Sulle orme di Steve McCurry in Sri Lanka
Aria umida e un autista di corporatura asciutta ci aspettano alla fermata del bus pubblico che dall’aeroporto ci porta alla stazione cittadina. Attraversiamo il mercato serale per raggiungere il nostro hotel, travolti dagli odori delle bancarelle e dei templi. È una notte di luna piena, la festa del Poson Poya, e incrociamo gli sguardi curiosi della gente che in fila fuori da una tenda bianca attende il turno per venerare il proprio dio e di tanto in tanto sputa a terra il liquido rosso del tabacco masticato che si mischia con la polvere grigia. L’indomani camminiamo fino alla stazione ferroviaria imboccando vie parallele al mercato dove ai carri di legno sporchi e ai fumi della strada si alternano mani indaffarate a sbucciare chili di aglio sul ciglio del marciapiede e mani che si allungano per chiedere qualche rupia fra casse di sardine e banane nere. Alla stazione un ragazzo sordomuto ci aiuta a trovare il nostro treno in cambio di 1000 rupie, equivalenti a una settimana di cibo per lui. E si parte. I raggi del sole filtrano tra il fumo nero che sbuffa dalla prima locomotiva, inondando i panni stesi delle baracche affacciate sulla ferrovia. Fra le chiacchiere fitte degli uomini a fianco a noi si inserisce la voce buffa del nostro primo autista di tuktuk che con un inglese stentato ci convince a far un giro di 3 ore intorno a Galle con lui prima del prossimo bus per Embipilitiya. Fra un sorpasso e l’altro nelle strade trafficate ci innamoriamo dei tuktuk, tipici taxi locali a tre ruote. La prima tappa a un centro ayuverdico ce la ricorda il sorriso sdentato del proprietario e i sapori forti delle piante di cannella e del chiodo di garofano che mastichiamo sorseggiando té. A Tangalla ci fermiamo a bordo spiaggia e subito quattro ragazzi dalla schiena scura e muscolosa si fasciano la testa con un turbante e imbracciano un bastone lungo e sottile, pronti a posare per i turisti sui trampoli da pescatori in riva al mare. La delusione di fotografare “finti” pescatori si trasforma in un’occasione per chiacchierare con loro. L’acqua è ancora troppo fredda per pescare dai trampoli. Sotto quei turbanti riconosciamo quel sorriso che si costringe a fingere per poche rupie a scatto. Forse non è così ma i sorrisi veri ci sembra di averli incontrati a fotocamera spenta, nel mezzo dei corpi ammassati sui bus pubblici. La gente qui non si conquista facilmente, forse a causa degli strascichi degli abusi subiti durante la guerra civile finita meno di una decina di anni fa. Un sorriso vero è concesso ai visi sconosciuti dei turisti solo in cambio di un sorriso altrettanto reale e spontaneo. E quando ne si riceve uno, il cuore si scalda e le distanze si accorciano.
Dopo la visita del tempio Yatagala Raja Maha Viharaya, animato solo dal gioco tranquillo di monaci bambini, saliamo sul nostro primo bus pubblico, schiacciati tra il profumo di sapone di un sari e il sudore del bigliettaio che si infila fra la gente per recuperare i soldi della corsa. A Matara cambiamo bus per Embilipitiya e ci arriviamo nel buio, un tuktuk ci porta alla nostra “homestay” ad Uda Walawe dove le mani sapienti della cuoca ci preparano la cena più buona della vacanza, riso fritto e vari contorni (piatto comunemente chiamato Rice and Curry) e i racconti sugli elefanti del proprietario ci intrattengono più di un documentario. Nonostante la tarda ora il proprietario ci organizza un safari privato nella riserva naturale di Uda Walawe per le 6 del mattino dell`indomani. Osservare gli elefanti allo stato brado in bassa stagione tra la polvere rossa e i cespugli fitti del parco è una bellissima esperienza, ma come la gente del luogo anche questi enormi pachidermi non si concedono volentieri alla fotografia (figurarsi in alta stagione, da dicembre a marzo, attorniati da 20 jeep ciascuno). Vorremmo essere piccole mosche per non infastidirli e goderci il loro respiro placido e la loro mastodonticità.
