Isole Australi, ovvero l’altra Polinesia

Patrizio ci racconta un viaggio ancora tutto da inventare
Patrizio Roversi, 19 Dic 2016
isole australi, ovvero l’altra polinesia

Le Australi non c’entrano nulla con l’Australia, sono uno degli Arcipelaghi della Polinesia Francese, nella zona orientale dell’Oceano Pacifico. Se qualcuno si ricorda, o se addirittura possiede ancora la preziosa copia, nel numero uno del magazine abbiamo proprio cominciato raccontando il nostro viaggio in Polinesia. Piuttosto però, dovremmo dire i nostri viaggi, perché da quelle parti ci siamo stati un paio di volte. La prima volta che sono arrivato in aereo alle Marchesi mi son fatto tatuare sul braccio una serie di simboli locali, che assieme componevano una frase che era un auspicio: quello di tornare da quelle parti ma non in aereo, in barca. Il primo simbolo, che assomiglia a una faccia con due occhioni, rappresenta me stesso. Il secondo, che raffigura una doppia piroga, significa “lungo viaggio per mare”, il terzo è la croce marchesiana, simbolo dell’armonia e dell’equilibrio ma me l’hanno raffigurata un po’ strana e irregolare: dopo lunga discussione col tatuatore abbiamo concluso che significa “il caso”. Infine l’ultimo simbolo significa “buona fortuna”. Il risultato dovrebbe essere appunto, secondo il codice polinesiano “l’auspicio di un lungo viaggio in mare, per caso”, cioè “velistipercaso”.

A proposito del tatuatore: mi avevano detto che anda­vo sul sicuro perché lavorava nel locale nosocomio. Ho poi scoperto che era sì in servizio all’ospedale di Nuku Hi­va ma faceva il meccanico e si occupava del generatore. Ma alla fine il rito propiziatorio ha funzionato e il desiderio si è avverato: nel 2003 col giro del Mondo di Adriatica, ho attraversato il tratto di Pacifico fra le Galapa­gos e le Marchesi (più di 3.000 miglia, 6.000 chilometri) e, assieme a David Riondino, Marco Covre e tutta la ciurma marinaresca e televisiva, abbiamo realizzato il nostro sogno. In quel viaggio abbiamo visitato e ri-visitato appunto le Marchesi, le Isole della Società e le Tuamotu, vale a dire la Polinesia Francese “classica”, quella già ampliamente scoperta dal turismo di massa. Ma mancano due arcipelaghi, lontani e poco raggiungibili, vale a dire l’Isola Gambier a sud-est e le Australi, le più lontane, a quasi 600 chilometri a sud-sudovest di Tahiti.

ISOLATE-ISOLE “VERGINI”

Le Australi sono sette Isole in tutto. Le principali sono tre: Tubuai, Rurutu, Raivavae. Poi ci sarebbe Rapa Iti (per non confonderla con Rapa Nui, l’Isola di Pasqua), Rimatara, Marotiri e l’Isola Maria. Queste ultime due però, sono disabitate. Si trovano a cavallo del Tropico del Capricorno, quindi più a sud delle altre isole della Polinesia Francese. Qui siamo lontani dall’equatore, il vento tira più forte e ci sono le stagioni. Nell’arco dell’anno cambiano anche le temperature, anche se c’è poca differenza: le minime sono attorno ai 18-20 gradi, le massime attorno ai 28. Piove molto: 1.800 millimetri all’anno. La stagione delle piogge va da dicembre ad aprile, quindi la stagione migliore per andarci oscilla tra maggio a novembre (regola che comunque vale per tutto il Pacifico). E in questo periodo, che corrisponde all’inverno dell’emisfero sud, non c’è pericolo di tifoni. Il risultato di questo clima, unito alla natura delle Isole, che sono vulcaniche-calcaree e quindi “giovani” e ricche di rilievi e di pianure, è che c’è agricoltura: que­sto significa anche che le Isole sono relativamente autosufficienti, e che il paesaggio è vario. Anzi, l’agricoltura è una delle attività principali, assieme all’artigianato. E – guarda caso – la ricchezza delle Isole non viene dal turismo. Segno che è vero quello che dicono: per tutta una serie di circostanze, le Australi rappresentano ancora la Polinesia di 50 anni fa, quella che scoprì Folco Quilici e di cui si innamorò Bernard Moitessier, il grande navigatore francese giramondo, autore de La lunga Rotta, la Bibbia dei velisti non-per-caso.

