Bali, isola dell’armonia

Un luogo pacifico e leggiadro, ma anche un luogo martoriato dalla Storia, passata e recente…
Patrizio Roversi, 03 Nov 2010
bali, isola dell'armonia
Ascolta i podcast
 
Alfred Russel Wallace (lo scienziato inglese che ha elaborato la teoria dell’Evoluzione assieme a Darwin) ha stabilito una linea biologico-naturalistica immaginaria che separa l’Oceania dall’Asia, e questa linea passa proprio per Bali. E infatti Bali è un po’ India e un po’ Polinesia. Gli odori e i profumi di Bali sono un po’ come l’odore dell’India, ma più dolci e meno forti, più accessibili e rassicuranti. Perché Bali è anche l’incontro fra Oriente e Occidente, nel senso che rappresenta da almeno due o tre secoli l’idea di esotismo coloniale, culturale ed estetico, coltivato da noi Europei. Per questo Bali resta una delle mete più ambite, per i viaggiatori di antica tradizione e per i turisti di oggi. Quando sono arrivato a Bali (nel 2003-2004) ho incontrato molti italiani – stilisti, architetti, designer, artisti – che vivevano là per trarre ispirazione dalla bellezza del luogo, dalla sua storia e dalla sua estetica. Soprattutto Bali è il luogo in cui riescono a realizzare le loro intuizioni: è un posto meraviglioso per dipingere, fare musica, studiare la danza e la cultura, far realizzare dagli artigiani più bravi del mondo i propri tessuti o mobili. Secondo Ralph (uno di questi amici) Bali è il posto più bello che esista, e non si fa fatica a credergli e a prendere alla lettera questa sua affermazione: Bali è un luogo pacifico e leggiadro, dove regna un’armonia indefinibile. Naturalmente, per la legge degli opposti, Bali è anche un luogo martoriato dalla Storia, passata e recente, che val la pena di ripassare…

STORIA antica e recente

Bali ha una storia antichissima e tradizioni ben radicate: le prime tracce di popolazioni indù risalgono al primo secolo dopo Cristo, i primi documenti in sanscrito risalgono al 900 d.C., e a quel tempo risalgono anche le prime opere di idraulica che hanno trasformato l’agricoltura dell’isola (le famose risaie). Nel 1500 arrivano i Mussulmani, scoppiano i primi conflitti religiosi e molti balinesi sono costretti ad emigrare. Gli Olandesi hanno cominciato ad arrivare all’inizio del 1600, e a metà dell’800 hanno assunto definitivamente il controllo dell’Isola. Il puputan è stato una sorta di suicidio collettivo simbolico dei balinesi che si sono scagliati praticamente disarmati contro l’esercito olandese, quasi a ribadire che i colonialisti avrebbero potuto facilmente aver ragione dei loro corpi, ma non del loro spirito. E sono morti a migliaia, pare in 4.000. Tanto per gradire, e per capire qual è il loro carattere, e cosa nasconde in realtà la loro apparente mitezza… Durante la seconda guerra mondiale Bali è occupata dai Giapponesi, contro i quali si organizza una vera e propria Resistenza. Poi, dopo la guerra, i Balinesi usano le armi abbandonate dai Giapponesi per opporsi agli Olandesi, che nel frattempo erano tornati. Nel 1949 i Paesi Bassi riconoscono a Bali l’autonomia e nel 1956 Bali, tra Olanda e Indonesia, sceglie di appartenere a quest’ultima. (E chissà se ha fatto la scelta migliore…).

