Slow tour veneto fra l’Alpago e il Cansiglio
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IL LAGO DI SANTA CROCE
La prima cosa che incontri è il Lago di Santa Croce, dove i tedeschi fanno il bagno da aprile a ottobre, e viceversa noi comuni mortali ci limitiamo ad immergerci da fine giugno ad agosto. Darwin diceva (e se non l’ha detto lo dico io) che l’uomo discende dalla papera: appena trova uno specchio d’acqua impazzisce di gioia. E il Lago di Santa Croce è un vero divertimentificio sportivo, attivo quasi tutto l’anno. D’inverno capita che si ghiacci. Negli altri mesi è la meta preferita di chi fa canoa, surf, kite-surf, windsurf e soprattutto vela. In particolare è diventato la palestra d’allenamento di un sacco di velisti-non-percaso, anche ad alto livello sportivo e agonistico. Ma il Lago di Santa Croce è soprattutto croce-e-delizia dei pescatori: si pescano, anzi si pescavano, anzi si pescano ancora, un sacco di specie di pesci (luccio, persico ecc). No, non sono del tutto impazzito: il fatto è che c’era una volta un sacco di pesce, poi non ce n’era più, e adesso ce n’è ancora tanto. E questa è una bella storia, e complicata. Il fatto è che il Lago di Santa Croce è “a livello variabile”, è soggetto ad alta e bassa marea… Ma come, bassa marea in un lago prealpino? Sulla riva del Lago c’è una piccola costruzione, ancora in via di completamento. È il Centro ittio-genetico. Che cos’è? Me lo spiegano quelli della Associazione Pescatori Sportivi, che mi raccontano tutta la storia. Dunque: c’era una volta il Lago di Santa Croce, con i suoi abitanti che pescavano felici e contenti. Poi è arrivata, a valle, una centrale idroelettrica, che ha cominciato ad utilizzare l’acqua del lago per produrre energia. Poi sono arrivati con i Consorzi di Bonifica, che hanno cominciato ad utilizzare le acque del Lago per l’irrigazione. E il lago si prosciuga, come una mamma che allatta i figli oltre ogni limite di sopportazione. Soprattutto ne ha risentito la fauna: i pesci, che lungo le rive depositano le uova. Qui fa freddo e lo sviluppo delle uova è lento e il continuo scoprirsi e coprirsi delle rive impedisce di fatto al pesce di riprodursi. Ed è così che è nato il Centro Ittio-genetico.
MUNGERE LE COREGONE
I pescatori d’inverno catturano il pesce, soprattutto il coregone, una sorta di trota, e lo mettono nelle vasche del Centro ittio-genetico, che in realtà è una sorta di Reparto Maternità. Si individuano le femmine, che in inverno sono quelle più cicciotte. E poi… si mungono. Ci ho provato anche io, con l’aiuto di Fortunato, il capo-pescatore: si prende la coregona per la testa e si stringe sulla pancia: salta fuori un fiotto liquido, che sembra latte,in realtà sono uova. Poi – detta così sembra una ricetta – si prendono un paio di maschi, li si munge in modo più o meno simile fino a spruzzare il loro sperma sulle uova, si mescola un attimo e poi si versa il tutto dentro una boccia di vetro, dove c’è acqua purissima di lago, che viene shakerata continuamente e quindi rimescolata, simulando il movimento delle acque del lago, che evita che tutto si raggrumi. Dopo due mesi nasceranno gli avannotti, che verranno rilasciati nel Lago. E i coregoni sono salvi!
CONTRADDIZIONI
Dopodiché uno pensa che l’uomo è un disastro, che si consuma le sue stesse risorse da sé. Perché vuotare il lago? Perché almeno non accordare in un sistema coordinato le varie esigenze di pescisurfisti-contadini ed elettricisti? Ma mai azzardare giudizi affrettati, non è finita: mentre guardo sconsolato le rive asciutte del Lago, mi si avvicina un signore che mi dice che quello in realtà è il livello “naturale” del bacino. E scopro che una volta il lago era più piccolo e più basso, poi circa 80 anni fa è stato chiuso e quindi allargato per alimentare la centrale. Il lago poi successivamente è stato sfruttato e quindi ridimensionato, e ora va su e giù in base alle esigenze di contadini e centrale Enel… Una volta c’era il pesce, poi no, poi sì… è tutto un fare e disfare. È tutto un rovinare l’equilibrio e poi darsi da fare disperatamente per ricostruirlo. Paradossalmente il disequilibrio della centrale e del prelievo a scopi agricoli, ha “restaurato filologicamente” il vecchio lago naturale. Ora comunque c’è un buon coordinamento fra le varie esigenze, e il livello del lago è diventato finalmente molto più stabile.
