Australia, la nuova frontiera

È stata per noi una delle tappe fondamentali del Giro del Mondo. Io-Patrizio ho esplorato la costa est, Syusy ha attraversato tutto l’interno, fino alla punta nord di Darwin
Patrizio Roversi, 25 Mag 2012
australia, la nuova frontiera
Nell’immaginario collettivo (più della Patagonia e assieme alla Nuova Zelanda) è il luogo dove è ancora possibile costruire e costruirsi qualcosa di nuovo. Che l’Australia rappresenti il futuro, incrociato con un misterioso passato, l’ho capito subito, appena arrivato a Sydney. Sei mesi prima avevo lasciato Adriatica, condotta dagli skipper Gigi e Irene, ad Auckland, in Nuova Zelanda, per tornare in Italia a montare, assieme a Syusy, Giuseppe e gli altri nostri complici, le puntate di Velistipercaso. E ad aprile, quando la stagione torna buona, ho volato fino a Sydney, per tornare a bordo. Rileggendo i diari di Adriatica, ritrovo oggi appunti che la dicono lunga sull’impressione che l’Australia ha prodotto su di me: “Dell’Australia mi è rimasto molto, provo a sintetizzare alcuni elementi. Soprattutto la natura e la scarsa antropizzazione, essendo un continente che ha meno di venti milioni di abitanti e grandi spazi, enormi e potenzialmente infiniti. Un’altra cosa che mi ha impressionato è l’Australia delle potenzialità. Lì la gente cambia città e lavoro molto spesso: per loro ogni sogno può essere realizzato! Faccio un esempio: ho incontrato un idraulico che a un certo punto ha smesso di lavorare, ha comprato quattro barche e oggi accompagna le persone a pescare nelle Whitsunday. Non è un caso raro, ma normale, dimostra una flessibilità e capacità di cambiare. Della serie “tutto è possibile”, mentre da noi è un po’ più dura!”. A proposito delle Whitsunday: sono 74 isole molto particolari perché, pur essendo isole tropicali, forse a causa delle correnti, hanno una vegetazione che assomiglia a quella delle colline alpine. Ci sono pini, foreste, abeti e il mare non è quello tropicale ma sembra essere duro, un po’ più freddo. In compenso l’acqua ha colori meravigliosi: un azzurro indefinibile, fra il colore del ghiaccio e quello del mare polinesiano! Io ci sono andato, appunto, fra aprile e maggio: è il corrispettivo del nostro novembre, ma ci troviamo pur sempre al tropico dove le stagioni sono soltanto due, quella umida e quella secca. La “cartolina” delle Whitsunday è Whitehaven Beach, paradiso bianco, magnifica spiaggia, la più bella mai vista. Qui c’è stato Cook, nel 1770 il giorno di Pentecoste, da cui il nome dell’Arcipelago: Whitsunday.

LA GRANDE BARRIERA

Con Adriatica ci siamo fermati poco lontano, per una immersione: ancorati nel nulla, sulla Barriera, come sospesi fra acqua e aria. Dentro la cartolina. Ricordo che con Irene (espertissima subacquea), Ida (una biologa marina romagnola conosciuta a Sydney) e Giacomo (il mio amico operatore che aveva fatto il brevetto alle Galapagos), abbiamo cominciato a preparare l’attrezzatura. Confusione in barca: bombole, erogatori, mute. Gigi, lo skipper, era un po’ nervoso: aveva paura che l’ancora danneggiasse i coralli e che la marea trascinasse la barca sul fondo roccioso. Quindi abbiamo fatto le cose in fretta: io mi sono messo il jacket con le bombole al volo. Non sono un sub esperto, quindi ho bisogno di grande tranquillità e concentrazione per entrare in sintonia col ritmo del respiratore. E questa non è stata la migliore delle mie – rare – immersioni: è vero che c’era un sacco di pesce (cernie, pesci pappagallo e pesci napoleone, da cui la frase classica “sembra di stare in un acquario”), ma il fondale era triste: il corallo da queste parti ha subito il processo di sbiancamento. Dopo pochi minuti sono riemerso e tornato a bordo. Ida, invece, è rimasta ore, con Giacomo esausto che non ne poteva più di riprendere tutti i microrganismi e i pesciolini che gli indicava…