LA SICUREZZA

Bali resta comunque un’Isola felice nel senso letterale del termine. La maggioranza schiacciante della popolazione è induista, non ci sono conflitti religiosi. Agricoltura, artigianato e soprattutto il turismo le regalano un minimo di agio economico, finchè il 12 ottobre del 2002 un attentato di estremisti islamici non uccide più di 200 persone, in maggioranza turisti (la prima delle due bombe scoppia in un locale riservato agli Occidentali). Io ci sono andato un anno dopo, quando l’Isola si stava pian piano riprendendo, ma il primo ottobre 2005 c’è stato un altro attentato terroristico, con altre decine di morti. Bali ovviamente non ha nulla a che fare con questi contrasti religiosi, paga la sua diversità e – paradossalmente – la sua estraneità ai conflitti. Il sito della Farnesina www.viaggiaresicuri.it raccomanda prudenza in generale in Indonesia, ma Bali resta un luogo del tutto pacifico, dove ora le autorità locali sono attentissime alla sicurezza. In pratica, io se oggi potessi tornarci, mi registrerei al sito www.dovesiamonelmondo.it per maggior tranquillità, e poi ci andrei ben volentieri…

La porta dell’isola

La capitale di Bali è Denpasar, ma i turisti in realtà arrivano a Kuta, che come “porta dell’Isola” non è significativa, e può trarre in inganno. Infatti sembra una specie di Rimini, piena di alberghi e locali, piena di negozi che vendono i marchi degli stilisti italiani (falsi), piena di gente e di traffico. A ben vedere anche Kuta però in fondo è un bel posto, dove la gente fa surf sulla spiaggia (dove ci si può anche fare massaggiare) o frequenta locali e ristorantini interessanti. Anche a Kuta, che è appunto il posto più occidentalizzato e turistico, non vi può sfuggire la particolarità dell’isola: per esempio io mi sono stupito della gran quantità di cestini e di vassoi pieni di offerte votive (fiori, frutta, candele) che i balinesi offrono cento volte al giorno ad altrettante divinità, che proteggono ogni loro gesto quotidiano. E’ l’incanto estetico e psicologico della religione induista, che pervade di serenità ogni cosa. E Kuta, anche se non rende affatto l’idea dell’incanto dell’Isola, resta un ottimo punto di partenza logistico per esplorare il resto di Bali, e un luogo di incontro dove fare amicizia. Kuta sta a Bali come Papetee sta a Tahiti e alla Polinesia Francese, o come Varadero sta a L’Avana a Cuba. A Kuta Giancarlo e Gabriella mi hanno presentato Visnu, la guida meravigliosa che mi ha poi accompagnato per l’Isola, e anche molti altri amici italiani…

Medicina complementare

…per esempio Pino, console onorario a Kuta, che mi ha accompagnato a visitare i dintorni della città, e a visitare i Templi con la porta tradizionale, che rappresenta una montagna spaccata e divisa in due, simbolo della conoscenza che si apre. Poi mi ha mostrato l’antico Palazzo del Rajà, magnifico nei suoi contrasti tra il rosso dei mattoni, il grigio delle statue e il verde dei prati. Quindi ho conosciuto Mario, il gestore di Pizza Jazz (dove le pizze sono filologiche, cioè sembrano fatte in Italia) che mi ha accompagnato dal suo dukun, il fisioterapista tradizionale, il “dottor” Pasirkus, che riceve nella sua casetta di campagna, con i polli che razzolano in giardino, e non si fa pagare. E’ una sorta di osteopata-olistico: io mi son fatto curare una storta ad una caviglia. Lui mi ha detto che il mio problema non era la caviglia, ma la schiena, che è sbilanciata dalla… pancia. E, ridendo e scherzando, mentre mi raccontava delle storielle divertenti, mi ha raddrizzato (dolorosamente), consigliandomi di mangiare meno, stressarmi di meno e muovermi di più… Come diceva Terzani, queste non si dovrebbero considerare “medicine alternative”, bensì complementari alla nostra.