I “VOLATORI”
Se butti l’occhio verso il cielo che sovrasta il lago, lo vedi popolato da strani uccelli: sono quelli che volano col deltaplano e soprattutto con il parapendio. Con Felice, nato qui in Alpago e poi sportivo-giramondo che ha volato dappertutto, salgo fino in cima alla conca, sul monte che è diventato famoso in tutto il mondo, nell’ambiente dei “volatori”. Io li guardo mentre indossano una specie di seggiolino-zaino, che li rende simili a dei grandi coleotteri e mentre dispiegano sul prato il loro paracadute leggerissimo. Poi si avviano a spalle indietro giù dal precipizio, quindi si voltano repentinamente e spiccano il volo… Quelli del deltaplano invece sono quasi uguali ai disegni di Leonardo, e partono all’improvviso spingendo il telaio della loro ala rigida. Il piccolo spiazzo, cioè la terrazza naturale a picco sulla vale, è affollatissima di gente che vola. Non posso pensare di fare altrettanto: avrei una gran paura. Invece Felice mi dice che non è mai successo nulla di grave, anche perché chi vuole volare deve fare un corso, sostenere un piccolo esame di “patente”. Si comincia a prendere confidenza in piano, poi piccoli voli di qualche decina di metri, quindi il gran salto, che ti porta a volare sopra le cime, oltre i 1.500-2.000 metri, approfittando delle correnti ascensionali. Deve essere meraviglioso. Mi dicono che è possibile anche volare in due, con un pilota e un “passeggero”, che in quanto tale non deve fare nulla. Non c’è pericolo – dicono. La prossima volta, grazie…
IL GIARDINO BOTANICO E IL BOSCO DEL CANSIGLIO
Paola mi accompagna in un posto un po’ più tranquillo: il magnifico Giardino Botanico Alpino, che in pratica è un museo naturale a cielo aperto che raccoglie e mostra tutta la biodiversità del territorio. Collegato al Giardino c’è anche un vivaio, in cui vengono raccolte, coltivate e poi reinserite le varie specie vegetali del vicino bosco del Cansiglio. La visita al Giardino è straordinariamente interessante, per chi fosse anche minimamente interessato alla variabilità vegetale. E poi è un’ottima introduzione al bosco, uno dei più vasti, antichi e belli d’Europa! I Veneziani della Serenissima se lo tenevano ben stretto: avevano dettato regole severissime per la sua conservazione. Era proibito abbattere alberi, era proibito vivere nel bosco e c’era addirittura una fascia di rispetto, larga un miglio attorno alla macchia, in cui era proibito costruire case o ripari. A ben guardare ancora oggi si vedono i cippi della Repubblica, con accanto i massi sui quali i vari ispettori scolpivano il proprio nome e la data, a segnare i controlli che facevano regolarmente per verificare lo stato del legname. Per Venezia il bosco del Cansiglio era la Foresta dei Remi, era la riserva di legna me per fare navi, per procurare legna da ardere, per fare il carbone. In pratica era la fondamentale riserva di energia, una bio-massa ante litteram. La foresta ha avuto storicamente vari padroni e varie vicissitudini, ma in ogni modo è rimasta integra. Oggi passeggiare tra i faggi altissimi e dritti, misti ad abeti rossi e bianchi, è una sensazione magnifica. Ho incontrato anche i due forestali a cavallo che effettuano i loro controlli. Non sono lì per dare multe, ma piuttosto per dare consigli ai turisti: la foresta si gusta restando in silenzio, la si preserva se non si accendono fuochi e soprattutto stando alla larga dagli animali. Mi hanno raccontato che spesso i turisti trovano magari un cucciolo di daino, gli fanno le coccole e poi lo “salvano” portandolo alla Forestale: peccato che in questo modo praticamente lo uccidono, visto che gli consegnano il proprio odore, per cui la madre non lo accetterà più e sarà abbandonato…
FAGGI & CERVI
