Cristo si è fermato a Eboli, ma io no!
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Carlo Levi
Nasce a Torino, nel 1902. Di buona famiglia, si laurea in medicina, tramite lo zio Claudio Treves frequenta Piero Gobetti e altri intellettuali antifascisti. Conosce Felice Casorati e aderisce a movimenti artistici e pittorici, e inizia a scrivere e a dipingere. A Parigi conosce Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini ed Emilio Lusso e aderisce a “Giustizia e Libertà”. Tornato in Italia, viene prima imprigionato dai fascisti e poi spedito al confino in Lucania. E qui scopre la sua natura di antropologo: incontra un mondo lontanissimo da suo, il mondo agricolo-pastorale ancestrale del profondo Sud, e lo analizza, lo vive, lo viviseziona e lo racconta nel suo libro. E ne resta prima sconvolto, poi coin- volto. Sarebbe troppo facile iniziare con una citazione del libro di Levi, preferisco citare una frase che gli scrive la sua compagna di allora, Paola Olivetti: “Non affondare troppo i tuoi occhi in quelli neri e senza fondo di quella gente alianese”, oppure più tardi “Sarei già morta se fossi rimasta come te, sepolta tanti mesi in un gruppo di case lontane dal mondo, fra le donne velate, le capre, le streghe e gli angeli”. Con l’ultima osservazione si riferiva alle superstizioni di una civiltà contadina che ancora praticava riti stregoneschi e scaramantici, che credeva ai Monachicchi, i bambini morti e non battezzati che diventavano dei folletti dispettosi, che faceva le case con porta e finestre a forma di viso umano, per allontanare il malocchio. Una società di sfruttati, rassegnati. Levi è uno dei primi a sollevare la “questione meridionale”. E la sua compagna aveva ben capito che da questo mondo rischiava di essere risucchiato, perché era un mondo alieno, strano, affascinante.
I contadini lucani
“Ne conoscevo ormai molti di questi contadini di Gagliano (Levi al nome vero del Paese aggiunge una G), che a prima vista parevano tutti uguali, piccoli, bruciati da sole, con gli occhi neri che non brillano, e non sembra che guardino, come finestre vuote di una stanza buia”. E in un altro passo: “Mi svegliarono di primo mattino il rumore continuato degli zoccoli degli asini sulle pietre della strada, e il belar delle capre. È l’emigrazione quotidiana: i contadini si levano a buio, perché devono fare chi due, chi tre, chi quattro ore di strada per raggiungere il loro campo”. Queste sono solo poche delle righe che Levi dedica alla descrizione della vita contadina lucana di quegli anni. Il libro è appassionante e oltremodo interessante, se volete un suggerimento, leggetelo. Soprattutto se volete, come me, fare un viaggio in Lucania. Già io l’ho ampliamente citato parlando, in un pezzo di qualche tempo fa su questa rivista, di Matera. Ma stavolta si tratta di vedere nello specifico i luoghi in cui Levi è stato, di cui parla. E a proposito: si parla e si straparla di tradizioni contadine, ma che significato hanno avuto? Cosa erano concretamente, in termini di frustrazioni sociali, miseria e sottosviluppo? E cosa ne è rimasto, oggi? In Basilicata si discute tanto di trivellazioni e di sviluppo industriale, che creano un mare di problemi di tutti i tipi, ma c’è una alternativa? Andando a curiosare da quelle parti, sulle tracce di Levi, qualche cosa si capisce…
I Calanchi
Com’è, cosa offre il territorio lucano dalle parti di Aliano, 94 chilometri da Matera? Io mi sono imbattuto innanzitutto nei Calanchi, come scrive Levi “l’infinita distesa di argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissime, potevano sciogliersi nel cielo bianco”. È un posto incredibile. A me ha fatto venire in mente la Cappadocia. E in effetti la natura geologica è la stessa: il terreno è appunto argilloso e l’acqua scorre, scavando profondi solchi. Poi il sole brucia e provoca una sorta di rete di rughe, in cui l’acqua ancora si infiltra. Alla fine restano delle creste affilate e brulle, a “lama di coltello”. Un paesaggio – letteralmente – lunare. Bellissimo e vuoto. Dove possono pascolare solo le capre. Attorno ai calanchi, più sotto, c’è la terra-fertile: si tratta di distese pianeggianti in cui possono nascere solo seminativi e di qualche boschetto di ulivi, da cui cavare olio. E dall’agricoltura è più o meno tutto. Ma – come mi spiega Isa Abate, naturalista e guida escursionistica – oggi le crete sono diventate una attrazione e una risorsa, perché attirano, giustamente, molti turisti. Non è sempre facile visitarle, perché d’estate c’è un gran caldo e in altre stagioni, se piove, si scivola maledettamente sulla patina salina che ricopre le “biancane”. È comunque un territorio fragilissimo, sottoposto a continuo dissesto idro-geologico. E il bello è che molte parti della vicina Aliano sono edificate su questi terreni.