NOZZE A HAMILTON

Si annuncia da lontano: aerei che atterrano e decollano in continuazione e grattacieli. Hamilton è la capitale delle Whitsunday: qui tutti son tutti molto post-british ed elegantini, ci sono un sacco di turisti giapponesi, tutto è verde e innaffiato a campi da golf, e i quartieri sono composti da case e casette all’americana. Hamilton è famosa, tra l’altro, perché qui, da tutto il mondo, vengono a sposarsi: è il centro mondiale dei matrimoni, qui si organizzano nozze-esotiche-tutto-compreso. Si noleggiano gli abiti, ti fanno il trucco, ci sono i costumi da testimone e da padre della sposa, fino alle giarrettiere birichine per la prima notte. Nel servizio sono compresi il video, la bomboniera e, naturalmente, la limousine. Non ci sono discriminazioni religiose: ci si sposa con qualsiasi rito e c’è una grande ibridazione mistica. Ci sono, ad esempio, giapponesi scintoisti che si sposano col rito protestante. L’autore geniale di tutto questo è Don Gal, un signore che sembra uscito da una telenovela alla Dallas. È diventato ricco brevettando un asse da stiro pieghevole, poi è venuto qui e si è inventato il business dei matrimoni. Nella Chiesa di “tutti i santi” (cioè dove va bene tutto) organizza 600 matrimoni all’anno, secondo qualsiasi rito. Sposarsi qui costa da 750 a 4 mila euro. Viaggio di nozze compreso e, soprattutto, senza parenti da invitare, che si risparmia un sacco. È qui che ho incontrato Kate e Neil (gli ex idraulici ed elettricisti che si sono reinventati pescatori di professione). Ti portano sulla loro barca in stile Hemingway e ti garantiscono almeno un marley. Peccato che dopo due ore ancora non avevamo pescato niente e io – in preda al mal di mare – per completare la storiella da inserire nel filmato mi sono dovuto inventare, assieme a Giacomo, la cattura di un Blu-Plastic Fish: in pratica mi sono auto-organizzato lo scherzo di pescare un catino di plastica blu. Però, in realtà, non è male: Neil dava e toglieva gas al motore e la sensazione era davvero quella di tenere la canna e di lottare contro un pescione agguerrito…