Fabio, che lavora per Veneto Agricoltura, mi racconta che ci sono due aree del Bosco: una è intatta e intoccabile, e tenuta in uno stato del tutto naturale. Ma il grosso della foresta è curata dall’uomo, che abbatte gli alberi minori per dare spazio e sviluppo ai migliori. La cosa bella è che una foresta ha i suoi tempi: il ciclo di un albero dura 130 e anche 180 anni, per cui finalmente l’uomo è costretto a “guardare al futuro” e a programmarsi tenendo conto di un tempo assai lungo. Fabio dice che chi si occupa di alberi (e in generale di natura) sa che non sta lavorando per sé, ma per i propri pronipoti: se uno vuole vedere e godere personalmente i frutti del proprio lavoro deve cambiare mestiere… Ancora una volta siamo di fronte al solito paradosso: l’uomo prima manomette l’equilibrio naturale, poi si deve impegnare attivamente a ricostruirlo artificialmente. E questo tema è tanto più complesso se parliamo di animali: Mirko fa l’agricoltore, ha una azienda di 90 ettari di prati e pascoli, in mezzo all’altopiano del Cansiglio. Fino a qualche mese fa, dentro ai suoi recinti, aveva non meno di 50 cervi che si mescolavano alle sue mucche. I cervi infatti, privi di competitori e predatori, si sono riprodotti a dismisura. Non solo danneggiano in pascoli agricoli, ma soprattutto stanno consumando la foresta, mangiando le piante piccole. Sono troppi, e quindi più deboli: la taglia è molto diminuita, si teme prima o poi una epidemia. La soluzione più logica sarebbe quella di procede ad abbattimenti mirati e selettivi: quel che non fa più la selezione naturale deve farlo – suo malgrado – l’uomo. Ma per ragioni “ideologiche” si è preferito usare dei dardi esplosivi, in pratica dei petardi, che allontanano i cervi dai pascoli, ma li spingono semplicemente nel folto del bosco, dove il problema non fa che aggravarsi. Contraddizioni nelle contraddizioni di vicende in cui non si riesce a mettere a fuoco il problema nella sua complessità, e ci si ferma alla suggestione del Bambi di Disney…
IL LATTE BIOLOGICO
Mirko comunque ha anche altre cose da raccontarmi: è uno dei pochi allevatori rimasti nel territorio. I terreni li ha avuti in affitto da Veneto Agricoltura, cioè dalla Regione. Ha circa 100 mucche, di cui la metà produttive, che gli fanno circa 25 litri di latte al giorno. Tutti gli agricoltori d’Italia sono… alla frutta, cioè disperati. Lui no: non nasconde le difficoltà, ma tira avanti. Perché ha scelto di fare un prodotto di alta qualità, una nicchia in cui ancora si sopravvive. Lui e altri sei allevatori infatti fanno latte biologico, e poi lo lavorano nella loro Cooperativa Sociale, che produce latte da bere e formaggi vari. Sono prodotti assolutamente legati al territorio, per due buone ragioni: la prima è che il foraggio è quello locale, per cui le essenze, i profumi e i sapori sono quelli tipici del Cansiglio. Il secondo legame col territorio è che la loro produzione limitata viene consumata in zona: distribuita direttamente ai negozi della Provincia e venduta ai turisti. Quindi – finalmente – una vera filiera corta (cioè il prodotto distribuito dal produttore al consumatore, con pochi intermediari) e soprattutto a chilometro zero, che cioè fa poca strada. Dunque non sono leggende: a volte è vero!
LA LATTERIA DI SAN MARTINO
A Chies, Osvaldo, il maestro in pensione, mi apre la vecchia “lateria”, con una “t” sola. È il caseificio sociale, che ha funzionato fino qualche lustro fa. Una volta qui in Alpago ogni famiglia aveva qualche mucca. Poca roba, a giudicare dai vecchi libretti scritti in bella calligrafia dove si annotavano le quantità di latte conferite giornalmente: 15 o 20 litri al giorno per famiglia, la metà di quello che produce una sola mucca da latte di pianura. Dopodiché ogni famiglia aveva diritto a spartirsi una percentuale di prodotto: niente soldi, ma panetti di burro, forme di formaggio o cesti di ricotta. L’antico Caseificio è ancora intatto: c’è il sistema idraulico con cui veniva fatta girare la zangola per il burro, c’è la caldaia di rame, ci sono gli stampi per il burro e i contenitori per il latte. Il maestro ti guida lungo tutta la filiera produttiva, e ti spiega come si faceva il burro, la panna, il formaggio… Fino a qualche anno fa venivano le classi di scuola elementare ad imparare, e se ne andavano entusiaste. Adesso non vengono più. Peccato: una lezione come questa vale un intero corso.
