comunica una istintiva simpatia, da folletto. Cesare e Ballo hanno 19 anni! Walter, il loro complice-manager-produttore artistico sembra quasi un loro coetaneo, in realtà ha quasi la mia età. E’ riservato ma sorridente, molto mite. A me interessano moltissimo questi nuovi compagni di viaggio. All’inizio, quando non li conoscevo, come immagino quasi tutti i 40-50enni post-ideologici gucciniani, li ho molto snobbati. Poi Zoe mi ha cantato tutte le loro canzoni. Io sono arrivato ad una strana età (48). Solo da poco sento distintamente la presenza di un’altra generazione dopo la mia. A quelli che hanno 10 o 15 anni di meno di me non ho, finora, riconosciuto quella originalità, quella diversità, quella capacità di costruire qualcosa di definitivamente nuovo che contraddistingue una generazione dall’altra. Sì, per carità: gli attuali 30enni ne hanno fate di cose, da internet a Jovanotti. Però… non me ne vogliano… ma me li son sempre sentiti (generazionalmente parlando) in qualche modo a rimorchio. Invece, con uno di 19 anni, senti che per forza DEVE essere diverso. E il diverso è sinonimo di curiosità…

Tortola, Caraibi, Mercoledì 6 Marzo 2002, ore 09:00 Tutto bene con i ragazzi a bordo. Solo Walter ha avuto bisogno di un cerottino anti-maldimare. Walter e Ballo hanno dormito fuori, in pozzetto, perché forse sottocoperta ancora gli fa una certa qual impressione claustrofobica. Cesare e Ballo continuano a fare le loro domande, ad ascoltare la loro musica preferita (ritmi sperimentali post-pop californiani, roba strana ma bella, sofisticata e vagamente rocchettara). Purtroppo ancora una volta ci tradisce il vento, che non c’è. Si va a motore, il che non facilita lo sbocciare dell’amore per la vela. Comunque siamo arrivati a Tortola a metà mattinata. Abbiamo cercato di arrivare in porto ma Adriatica, col suo pescaggio esagerato di 3,80, si è subito insabbiata… Ci siamo dovuti fermare in rada e scendere col canotto. Ci aspettava Federica, un’amica del nostro amico Cristoforo, che dall’Italia è venuta qui in vacanza in barca 6 o 7 anni fa, si è innamorata di Aragon, figlio di inglesi ma nato alle Isole Vergini, con cui ha fatto due figli. Federica e altri amici suoi ci hanno portato innanzitutto in cima all’isola, sul cassone di un pick-up, in un punto in cui si vedono praticamente tutte le Isole Vergini. Alcune sono statunitensi, altre (come Tortola, appunto) sono ex colonie inglesi indipendenti, e fanno parte del Commonwealth anche se la moneta è il dollaro americano. Fatto sta che sono bellissime, tenute molto bene e molto care. Dall’alto le spiagge e i coralli avevano un aspetto magnifico. Peccato non avere più tempo per starci, in barca.

Tortola, Caraibi, Mercoledì 6 Marzo 2002, ore 22:00 Bisogna ripartire presto, per incontrare Syusy e Zoe che ci aspettano a Cuba. Comunque Federica (gentilissima, molto ospitale e affascinante) ci ha portato in giro per l’isola: pranzo a base di fish-burger anglosassoni in un chiosco decisamente caraibico, con vista su spiaggia bianca e mare azzurro, poi bagnetto in un’altra baietta. Ma, soprattutto, Federica ci ha portato a conoscere un amico di suo marito, un rasta, di nome Shalom. Se esiste il mito dell’uomo selvaggio, del guru che vive in sintonia con la natura, lo abbiamo ri-conosciuto in Shalom! Abita sotto una tettoia, appoggiata al rudere di una vecchia costruzione del 1700 (forse la più antica dell’isola). Coltiva cocco, arance e ananas. Gli hanno tagliato i capelli in prigione dove è stato tre mesi per questioni di hascish. Questa di rapare i rasta per offendere la loro identità è una mostruosità di cui avevo già sentito parlare a Santa Lucia, sempre nei Caraibi. Ballo e Shalom si sono subito guardati con simpatia. Il nostro amico rasta-di-Rastignano (comune in provincia di Bologna) si è subito fatto benvolere dal rasta-doc-caraibico, che lo ha preso per mio figlio (!).