L’ARCIPELAGO DELLE PERCY

Quando a bordo sale Silvia (un’amica giornalista che vive a Sydney, ama l’Australia però ci tiene a sottolineare che ha sposato un neozelandese), da Great Chapel ci dirigiamo verso l’arcipelago delle Percy. Sempre percorrendo la barriera corallina. Ancorato in una baia incontriamo di nuovo un vecchio amico (si fa per dire): Nenat, un navigatore solitario croato che avevamo già incontrato più volte, in diverse tappe del Giro del Mondo. Non è strano: le tappe sono più o meno uguali e obbligate per tutti, la stagione pure, quindi si crea una sorta di “gruppo” di barche che, in pratica, navigano assieme. Strano solo trovarlo qui, in una baia deserta. Vicino a lui è ancorato Neil, con la sua barchetta: Neil è un australiano che vive in barca, rifugiandosi nei posti più lontani e solitari. Scende a terra soltanto ogni tanto, per fare rifornimento di cibo e carburante. E anche di acqua: noi su Adriatica, infatti, siamo fortunati e “ricchi”, abbiamo il dissalatore e l’acqua ce la facciamo da soli, ma le piccole barche hanno soprattutto questo problema. Se tipi come Nenat e Neil hanno scelto questa baia e quest’isola, ci sarà il suo motivo e quindi vale la pena di scendere a terra. Sulla spiaggia troviamo una sorta di tempio robinsoniano, una grande baracca di legno costruita con tronchi e pezzi di attrezzature lasciate dal mare, piena di ex voto di viaggio lasciati dagli equipaggi delle barche che hanno fatto sosta qui: ancore, scotte, verricelli, fotografie, ami, reti, messaggi, cappelli ecc. È un bellissimo esempio di architettura fantastica. Più in alto, arrampicandosi sulla collinetta che sovrasta la spiaggia, troviamo una capanna fatta con materiali di recupero, dove c’è un manuale di sopravvivenza, una Bibbia e svariate cacche di topi. È deserta e sembra abbandonata da un bel po’. Ci sono sparsi disegni, fatti a cera e ad acquerello. Sembra tutto un grande tributo al Mito dell’artista che sceglie di scappare dal mondo alla ricerca del Buon Selvaggio: infatti, c’è appesa al muro una riproduzione di un quadro di Gauguin. È chiaro: siamo arrivati in un posto in cui “uomini bianchi” post-industriali sognano e praticano l’idea di Robinson. Lo facciamo un po’ tutti, dappertutto: ma certo in Australia viene meglio che altrove!

L’EMÙ IMBIZZARRITO

I navigatori solitari ancorati nella baia ci dicono che al centro dell’isola c’è una casa abitata, ma ci avvertono di stare attenti perché nei paraggi si aggira un emù cattivissimo e aggressivo. Un motivo in più per esplorare l’isola… Ci incamminiamo. Non c’è niente e nessuno. L’isola è deserta, qua e là qualche rottame: una situazione fra il day-after e la foresta vergine. Dell’emù nessuna traccia: solo capre, farfalle e tacchini selvatici. In compenso il sentiero è disseminato di cartelli che, in rima poetica, lasciano tracce per arrivare alla casa: dalla citazione del mito di Robinson si passa all’Isola del tesoro, con questo novello Ben Gunn, il pazzo eremita che, di nascosto, guida il cammino dei nostri eroi. Alla fine arriviamo a una fattoria che sembra un angolo di paradiso: c’è una mucca che rumina, un bel giardino e persino dei pavoni. Dentro la casa c’è una radio accesa e, soprattutto, c’è davvero l’emù furioso. Per sfuggire al suo assalto entriamo di corsa in casa, armati, come assassini, di bastoni. Dentro, però, non c’è nessuno, solo un ultimo cartello che dice: “Prego accomodatevi!”, firmato Mick e Kate. Il cartello spiega che loro se ne sono andati per un po’, ma la casa è aperta a tutti. Che bello! La casa è tutto quello che avreste voluto avere da un’isola deserta. La radio è accesa per scaricare i pannelli solari che, altrimenti, rischierebbero di sovralimentarsi. Per gli ospiti hanno lasciato miele e uova con la data (per evitare che qualcuno se le mangi marce). Noi lasciamo un grande messaggio a questi Robinson ospitali e filosofi. Alla fine, prima di reimbarcarci su Adriatica, non posso farne a meno: lascio la maglietta dei Velistipercaso nel sacrario del navigatore. All’arrivo l’avevo considerato un po’ troppo esagerato e retorico, ma adesso ho capito che dietro al mito della natura per gli australiani c’è un sentimento vero. Se, comunque, ripenso ora al viaggio in Australia, mi tornano in mente – come al solito – soprattutto le persone che ho incontrato. Anche prima mi è scappato un paragone fra Australia e Patagonia, come esempi – sia pure molto diversi di territori sconfinati di frontiera. In effetti anche in Australia, come in Patagonia, le persone, come dice Syusy citando Chatwin, “spiccano sullo sfondo”. Girovagando nel Nuovo Galles del Sud mi hanno, per esempio, portato da David. David Hafgott, il vero protagonista di Shine, il famoso film di Scott Hicks. Lui era un giovane e promettente pianista, ma con un padre che lo opprimeva psicologicamente, esercitando una pressione fortissima. Poi lo ha ostacolato quando è andato a Londra, al Royal College of Music. Come prova d’esame David ha voluto affrontare il Concerto numero 3 di Rachmaninoff, il terribile Rac 3. C’è riuscito, ha superato l’esame ma ha perso il senno. È stato anni in manicomio. La moglie Gillian lo ha “adottato” e curato. Ora fa concerti in giro per il mondo. La musica lo ha gettato in un abisso di ipersensibilità psicologica, o forse lo ha salvato dalla follia. Adesso è affettuosissimo con chiunque lo vada a trovare e, piuttosto che parlare, preferisce suonare. Ma ancora ripete fra sé i rimproveri del padre.

