Chiaccherata con Syusy sul nuovo viaggio in Africa e Medio Oriente

Turisti per caso, la nostra Africa! Syusy fra Senegal, Mali e Togo. E poi in Libano e Siria
Turisti Per Caso.it, 07 Apr 2006
chiaccherata con syusy sul nuovo viaggio in africa e medio oriente
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Syusy è appena tornata da una nuova tappa del viaggio in Africa e Medio Oriente che verrà raccontato nelle prossime puntate estiveSenegal, Togo e Mali che l’ha vista impegnata per più di venti giorni nell’Africa sub sahariana, proprio mentre stava lavorando al montaggio delle nuove puntate. Ecco come è andata, tra un tramezzino e una spremuta per riempire l’intervista e lo stomaco.

Allora Syusy, raccontaci come sono andati questi venti giorni in Africa… Tutto è andato come avevamo progettato. Sono partita con Raffaella, una ragazza di Bologna che andava a sposarsi in Senegal col mio amico Jesus Issa Sek. Con lui abbiamo partecipato a una cerimonia animista. Jesus è nato in Senegal, ma da venticinque anni gira per il mondo, ed è stato la guida perfetta per me! Lui è nato a Bargny, un villaggio poco lontano da Dakar abitato dall’etnia Lebou. È tornato lì perché è destinato a succedere alla nonna nelle cerimonie animiste, per cui deve passare attraverso dei riti di iniziazione. La prima parte del viaggio ha avuto lo scopo di seguire il rito, è stato molto interessante perché era come essere suoi parenti.

Raccontaci del matrimonio. Raffaella e Jesus si sono sposati ufficialmente in municipio, a Bargny. Poi c’è stata la cerimonia, detta “Tuuru”, che ha coinvolto anche Raffaella. È stato un modo per entrare a fare parte della famiglia. Sono molto contenta di avere partecipato a questo rito.

Perché hai scelto di andare in Africa con Jesus? Per andare in Africa con un africano, anche se “sui generis”, visto che ha vissuto in America e in Europa. Per molto tempo è stato anche a Roma e Bologna. Volevo evitare di farmi raccontare l’Africa da un bianco, come spesso succede, così ho deciso di andare con lui. In realtà Jesus, come dice Raffaella, è più animista degli animisti, malgrado sia stato per lungo tempo lontano dal suo villaggio…

O forse proprio per questo. Forse proprio per questo, esatto.

Il suo punto di vista, che spesso coincide col mio, è molto mistico-religioso nel senso che cerca di cogliere la tradizione animista più vera, quella dei Dogon documentata da Marcel Griaule. Questo antropologo francese li studiò per quindici anni a partire dal 1931, le sue opere più famose sono “Il dio d’Acqua” e “La volpe pallida”. La cultura Dogon in realtà sottende tutta la religione animista di quella parte dell’Africa occidentale, è una cultura orale che contiene tutti i miti delle origini. Il merito di Griaule è stato di trascrivere tutto il racconto del vecchio cacciatore cieco Ogotemmeli, una sorta di Omero o Esiodo africano che ha ricostruito i miti e le leggende del proprio popolo. La cosa fondamentale era farsi raccontare l’Africa da un africano, di italiani che ci raccontavano la loro esperienza ne abbiamo trovati tanti, molti artisti per esempio, ma era sempre un punto di vista esterno.

E Dakar? Abbiamo visitato a fondo Dakar: è una grande capitale, si può dire la città per eccellenza di quella parte d’Africa, soprattutto per la sua storia coloniale. È una città che nasce con la colonizzazione del continente africano e da lì partivano gli schiavi per l’America. La prima visita infatti è stata all’isola di Gorée, di fronte a Dakar

Cosa ha di particolare l’isola di Gorée? Gorée è detta anche “isola degli schiavi” perché lì arrivavano tutti gli schiavi dalla Costa d’avorio, dove ora ci sono il Togo e il Benin, prima della deportazione. In quel tempo quella terra era abitata dalla popolazione Uruba che è stata decimata dalle deportazioni di massa. Giunta in America ha dato le radici alla cultura afroamericana moderna. È stata un’esperienza spaventosa, se si pensa che sono state portate via tutte le persone più belle e forti di una popolazione, con un terribile depauperamento della cultura e della storia locali. In Benin nel 1600 i portoghesi trovarono una cultura fiorente, un’arte meravigliosa, quasi un rinascimento africano, ma hanno perpetrato un vero e proprio genocidio, una deportazione di massa, un massacro. La responsabilità coinvolge quasi tutti i paesi europei, Portogallo, Olanda, Inghilterra e anche la Chiesa, tanto che il papa è andato a chiedere ufficialmente scusa del comportamento di molti vescovi conniventi. Come vedrete nelle puntate è molto interessante andare a vedere direttamente lì cosa è successo in quel periodo triste per la storia africana.

