Sorprendente Livorno!

Un mix di culture e popoli, marinai e fuggitivi ha prodotto l'anima della città. Unica, come la sua cucina
Martino_Ragusa, 25 Giu 2010
sorprendente livorno!
La Toscana è molto gelosa della sua identità e difende quanto le appartiene con lo zelo di una madre iperprotettiva. Basta vedere cosa è stata capace di fare con la lingua: pur di non vedersela contaminare l’ha imposta a tutta Italia. Anche la cucina è stata più volentieri esportata (soprattutto in Francia) che importata, rimanendo semplice e rigorosa come un’architettura rinascimentale, e soprattutto purista, al riparo da influenze esterne.

In tanta coerente unitarietà, Livorno è l’oasi di trasgressione, quell’eccezione che non perde occasione di sottolineare la sua diversità, se non altro per confermare la regola. Tutto cominciò nel 1593 con la promulgazione della Costituzione Livornina, che proclamava la città porto franco e concedeva agli ebrei libertà di culto e immunità dall’Inquisizione. Il risultato fu che da villaggio quasi disabitato (nel 1600 gli abitanti erano 1000), nel giro di pochi anni la città raggiunse i 20.000 abitanti, tra cui 5000 ebrei. Gli altri erano turchi, greci, armeni, francesi, olandesi, inglesi, spagnoli, portoghesi e russi. Ecco da dove derivano le caratteristiche forti e piccanti della cucina e del carattere livornese, rintracciabili nei piatti come nelle pagine del Vernacoliere.

Una cucina importante

Artusi visse qualche anno a Livorno e ne La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene riporta ben quattro ricette con la denominazione “alla livornese”: Arselle o telline alla livornese (ricetta n° 499), Scaloppine alla livornese (n° 302), Stiacciata alla livornese (n° 598) e Triglie alla livornese (n° 471). Anche queste citazioni danno idea della rilevanza gastronomica di questa città, in grado di vantare specialità come la ricetta delle triglie, conosciute in tutto il mondo. Anzi, si è finito con definire “alla livornese” molti cibi (soprattutto pesci) addobbati in salsa di pomodoro, ortaggio introdotto dagli ebrei sefaditi e nel cui uso questa città fu pioniera in Europa. Di derivazione ebraica sono anche molti piatti tradizionali come il Cuscussù (derivato dal Cous Cous), il Pollo in Galantina, le Triglie alla Mosaica (in umido in una salsa di pomodoro aromatizzata con sedano e passata) e i Carciofi Ripieni.

Povertà e fantasia

Notevoli e numerosi anche i piatti della tradizione povera. Fra i più interessanti ricordo il Bordatino, una polenta di mais (una volta era una farinata di grano saraceno) cotta in un brodo di fagioli e un tempo variamente arricchita con quello che c’era: cavolo nero, pesce fresco o secco e salato, lardo, cotenne. In molte case è ancora preparato l’Inno di Garibaldi, un piatto di recupero a base di lesso avanzato e rinvenuto in un intingolo di pomodoro con patate a tocchetti, aglio e rosmarino. Nella Francesina, invece, gli avanzi del lesso sono ripassati in una salsetta di pomodoro, cipolle (tante), sedano e carota, e con la partecipazione facoltativa di uova. E poi ancora il Cavolo Strascicato, gli Zerri sotto il Pesto, (sono pesci umilissimi prima fritti e poi conditi con aglio, aceto e peperoncino appena scaldati nell’olio di frittura), la Minestra sulla Palla (la palla è del cavolfiore) la Salvia Fritta e così via, fino ai piatti in assoluto più poveri della cucina italiana. Come la Minestra sui Discorsi, cioè campata in aria come i discorsi e fatta con acqua, sale e qualche osso; ma soprattutto il Brodo di Sassi del quale vale la pena riportare ricetta: dove il mare è pulito si pescano con un secchio due o tre sassi di quelli spugnosi e impregnati di piantine acquatiche e molluschi. Li si porta a casa tenendoli a mollo e badando che non vengano mai a contatto con l’aria e li si mette a bollire in una pentola con i classici odori da brodo. Dopo un’ora di bollitura si filtra il brodo, che viene riportato a bollore e vi si cuoce della pastina, stelline o tempestina. Si serve con un filo d’olio, pepe e pecorino grattugiato. Non si può dire se vinca la povertà o la fantasia!

