Polinesia mania

Quello nelle Isole del Sud è il viaggio per eccellenza, merito della letteratura e del cinema. Tahiti, Moorea e Rangiroa sono l’approdo ideale, ma altri arcipelaghi aspettano
Patrizio Roversi, 17 Ott 2011
polinesia mania
Io la butto lì: la stagione migliore parte da maggio e arriva a ottobre, il volo è lungo e costoso, ma magari con la “deregulation” imperante dei prezzi, con questa continua asta impazzita dei costi e delle offerte speciali, trovate un’occasione e riuscite ad andarci, e coronate il sogno… Parlo della Polinesia! Tutte le volte che mi chiedono «Qual è il viaggio più bello che hai fatto?» io mi sforzo di inventarmi qualche cosa di diverso; tutte le volte che mi chiedono «Dove vorresti tornare, tra tutte le mete visitate?» io ci penso a lungo, ma poi immancabilmente mi vien da rispondere «Polinesia». Ma perché questa mania della Polinesia? Perché nell’immaginario collettivo (non solo mio) rappresenta il viaggio per eccellenza? A mio avviso è colpa (o merito) di Melville (quello di Moby Dick e di Taipi), di Stevenson (quello dell’Isola del Tesoro), di Gauguin (il pittore), di Marlon Brando (l’attore, quello degli Ammutinati del Bounty, vicenda storica narrata da Jules Verne e celebrata nel film del 1962), ma è anche colpa di Cook e dei suoi viaggi e dei suoi Diari, è colpa di Folco Quilici (che negli anni ’50 ha girato Sesto Continente, Ultimo Paradiso ecc ecc). Insomma: la Polinesia (in particolare la Polinesia Francese) si è insediata nella nostra fantasia come la meta esotica per definizione. Peccato che ultimamente sia diventata – a torto – la meta dei viaggi di nozze e la meta “cara” per eccellenza. Invece non è vero: a parte il viaggio (e i voli interni), in Polinesia ci si può organizzare un giro tra pensioni familiari e ristorantini locali a base di pesce e cocco. A prezzi accessibili.

IL VIAGGIO

Io ci sono stato alcune volte. La prima normalmente, in aereo. Normalmente si fa per dire: sono 24 ore di viaggio. La rotta più classica è via Parigi, con Air France e con scalo a Los Angeles. È un viaggio caro, e lo scalo negli Usa, con le ultime disposizioni di sicurezza, è un problema: tocca fare code per una inutile domanda di “immigrazione” (in realtà si è solo in transito), si rischia di perdere di vista i bagagli che vanno “riconosciuti” ma che magari vengono mollati in mezzo all’aeroporto perché tu nel frattempo sei bloccato in fila. O almeno era così l’ultima volta che mi è capitato di andarci, ora magari la situazione è migliorata. Se trovate un altro modo e un’altra via, fatemelo sapere… Una volta arrivati a Tahiti, si devono scontare 11 ore di fuso, per cui la soluzione più saggia è prenotare un albergo vicino all’aeroporto di Papete, salutare l’orchestrina e le gentili hostess che vi accolgono all’aeroporto con la coroncina di tiarè (nel senso del fiore) e poi – senza fare caso al traffico che in sé potrebbe rappresentare una delusione metropolitana rispetto alle aspettative – infilarsi a letto per altre 24 ore e presentarsi alla Polinesia belli freschi il giorno dopo: infatti in genere si arriva al mattino presto, e fino al giorno dopo non c’è scampo: la testa ti ronza come un alveare, e sembra di averla ficcata in una boccia per i pesci rossi. Quindi inutile fare gli eroi e cercare di rimanere svegli, a meno che non arriviate la domenica, quando c’è mercato: in quel caso vale la pena fare uno sforzo e andarlo a visitare prima di crollare. Se poi avete fretta, perché vi siete concessi una vacanza breve e non volete perdere tempo, peggio per voi: il viaggio in Polinesia merita almeno 21 giorni, 15 è il minimissimo.

