Disperso nella steppa del Karakalpakstan, Uzbekistan

Una visita al lago Aral nell'autunno del 2016 tra i relitti di antichi pescherecci.
Redazione TPC, 11 Feb 2022
disperso nella steppa del karakalpakstan, uzbekistan
Viaggiatori: 1
Spesa: Fino a €250 €
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Era la prima metà degli anni sessanta e la città di Moynaq giaceva placida lungo le rive del lago d’Aral. Era un fiorente centro industriale dell’allora Unione Sovietica. Il lago infatti, con i suoi settantamila chilometri quadrati (il corrispettivo di Lombardia, Piemonte e Veneto) garantiva alla piccola cittadina la più prolifica industria ittica di tutto il  Paese. Centinaia di migliaia di tonnellate di pesce venivano qui pescate ed inscatolate ogni anno per poi essere spedite in giro per l’Unione: dall’Ucraina alla Siberia, dalla Bielorussia alla Georgia.

Proprio negli anni sessanta però, l’Unione Sovietica decise che la provincia dell’Uzbekistan, dove è situata Moynaq, avrebbe dovuto provvedere alla produzione di cotone per tutto il paese! Ecco allora che si decise di deviare il corso del fiume Amu Darya, principale affluente del lago D’Aral, per irrigare le nuove innumerevoli piantagioni di cotone. 

Il lago iniziò così a prosciugarsi progressivamente, allontanando Moynaq dalle sue acque, cancellandone così l’unica fonte di sostentamento e lasciando i suoi abitanti in assoluta difficoltà. Cinquant’anni dopo questo disastro ambientale il lago misura solo sedicimila chilometri quadrati e l’antica fiorente cittadina è oramai una città pseudo fantasma, collocata in una immensa landa desertica. Le industrie di inscatolamento paiono enormi mostri metallici all’orizzonte, mente i suoi pescherecci, ormai arrugginiti, giacciono sulla sabbia.

Ci arrivai nell’autunno del 2016, durante la mia seconda attraversata del continente asiatico via terra. Da Singapore a Milano in autostop. Volevo vedere i pescherecci arenati, senza realmente sapere cosa aspettarmi.

lago aral

Ecco un racconto di quei giorni, tratto dal mio libro “Una vita incredibile”.

“Inizia a piovigginare e il vento freddo mi tormenta. Fortunatamente di lì a poco vedo arrivare, nella mia direzione, un uomo. Avrà un paio di anni più di me ma sembra molto più vecchio. Cammina dinoccolato con addosso un paio di jeans aderenti e una camicia verde scura. È la mia unica ancora di salvezza, così mi avvicino con la massima gentilezza e lo saluto in russo sebbene sia evidentemente karakalpakstano. Ha piccoli occhi verdi arrossati, incassati su di un volto scuro, quasi mulatto, scavato dalle intemperie e da una vita complicata. Sempre in russo gli faccio intendere che avrei bisogno di un posto dove dormire e lui accetta di ospitarmi a casa sua, dopo una breve telefonata, credo alla moglie, chiedendomi tre dollari di affitto. Ci avviamo insieme verso la sua “doma”, una autentica baracca in legno circondata da un recinto fatto di vecchie lamiere. Lascio scarpe e impermeabile nell’anticamera prima di entrare nella sala, una enorme stanza ricoperta di tappeti con al centro un lungo tavolo in legno, alto poco più di mezzo metro. Le pareti della stanza sono percorse da un tubo bianco che porta il calore dalla stufa. Ci sono inoltre due camere da letto e la cucina, servita di elettricità ma non da acqua corrente. Due enormi barili posti in giardino raccolgono l’acqua piovana necessaria per bere e cucinare. Anche il bagno è in giardino: un profondo buco nel terreno, circondato da un parallelepipedo fatto di assi di legno e coperto da una lamiera in ferro.

