Etiopia terra d’Africa
Indice dei contenuti
1° giorno
ADdis Abeba il Nuovo Fiore
Io e il mio amico Orso, in compagnia di Bunna del Gruppo Reggae-rock degli Africa United, siamo partiti da Roma, con Ethiopian Airlines, che si è rivelata un’ottima compagnia, sia nei voli da eper l’Italia, ma soprattutto in quelli interni: l’Etiopia è servita da una sorta di Circolare Aerea, che tutti i giorni fa il giro delle maggiori città, comodissima. Arriviamo ad Addis Abeba, dove ci aspettano i nostri amici Betta (italiana) e Ghirma (etiope), che ci porteranno in giro con la loro organizzazione turistica (bettagi2002@yahoo.Com). Addis Abeba significa “Nuovo Fiore”, che da noi è il nome di una gelateria: non a caso facciamo un salto in una gelateria gestita 0da italiani molto simpatici, con cui facciamo amicizia. Addis Abeba non si può dire che sia bella, diciamo che… È un tipo. È nata da poco (100 anni) e rispecchia la storia recente del Paese. Non ditemi che sono monomaniaco, ma non si può visitare un Paese senza conoscere per sommi capi anche la sua storia contemporanea. Riassumo: dopo la cacciata degli Italiani, nel 1941 riprese il potere il Negus Hailè Selassie, l’Imperatore. Che, contrariamente a quanto credono i Rasta, non era un Santo, in termini democratici… Infatti, nel 1974 è stato deposto da una giunta militare e para-socialista, guidata da Menghistu. Non a caso Addis Abeba è ancora in parte, urbanisticamente, italiana e in parte socialista, con grandi viali e grandi spiazzi “da parata”. Per la cronaca: dopo la carestia che a metà degli anni ‘80 ha fatto un milione di morti, il regime di Menghistu è caduto nel 1991. E l’Etiopia, pian piano è diventata, da Repubblica Popolare, una Repubblica Federale, che sta tentando intelligentemente di tenere insieme le varie etnie. Ci sono state elezioni multi partitiche, quindi la democrazia c’è, sia pure con molti problemi ancora aperti. La guerra con l’Eritrea e ora i contrasti con le Corti islamiche somale (fin dalla metà del 1500, l’Etiopia Cristiana è un baluardo strategico contro l’espansione musulmana) hanno creato problemi economici e sociali gravi. E, lungo le strade di Addis Abeba, tutto questo si intuisce: la povertà è tangibile. Uno potrebbe anche risultare deluso dalla città, che invece – oltre al clima ottimo, visto che è a più di 2000 metri – ha cose interessanti da vedere…
Il Merkato e Lucy
Per esempio il Merkato, il più grande dell’Africa Orientale, costruito dagli Italiani. È interessantissimo: bellissime ad esempio sono le donne che vendono vere e proprie sculture di burro artigianale. Dal mercato si capiscono alcune cose: le derrate alimentari tracciano uno spaccato dell’agricoltura e conseguentemente della cucina etiope (incredibili le spezie, il caffè ecc). Le merci e i manufatti (che arrivano quasi esclusivamente da India e Cina) la dicono lunga invece sui rapporti economici e commerciali. Non si può poi fare a meno di fare un salto al Museo Nazionale a trovare Lucy, la prima donna, considerata la vera Eva. Lucy (o meglio la copia di Lucy esposta al Museo) è stata chiamata così dai paleo-antropo-archeologi che l’hanno scoperta mentre uno di loro canticchiava l’omonima canzone dei Beatles. È piccolina, molto più piccola della Syusy, ma è il primo esempio (per ora) di Homo Erectus. Non vi ammollo un altro box, perché mi odiereste, ma una visita al Museo è d’obbligo, perché ci trovate una ricostruzione abbastanza corretta (dicono gli esperti) dello sviluppo dell’Evoluzione umana, e dei motivi di questa evoluzione: pare che ci siamo alzati in piedi per attraversare alla svelta la Savana e vedere la strada da sopra l’erba alta. Ci sono grafici e disegni da cui si capisce bene che non discendiamo banalmente dalle scimmie, ma che la nostra specie Sapiens si è evoluta secondo uno schema “a cespuglio” (anzi, a ramo di corallo) dove ogni ramo si diparte da un altro. Alcuni si sono estinti, altri no. E una cosa è chiara e accertata dai genetisti: l’Umanità è nata qui, di conseguenza noi Europei siamo tutti immigrati dall’Africa. Eravamo tutti “faccette nere”, con buona pace di Mussolini e dei suoi attuali epigoni neo-razzisti.