A fine safari, scoraggiati dalla lunghezza e dagli innumerevoli cambi del viaggio in bus fino ad Ella, affittiamo un autista con macchina per il tragitto su per le montagne rigogliose del centro dell`isola. È un susseguirsi di curve e cascate, risaie e tettoie ambulanti cariche di frutta. Il proprietario della nostra homestay a Ella ci rimedia una stanza in un edificio ancora in costruzione. Neanche l’hotel più lussuoso a Ella poteva regalarci una vista tanto bella sulle piantagioni di té e l’occasione di vedere le raccoglitrici liberarsi, alla fine di una lunga giornata di fatica, dei loro sacchi colorati carichi di foglie di té proprio all’imbocco della nostra stradina; qui un uomo conta i sacchi e li carica su un furgone. Così ci perdiamo in una passeggiata nelle terrazze dove le mani veloci e sicure delle donne selezionano solo le foglie di té più’ morbide e le loro teste forti sorreggono il peso del sacco dove infilano il raccolto. Alcune chiedono “money” in cambio di uno scatto; come con i pescatori sui trampoli, non otteniamo un sorriso spontaneo, i loro occhi pero’ sono sinceri.
Ingaggiamo il tuktuk di Shan per portarci fino al Nine Arches Bridge, da dove passa il treno panoramico che taglia perpendicolarmente la regione centrale dello Sri Lanka. Come un tuktuk possa salire certe pendenze ancora non ce lo spieghiamo, evitando galline in libertà e cani randagi in strade sterrate strettissime. Ci lasciamo fotografare da Shan che per una volta prende il nostro ruolo da “turista”. Come molti ha un telefonino di ultima generazione ma una casa senza elettricità, segno del veloce e caotico sviluppo che sta subendo il paese, tra la voglia di modernizzazione e la mancanza delle infrastrutture necessarie. La cena piccante alla homestay si anima con una lezione di sinahlese (la lingua principale parlata in Sri Lanka) da parte della cuoca. Alle 6 l’indomani siamo già seduti sul treno blu, vecchio e ciondolante, che da Ella ci porterà a Kandy e che ci regala i panorami più mozzafiato del viaggio. È un continuo salutare dal finestrino le casacche bianche e blu dei bambini, le trecce perfette delle bimbe e i Tamil (minoranza della popolazione di origine indiana che lavora nelle piantagioni) indaffarati alla raccolta. Il paesaggio varia a ogni curva, dalla giungla fitta a foreste sempreverdi e cespugli di felci, a palmeti infiniti.
A Kandy scendiamo invece in una giungla cittadina, fatta di urla e caos. La folla in movimento ci travolge nel suo corso, ed eccoci al Tempio del Sacro Dente di Buddha, che trasuda di antichità e incenso, a girare a piedi nudi fra veri devoti e troppi turisti.