Vengo accolto da una signora anziana, la madre del mio “salvatore”, le cui profonde rughe fotografano una vita fatta di stenti e sofferenza, e da tre bambini bellissimi, esterrefatti nel vedere quell’uomo dalla barba lunga e dallo zaino ingombrante in casa loro. I due più piccoli, un maschietto di sette anni e una femminuccia di cinque, sono i figli dell’uomo, mentre il terzo, Timur, di dodici anni, è il loro cugino più grande. Appoggio lo zaino in un angolo della sala e chiedo al padrone di casa dove si trovino i pescherecci arenati nel deserto, una delle principali ragioni della mia visita a Moynaq, che vorrei andare a visitare immediatamente, prima che il tempo peggiori. Non riesco a farmi intendere. Provo a mimare la barca, poi ne riproduco il suono, senza che nessuno dei miei interlocutori riesca a capirmi. Ci pensa la bambina più piccola, qualche minuto più tardi, a prendere un foglio di carta e a trasformarlo in uno splendido origamo a forma di nave. Bingo! Faccio capire loro che proprio lì voglio andare, così il padre ordina ai tre bambini di accompagnarmi ai pescherecci, mentre lui, intascati i miei tre dollari, esce di casa. Rientrerà solo a sera inoltrata, completamente ubriaco.

lago aral

Usciamo da un cancello posto sul retro del cortile, che si affaccia esattamente sulla landa desertica sopra la quale giaceva il lago d’Aral fino a quarant’anni fa. Il cielo grigio, denso di nuvole, contrasta la sabbia giallo ocra inumidita dalla pioggia che ha cominciato a cadere, mentre piccoli arbusti popolano uno degli orizzonti più brutali che abbia mai visto. Camminiamo per pochi minuti prima di scorgere il primo relitto, un peschereccio di medie dimensioni, arrossato dalla ruggine, arenato sulla sabbia. Mi avvicino con cautela ed entro nella sua “pancia” parzialmente sventrata, scoprendo come il peschereccio sia ormai la tana delle scorribande notturne della gioventù locale. Trovo infatti mozziconi di sigaretta sparsi sul pavimento, bottiglie di birra e la carta di un profilattico. I bambini intanto si mettono a giocare a nascondino mentre io mi avvio verso altri relitti un centinaio di metri più in là. La pioggia aumenta, così, desideroso di prendermi il tempo necessario per esplorare la zona, invito le mie piccole “guide” a tornare a casa, facendo loro capire che me la caverò da solo. Il fascino che circonda queste barche costrette a navigare sulla sabbia, mi colpisce profondamente, facendomi per un attimo dimenticare la tristissima storia che sta dietro a tutto questo e l’estrema povertà in cui sono precipitate centinaia di famiglie.

Torno a casa per cena. I bambini mi aspettano con ansia così, mentre la nonna prepara il pasto, gioco con loro. Sono davvero straordinari e di una dolcezza che incanta, specialmente considerando la situazione in cui vivono e l’assenza della madre. Ci sediamo per terra tutti insieme, intorno al piccolo tavolino in sala. La nonna serve ai bambini una specie di pasta fresca quasi cruda, mentre io, avendo pagato i tre dollari d’affitto, ho diritto a un pezzo di carne, che insisto per divedere con gli altri. Dopo cena riprendiamo a giocare fino al rientro del padre che, sbattendo la porta d’ingresso, entra barcollando in casa e si butta sul suo letto, addormentandosi all’istante. Timur mi guarda in silenzio. È un ragazzino bellissimo, dalla corporatura robusta, la carnagione chiara e due occhi a mandorla di un marrone incredibilmente luminoso, quasi giallo. Mi fa il gesto di portarsi il mignolo alla gola, tipico nei paesi sovietici per indicare qualcuno ubriaco. Lo fa con sdegno, con disprezzo nei confronti dello zio che di fatto lo costringe a fare “il padre” dei due cuginetti, ruolo che per altro Timur assolve con encomiabile responsabilità. Penso al suo futuro. Un ragazzino brillate, dal sorriso timido ma accogliente, destinato a crescere in un posto così complesso, dove, diventare come lo zio sembra la soluzione più facile.

lago aral

Spenta la stufa, ci sono solo le pesanti coperti poste sui tappeti in sala a ripararci dal freddo notturno. Abbraccio i bambini più piccoli, augurando la buona notte e sento i loro corpicini che si staccano a fatica dal mio, attratti da quel gesto d’affetto che probabilmente non è nelle loro abitudini. Mi corico per terra accanto a Timur che, a differenza mia, indossa solo una canottiera leggera. È un ometto lui, quindi niente abbracci. Gli auguro la buona notte dandogli il cinque. Spegniamo la luce poco dopo. Mi addormento subito, sperando solo di non russare troppo.”

scritto da Claudio Piani



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