2° giorno
Il Monastero sul Lago Tana
Partiamo presto in aereo e andiamo a Bahar Dar e poi sul Lago Tana, dove in barca raggiungiamo uno dei tanti monasteri che stanno sulle isole. L’atmosfera del Monastero (dove entrano solo gli uomini) è interessante, un eremo sospeso fra un’aria africana e tibetana. La pianta della chiesa è circolare, molti di questi monasteri, che risalgono al 1500, sono costruiti su luoghi di culto pre-cristiani e risentono della tradizione ebraica (se ci fosse Syusy direbbe che tutte le costruzioni arcaiche sono circolari, dalla yurta mongola in poi). C’è un prete copto che ci mostra il tesoro della chiesa: libri antichi e crocifissi bizantini d’oro e d’argento. Ci spiega anche la complicata architettura interna della chiesa, divisa in zone in cui possono o non possono stare i fedeli. E ci racconta le fasi della cerimonia religiosa, la messa, che dura ore e ore . Questa zona è stata a lungo esposta alle lotte fra cristiani e musulmani. Poi, quando arrivano gli italiani, pensano bene di profanare questi luoghi, prendono i monaci e li ammazzano a decine (vedi eccidio di Debra Libanos).
Il Nilo Azzurro e gli Azmari
Prendiamo un’auto e un’altra barca e andiamo alle famose Cascate del Nilo Azzurro, che sono riprodotte sulle banconote locali. James Bruce fu tra i primi europei a vederle e le definì «una visione magnifica che il tempo non potrà mai offuscare né cancellare dalla mia memoria». Adesso… Non si vedono. O, meglio, la costruzione di una diga ha ridotto la portata delle cascate. La diga produce energia elettrica per tutta l’Etiopia, che in questo modo è quasi autosufficiente. Sarò anche un maledetto riformista (mi piacciono le pale eoliche dovunque e mi va bene anche la benzina, purché pulita), ma non so dare torto alla diga, nonostante i problemi: oltretutto, anche senza le cascate al massimo, il posto è meraviglioso e la natura ha colori incredibili. Se vi sforzate, riuscite a vedere qualche coccodrillo nell’acqua limpida. Lungo il viaggio di ritorno, sale in barca un signore che canta e si accompagna con una specie di violino: è un cantastorie e fa delle rime improvvisate (in particolare su Orso). Più tardi, in un locale vediamo uno spettacolo di altri azmari: sono in quattro, due (un uomo e una donna) ballano e cantano, gli altri suonano. Fanno movimenti frenetici, improvvisano sulla musica. Ci traducono i testi, e pare che siano irriverenti, ironici e satirici. Da sempre gli azmari rappresentano l’informazione popolare. In serata avremmo dovuto arrivare a Gondar, ma ci andremo domani…
3° giorno
Tra Africa e Asia. In viaggio da Gondar ad Axum
Girare in macchina per le campagne è interessantissimo: la gente che cammina e cammina instancabilmente lungo le strade, i costumi e i veli, le feste, le chiese che sembrano degli ashram indiani, si capisce bene la delicatissima ma preziosa collocazione geografica dell’Etio-pia: sospesa fra l’Africa e l’Oriente. Gondar è bellissima, è detta la Camelot d’Africa per i suoi castelli, ha notevoli testimonianze urbanistiche del periodo fascista. Dopodiché abbiamo raggiunto in aereo la zona di Axum. Un posto meraviglioso, tanto ricco di spunti che uno potrebbe passarci una settimana. C’è una atmosfera che ti prende e ti conquista. Si sta bene, sotto all’enorme baobab che sta in mezzo alla piazza. Passa un funerale, e tutto si anima, col corteo funebre e la musica. Poi passa un cammello, quindi tutto torna silenzioso. Ma è la Axum antica a essere uno dei punti storici più importanti del mondo. Concedetemi ancora un po’ di storia: il Regno di Axum si sviluppa fin dal IV secolo a.C. Si dice che prima fosse la sede della famosa regina di Saba, sovrana degli adoratori del Sole, di cui parlano la Bibbia, il Corano e anche il Kebra Nagast etiopico. Ad Axum sono andato a vedere quella che – dice la leggenda – è la tomba della regina. Che, invece, pare fosse yemenita. Anche nei ristoranti, sui menu, ho