Sul bus pubblico per Dambulla, ci sediamo dietro alla schiera di immagini sacre, ciondoli e statue di Buddha puntualmente a fianco di ogni autista che abbiamo incontrato nel viaggio. Ci stringiamo tra gli zaini, le chiacchiere docili delle donne che tornano dal mercato e la musica alta degli amplificatori sopra le nostre teste. Dopo quindici minuti di ingorghi di tuktuk, motorini, bus, macchine e uomini sentiamo un improvviso schianto e le grida della folla ai lati della strada. Il bus ha investito qualcuno, niente di grave, ma non riusciamo a capire molto di più, nessuno parla inglese. Seguiamo la gente che scende dal bus, certi che da qui non si muoverà per molto tempo. Fermiamo un tutktuk in questo paese che è mussulmano come molti nel centro dell’isola. L’autista ci offre alcune samosa, (deliziosi involtini di pastella fritta ripieni di verdura piccante) nell’attesa che si defili una processione buddhista di carri coloratissimi, sarong e camicie di lino bianche. Arriviamo a Dambulla col buio e ci accoglie alla reception dell’hotel un ometto sorridente che si massaggia la pancia gonfia. Siamo gli unici occidentali e suscitiamo l’interesse dei locali, fatto di occhiate e bisbigli. Stessa reazione al ristorante dove ci consigliano di mangiare. Sembrano tutti burberi, ma basta un semplice sorriso e mostrano tutti e quanti i denti gialli da tabacco. Ad attenderci l’indomani troviamo un autista di tuktuk alto oltre la media e impacciato, che non parla inglese, un gigante buono. Comunicheremo a gesti tutto il giorno. La maggior parte dei turisti che abbiamo incontrato in viaggio si trovano in questa regione, fra la vertiginosa scalata al monte di Sigiriya e i resti archeologici di Pollonaruwa. Sul sentiero per la cima di Sigiriya ci distraggono più volte simpatiche scimmiette, Toque Macachi, e gli “hello” allegri e timidi di una scolaresca srilankese in gita. Le “donne delle pulizie” instancabilmente spazzano la polvere dopo il nostro passaggio e i “muratori” si passano a catena sacchi carichi di cemento per ricostruire parti di muro dell’antica fortezza. La vista dall’alto di Sigiriya è formidabile, distese infinite di giungla e teste bianche di Buddha che fanno capolino. Dopo un’ora di tutktuk e avvistamenti di elefanti a bordo strada arriviamo a Polonnaruwa, un susseguirsi di reperti archeologici tra vasche, colonne, mura, statue e stupa (particolari monumenti buddisti a forma di cupola) che raccontano la storia millenaria del luogo fatta di ricchezza, in forte contrasto coi vestiti stracciati dei venditori ambulanti di souvenir. Nel pomeriggio rientriamo a Dambulla, fermandoci al Tempio delle Grotte dopo aver lasciato una cospicua mancia al nostro gigante buono. La salita per raggiungere il tempio è accompagnata da scimmiette che vivono tra alberi e spazzatura, ma all’arrivo siamo ripagati con la visita dei templi più ricchi e colorati del viaggio. Tra le enormi sculture del Buddha spuntano di tanto in tanto statue di divinità indù, ricordando la commistione di religioni dello Sri Lanka che per molti anni e’ stata al centro della guerra civile nel paese. L`indomani mattina salutiamo il Buddha dorato alla base del monte, che veglia sul Tempio delle Grotte, e ci infiliamo in un bus “privato”, più piccolo, con aria condizionata e poco più costoso del bus pubblico. La gente locale su questi bus ha un aspetto più ordinato e composto. Destinazione Negombo, cittadina sul mare a pochi chilometri dall’aeroporto internazionale di Colombo. Una volta arrivati, camminiamo tra le gioiellerie e lo sporco dei vicoli centrali per infilare la strada costiera puntellata di hotel imponenti e lussuosi a fianco di casupole sgangherate di pietre e lamiera. L’impatto visivo è assurdo. La spiaggia di Negombo si estende a vista d’occhio e, purtroppo, solo le aree davanti agli hotel sono curate dagli stessi per quei turisti che amano sorseggiare cocktail di frutta sdraiati al sole su lettini privati. Fra gli hotel e il mare coppiette di locali nascondono il loro imbarazzo dietro un’oruva, tradizionale catamarano del luogo, e venditori ambulanti, parlanti diverse lingue, ti rincorrono per pochi dollari. La punta nord della spiaggia ospita matasse di reti, sporcizia e barche di pescatori che al loro ritorno dal mare sbrogliano le reti con mani veloci. Incontriamo le stesse mani al mercato del pesce delle sei del mattino seguente, indaffarate a pulire barracuda, squali, muggini, sardine, gamberi… Sentiamo ancora le grida insistenti dei pescatori, le scarpe scivolare sugli scarti del pesce, il puzzo costante delle bancarelle. E nonostante tutto non vogliamo andarcene, abbiamo finalmente trovato i pescatori veri, quelli il cui unico “trampolo” per mesi è un’imbarcazione nel mezzo dell’oceano nella speranza di vendere tutto il pescato in una mattina di giugno a Negombo.
Foto di Fabio Ponzoni ©