In udienza dal Re di Bali

Mi hanno presentato anche Sri, una magnifica signora balinese di nobili origini, sposata due volte con altrettanti occidentali, che ha ottenuto per noi addirittura una udienza col Re, a palazzo! Prima però siamo passati da un negozio di abbigliamento, in cui mi ha comprato un vestito “decente”, cioè un sarong, la gonna tradizionale, con tanto di cintura (che separa simbolicamente la parte pura da quella impura del corpo). Ho insistito per tenere sotto alla gonna i pantaloni, ma non c’è stato nulla da fare, non sta bene. Per cui durante tutta l’udienza ho temuto di restare in mutande davanti a Sua Maestà Giocotra Pudra, che in realtà sarebbe il figlio dell’ultimo Re che ha effettivamente regnato fino al ‘56. Per fortuna si deve stare seduti, col Re collocato a Nord, verso la montagna, in quanto persona più importante. Abbiamo dovuto naturalmente fare una mezz’ora di anticamera, nel cortile della grande casa reale, fatta di padiglioni diversi sparsi in un bellissimo giardino. Mentre il re era in udienza e amministrava la giustizia, la sua famiglia guardava la TV in cucina. Poi il re ci ha ricevuti. In teoria Bali fa parte della Repubblica Indonesiana, però il Re gode ancora di molto prestigio, ed esercita un certo potere di fatto. Poi, tanto per avere una legittimazione ufficiale, è anche deputato democraticamente eletto. Mi ha spiegato che la società balinese è divisa rigidamente in caste (bramini, nobili, commercianti e contadini) che si esprimono ancora con linguaggi diversi: se ci si rivolge ad uno sconosciuto si comincia per precauzione a parlare con la lingua alta, salvo poi abbassare il livello se si scopre che si tratta di una persona di casta inferiore. La società balinese è legatissima alla tradizione, soprattutto alla struttura familiare patriarcale. Non a caso Sri ha sposato solo uomini occidentali…

IL GAMELAN

Il mio carissimo amico Andrea Centazzo, un musicista di calibro internazionale, attivo in Italia ma soprattutto negli USA, mi ha accompagnato in un bengiar, il luogo in cui si riunisce la comunità, nel villaggio di Peliatan, a conoscere Dewa, un musicista balinese che stava provando col suo Gamelan, l’orchestra tradizionale fatta di percussioni, campane, martelli, gong, xilofoni e vibrafoni metallici. La musica balinese ha influenzato anche autori come Debussy e Ravel. Centazzo è entusiasta di questo universo sonoro tradizionale ricchissimo, che conta quasi 150 forme musicali diverse. Il direttore suona il kempur, il gong-tamburo, che con le altre percussioni guida il resto del gruppo. L’armonia che esce è meravigliosa, e si accompagna inevitabilmente alla danza e al teatro. E’ incredibile il rapporto di Bali con le sue tradizioni: noi occidentali siamo soliti innovare e cancellare il passato, altri popoli (ad esempio i Giapponesi) sono viceversa legati alla ripetizione filologica della tradizione (nel teatro così come in architettura), mentre a Bali la tradizione è semplicemente viva e vegeta. Nel senso che viene rispettata e nel contempo innovata, è ancora un processo antichissimo eppure in evoluzione. Centazzo (che con i balinesi ha composto e suonato, a Bali e in giro per il mondo) ci ha per esempio portato a vedere uno spettacolo di Dewa. Partendo da un testo tradizionale in sanscrito, tratto dal Mahabarata, questo giovane artista ha dato vita ad un lavoro di ricerca assolutamente innovativo, eppure tradizionale. Ho visto uno spettacolo letteralmente multimediale, con le classiche ombre usate assieme agli attori, alle luci, alle proiezioni, alle immancabili maschere, al teatro d’animazione (marionette), con il contrappunto musicale dal vivo del Gamelan. La musica e il teatro balinese valgono un viaggio!

…E LE GONG

Con Centazzo e Dewa ci siamo poi diretti al Villaggio di Pengosecam. Dopo una merendina a base di tempè (una specie di piadina, fritta, con patate dolci e banane) siamo andati nella casa (grandissima, bellissima, tradizionale) del padre di Dewa, che a sua volta era un famoso artista. C’erano le prove di uno spettacolo di danza Le Gong. Che però non cominciavano mai, perché una delle danzatrici si era persa. Poi ho capito: si trattava di una bimba di otto anni, che era scappata a giocare nella risaia. La danza Le Gong infatti è riservata alle bambine piccole, che rappresentano la bellezza e la purezza, e interpretano appunto le “ninfe del Paradiso”. Il trucco e la vestizione durano ore. Confesso un attimo di disagio a vedere delle bambine danzare, ma questo pregiudizio tutto occidentale è durato poco: i costumi sono meravigliasi (vere e proprie sculture), i gesti stilizzati, codificati, ieratici. La musica del classico Gamelan, col suo esplodere e vibrare di “pentole” e campane percosse da martelli e martelletti, ha segnato ad un certo punto l’ingresso del Barong, il mostro, la maschera più famosa di Bali, che come una sorta di dragone cinese ha fatto irruzione in mezzo alle danzatrici. Produrre e allestire spettacoli come questi è complicato e costoso. Una volta era la corte del re e dei nobili a sostenere questa forma culturale. Ora queste professioni artistiche si tengono ancora vive grazie al turismo.