L’AVVENTURA

Io devo ammettere che ho coronato il sogno nel sogno. Infatti la prima volta sono andato appunto in Polinesia in aereo, ma una volta arrivato ho sognato di tornarci in barca. A Nuku Hiva, la capitale delle Isole Marchesi, mi sono fatto addirittura tatuare un “voto” sul braccio: una serie di simboli che rappresentavano la frase «Io-personalmente voglio fare un lungo viaggio per mare, per caso». Mi avevano assicurato che il tatuatore era igienicamente omologabile, lavorava addirittura all’ospedale: solo dopo ho scoperto che in ospedale curava la manutenzione del gruppo elettrogeno: era meccanico… Fatto sta che ci sono riuscito: la seconda volta mi sono imbarcato alle Isole Galapagos e ho navigato 15 giorni in Pacifico, fino a coprire le 3.050 miglia che separano le Isole di Darwin da quelle di Gauguin e Breil. L’arrivo nell’isoletta di Fatu Hiva, la più meridionale e orientale delle Marchesi, è stato trionfale, con tanto di delfini che ci hanno scortato fino all’ancoraggio nella Baia delle Verghe. Il nome allude ai simboli fallici rappresentati dalle rocce e dai Tiki (rappresentazioni naturali degli Dei), peccato che poi i Missionari l’abbiamo curiosamente (e forse anche un po’ maliziosamente) ribattezzata Baia delle Vergini. Perché dico questo? Per farvi morire di invidia? No! Solo per essere fedele al motto «se ce l’ho fatta io, possono farcela tutti!». Bando alla frustrazione, voglio scatenare piuttosto emulazione: ci sono molti modi anche più semplici del nostro (che abbiamo dovuto organizzare un viaggio con una barca nostra, finalizzato a un Giro del Mondo che è stato un gran casino) per trovare un passaggio su una barca. Basta volerlo. Per la cronaca: se prima m’ero fatto tatuare la promessa, cioè il voto di arrivare alle Marchesi via mare, una volta tornato a Taiohaè avrei voluto farmi tatuare sull’altro braccio un ex-voto: una cosa mirabolante, come «Io sono colui che ha navigato fin qui». Purtroppo il tatuatore era… scappato: aveva fatto l’amore con la donna di un suo amico, che lo cercava per massacrarlo.

POLINESIA DOVE?

Ma dopo che uno è arrivato – in qualche modo – in Polinesia Francese, e cioè sull’Isola di Tahiti, nella capitale Papete, che fa? Le tappe obbligate sono, appunto: dormire; adattarsi al fuso; fare il giro dell’isola dicendo all’inizio «ma che ci faccio io qui, che c’è più casino che sul raccordo anulare di Roma?» ma poi passa perché Papete a modo suo è bella; arrivare sulla spiaggia di Cook e degli Ammutinati del Bounty per poter dire «ma è una spiaggia nera, vulcanica, la immaginavo diversa»; poi andare sul porto a mangiare polinesiano cucinato da un cinese nelle tipiche baracchineroulottes. Tutte cose che dovete fare, in qualche modo, e che vi prendono almeno un giorno o due. In realtà anche Tahiti è molto bella, basta addentrarsi un attimo e ci sono scorci naturali meravigliosi, c’è una gran spiaggia da surf e si può anche andare in cima alla montagna con la jeep. Poi non c’è nulla da fare: tocca anche andare a Moorea, l’isola più piccola lì vicino: sono 7 minuti d’aereo o – meglio – qualche decina di minuti di aliscafo. Ci sono gli alberghi bellissimi con le capanne-bungalow (i farè) in cima alle palafitte sul mare azzurro e il pavimento di vetro, che di notte vedi i pesci sotto il letto. C’è il giro delle piantagioni di ananas, e soprattutto ci sono le chiese di varie confessioni, con le polinesiane che la domenica si mettono i loro cappellini meravigliosi e cantano divinamente. E c’è anche il Tiki Village, dove una compagnia di danzatori e cantanti (uno più bello dell’altro) rappresentano ogni sera gli antichi riti: io e Syusy ci siamo persino “sposati” secondo la liturgia polinesiana antica, coi fiori e il pareo, i cantanti e le canoe. A proposito: la Polinesia non mi pare il luogo adatto per i viaggi di nozze: c’è gente troppo bella, che vi farà sfigurare nei confronti del partner. Ma poi? Riusciranno i nostri eroi a NON andare a Bora Bora???