IL GIRO DEL MONDO

Il viaggio per raggiungere le Isole Australi è lungo, naturalmente. Solo per arrivare a Papetee, cioè a Tahiti, da Parigi, ci vogliono più di 24 ore (il fuso è di 10 ore). Un biglietto andata e ritorno, per un viaggio “veloce”, si aggira sui 5.000 euro. Se siete disposti a fare soste e tappe, anche un po’ meno. Dopodiché con Air Tahiti si può raggiungere Raivavae con un volo “interno” di poco meno di tre ore: andata e ritorno poco più di 500 euro. Ma volendo c’è un altro modo, che permetterebbe di toccare direttamen­te anche Tubuai, Rurutu e Rimatara: salire sulla Tuhaa Pae IV, la nave che porta i rifornimenti da Tahiti alle varie isole. Si tratta di una nave “mista”, cargo e passeggeri: trasporta i container, le merci e i ricambi ma dispone anche di 100 posti per i passeggeri, che si possono sistemare in cabine da due, quattro e anche su delle poltrone. Il viaggio deve essere più lungo di una traghettata per la Sardegna, ma mi pare un ottimo modo per arrivare alle Australi, toccarne alcune (la nave fa scalo per caricare e scaricare) e magari poi, restare nell’arcipelago fino all’arrivo della successiva (se ho ben capito un paio di settimane), oppure tornarsene a Papeete con l’aereo (una tratta singola, sola andata, costa circa 260 euro). Ma perché mai sobbarcarsi un viaggio così impegnativo? Cosa c’è alle Australi di tanto interessante?

MARE & MONTAGNA

Cominciamo da Tubuai. Si tratta di un’isola vulcanica, ci sono anche dei rilievi significativi (tipo il Monte Taita, che sale a 450 metri sul livello del mare) e questo immagino la renda interessante e selvaggia, come le Marchesi: montagne scure in mezzo al blu del mare e del cielo. Ma nel caso di Tubuai non c’è solo la montagna in mezzo al mare: attorno c’è anche una laguna, delimitata da una barriera corallina, con i classici motu (isolotti). Parentesi: nella Polinesia francese le Tuamotu (ad esempio la stupenda Rangiroa) sono isole “antiche”, in cui la montagna vulcanica iniziale è collassata in mare, per cui resta soltanto una striscia di terra circolare (barriera corallina) che racchiude una laguna: magnifico mare ma pochissima terra. Viceversa le Marchesi sono Isole “giovani” (secondo quanto ha scoperto Darwin), con la montagna appunto ancora svettante ma senza barriera corallina, quindi bellissime terre ma niente mare, che sprofonda subito. Le Australi invece mi pare che si presentino come isole “mature”, né giovani né vecchie, con tutto: montagna e mare accessibile. Tra l’altro i fondali di Tubuai sono famosi tra coloro che fan­no immersione: sembra che l’acqua sia cristallina e piena di pesci. Il pae­saggio dicono che sia il massimo. Innanzitutto è vario: montagne ma an­che spiagge bianche, e all’interno pianure fertili e coltivate a caffè, tuberi e arance. Da Mataura, il porto, si può partire a fare delle escursioni verso la montagna, a piedi o (meglio) in Jeep. Poi addirittura c’è chi si arrampica sulle rocce, ma non fa per me. Piuttosto, Tubuai è un’isola scolpita nel mio immaginario perché è stata il primo rifugio degli Ammutinati del Bounty nel 1789, subito dopo la loro ribellione, prima di riparare a Pitcairn (dove an­cora vivono alcuni loro discendenti). Ci sono ancora, pare, i resti di Fort George, l’avamposto su cui si erano barricati per resistere agli attacchi della popolazione locale ostile che alla fine li ha cacciati via. Fatto sta che i locali a suo tempo li hanno combattuti, e adesso invece li celebrano, con una festa in cui si ricostruisce proprio l’arrivo del Bounty a Tubuai. Questa è l’Isola più grande dell’Arcipelago, la capitale. Ho provato a informarmi: pa­re ci sia una pensioncina che sia chiama Vaitea Nui ) che costa dai 50 ai 60 euro a testa, supplemento mezza pensione 45 euro.