Le Maschere Cornute
Arrivo ad Aliano in pieno Carnevale, e mi accoglie un gruppo mascherato minacciosissimo: sono le maschere locali, che saltano e ballano. Un altro scrittore, Rocco Scotellaro, le ha descritte così: “Un rumore di festa primitiva che entra nelle viscere come un richiamo infinitamente remoto”. È una tradizione è antica, come mi conferma Don Pierino, il parroco: deriva addirittura da riti pagani ispirati al Dio Pan e alla Magna Grecia. Ma si capisce che, ancora una volta, la cultura è quella contadina. Le maschere rappresentano dei capri, con le corna. I gambali sono quelli dei pastori, impugnano una specie di bastone fatto di pelle di capra seccata, la maschera è luciferina-caprina, con lunghe corna, e sorregge un cappello multicolore. Urlano, grugniscono, saltano e fanno suonare dei campanacci che hanno appesi al corpo. Ho visto cose del genere un po’ dappertutto, dai Mamuthones sardi a maschere apotropaiche simili in Perù, sulle Ande. Sono la rappresentazione del diavolo, ma soprattutto la rumorosa rivincita dei pastori/contadini, che almeno per Carnevale si sfogano dei tanti soprusi che, storicamente, hanno dovuto subire dalla borghesia. Soprusi che Carlo Levi rappresenta benissimo, e racconta nel suo romanzo. Comunque sia, non si tratta di folclore, la Pro Loco non c’entra: ad Aliano il Carnevale è una tradizione ancora vera, viva.
Aliano
È arrampicato sopra ai calanchi, una isoletta nel mare di argilla. Proprio di fianco al paese c’è un dirupo magnifico e terribile, detto la Fossa del Carabiniere re. Prende il nome dal carabiniere che i briganti scaraventarono giù. Visito la casa-museo di Levi, passo davanti al suo monumento e ai murales che lo rappresentano. In Piazza incontro un gruppo di giovani. Alcuni lavorano, altri sono disoccupati. “Ma vi sentite privilegiati o sfigati ad abitare qui? Sognate anche voi di andarvene?”, chiedo. “No”, mi rispondono “sfigati no. Visto come va il mondo altrove, qui si sta meglio e forse da qui può ripartire qualche cosa di alternativo: abbiamo la terra, il paesaggio, la cultura e un senso di identità e di legame al paese.” Teresa, la guida che mi porta in giro, mi dice che gli elementi per ripartire ci sono. Don Pierino mi parla delle prospettive dell’agricoltura, legate soprattutto all’olio: se riusciranno a valorizzare le loro cultivar, a vendere l’olio in bottiglia e non all’ingrosso, ce la possono fare. Molte delle scene del film di Rosi con Volonté le hanno girate qui, ma non ritrovo alcuni dei contesti più suggestivi. Mi dicono che per ritrovare quelle inquadrature devo andare a Craco. E, muovendomi nella zona, noto una cosa: non c’è quasi mai campo per il telefonino. Non sono un maniaco della connessione, anzi. A me personalmente potrebbe stare anche bene questo “magnifico isolamento”, ma non lo trovo giusto. La rete è una infrastruttura preziosa per lo sviluppo. Con la scusa che qui abitano pochissimi abitanti, evidentemente nessuno dei vari gestori ha pensato di investire. Ma viceversa l’opportunità di essere collegati, per luoghi che subiscono da secoli di esser “tagliati fuori”, diventa un diritto, un servizio pubblico. Peccato che sia invece tutto lasciato all’iniziativa speculativa privata. Ma intanto sono a Craco…
Craco