trovato il riassunto delle sue imprese, soprattutto erotiche. La tradizione vuole che fosse «bruna ma bella» (Cantico dei cantici 1-5), tradotto: molto pelosa ma piacente. Andò a trovare re Salomone e gli disse che gli avrebbe concesso «qualsiasi cosa», tradotto: gliela avrebbe data, e infatti la tradizione vuole che dal loro amore sia nato Menelik Primo, il fondatore della dinastia, quello che poi fuggì da Gerusalemme rubando l’Arca dell’Alleanza – quella che cercava anche Indiana Jones. Certo è che il Regno di Axum, e in genere la civiltà etiopica, deriva da una alleanza tra l’oriente Yemenita e l’ebraismo. E oggi, in una chiesa inaccessibile ad Axum (Santa Maria di Sion), secondo la tradizione c’è ancora nascosta l’Arca dell’Alleanza: naturalmente Syusy ha insistito che andassi a vederla, ma non c’è stato verso: se non ce l’ha fatta Indiana Jones, figuratevi io. Ma l’attrazione di Axum è certamente il Parco delle Steli, che è un posto affascinante. Svetta su tutte le altre la stele di re Ezana, che si convertì al cristianesimo e da cui di fatto iniziò la decadenza del regno di Axum, che poi più tardi si dissolse attorno all’anno mille. C’è anche la famosa stele di Roma, quella rubata da Mussolini, che abbiamo restituito all’Etiopia. Non so come sia messa adesso, ma quando ci sono stato era imballata, a pezzi, sotto una tettoia. Alcuni tecnici e archeologi italiani tentavano di rimetterla in piedi, anche se quando Mussolini la prese, era a terra… Certo, il valore simbolico di questa azione di riparazione politico-culturale è importante, ma molti etiopi dicono che era meglio un indennizzo più concreto…
4 e 5° giorno
Lalibela, la Petra d’Africa
Lalibela è detta appunto, da tutte le guide, “La Petra dell’Africa”. Da sola merita il viaggio. È il luogo famosissimo delle Chiese rupestri, scavate nella roccia: Bet Mediane Alem, Bet Maryam, Bet Golgotha e cappella di Selassie, Bet Giyorgis, Bet Merkorios ecc ecc. Il metodo con cui sono state costruite è un mistero: pare che cominciassero a scavare le pareti dalla cima di una montagna, fino a mettere a nudo una parallelepipedo dentro cui “intagliavano” e scolpivano le chiese. Il lavoro che c’è voluto è incalcolabile, tanto che la leggenda dice che gli operai siano stati aiutati dagli angeli. Lalibela è tutt’ora un posto fuori dal mondo: fino a poco fa non c’era la luce elettrica, e anche oggi gli alberghi sono rari. Questo aggiunge fascino al luogo. Un insieme di cunicoli, absidi, anfratti, scenografie, scorci architettonici, cripte. Notevole il colore, bellissimi i giochi di luce. E poi c’è l’odore, di incenso e di cera delle candele. A noi è capitato di arrivare per la festa di san Giorgio – mi pare. Comunque era periodo di processioni, di veglie e di cerimonie. Con i monaci e la gente vestita di bianco in corteo, i canti e le interminabili litanie. La cerimonia dura più di 24 ore. Un’altra cosa da approfondire è l’aspetto religioso: il rito copto etiopico deriva da quello antichissimo egiziano, più che da quello bizantino. La differenza con le credenze cattoliche è – dal mio personale punto di vista – assai sottile, e riguarda la natura di Gesù, uomo e Dio. Ma le differenze estetiche e rituali sono abissali, e trovarsi immersi in una cerimonia copta è come stare in un altro mondo. Un’altra cosa che ricordo di Lalibela sono le case, e in particolare i tetti. Le case tradizionali, i tucul, sono di paglia. Ma il governo ha lanciato un programma per dare la casa a tutti, con una sorta di pseudo prefabbricati, che non sarebbero nemmeno male (una struttura sopra la quale si costruisce un muro di paglia, terra e letame, tipo adobe, che poi è una delle nuove frontiere dell’architettura ecologica) se non fosse per i tetti di lamiera. In una di queste case ci ha chiamato una ragazzina e ci ha offerto il caffè: tostato sul fuoco, pestato nel mortaio e mischiato con le spezie. Squisito tutto: il caffè e l’ospitalità.