INQUINAMENTO TURISTICO

Cristina – antropologa e artista che dagli anni ’70 ha viaggiato in Oriente per studiare il katakali e poi è arrivata a Bali spinta dalle suggestioni culturali del libro “Il teatro e il suo doppio” di Artaud – sostiene che a Bali, per colpa del turismo, si sta rovinando una atmosfera culturale originale. Gli spettacoli tradizionali sono stati semplificati e accorciati per essere “potabili” da parte dei turisti. Cristina viceversa realizza spettacoli di Topeng, una danza religiosa, con esibizioni codificate che durano anche tre ore: lo spettacolo che ho visto aveva come protagonista il re cattivo Dalabunkut, che vuole tutte le donne, e il principe buono Gelantik, che vince grazie a sua moglie Aiukaler che gli dona il kriss magico. Cristina coltiva e tiene viva una danza che ha 500 anni. Si usano maschere intere mute (che rappresentano i nobili) e mezze maschere (i popolani, che parlano e improvvisano anche con riferimenti satirici alla realtà presente, una sorta di commedia dell’arte comica). Anche qui però si dimostra la disponibilità di Bali alla novità e innovazione nella tradizione: il gruppo di Cristina è infatti composto da sole donne, quando le donne fino a pochi anni fa non potevano nemmeno esercitare quest’arte! Mondo (un artista italiano importante, che ha esposto alla Biennale), che abita a Bali da anni, mi ha confermato che questo binomio tradizione-innovazione si realizza anche nel campo dell’arte figurativa. Mi ha spiegato che la tecnica pittorica balinese, che lui studia e applica, è raffinatissima e complicata: un “sottrarre” e togliere a 27 diversi strati sovrapposti di colore. Ma Bali è anche trasgressione: la sua compagna Murni – pittrice balinese – ad esempio disegna e celebra la vagina, in contraddizione col Lingam tradizionale indù, il fallo. Non a caso qui a Bali negli anni ’30 c’è stata Margaret Mead, la grande antropologa femminista che Syusy ha studiato e ritrovato anche in Polinesia, e quindi si è sviluppata una corrente di intellettuali trasgressivi e anticonformisti. Ma oggi l’Islam incombe, e nuove leggi restrittive della Repubblica Indonesiana rischiano di vanificare i frutti di questa libertà.

LA FESTA DELL’ELEFANTE

La nostra guida Visnu mi ha portato a Ubud, a nord di Kuta, ad una festa religiosa indù, in onore dell’Elefante, quindi del Dio Ganesh e non solo. Una festa religiosa balinese autentica e tradizionale è uno spettacolo meraviglioso, fatto naturalmente di teatro e di musica, ma soprattutto di gente allegra, di offerte votive meravigliose: vere e proprie sculture di frutta, verdura, riso, fiori, pane e persino… polli arrosto incastonati in questi trionfi barocchi di dolci. Alla fine si mangia tutto. Immaginatevi il gusto siciliano per i carretti decorati e per i dolci, e moltiplicate per 100 volte… Naturalmente mentre si festeggia un Dio se ne celebrano molti altri: di fronte ad un gruppo di uomini che giocavano a carte, Visnu mi ha spiegato che non stavano semplicemente perdendo denaro, stavano religiosamente “sacrificando” al Dio del gioco d’azzardo! Ne ha comunque approfittato per distillarmi un po’ di etica religiosa popolare: i Balinesi hanno in pratica sei comandamenti, e cioè non uccidere / non ubriacarsi / non vantarsi / non arrabbiarsi / non rubare e non invidiare nessuno. Con Visnu sono andato anche al Tempio di Besakì, che è come San Pietro o la Mecca per cristiani e mussulmani. E’ il tempio più importante dedicato al Dio Sanianguidi, il Dio supremo, il Dio del Vulcano. E’ una vasta zona sacra, divisa in vari Templi, diversi per ogni casta. I turisti sono numerosi: i venditori parlano anche italiano. Visnu mi ha portato nel tempio della sua casta (la terza, quella dei Commercianti) a fare offerte a Brama (dall’altare coperto col parasole rosso), a Visnù (altare bianco) e Shiva (nero). Arriva il Bramino con l’acqua benedetta: tre volte si beve, una volta ci si cosparge la testa, poi mi applica il riso in fronte. Confesso che mi sono commosso: qui – grazie all’atmosfera e alla gentilezza del mio amico balinese – ho capito che tutti in fondo preghiamo per le stesse cose, sia pure in forme diverse.