NON SOLO BORA BORA

Se riuscirete in andare in Polinesia, al vostro ritorno i colleghi e le amiche vi chiederanno immancabilmente «Com’è Bora Bora?». E, se direte che non ci siete stati, il 90% di loro vi guarderà con malcelata delusione, dubitando persino del vostro viaggio. Vi prego, tenete duro e viaggiate in nome e per conto del 10% che resta. Intendiamoci: Bora Bora è bellissima, noi – naturalmente – ci siamo stati e ci siamo molto divertiti, abbiamo nuotato con le mante su una spiaggia dalla sabbia di velluto e tutto il resto. Se uno ha la fortuna di passare in Polinesia un mese o più, val la pena di andare certamente anche a Bora Bora, ma se viceversa avete poco tempo, abbiate il coraggio di non andarci. Ai nostri tempi (parliamo di 8-10 anni fa) era meglio andare piuttosto a Vahinè (meno turistica) oppure decidere di passare una settimana a Rangiroa. Rangiroa era – e mi risulta che ancora sia – la rappresentazione perfetta del Paradiso: un enorme anello di sabbia, che racchiude una laguna da sogno. C’è un Hotel meraviglioso, lussuoso ma integrato perfettamente nella natura (il Kia Hora), una piccolissima “capitale” (il villaggio di Avatoru), un aeroporto e una chiesa con alle pareti le istruzioni in caso di tifone. Io ho visitato anche una coltivazione di perle nere, e sono andato a pesca con due fiocinatori polinesianidoc, naturalmente senza prendere nulla. Ma c’è anche Tiputà, il villaggetto oltre la pass (cioè il passaggio che mette in comunicazione la laguna col l’Oceano) dove la vita scorre più o meno come nella Polinesia tradizionale. Folco Quilici, che c’è stato 50 anni fa, non ci vuole più tornare perché dice che «non c’è più la Polinesia di una volta», e certamente ha ragione, ma per noi comuni mortali un soggiorno a Rangiroa è ancora una esperienza favolosa, magari col nostro amico Ugo (ex farmacista) che vi accompagna sott’acqua con il suo diving che ha chiamato Six Passengers perché non porta in giro più di 6 persone alla volta. Ma ad oggi mi dicono che altre isole sono aperte al turismo, e sono raggiungibili: la Polinesia è una miniera di posti bellissimi, dove è possibile inventare nuovi itinerari.

TIKI E VANIGLIA

Per esempio c’è Raiatea, l’isola che ancora conserva qualche traccia storica di luoghi di culto: i marae, piattaforme sulle quali si costruivano le abitazioni e i templi, e i Tiki, cioè statue di antiche divinità che, secondo la tradizione, se molestati possono portare una sfiga tremenda. Nella stessa laguna ci sono sia Raiatea che Taa, e un classico è la breve crociera in barca tra le due Isole. Infatti, a Raiatea è facile noleggiare una barca a vela, con skipper (in genere un catamarano), perché c’è l’unico Marina della Polinesia Francese, oltre a Papete. Qui ho visto con grande emozione anche una delle barche auto-costruite da Bernard Moitessier, il grande navigatore solitario, quello che stava vincendo la prima regata attorno al mondo e ha lasciato perdere tutto per arrivare fin qui, in quello che – lui che se intendeva – considerava il Paradiso. A Taa c’è anche la possibilità di esplorare le bellezze botanico-naturalistiche dell’Isola, col Vaniglia Tour, in jeep. Qui fanno tappa tutti i giramondo, i navigatori che fanno il Giro del Mondo in barca. Qui si disfano e si riformano gli equipaggi, qui si può anche trovare un passaggio per proseguire verso Tonga e Samoa e le Figi e la Nuova Zelanda. Qui alcuni giramondo si sono fermati definitivamente, convinti d’aver trovato quel che cercavano (vedi www.turistipercaso. it e www.velistipercaso.it). Ma la Polinesia Francese è grande, ed è composta da vari arcipelaghi…