LE GROTTE E LE BALENE

Rurutu tradotto alla lettera vorrebbe significare “lo scoglio che emerge”, ed il nome è già tutto un programma. Qualcuno l’ha definita “il Giardino dell’Eden”. Me la sono immaginata più rocciosa di Tubuai: qui è tutto basalto e calcare. Ma il calcare è appunto erodibile dal vento e dall’acqua e infatti Rurutu è famosa per le sue grotte, molto spettacolari che anticamente erano state usate anche come tombe. Sul Monte Taatioe segnalano la Grotta di Ina, una dea locale. Poi c’è la Grotta Anaeo, soprannominata “Grotta Mitterand”, dopo che fu visitata dall’allora presidente francese. Poi c’è Mo’o, la grotta della lucertola gigante. Ma anche Rurutu, come del resto Tubuai, non è brulla (come accade a moltissime altre Isole più a nord): anche qui ci sono piantagioni di caffè, ananas, pompelmi e lycis (quei frutti bianchi e tondi che si trovano sem­pre nei nostri ristoranti cinesi). E il paesaggio viene descritto come mera­viglioso: baie e sabbia bianca finissima. Sempre per tornare al confronto con gli altri arcipelaghi della Polinesia francese: alle australi si trova di tut­to, dalle spiagge bianche alle montagne, fino alle pianure coltivate e irri­gate dalla pioggia. Merito qui, del clima. Ma Rurutu è famosa soprattutto perché in determinate stagioni (da luglio a ottobre) vengono a riprodursi le balene, in particolare le megattere. Le si può osservare da terra, oppure con una barca le si può avvicinare. Si tratta di un’esperienza che ho già fatto in Pacifico, durante il Giro del Mondo di Adriatica, a alle Isole Vavau, ed è stato molto emozionante! A Rurutu vivono circa 2.000 abitanti che vivono per l’appunto di agricoltura e artigianato: usano fibre vegetali per intrecciare cappelli, ceste, borse.

L’IDENTITÀ POLINESIANA

Pare che gli abitanti delle Australi siano molto attivi e impegnati a organizzare feste e cerimonie. Che – visto che c’è ben poco turismo – devono per forza essere autentiche. Pare che lo sport nazionale sia… il sollevamento delle pietre: uomini e donne si sfidano a sollevare pietre anche di 150 chili. Mi sa che gli abitanti delle Australi siano grandi e grossi come i Marchesiani… Dopodiché l’occasione per festeggiare è data spesso anche dai matrimoni, che coinvolgono tutti. Spero di vederne uno! Già a Papeete, a suo tempo, ho vissuto l’esperienza di una cerimonia del genere, ricostruita per i turisti ma comunque ricchissima e artisticamente affascinante. Un vero matrimonio polinesiano sarebbe il massimo. Comunque ho letto di cerimonie di vario tipo (“Tere”, “Feste del Me”) di cui mi piacerebbe scoprire il significato. Tutta la Polinesia è permeata da un forte sentimento religioso: se anticamente la gente si riconosceva nelle varie comunità guidate da un capo, successivamente la figura più autorevole è diventata il missionario. Purtroppo questo ha determinato una perdita quasi totale di usi e costumi tradizionali. Ma il colpo di grazia è stata l’introduzione (all’incirca una sessantina di anni fa) di un sistema economico occidentale, ba­sato sulla divisione dei ruoli anche professionali e sugli scambi in denaro: Un tempo il polinesiano-tipo era contemporaneamente pescatore, cacciatore, costruttore di farè (i famosi bungalow) e falegname: ognuno aiutava a turno gli altri, in un contesto collettivo e comune. Poi gli scambi di competenze sono diventati appunto giri di denaro fra funzioni “specializzate”: i polinesiani così, sono diventati o solo pescatori, o solo falegnami, o solo agricoltori ecc. Io mi illudo che, lontane dal turismo e con esigenze di autonomia e autosufficienza, le Australi abbiamo conservato anche un poco di organizzazione sociale tradizionale.