6° giorno
La Terra Promessa dei Rasta
In onore di Bunna e della sua capigliatura rasta, siamo passati da Harar. Anche qui la visita meritava di più, e anche l’approfondimento religioso, etnico e culturale. Per i rasta afroamericani che vivono in America centro-settentrionale e in particolare in Giamaica, le radici sono appunto in Etiopia, che è la loro Terra Promessa. Sono convinti che Hailè Selassie fosse una sorta di Messia, e da sempre hanno coltivato un grande senso di appartenenza all’Etiopia, mandando aiuti e soprattutto trasferendovi interi gruppi. Qui hanno avuto terra e buona accoglienza. E hanno fondato comunità, scuole e varie iniziative culturali. Da Harar (dove tra l’altro abbiamo preso contatto con varie ong che sviluppano progetti agricoli) siamo tornati ad Addis Abeba, per poi ripartire su un fuoristrada per la Valle dell’Omo.
7 e 8° giorno
Lungo la valle dell’Omo
L’Omo è un fiume, ma all’inizio pensavo che il nome derivasse dal senso profondo di questo luogo: la Valle… Dell’Uomo. Non solo perché da queste parti hanno trovato Lucy, e quindi l’origine della nostra specie. Ma perché la Valle dell’Omo è un percorso antropologico incredibile, un itinerario tra mille diversità linguistiche e culturali. È un viaggio tra la gente dell’Africa, un viaggio tra le fasi dell’umanità. Noi ci siamo andati nella stagione secca, quando le strade sono buone e non c’ è la malaria. Pare che sia bellissimo anche nella stagione umida. Certamente ne guadagnano i colori, ma le strade (cioè le piste) diventano difficilissime, e quando si scende in basso pare che qualche pericolo di malaria ci sia. In pratica, se volete approfittare della buona stagione, per l’Etiopia o partite subito o dopo ottobre. Noi ci siamo andati in gennaio. Anche così è stata un’avventura: forare una gomma ogni pochi chilometri è normale. Noi abbiamo dovuto riparare la jeep, ma alla fine – con la proverbiale flemma e creatività africana – tutto si è sistemato. Il viaggio lungo la valle, in questa stagione, può durare un paio di giorni, ma meriterebbe un mese. A ogni manciata di chilometri tutto cambia, e soprattutto cambia la gente. C’è tutta una serie di “frontiere”, che delimitano le terre di popoli diversi sotto ogni aspetto, dalla lingua al grado di sviluppo. È un catalogo africano. Incontri agricoltori che appendono agli alberi alveari enormi, coltivano cotone, allevano bestiame (che però non sfruttano più di tanto, soltanto un poco per la carne, niente formaggio, perché il valore del bestiame è soprattutto simbolico) e sono abbastanza “sviluppati”. Poi incontri gruppi etnici che ancora obbediscono a un Re, che magari ha studiato ad Addis Abeba, ma tiene in casa la mummia del padre. Oppure ancora più avanti c’è la popolazione che usa le acconciature dei capelli così come i Maori del Pacifico usano i tatuaggi: per raccontare la propria storia. Tra gli altri abbiamo incontrato un giovane kari con un ciuffo tutto nuovo, che stava a significare che lui aveva ucciso qualche giorno prima il suo primo leone, a colpi di kalasnikov. Alla fine della Valle, alla fine del mondo, si arriva al territorio dei Mursi, quelli col piattino infilato nelle labbra, per intenderci. E lì, devo dire, sono entrato in crisi. I Mursisono lontani da ogni tipo di sviluppo, almeno lo erano fino a poco fa. Poi uno di loro ha fatto il militare ad Addis Abeba e ha cominciato a