È uno spettacolo unico nel suo genere. È un paese fantasma, un paese completamente abbandonato. Una sorta di Pompei contadina del secolo scorso. Adesso è recintato e si può visitare solo con una guida: Nicola. Craco è stato un Paese importante: lo testimonia la Torre Normanna del 1040, il Convento del 1630, i resti della Chiesa di San Nicola. Sotto gli Angioini, dai documenti, risulta che pagava un sacco di tasse, quindi era ricco. Durante la dominazione Francese aveva 2.000 abitanti, che a fine dell’800 erano anche di più. Qui i Frati avevano addirittura un Centro Studi sull’agricoltura, molto famoso. Poi, nel 1963, è franato tutto, letteralmente. Gli edifici più antichi erano stati saggiamente costruiti sulle rocce, ma poi il resto del paese si è allargato&allagato. Allargato nel senso che si è espanso, su terreni argillosi e franosi. Allagato perché, per causa delle frane, le fogne e i tubi dell’acquedotto hanno cominciato a perdere, a creare infiltrazioni e quindi nuovo dissesto. Gli edifici di cemento armato del primo dopoguerra pesavano troppo per il fragile equilibrio geologico. Il campo sportivo, che ha spianato una intera zona, ha dato il colpo di grazia e il paese è letteralmente crollato ed è stato abbandona- to. Adesso si presenta come un luogo spettrale e unico nel suo genere. “Ma quali prospettive avete da queste parti?” chiedo a Nicola. “Il Paese stesso è una prospettiva: adesso è un “Parco Museale Scenografico”, attira studiosi e turisti da tutto il mondo, a migliaia”. Tra l’altro è uno dei set più famosi: qui hanno girato – oltre a Rosi – anche la Wertmüller, i Taviani, Lattuada, Rocco Papaleo col suo Basilicata Coast to Coast e persino uno 007.
Franco Arminio e lo sviluppo della poesia
A Craco incontro Franco Arminio, giornalista, documentarista e soprattutto poeta. Ha scritto “Geografia commossa dell’Italia interna” nel 2013, poi Cedi la strada agli alberi, Poesie di amore e di terra, che ha avuto un successo strepitoso. Si definisce “Paesologo”. “Cosa vuol dire?” chiedo. “Che mi occupo di piccoli paesi”. Lui ha scritto che “bisogna dare fiducia al margine, ladro è chi sminuisce la vita dei piccoli borghi”. Gli dico che noi stiamo portando avanti la filosofia di Italia-slow tour, quindi con me sfonda una porta aperta: bisogna valorizzare quella che viene intesa come “Italia Minore”. Qui a pochissimi chilometri, in Val d’Agri, lo sviluppo sembra essere quello del petrolio, ma naturalmente Arminio è di parere opposto. A lui – un poeta, non un economista! – i sindaci qui attorno hanno affidato l’incarico di progettare un piano di sviluppo della zona. Piano che lui ha tracciato, basandosi sulla bellezza ancora sconosciuta e tutta da sfruttare di questi luoghi, di questi paesaggi. Che può innescare – come già è successo – un volano turistico e culturale importante. Già qui Craco è un Laboratorio di ricerca sull’Ambiente e sul dissesto, per la difesa del suolo. E ad Aliano, ogni anno, in agosto, c’è il Festival “La luna e i Calanchi”, a cui partecipano migliaia di persone. Per non parlare di Carlo Levi. Ma poi, nel progetto di Arminio, c’è soprattutto il rilancio della terra, dell’agricoltura. Qui la terra è buona, produce cose buone, lui la definisce una “farmacia naturale”. E può dare molto: non solo seminativi che hanno poco mercato, non solo pastorizia (che comunque deve qualificare i suoi prodotti), non solo olio (che pure potrebbe essere molto più pregiato), ma anche altre coltivazioni più specializzate. Il tutto confezionato in una cornice culturale, per il rilancio non solo di questa fetta di Basilicata, ma proprio per realizzare un nuovo modello di sviluppo che – provando a risolvere la “questione meridionale” – possa dare risposte anche alla domanda, in generale, di un nuovo sviluppo compatibile, di contro alle regole e ai valori di uno mondo che sta andando in rovina. Anche Carlio Levi, del resto, pensava che da questa terra, con tutte le sue contraddizioni, sarebbe potuta partire una riscossa politica e culturale. A volte i letterati e i poeti sono i migliori compagni di viaggio…