JAMES COOK, L’ESPLORATORE

Comunque resta il fatto che le cerimonie religiose sono l’occasione per esibizioni vocali e musicali interessantissime. Tra l’altro pare che – come succede peraltro alle Marchesi – ci sia da queste parti uno sforzo per conservare lo studio della lingua e delle tradizioni locali. In effetti ognuno degli arcipelaghi della Polinesia francese ha una propria storia e una sua identità culturale. Alle Marchesi lo sforzo di distinguersi da Tahiti era dovuto anche dal desiderio di accedere in modo autonomo ai contributi economici che provengono da Parigi. Fatto sta che anche alle Australi ci sono le statue dei Tiki, le misteriose divinità ancestrali. Misteriose anche perché queste zone del Pacifico, dopo la “scoperta” da parte degli Europei (balenieri ed esploratori) e soprattutto con la presenza dei missionari, è stata letteralmente decimata dalle malattie: un vero genocidio causato da raffreddore e influenza. Per cui di una cultura orale si è perso quasi tutto. Paradossalmente si sono conservate cronache proprio dei missionari, che a suo tempo hanno raso al suolo una civiltà e ora contribuiscono in parte a ricostruirne le caratteristiche. Comunque la storia delle esplorazioni che a fine del Settecento hanno portato qui i navigatori europei è affascinante: proprio a Rurutu è arrivato James Cook il 13 agosto 1769. Non è neanche riuscito a sbarcare, per l’ostilità degli abitanti. È tornato nel suo terzo viaggio, l’8 agosto 1777, a Tubuai, e stavolta è comunque rimasto a bordo, ma ha avuto una conversazione amichevole con gli abitanti (sia pure a distanza) e ha notato una cosa importante: la lingua era molto simile a quella di Tahiti. E questo conferma quello che pensano oggi gli antropo-storici: la colonizzazione delle Australi è dovuta ad una immigrazione di navigatori da Tahiti.

RAIVAVAE, RAPA E LE ALTRE

A proposito di teorie storiche e di viaggi, io vorrei cercare a Rurutu, al cimitero, la tomba del navigatore Eric de Bisschop (lo sfortunato promotore della Tahiti-Nui che ha tentato il viaggio con un’imbarcazione tradizionale fra le coste del Cile e della Polinesia e viceversa, negli anni Cinquanta), per raccontare la storia di questo personaggio, così come ho visto alle Marchesi la tomba di Gauguin e di Brel. Insomma, è quanto mai vero che le storie dei personaggi danno spessore ai luoghi. Anche su quest’isola viene segnalata una Pensione, Manotel, che ha alcuni farè da affittare lungo la spiaggia, vicino al villaggio di Moreai. Dormire costa un po’ di più di Tubuai (da 100 a 70 euro a testa), ma la pensione completa è solo 40 euro. Ma oltre a Rurutu ci sono le altre Isole: prima di tutto Raivavae, dove c’è l’aeroporto e poco altro. Pare che sia in realtà un insieme di isolotti selvaggi, popolati da migliaia di uccelli, sparsi in una laguna stupenda. Ho letto cose incredibili della sua bellezza, un vero gioiello del Pacifico. E non solo scogli: si parla di una montagna di 400 metri, ricoperta di fitta vegetazione. Gli abitanti sono poco meno di mille ma sparsi per una serie di villaggetti dalle belle case in pietra lavica dipin­te con colori pastello: Rairua, Mahanata, Anatonu, Vaiuru, Matotea (tutti da pronunciare rigorosamente con l’accento alla fine della parola). A Rairua (il porto) sbarca la nave dei rifornimenti, la Tuhaa Pae, che passa di qui ogni 15 giorni. Anche se poi l’aeroporto delle Australi è segnalato appunto qui a Raivavae, ma è da qui che m’è venuta l’idea di una andata per nave, con ritorno in aereo a Tahiti. Più difficilmente raggiungibile è invece l’Isola di Rapa Iti, la Piccola Rapa, dove si arriva davvero solo con la nave. Rapa vuol dire in pratica “fuori dal mondo”, “da un’altra parte”. Chissà se fra i polinesiani c’è il detto “Vai a Rapa” per dire “Vai a quel Paese”? Fatto sta che Rapa è un gran bel paesino, abitato da gente che campa di pesca, caccia, agricoltura e artigianato. E la sua attrazione principale, oltre alla magnificenza dei luoghi, sono le sue montagne dove sono conservate delle importantissime testimonianze archeologiche: i resti di 12 luoghi fortificati (Pa). Infine rimirare-Rimitara non è facile: oltre alla difficoltà di arrivarci, poi ci si muove sull’isola solo a piedi. Ma questo non significa che sia disabitata: negli otto chilometri quadrati della sua superficie sono segnalati diversi villaggetti, immagino piccolissimi: Amaru (la “capitale”), Anapotu e Mu­tuara. Quindi, alla fine, lasciatemi sognare questa nova avventura: il bello del viaggio dicono sia “durante” (Syusy dixit), ma secondo me è bello anche “prima”, quando lo si desidera e lo si progetta…

Patrizio