Il vero cacciucco

Si tratta di zuppa di pesce ed è il piatto simbolo di Livorno. Obbligato, verrebbe da dire, in una città che fino al secolo scorso -quando si concluse la bonifica delle paludi che la circondavano- era priva di campagna e perciò con una cucina specialmente dipendente dal mare. So che verrebbe istintivo chiamarlo “caciucco”, con quattro C in tutto. Invece le C sono cinque e vanno pronunciate tutte, quindi non abbiate timore di abbondare e fate sentire entrambe le doppie. Probabilmente, la parola deriva etimologicamente dal turco küçüt che vuol dire minutaglia, o anche kaçukli che vuol dire mescolanza. L’etimologia turca non sorprende, per via dei fortissimi scambi commerciali che la città ha avuto con l’Oriente. Ma passiamo alla sostanza. Come tutte le zuppe di pesce, il cacciucco è nato come piatto povero, la sua origine è marinara, anzi è un vero “piatto di bordo” creato dai pescatori per utilizzare il pesce non vendibile perché troppo piccolo o poco pregiato. Le qualità sono numerose e variabili, ma con una base fissa affinché il piatto abbia il suo sapore finale: e scorfano (nero e rosso) gallinella, grongo (o murena), gattuccio (o palombo), seppie e canocchie sono dei must. Altra caratteristica imprescindibile è il gusto forte dell’aglio e dal peperoncino (in toscano “zenzero” ma non ha niente a che vedere con la radice di zenzero). A proposito del sapore esagerato del cacciucco, si è innescata da qualche anno una polemica su quanto un piatto di antica concezione come questo abbia ancora senso per un palato contemporaneo e una cucina salutista. La discussione è culminata nella recente pubblicazione del libro “Per un Cacciucco del Duemila” di Aldo Santini, scrittore e gastronomo livornese che finisce con il giudicare il cacciucco tradizionale -quello “da ribotta” (abbuffata), come direbbero a Livorno- immangiabile. Rimane il problema della ricerca del migliore cacciucco della città. Io non voglio togliervi il piacere della scelta e per non influenzare il vostro giudizio finale vi segnalo i ristoranti in pole position: Da Galileo (via della Campana 20, tel. 0586 889009), Il Sottomarino (via Terrazzini 46, tel. 0586 887025) e l’Antica Venezia (piazza dei Domenicani 15, tel. 0586 887353).

Il meglio in città

Gara di cacciucco a parte, sempre nel quartiere di Venezia, vi consiglio una visita all’Ancora (Scali delle Ancore 10, tel. 0586 881401), locale tipico lungo i canali che circondano la fortezza che utilizza prodotti del mercato ittico locale. Tra le specialità, antipasto di pesce crudo, carbonara di mare, orata al forno. Da provare anche la trattoria In Caciaia nell’antico borgo di Antignano (via dei Bagni 38, Antignano), ben condotta dall’oste di vecchio stile Giangio che offre penne al favollo (granchio), riso al nero di seppia, baccalà e cacciucco. Consiglio di prenotare e di evitare il weekend. Sempre cucina di mare e con un rapporto qualità-prezzo molto interessante è la Cantina Senese (Borgo dei Cappuccini 95, tel. 0586 890239), una trattoria con tovaglie di carta sulle quali non è raro che i clienti lascino preziosi schizzi a penna. Ottimi prezzi anche alla Botteghina (via Roma 155, tel. 0586 805110) con cucina tradizionale e sincera: primi vari con pesce, baccalà alla livornese, seppie con i piselli, acciughe alla povera e fritto.

“5 e 5” e Ponce

Che non vi venga in mente di mancare una visita a una delle tante torterie presenti in città. Ma attenzione, il tortaio non vi servirà un dolce bensì una fetta di torta salata di ceci, la stessa che i pisani chiamano cecìna (ma se la chiamate così il tortaio livornese non sarà contento) e i liguri farinata. Ecco le regole per individuare e gustare una buona torta: deve essere cotta nel forno a legna, sottile, con la superficie ben croccante e l’interno morbido. Va condita con olio di oliva di qualità e servita caldissima, va gustata da sola o più tradizionalmente dentro a un panino di forma allungata chiamato francesino. Se volete apparire introdotti chiamatelo “5 e 5”, strano nome in codice derivato dall’antica richiesta di cinque soldi di pane e cinque soldi di torta. Se pasteggerete poi con un bicchiere di Spumador (spuma bionda) farete la figura dei veri intenditori. L’Antica Torteria Al Mercato – Da Gagarin (via del Cardinale 24) ha fama di essere la migliore di Livorno grazie all’abilità del tortaio Stefano Chiappa, chiamato Gagarin fin dal 1961 (quando era un giovanissimo garzone) per una presunta somiglianza con l’austronauta russo. Ma poiché da queste parti il gusto vero è quello di schierarsi, vi consiglio di provare anche il “5 e 5” di Cecco (Pizzeria Torteria Da Cecco, Via Cavalletti 2/4, tel. 0586 881074) e decretare il vostro vincitore.

Il Ponce è l’altro assaggio obbligato. È diffuso in tutti i bar di Livorno, ma io vi consiglio di provarlo in quello che viene ritenuto il santuario del ponce, il Bar Civili (via della Vigna 53) vicino alla stazione ferroviaria. Come si può intuire, si tratta di un punch e si prepara scaldando una buona dose di rum (in livornese rumme) di marca non eccelsa, di quello usato per le correzioni, assieme a zucchero e a una scorzetta di limone, poi vi si aggiunge un caffè ristretto. Con molta probabilità la tradizione è dovuta ai numerosi marinai inglesi che affollavano il porto di Livorno, ai quali sembra si debba anche l’intercalare dialettale “deh” derivato dall’articolo inglese the. L’ennesima conferma della vocazione internazionale di questa sorprendente città.



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