Cosa avete fatto a Dakar? A Dakar abbiamo approfondito i caratteri di arte e artigianato locali. Dakar è una città viva, dove chi ha iniziativa può fare molte cose. Soprattutto le donne mulatte sono molto attive. Abbiamo conosciuto una donna che produce delle stoffe bellissime, tessuti di alta qualità a livello industriale, e poi una stilista conosciuta in Francia e nel mondo. Poi naturalmente artisti molto importanti che fanno mostre e vendono in Europa e America, ognuno ci ha raccontato la sua interpretazione dell’arte.

Cosa avete appreso dell’arte africana? Tutta l’arte contemporanea è stata influenzata dall’arte africana, scoperta negli anni trenta tramite una famosa mostra d’arte a Parigi. L’arte moderna è nata lì, Pablo Picasso si è ispirato a quell’arte per dare vita al cubismo. Sono andata al museo di Dakar dove ho conosciuto il direttore, molto attivo nella promozione dell’arte africana. È stato lui a dare spazio agli artisti e artigiani africani e alla loro capacità di produrre bellezza. È una caratteristica tipica di questa parte d’Africa: gli uomini sono belli, le donne sono bellissime, si vestono con colori meravigliosi…

Sei stata molto colpita dalla bellezza africana… Sì, è una bellezza che ti colpisce e rimane dentro. I più lungimiranti hanno capito che questa era una delle cose che potevano essere esportate. C’è stato un ritorno di influenza dell’arte occidentale verso l’arte africana? Certo, c’è stato uno scambio, a Dakar si respira cosmopolitismo, con riferimenti continui soprattutto a Parigi e alla Francia.

E l’emigrazione? I giovani vogliono venire tutti in Europa, molto spesso sfuggono dalle campagne per la miseria, ma non solo. L’emigrazione a volte è mossa da curiosità per lo stile di vita e per le città occidentali. Con 2-3000 euro circa, soldi che lì bastano a comperare un orto, si pagano il viaggio per l’Europa, a volte in clandestinità. Ma se un ragazzo viene a lavorare qui spesso ha delle crisi, per il clima cui non è abituato, per le condizioni di vita precarie. Mi sono impegnata a dissuadere chiunque volesse venire da noi, invitandoli a rimanere a casa loro dove stanno meglio e c’è molto più da fare.

Anche perché qui spesso vengono a fare lavori umili o degradanti Infatti, mentre là quelli che si impegnano riescono a realizzare qualcosa, molti vengono in Europa alla ricerca di chimere, per poi ritrovarsi in situazioni assurde e a volte molto spiacevoli. Ci hanno raccontato storie anche molto tristi. Tutto, in fondo, per la curiosità per l’occidente. Le persone, spesso donne, che effettivamente fanno là cose egregie, come per esempio la stilista che ho incontrato o Dion che ha l’industria tessile, anche se hanno rapporti frequentissimi con l’occidente, non ci pensano proprio a trasferirsi da noi! Riuscire a costruire qualcosa di produttivo là è meglio per tutti, sia per chi ci riesce che per la comunità.

Quindi la città è stata molto coinvolgente, ma cosa ci racconti della cerimonia? È stata una cerimonia animista in cui le donne presiedono al rito, molti dei presenti vivono stati di trance anche grazie alla musica, che non è da intrattenimento ma ha dei significati rituali. Inoltre vengono sacrificati animali. Noi non riusciamo a capire molto bene questa religione che invece coinvolge molto le popolazioni locali, ma in realtà è la base delle grandi religioni monoteiste, il buddismo, l’islam, il cristianesimo… È molto bello tornare indietro a quel tipo di rito, perché è un po’ come quando gli dei abitavano con noi, con gli esseri umani che facevano i sacrifici portando loro il cibo e chiedendo favori divini.