LE MARCHESI

Dove ero rimasto? A Fatu Hiva, la prima delle Marchesi, dove sono sbarcato dopo la traversata del Pacifico che divide Sudamerica da Polinesia. E poi c’è Hiva Oa, l’isola dove sono finiti Gauguin e Breil: due tombe l’una accanto all’altra, due storie diverse in epoche diverse, ma comunque due grandi personaggi che hanno coltivato per queste isole un grande amore. Gauguin c’era arrivato per dipingere il Buon Selvaggio, ha finito per ammalarsi e, non potendo tornare a Parigi per non distruggere il suo proprio mito, è morto di nostalgia sognando e dipingendo la Normandia sotto la neve. Breil invece era stato folgorato dalle Marchesi, ci aveva abitato e ha voluto essere sepolto qui per ritrovare la pace: peccato che, fino a qualche anno fa, la prima moglie ogni tanto veniva a distruggere la tomba con la foto e il nome della seconda moglie, e viceversa, con buona pace del povero cantautore belga. In effetti le Marchesi e tutta la Polinesia Francese sono un Paradiso non privo di contraddizioni, con una storia feroce. Bastano alcune cifre: i Marchisiani alla fine del ‘700 erano più di centomila, a metà dell’800 erano ridotti a 20 mila e all’inizio del ‘900 erano solo 2 mila: letteralmente decimati dalle malattie dei bianchi. Nel giro di due generazioni si è annientata una popolazione, si è cancellata la sua tradizione culturale (orale). A Nuku Hiva, la capitale delle Marchesi, c’è un monumento-mappa che ricorda lo sbarco di Melville, allora giovane marinaio che fuggiva dalla vita troppo dura di una baleniera, e invece è caduto nelle grinfie degli antropofagi per finire poi nelle braccia della figlia del Capo: è tutto raccontato nel suo romanzo Taipi. I Marchisiani (che sono dei giganti) hanno smesso di praticare l’antropofagia ufficialmente nei primi del ‘900, ma c’è chi giura che abbiamo continuato fino alla seconda Guerra Mondiale. La loro cultura non è stata piegata dalle lusinghe dei Missionari o dalle armi dei colonialisti, ma dal denaro. Fino a cento anni fa, se chiedevi a un marchisiano «Che mestiere fai?» non avrebbe saputo rispondere, o forse avrebbe detto «Io vivo, e per vivere so pescare, costruire i farè, riparare goi, lavorare il legno, coltivare i tuberi, allevare i maiali ecc ecc». Poi è arrivato il denaro, e ognuno ha cominciato a fare un lavoro, ed è stata la fine di una società.

LA GOLETTA & ALTRE ROTTE

Ma veniamo al vero motivo di questo “ripasso” del mio viaggio in Polinesia Francese, cioè a quello che non ho visto e che invece vorrei tanto vedere, a quello che non ho fatto e vorrei fare. La prima cosa che vorrei fare è il giro delle varie isole a bordo della goletta da carico che porta i rifornimenti. È una piccola nave, con qualche cabina per i passeggeri, che trasporta automobili, cemento, elettrodomestici, merci varie e materie prime. Infatti le varie isole non sono autosufficienti e dipendono da Papete per tutto: se una macchina si rompe il meccanico sta a Papete. Addirittura… il pane fresco su alcune isole arriva in aereo dal capoluogo! E anche le varie attività commerciali, in questa economia post-colonialista “assistita”, non sono del tutto reali: i contributi dei Territori d’Oltremare e della Francia (ora anche dell’Europa) tengono in vita una economia un po’ fasulla. Detto questo, la goletta è il modo più tranquillo per raggiungere le varie isole, senza contare che a ogni sbarco c’è una festa. Ma soprattutto io vorrei tornare da quelle parti per visitare, fin che siamo in tempo, quel che resta di un mondo del tutto speciale, vale a dire la Polinesia come immaginiamo che fosse ai tempi del primo soggiorno qui di Folco Quilici. Ci sono infatti due altri Arcipelaghi, oltre alle Tuamotu-Marchesi-Isole della Società, sperduti più a sud, dove il turismo non è arrivato: le Isole Australi e le Gambier. Queste ultime sono poco ad ovest di Pitcairn, l’Isola dove si nascosero per sparire e sfuggire alla vendetta del Governo Inglese gli ammutinati del Bounty. Mangareva e Taravai sono famose per le perle e per le anacronistiche ma belle cattedrali ottocentesche costruite dai missionari. Le Australi invece sono molto a sud, oltre il Tropico del Capricorno, quindi hanno un clima più fresco. Rurutu, Rimatara, Raivavae, Rapa e Marotiri pare che davvero rappresentino la Polinesia degli anni ’50, con la gente che campa ancora concretamente di pesca, agricoltura e artigianato. E, in base alla loro collocazione, pare siano frequentate da branchi di balene. La Polinesia è il sogno del sogno del sogno, è una matrioska di sogni, uno dentro l’altro, e non finisce più di attirare…