Il Dio del mercato

Visnù ovviamente mi ha anche portato al mercato del suo villaggio. Prima di tutto siamo passati di fronte alla statua del Dio del Mercato, al quale ogni commerciante porta un’offerta per poter fare buoni affari. In un mercato, come al solito, si vedono e capiscono molte cose. Innanzitutto si vede quel che mangiano i Balinesi: pesce, frutta, un po’ di carne ma soprattutto riso, che si può consumare anche come colazione, servito su piatti fatti di foglie (come in India). Ma qui ci sono 6 qualità di riso di tre colori diversi: bianco, nero e rosso. Il riso rosso serve soprattutto per fare i dolci, che sono coloratissimi, e sono venduti assieme agli incensi al fior di frangipane. Quasi tutte le famiglie balinesi posseggono un piccolo appezzamento di risaia, che assicura la sussistenza. Uno stipendio medio a Bali è attorno ai 50 euro al mese, e molti balinesi per campare hanno un doppio lavoro. Eppure l’Isola gode di un relativo benessere, in confronto ad altre zone dell’Indonesia, grazie al turismo, che ora però purtroppo è in crisi. Comunque è qui al mercato che ho fatto mente locale sull’odore di Bali, che è appunto un odore simile a quello dell’India, ma più moderato, più gradevole, più accessibile alle nostre narici occidentali. Ancora una volta: Bali rappresenta al massimo grado la nostra idea di Oriente. Peccato che, alla fine, prevalga ormai sempre… l’odor di motorini. I motorini sono dappertutto, sono migliaia. E portano con sé odor di sviluppo, non sempre sostenibile.

Una risaia per tutti

Uscendo dalla città e dai villaggi il paesaggio di Bali, peraltro celebrato in mille cartoline, è davvero incredibile: mille tonalità di verde illuminano risaie ricavate con un continuo terrazzamento del terreno. Il rumore è quello del vento, che muove gli ingegnosissimi congegni che servono a tener lontani gli uccelli. I balinesi, appunto, sono quasi tutti contadini a mezzo tempo: la mattina coltivano il loro riso, che serve alla famiglia per mangiare, e al pomeriggio fanno un altro lavoro. L’appezzamento medio è di circa 5.000 metri quadrati, e ci mangia una famiglia di 4 o 5 persone. Percorrendo una stradina tra palme e risaie sono arrivato al villaggio di Ababi, che sembra uscito da un libro di Kipling, dove mi aspettava Cristina, un’altra italiana che passa molto tempo a Bali. Ma, per non sentirsi turista, ha adottato e si è fatta adottare (si fa per dire) da una famiglia di contadini balinesi. Quando siamo arrivati era in corso una cerimonia, officiata dal nonno e dallo zio, che non sono ovviamente bramini (essendo di casta bassa, cioè contadini), ma comunque sono i due membri della grande famiglia che conoscono le formule religiose in sanscrito, quindi sono in pratica i sacerdoti di casa. Visto che però, secondo i balinesi, il lavoro NON nobilita affatto l’uomo, chi si occupa di religione non può lavorare, e quindi è mantenuto dal resto dei parenti. Vicino al villaggio c’è il Palazzo del Rajà di Kirtaganga, una magnifica dimora in stile coloniale tutt’ora abitata, e dotata di una serie infinita e meravigliosa di piscine e fontane visitabili e aperte al pubblico, che però non hanno soltanto una funzione monumentale ed estetica: alimentano il sistema idrico delle risaie. La cerimonia in famiglia – culminata nel sacrificio di un maiale, che qui lavorano esattamente come da noi in pianura padana – celebrava l’inaugurazione di una nuova casetta, fatta costruire da Cristina per i numerosi bambini della famiglia: un contributo concreto alla loro educazione, perché fin da piccoli ai ragazzi tocca lavorare, quindi da una certa età in poi pochi vanno a scuola.