Ci sono simbologie molto forti? Certo. Il sangue che scorre è quello degli animali, ma in realtà simboleggia il sangue dell’uomo, è come un autosacrificio simbolico. Noi occidentali ammazziamo continuamente animali, e non più per i favori degli dei…

Anzi, spesso per motivi molto futili come per le pellicce. Esatto, in modo violento e senza accorgerci del sacrificio, che invece in una realtà contadina ha un valore molto pratico, di dono simbolico: il sangue che scorre deve uscire tutto, non deve perdersene una goccia, poi deve essere manipolato in un modo particolare e poi deve essere versato su di sé, è davvero impressionante!

Quali animali sono stati sacrificati? Una capretta e una gallina.

Dicevi che Jesus deve sostituire la nonna, quindi c’è anche un cambio di genere oltre che di generazione? Quella animista è una religione femminile, matrilineare, sono le donne che gestiscono il rito. Ma nella famiglia di Jesus sua nonna aveva sostituito il proprio padre, quindi il cambiamento riguarda anche il genere, ma dipende dall’importanza del componente.

La nonna di Jesus è rimasta sempre nel villaggio? Sì, lei non si è mai mossa. È una donna potente, molto forte e carismatica.

Hai parlato con lei tramite Jesus? Sì, mi ha spiegato come lei ha avuto il passaggio delle consegne dal padre. Tutto avviene con una specie di crisi: c’è il genio che parla in te e ti mette in crisi, tu puoi uscire e così guarire solo se segui la sua voce. È una specie di vocazione molto significativa che ha sfaccettature psicologiche.

Questo si riflette nella medicina locale? La loro medicina cura molto bene i disagi psichici.

È possibile che le nostre religioni siano “estensioni” di quella animista? Cioè: una religione di quel tipo può vivere e prosperare all’interno di una realtà piccola come un villaggio, mentre per diffondersi in civiltà più ampie è necessario che si trasformi in grandi credo monoteisti? O no? Tu hai visto i riti in diretta, il monoteismo è un progresso o solo una traduzione? Sicuramente il monoteismo risponde all’esigenza pratica di creare una nazione o un blocco unitario culturale e religioso esteso con un forte potere centrale. Per legare popoli geograficamente distanti si è reso necessario unire tutte le popolazioni divise sotto un unico dio, anche in vista dell’estensione territoriale. Gli scontri del periodo delle crociate per il medio oriente, i cui strascichi sono purtroppo tristemente visibili ancora oggi, ne sono un chiaro esempio… Il Cristianesimo, ad esempio, è la religione ebraica “liberalizzata”, per poterla espandere attraverso la conversione, e quella è stata la grande idea che ha permesso di diffondersi e prosperare per secoli.

Sei stata sul Niger? Sì, sono stata a Segou, al festival sul Niger, abbiamo sentito i gruppi musicali che sono gli eredi dei cantori tradizionali come Ogotemmeli, chiamati “griot”. Sono dei veri e propri cantastorie che cantavano i re e le gesta dei nobili, e corrispondono all’incirca ai nostri cantautori.

Hai incontrato Alì Farka Touré, the Bluesman of Africa? No, l’ho solo sentito per telefono perché già non stava tanto bene, e purtroppo è morto pochi giorni fa. Non l’ho visto anche se siamo stati proprio nel suo albergo, ma lui non c’era. È stato lui che ha promosso il blues del Niger, infatti è ance noto come the King of the Desert Blues, per il suo stile tipico che fonde il sound del Mali con influenze arabe e il blues americano. Ha vinto due grammy awards, e ha rappresentato una vera bandiera di riscatto per le popolazioni di quella zona dell’Africa, per cui ha lottato con tutte le forze. Ha iniziato a suonare con il djerkel, una chitarra artigianale che lui stesso aveva costruito.

C’è lo tesso rapporto fra il Mississippi e il blues afroamericano e il Niger e la musica locale? Esattamente, il Mississippi ricordava il Niger agli schiavi che venivano deportati in quella zona. Il fiume è la vita, e la musica è collegata al fiume così come è collegata alla vita.