I CANI DA SLITTA
Mario anni fa ha avuto in regalo un cucciolo di Husky, ed è stato amore a prima vista. Poi però i cani sono diventati due, tre, dieci. E Mario d’inverno ha cominciato ad attaccarli ad una slitta. Poi ha coinvolto nella sua passione anche il figlio adolescente. E soprattutto ha voluto giocare con le slitte e coi cani anche d’estate! E Pian Osteria – approfittando della piana del Cansiglio e del suo clima – è diventato un posto dove si fanno gare internazionali di slitte trainate dai cani, una sorta di succursale dell’Alaska. Ma d’estate? Ci sono due possibilità: la prima è quella di attaccare il cane ad una cintura che ti leghi ai fianchi: in questo modo fare passeggiate è molto più comodo e soprattutto in salita si va che è un piacere, col cane che tira come un matto e che fa la metà della fatica. Oppure Mario ha fatto una serie di slitte con le ruote, in pratica dei carrelli che però hanno il manubrio e i freni: ci attacca 6 o anche 8 cani e via! Io ci ho provato, e devo dire che mi son divertito, e mi sono sentito dentro al romanzo di Zanna Bianca.
L’AGNELLO D’ALPAGO
Alessandro ha studiato agraria a Bologna, poi è tornato qui, a casa sua. È un intellettuale prestato alla pastorizia, braccia restituite all’agricoltura. Ha un gregge di circa 200 pecore. Rigorosamente Alpagotte. L’Alpagotta è una pecora eclettica: produce abbastanza carne, abbastanza latte e abbastanza lana. Il latte non viene più sfruttato: troppo caro mungere. La lana si sta cercando di metterla a reddito di nuovo: c’è una “linea” di moda alpagotta, a base di tabarri, maglioni, pantofole fatte dagli allevatori che sta avendo molto successo, e le famose bambole alpagotte ne sono il simbolo. Ma il tesoro di queste pecore piccole, con macchie nere in testa e sulle zampe, è la carne. L’agnello d’Alpago è un presidio slow food per la sua carne delicata e priva di ogni sapore troppo marcatamente ovino. Queste pecore si sono adattate qui nei secoli e quindi ben sopportano il clima umido e con grande escursione termica stagionale. L’allevamento della pecora Alpagotta è un bell’esempio di agricoltura che non produce soltanto prodotti ma soprattutto servizi per il turismo, e per la gastronomia dell’eccellenza. Ed ecco che la visione d’insieme di Alessandro, pastore non per caso ma per vocazione, si completa: gregge-territorio-paesaggio-gastronomia-turismo. Un’unica catena, che sostiene lo sviluppo dell’intera zona.
TAVOLA E FOLKLORE
Norina e Gabriella, alla Locanda San Martino, mi mostrano come si cucina l’agnello, di cui non si butta via niente, come del maiale. Poi c’è il Pastin, uno dei piatti tipici dell’Alpago: è una polpetta schiacciata (si potrebbe dire anche un hamburger tritato fine molto largo) fatta di carne di maiale e manzo. È la specialità dei macellai di Tambre e dintorni. E si mangia con una polenta che non ho mai trovato altrove: buonissima, soffice, quasi “montata”. Merito della farina, o magari dell’acqua. Il pesce del lago non è soltanto un passatempo per i pescasportivi: Renzo, della Locanda San Lorenzo, uno dei ristoranti più titolati, mi cucina un coregone fritto all’onda con radicchio e purè di fagioli. Mi spiega che qui ci sono dei fagioli dolci, con la buccia tenera, che si possono anche frullare in un purè: sono le “mamme”, un altro prodotto tipico che cresce attorno al lago di Santa Croce. Avevano smesso di coltivare questa specie di fagiolo, perché piccolo, a volte macchiato e quindi poco commerciale. Adesso l’hanno riscoperto, e la gente viene apposta per mangiarlo. Tra le altre cose nell’Alpago ho incontrato anche Pamela e il suo gruppo folcloristico, che si impegna al massimo per conservare le tradizioni musicali locali: ballano ancora il “Balsanello”, una danza di corteggiamento che deriva dalle feste contadine. Insomma, le cose che si possono fare da queste parti sono tante. Ma, soprattutto, si fanno un sacco di incontri interessanti. Come al solito il turismo è una meravigliosa… caccia all’uomo. Fare turismo vuol dire incontrare le persone con le loro storie. Poi vuol dire osservare l’uomo nello svolgersi delle sue azioni, guardare cosa ha combinato storicamente nello sforzo di adattarsi e di piegare alle sue esigenze il territorio. Le azioni di tutte le persone che ho conosciuto nell’Alpago vanno nella stessa direzione: rivalutare un territorio, evitare che i giovani se ne vadano, sviluppare una coscienza di comunità. Per questo è bello fare il turista…