Tortola, Caraibi, Giovedì 7 Marzo 2002, ore 09:00 Scampoli di vita vissuta dall’equipaggio di Adriatica a Tortola, nelle Isole Vergini. Dimenticavo di raccontarvi l’incontro con una barca blu, piena di scritte sul salvataggio dei cetacei, e sui delfini. A bordo ci stanno Enrica Fornero e Marco Mayer, lei di Torino e lui di Milano. L’organizzazione per cui lavorano sichiama Delphinia Sea Conservation (www.delphinia.org). Curano un censimento dei cetacei, li studiano, fanno una mappatura delle loro abitudini, organizzano iniziative didattiche con i bambini e, soprattutto, cercano di combattere la tendenza dei vari Stati Caraibici a schierarsi con i Giapponesi, a favore della caccia alle balene. Ci hanno accolto con simpatia sulla loro bella barca, sulla quale abitano. E ci hanno fatto vedere un sacco di filmati stupefacenti sulle balene. Alcune specie rischiano l’estinzione, decimate dall’inquinamento, dalle collisioni con grosse navi e anche dalla pesca. Poi Federica, l’amica italiana che abita a Tortola, ci ha portato nel laboratorio artistico suo e di suo marito Aragon. Davanti, sulla spiaggia, c’è una grossa e strana barcona, praticamente una canoa, che si chiama Gli Gli: vuol dire rapace, aquila, in lingua Caribe. Federica ci ha raccontato l’avventura promossa da Aragon e da un altro suo amico artista, di razza Caribe: hanno ricostruito con l’aiuto di alcuni vecchi maestri d’ascia locali una imbarcazione uguale a quelle che hanno usato i Caribi, 2 o 300 anni fa, per arrivare nei Carabi dall’America del Sud. Infatti, questo antico popolo indomabile prese le mosse dalle foci dell’Orinoco e raggiunse queste isole, dove abitavano gli Arawak, di cui ebbero ben presto ragione e coi quali si mischiarono. I conquistatori europei (spagnoli in particolare) non riuscirono mai ad assoggettare i Caribi, riuscirono solo a massacrarli. Eppure,ancora oggi, esistono alcune migliaia di discendenti degli antici Caribi, soprattutto a Dominica. Aragon ha organizzato la spedizione di Gli Gli per andarli a visitare e conoscere, per coinvolgerli, per raccoglierli attorno ad un simbolo. E, con questa canoa tradizionale che pesa tre tonnellate e sarà lunga una decina di metri, ha visitato tutte le isole, fino alle Granadine, poi è sceso giù fino alla foce dell’Orinoco, facendo praticamente il viaggio degli antichi conquistatori Caribi al contrario. Un’impresa piena di significati artistici, etnologici, storici e linguistici. Una sorta di Kon Tiki dei Caraibi. Un pellegrinaggio in onore delle identità, proprio in epoca di globalizzazione.

Tortola, Caraibi, Giovedì 7 Marzo 2002, ore 22:00 Alla sera, assieme a Federica, siamo andati all’aereoporto a prendere Aragon, che tornava appunto da Dominica , dove era andato a cercare un albero con cui fare una nuova canoa caribe. E’ come me l’immaginavo: un inglese biondo, faccia da matto in senso buono, molto simpatico, tipo affascinante. Mi ha fatto piacere conoscerlo, prima di ripartire da Tortola. Tortola è stata una sosta molto interessante, molto densa, soprattutto grazie a Federica e agli spunti che ci ha regalato.