fare… Il manager. Adesso si fanno fotografare dai turisti, dietro compenso, e si concedono solo per pochi minuti. Noi andiamo, fotografiamo, e ripartiamo contenti. Con gli elefanti dei parchi del Sudafrica ho avuto un rapporto più… Umano. Dopodiché, al mercato di Jinka, ho incontrato alcuni giovani Mursi vestiti all’occidentale (cioè infilati dentro vestiti mal fatti in Cina), che secondo me erano alla ricerca di alcol. Tanto valeva, forse, vedere i Mursi solo in foto, e fermarsi qualche chilometro prima, al culmine di questa esperienza meravigliosa che è la Valle dell’Omo.
9° giorno
Un viaggio facile
Alla fine siamo tornati ad Addis Abeba, per il volo di ritorno. Rileggendo queste note vedo che mancano un sacco di cose, ma come tutti i viaggi quello in Etiopia è un viaggio da fare, più che da leggere. Un viaggio facile, a patto – come sempre!!!! – di avere delle buone guide e dei buoni accompagnatori, che non solo e non tanto ti risolvono i problemi logistici e organizzativi, ma soprattutto ti introducono ai mille misteri di una regione così antica, così diversa. Costerà magari un po’ di più, qualche turista che si sente esploratore e che viaggia per misurare se stesso più che per misurare le differenze con i posti che vede, si sentirà sminuito, ma secondo me bisogna fare di tutto per trovare un contatto locale, affidarsi a una guida. Con Betta l’Etiopia è stata un viaggio facile: si mangia molto bene e gli alberghi sono pochi (erano pochi) ma discreti: siamo in Africa, ma ci sono alcune catene che garantiscono uno standard accettabile anche per noi turisti occidentali viziati. Nella Valle dell’Omo abbiamo dormito in tenda, e l’unico problema è stato Orso che russava…
Patrizio Roversi
La telenovela del Posto al sole. Cenni di una storia, la nostra, che non ci fa onore
Anche l’Italia “liberale” di Crispi aveva provato a conquistare l’Etiopia, ma il Negus Menelik ci aveva sconfitti nel 1896 ad Adua. E per lavare l’onta della sconfitta (oltre che per ragioni economiche, politiche e di prestigio) Mussolini decide di aggredire l’Etiopia il 3 ottobre del 1936, per conquistare finalmente “un posto al sole” che, prima di diventare una telenovela di Rai3, è stata un’espressione della propaganda fascista. Detto tra noi: la data dell’invasione italiana è forse l’unico dato intelligente, di cui anche un turista può tener conto: in ottobre finisce la stagione delle piogge, e quindi andare in Etiopia è più facile… La guerra vera e propria dura appunto fino al maggio dell’anno dopo, cioè fino al termine della stagione secca. Alla fine i morti italiani sono quasi 4 mila 500 (molti causati da incidenti), quelli etiopi secondo il Negus Hailè Selassie sono stati 750 mila e secondo gli storici italiani non furono certamente meno di 450 mila (comunque, un bel rapporto 1 a 100 che mi ricorda le guerre attuali, in Medioriente e non solo). Gli Italiani, guidati dal quadrumviro De Bono e poi da Badoglio e da Graziani, hanno un esercito di quasi 500 mila uomini, usano gas nervini proibiti, iprite, lanciafiamme. Quella d’Etiopia è una campagna “innovativa”: si inventano e si sperimentano per la prima volta i bombardamenti a tappeto e dopo anche una radicale divisione fisica e urbanistica fra bianchi e neri, che diventerà un esempio da seguire per il Sudafrica dell’apartheid. Da notare che, mentre le altre potenze coloniali stavano pensando