VIVA SANT’ALFIO!

A Brisbane ho partecipato alla Festa di Sant’Alfio, Filadelfo e Cirino. Sono i santi patroni di molti paesi in provincia di Catania e Messina. Stefano Girola, un antropo-sociologo, mi ha presentato la famiglia Tornabene che, per onorare un voto fatto in occasione del parto della figlia, ha fatto rifare in Sicilia la copia esatta delle statue dei tre santi e le ha fattevenire fin qui. Ai primi del 900 la vita degli immigrati dal sud dell’Italia era durissima. E qui i cattolici irlandesi vedevano come fumo negli occhi il folclore religioso siciliano. Per gli anglosassoni la religione sta chiusa dentro la chiesa, per loro c’è separazione tra lo stato (il pubblico) e la religione (privata). Per i nostri emigranti organizzare le processioni in strada è stato un modo per farsi vedere, imporsi. Ho seguito a Brisbane la processione per Sant’Alfio, che all’inizio è stata piena di musica e di preghiere cantate e urlate a squarciagola, poi ha continuato silenziosa, quasi come una manifestazione, lungo le strade dei quartieri anglosassoni, con gli anglo-australiani che sbirciavano da dietro le finestre. Processione come una manifestazione, processione che gira per la città poi “torna”, così come sperano di tornare – ormai solo formalmente – i nostri emigranti. “L’Italia è nostra madre, l’Australia nostra moglie”, questo affermano gli italo-australiani di oggi… Fare un’offerta significativa al Santo vuol dire che sei arrivato, che hai fatto fortuna: urlando a squarciagola “con vera fede, viva Sant’Alfio!” Sempre a Brisbane, sono andato nella sede di Radio 4 EB, una plur-redazione multietnica che comprende 68 lingue diverse: una radio assolutamente multiculturale. Ci sono decine di armadietti delle varie redazioni, composte da varie nazionalità, che autogestiscono le loro trasmissioni. Enrica e Alessio conducono quella in italiano. Qui si cerca di valorizzare le differenze e collegarle tra loro. Gli sponsor della parte italiana sono negozi di italiani e la gente chiede dediche di musica italiana: stile anima e core.

per lucertoloni

Mat lavora in una Crocodail Farm: fa il cow boy dei coccodrilli. Nella Riservaallevamento mi presenta Sha, un vecchio coccodrillo bitorzoluto che ha 85 anni e che in passato ha ucciso il suo vecchio custode. Poi conosco anche Pingiara, di 50 anni e sua “moglie”: la coppia depone le uova, poi Matt si fa inseguire dai due coccodrilli provocandoli e facendoli arrabbiare e altri catturano le uova per metterle in incubatrice. Mi fanno anche toccare da vicino un coccodrillino: non ha alcun odore, è morbido, mangia solo 4-5 kg di carne la settimana. Ma perché li allevano? La signora Lilian, la padrona della Farm, è tipo nonna Papera, ama talmente i coccodrilli che li cucina e li mangia: li ho assaggiati anche io e direi che il loro sapore sta tra il pesce e il pollo.