Isola de la Vache (Haiti), Lunedì 11 Marzo 2002, ore 04:00 Mi sono svegliato prima dell’alba. Assieme alla prima luce (alba fosca, con nubi) è arrivata la terra: l’Isola de la Vache, l’isola della Vacca. Un’isoletta di Haiti. Siamo decisamente Velisti per Caso: all’inizio il nostro programma prevedeva una sosta ad Haiti. Avevamo anche contattato alcune persone, rappresentanti di Organizzazioni Non Governative che lavorano su questa che è la terra più povera del mondo. Poi, per un’avaria (la famosa onda che ci è entrata alle Canarie) abbiamo dovuto abbandonare il progetto a causa del ritardo accumulato. Oggi, sempre a causa di una avaria, stiamo per attraccare ad Haiti, anche se non si tratta della capitale, Port au Prince, ma di una sperduta isoletta. Marco deve assolutamente verificare cosa è successo all’avvolgifiocco, che non funziona più. Io, alle 4, che in Italia sono le 9, ho nel frattempo telefonato in Italia a Michela, la nostra preziosissima basista, che ha a sua volta allertato la ditta produttrice. Luciano, il responsabile, mi ha richiamato immediatamente, e ha dato assistenza telefonica a Marco, per studiare una riparazione di fortuna e vedere i danni. La prima diagnosi è stata questa: all’atto del montaggio, semplicemente, non erano stati ben stretti alcuni bulloni… Una dimenticanza banale, forse per la fretta, tenuto conto che la nostra barca è stata fatta a tempo di record. Ma ora, coi bulloni spezzati, si tratta di rifare e rifilettare i buchi sul cilindro dell’avvolgitore.Isola de la

Vache (Haiti), Lunedì 11 Marzo 2002, ore 07:00 Dopo aver fatto la mia parte da un punto di vista organizzativo (al resto pensa Marco) mi guardo finalmente intorno… L’alba caraibica è spettacolare. Quella vicino ai villaggi, in particolare. Cominciano i galli, a cantare a squarcia-bargigli: uno, due, tre, trecento galli. Poi si comincia a vedere del fumo, tra le palme: si accendono i fuochi. Poi, pian piano (molto piano) compaiono i primi esseri umani: gente che cammina sulla spiaggia, le prime barche di pescatori, le più “belle” barche che io abbia mai visto. Sono fatte di pezzi di legno, con vele di plastica fatti con i sacchi di spazzatura incollati, oppure sono vele-arlecchino fatte di mille pezze di stoffa diversa. Hanno la vela latina. Sono barche come quelle che potrebbero costruirsi dei ragazzini di 10 anni, sono barche da storia fantastica di naufraghi. Ma navigano, eccome. Approfittando del vento costante (che in particolare in questa grande baia, sia per allontanarsi da terra che per tornarci, soffia al traverso), queste barchette navigano veloci, con i timonieri dritti a poppa, da una parte, come i gondolieri veneziani, per bilanciare. Dopo il risveglio della baia, uno alla volta, hanno cominciato a ronzare attorno ad Adriatica, con le canoe scavate nei tronchi (storti). Adriatica è stata letteralmente (e benevolmente) presa d’assalto da una venditori di qualunque cosa: aragoste, sigarette, pesce, banane, meloni ecc. La nostra riserva di birre e di biscotti è stata ancora una volta pesantemente alleggerita, e anche quella dei dollari spicci. In compenso abbiamo guadagnato un basco di bananine dolcissime e qualche aragosta. Intanto il mare attorno all’isola, coperta di cocchi con qualche squarcio di prato, si è animato anche di barche da pesca, vecchissime, spesso ricavate da tronchi, spinte da attrezzature di bambù e da vele (letteralmente) ricavate da sacchi neri per la spazzatura. Altro che gennacher… Siamo saliti sulla barca di Raoul e di Virgilio, aria da boss, due colossi neri dall’aria molto sicura di sé, un barcone di plasticona spinto da un 25 cavalli. Tenendo presente quel che ho letto su Haiti, all’inizio ero un po’ preoccupato, al momento in cui io, Paolo, Walter, Ballo e Cesare ci siamo affidati a loro (le tragiche violenze e gli eccessi degli scontri politici Haitiani). Ma poi, durante i 25 minuti di traversata fino al villaggio, mi sono rilassato.