Grandioso Artigianato

Ma cosa fanno i balinesi dopo che hanno lavorato in risaia? Innanzitutto passano a sacrificare un pugno di riso al Tempio del Topo, per farsi perdonare magari d’aver sterminato qualche decina di roditori che gli rovinavano il raccolto, poi molti di loro fanno gli artigiani. Io in giro per il mondo ho visto molti artigiani bravissimi (per esempio in Marocco, o in Yemen), ma i balinesi battono tutti. Gianpaolo e Lucio disegnano mobili, e si sono trasferiti qui dall’Italia per realizzare le loro creazioni, che traggono materia (e materiali) dalla tradizione dei falegnami balinesi, che sono dei maestri dell’intaglio e degli incastri, fatti a mano. Ovviamente c’è anche un interesse economico a “delocalizzare” (la mano d’opera qui costa meno), ma soprattutto qui si trovano ancora delle abilità manuali ormai perdute altrove. Ed ecco allora che qui a Tegaragang ho trovato la Madre di tutte le iniziative artigiane, la fonte primaria dell’artigianato etnico globalizzato mondiale! E’ qui che si costruisce tutto quello che si vende nei negozi e nelle bancarelle turistiche di tutto il mondo: qui si costruiscono le statue di legno delle giraffe che si vendono a Cape Town, qui si fanno i modellini di tiki polinesiani che si vendono a Papetee, qui si fanno le statue di Toro Seduto che si vendono negli store dell’Arizona o le cineserie doc del duty free dell’aeroporto di Shangai!!! Ma, per fortuna, ancora ci sono tracce dell’artigianato artistico locale, come per esempio il batik: si disegna con un pennino intinto nella cera fusa sulla seta, poi si bagna nel colore, oppure si usano ancora dei vecchi “timbri” in legno, ed escono i tessuti meravigliosi famosi in tutto il mondo. In un negozio, alla fine, ho trovato anche una statua strana: raffigurava un turista, con tanto di occhiali da sole, coi capelli e il pizzetto bianco e una camicia sgargiante. Mi assomigliava, e ho provato a contrattare: niente da fare, non era in vendita, era la statuetta a cui ogni mattina la negoziante offriva i suoi sacrifici perché era… il Dio del Turismo!

La mia Bali

Bali ovviamente è anche molte altre cose, alcune arcinote, come le sue spiagge dove molti di divertono a fare surf, oppure le sue dimore e ville meravigliose, la sua natura. Per esempio io mi sono divertito un mondo a fare rafting sull’Aiun River: aggregandomi alla classica gita turistica di gruppo. Dopo aver indossato il regolamentare casco e l’immancabile salvagente, a bordo di gommoni che per la nostra imperizia andavano a sbattere contro le rocce del fiume (per fortuna senza conseguenze e con gran divertimento) abbiamo attraversato una valle stupenda, in un paesaggio di montagna con palme. Ma di queste cose sono piene le guide turistiche, e gli itinerari organizzati. Io ho provato a raccontarvi la Bali che mi hanno svelato Visnu (la mia guida simpaticissima) e anche i tanti amici italiani che ho trovato laggiù, ognuno impegnato in una attività interessante. A proposito di “cambiare vita”: in effetti la maggior concentrazione di italiani trasferiti felicemente all’estero non l’ho trovata in Nuova Zelanda, Argentina o Australia. L’ho trovata proprio a Bali!