a sviluppare un nuovo rapporto con i popoli occupati (in India dal 1932 c’era Gandhi e gli inglesi tentavano di giocarsi un’immagine nuova), Mussolini diventava colonialista – come si dice – “dopo la puzza”. E a proposito di modi di dire: “ambaradan” in italiano significa più o meno “un gran casino”. In realtà, Ambaradan è il nome di una montagna sulla quale furono sterminati, con lanciafiamme e gas, 800 etiopi che si erano rifugiati in una grotta intenzionati ad arrendersi. In Etiopia abbiamo commesso altri errori che purtroppo fecero scuola: Mussolini – come Bush, ad esempio – finite le operazioni militari vere e proprie, dichiara la vittoria e la missione-compiuta, ma poi – sempre come Bush in Iraq – invece di coinvolgere nella gestione del Paese parte della classe dirigente locale, che all’inizio si era schierata con noi, vuole fare da solo e affida il potere a un gruppo di incompetenti, ignari della cultura locale. Risultato: dopo la guerra scoppia la guerriglia, sostenuta dai potentati locali. E accade il peggio: il 19 febbraio del 1937 c’è un attentato a Graziani, in cui muoiono 7 italiani. Il massacro di Debra Libanos La repressione è mostruosa: vengono uccisi migliaia di etiopi a casaccio, per le strade. Due mesi dopo gli italiani a Debra Libanos massacrano tutti i monaci copti. E le “invenzioni” non finiscono qui. È stata forse la guerra in Etiopia ad affinare tutte le tecniche della propaganda e della censura: attraverso il controllo della radio e dei giornali il regime fascista manipola l’opinione pubblica italiana. E in Etiopia si arriva addirittura a sterminare gli Azmari, cioè i cantastorie satir-politici che, trasmettendo le notizie, erano le fonti di informazione locale. Tutto finì nel 1941, quando fummo cacciati degli inglesi, quegli stessi inglesi che 5 anni prima avevano di fatto lasciato mano libera a Mussolini in Etiopia per evitare che diventasse troppo amico di Hitler. Anche la Società delle Nazioni (l’Onu di allora) fece ben poco, paralizzata dal diritto di veto di alcuni Paesi (vi ricorda qualche cosa?). La guerra, quindi, per l’Italia fu un disastro: costò non solo vite umane e massacri, ma anche una valanga di soldi. E ancora ci costa (vedi la storia dell’obelisco di Axum). È vero: gli italiani in Etiopia hanno costruito molte infrastrutture, perché speravano di farne un luogo ospitale per tutti i nostri emigranti. Le strade che ho percorso io sono quasi tutte vecchie strade degli italiani, ci sono piazze ed edifici pubblici e intere città che ancora hanno una (bellissima) impronta urbanistica italiana. Ma la repressione, l’apartheid, il razzismo, la supponenza culturale e la violenza non furono certo un metodo intelligente per favorire l’integrazione, e quindi tutto finì in un totale fallimento, politico-umano-economico. Che, paradossalmente, ha lasciato però aperta oggi la possibilità di ottimi rapporti fra noi, italiani e etiopi, nipoti e pronipoti di coloro che si massacrarono. E questa è davvero una bella e strana cosa. In Etiopia io mi sono sentito ben accolto dovunque. E anche amici italiani che ancora ci abitano, o imprenditori che ci lavorano, e pure i funzionari dell’Ambasciata me l’hanno confermato: in Etiopia ci amano, nonostante tutto. E l’Etiopia è un viaggio meraviglioso, nella storia, ma anche nella cucina, nella religione, nella natura, nell’antropologia e nella cultura.