Isola de la Vache (Haiti), Lunedì 11 Marzo 2002, ore 09:00 Giorno di mercato. Almeno un terzo dei 12.000 abitanti dell’isola sono riuniti assieme. Africa. Barche di legno, decrepite. Capre, maiali. Bancarelle con riso, zucchero, banane. Donne nere, vestite di colori africani. Ristorantini (una pentola e un ombrello) dove si friggono interiora, pollo, polpette non meglio identificate. Altri negozietti ambulanti con tre saponette e un paio di mutande da donna. E voci, sorrisi, gente che ci accetta con curiosità e con naturalezza, anche se siamo gli unici bianchi in assoluto. Chi non è arrivato al mercato in barca, arriva a dorso d’asino o di cavallo. E’ Ballo a notare una cosa evidente eppure strana, ormai, su questo Pianeta: “Non c’è una macchina!” Niente auto, niente luce, niente di quelle infra-sovra-strutture sulle quali viaggia la globalizzazione. Parlo con Virgilio: “Come si sta qui?” “Meglio qui che nella Capitale di Haiti, dove c’è delinquenza e fame. Ma anche qui la gente ha problemi: non c’è acqua, non c’è lavoro” “La gente è povera, eppure non è disperata qui sull’isola” mi dice Mister Fat, un anziano canadese del Quebec con barba e codino. “Cosa fa qui?” “Sono pensionato, passo qui 5 mesi all’anno, quando in Quebec è inverno, collaboro con le Suore Francescane”. Ci porta dalle Suore, che gestiscono anche le scuole. Una piccola ma tostissima francescana Belga mi offre una analisi della situazione economica e politica di Haiti molto radicale: mi racconta che qui la povertà è assoluta, ed è tutta colpa della globalizzazione, della dollarizzazione e delle leggi del mercato: i prezzi delle materie prime vengono decisi a Wall Street, e non hanno senso per una comunità come questa, che non ha niente. Che Guevara non l’avrebbe detto meglio, e con altrettanta decisione…

Isola de la Vache (Haiti), Lunedì 11 Marzo 2002, ore 22:00 Alla sera torniamo su Adriatica. Marco e Vanni, con l’assistenza telefonica satellitare di Luciano ha aggiustato l’avvolgifiocco. Non ne dubitavo! Prima della cena a base di aragoste acquistate (a caro prezzo, ma va bene lo stesso, dai pescatori haitiani) un’altra sorpresa piacevole: la visita di Gerald Maugendre (gmaugendre@yahoo.fr), capitano del Plenitude, una barca di circa 10 metri con la quale sta facendo il giro del mondo in solitario. Ex ingegnere in pensione. Ha deciso di partire dopo la morte della moglie, tre anni fa. Peccato che, scendendo dalla sua barca, io prenda una seria distorsione alla caviglia, che adesso mi mette ko, coricato e immobile. Ci mancava anche questa…

Isola de la Vache (Haiti), Martedì 12 Marzo 2002, ore 09:00 Ancorati in baia all’Isola de la Vache, Haiti. Marianna mi ha dato gli ultimi cubetti di ghiaccio da mettere sulla caviglia slogata. Poi, finito il ghiaccio, mi ha applicato uno zucchino surgelato. Una volta scongelato lo zucchino, mi son fatto un impacco di minestrone-surgelato. E, alla fine, il peggio è stato evitato. Sono gonfio, dolorante, ma mi muovo. E, con 24 ore di immobilità, dovrei essere quasi a posto. Salpiamo per Cuba.

Patrizio