Yemen: da Sanaa a Shaharah

Da Sanaa a Shihara. Il problema con il muezzin e' che non puoi dare una manata al minareto e sbatterlo giu' dal comodino. Gia' ci sarebbe molto da discutere sul fatto che alle quattro e mezza della notte si riesca a distinguere, con assoluta certezza, un filo nero da uno bianco, io se non trovo subito gli occhiali distinguo le mie scarpe dalla...
yemen: da sanaa a shaharah
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
Da Sanaa a Shihara.

Il problema con il muezzin e’ che non puoi dare una manata al minareto e sbatterlo giu’ dal comodino. Gia’ ci sarebbe molto da discutere sul fatto che alle quattro e mezza della notte si riesca a distinguere, con assoluta certezza, un filo nero da uno bianco, io se non trovo subito gli occhiali distinguo le mie scarpe dalla testa di Marcello quando cerco di infilargli i piedi nelle orecchie. A proposito di comodini, nelle camere del Gasmy non c’e un mobile neanche dipinto sul muro, per cui si riconoscono i mucchi di abiti dai mucchi di persone solo quando queste si cominciano a muovere dentro i sacchi a pelo sopra i materassi disseminati a casaccio sul pavimento.

– Perche’ cazzo deve urlare in questo modo, io non so… – la voce assonnata di Sandro arriva dal mucchio vicino alla finestra piu’ grande.

– Cosi’ iniziano la giornata col pensiero rivolto ad Allah. – Altra voce, altro mucchio che si muove, sembra Silvia. – Questo e’ sicuro, sapessi che pensiero gli ho rivolto io. Adesso quanto va avanti sta lagna… – “… La illaha ila Allaaaaaaah …” – Senti che roba, non e’ umano… – – Infatti e’ un disco, ha cominciato a gracchiare un quarto d’ora fa. – Sospira Giulia.

– Beh, rovinato e’ rovinato, lo suonano cinque volte al giorno! – Ormai siamo tutti svegli (tranne Roberto che russa profondamente), chi piu’ chi meno, qualcuno approfitta per andare al gabinetto, qualcuno per sparar cazzate, la maggior parte aspetta paziente la fine dell’invocazione ” … Ila Allaaaaaaaaah …” ancora qualche scarica e poi il silenzio.

– Sembra il botto finale. – Riguadagnamo le posizioni sui materassi cercando di riprender sonno.

” …Aaaaaaaah illaha ila Allaaaaaaaaah” – …E va be’… Allora lo fa apposta: ci tiene d’occhio dal minareto e appena prendiamo sonno ci spara due Allah a tutto volume … – – Pero’ e’ caratteristico! E’ come le nostre campane a Pasqua. – – Si, Valeria … Ma Pasqua e’ una volta all’anno – – Non sarebbe bello se fosse tutti i giorni ? – – Non se abiti vicino a un campanile. – – Forse stavolta ha finito davvero, adesso state zitti voi – – Io non mi fido … E poi quando mi sveglio non riesco piu’ a riaddormentarmi – – Io si …- – Anch’io se state zitti.- – …Ffanculo …- I dischi sacri hanno cominciato a gracchiare pochi minuti dopo le quattro e a Sanaa le moschee sono parecchie! Quella grande, una delle piu’ antiche del paese, e’ a poche decine di metri, in linea d’aria, dalla nostra camerata e altri minareti spuntano qua e la’ sopra i tetti delle case come missili puntati verso il cielo. Le invocazioni rimbalzano dall’uno all’altro in un’alternanza di voci e di scariche come se i muezzin stessero litigando via etere. Nemmeno i cani sembrano abituati alle professioni di fede diffuse dagli altoparlanti: abbaiano e ululano disperatamente, chissa’ se per lamentarsi o per ringraziare Allah del buon trattamento riservato loro in questo paese; nelle strette vie della citta’ solo i bambini sono piu’ numerosi dei cani, ma i bambini sono veramente tanti e molti sembrano piu’ randagi degli animali.

Il Gasmy e’ in una posizione bellissima, antica casa a torre proprio dentro le mura della citta’ a brevissima distanza dalla Bab El-Yaman, e quindi dai suk brulicanti di vita. Al mattino il cortile dell’albergo e’ affollato di gente, chi arriva, chi parte: noi partiamo. Gli zaini ammucchiati in un angolo attendono le jeep e gli autisti per i quali il concetto di puntualita’ resta molto vago, quasi incomprensibile, come per Valeria e Andrea che ancora non sono comparsi dalla camera. La nostra tavola e’ imbandita in una delle tre salette del cortile: pane, burro, marmellata e latte condensato servito da Sandro, non per gentilezza ma perche’ non riesce piu’ a scollarsi il barattolo dalla mano. Appena seduti arrivano le brocche fumanti con l’acqua per il the’ , dalle tazzine penzola l’etichetta gialla delle bustine di Lipton. Tre pareti della sala sono verniciate di fresco e danno una soddisfacente impressione di pulizia; su ognuna e’ dipinta un’immagine della citta’ e di altre famose zone dello Yemen: i grandi murales occupano completamente le pareti. La quarta non esiste, la sala si apre direttamente sul cortile. Mentre mangiamo arriva il gruppo del Touring gia’ incontrato in aereo, loro alloggiano allo Sheraton, appena fuori dalla citta’ e sono qui per visitare il nostro albergo tipico esempio di casa yemenita; a qualcuno di loro non dispiacerebbe passare una notte qui. Il nostro autista si chiama Gadhri ed e’ lo stesso venuto a prenderci in aeroporto. Si scusa per il ritardo; e’ andato al mercato per procurarsi la razione quotidiana di qat: la borsa di cellophan gonfia di rametti e foglie e’ appesa alla portiera, a portata di mano.

– Bisogna andarci presto per trovare la qualita’ migliore; deve essere fresco … Appena colto – gli occhi di Gadhri si illuminano quando nomina le foglioline. Prende un rametto dalla borsa: – Ecco … Le foglie devono essere le piu’ tenere. Piu’ tenere sono e piu’ costano, foglie piu’ vecchie costano meno ma valgono meno, fanno meno effetto. – – Che effetto fanno? – chiede Roberto abbandonando per un attimo la quadratura della cassa comune.

– Molti effetti! – Gadhri sorride lanciando occhiate divertite ai passeggeri – Autista sempre sveglio, con qat non dormi mai, non c’e’ bisogno di mangiare, senti forza nei muscoli e in testa. Molta forza … Anche sesso molto sveglio. – – Ma dai, sulla guida c’e’ scritto che non fa niente, anzi fa dormire tutto … Anche l’uccello … – Sandro, e’ il solito scettico.

– No dormire, no dormire – Gadhri si rivolge a me che gli sto a fianco e a Sandro sul sedile dietro; abbassa la voce per non farsi sentire dalle ragazze – molta forza, molto scopare, … 5 … 6 volte … – – All’anno !? – faccio io.

– Noooo!… Una notte. Fai l’amore anche sette volte …Non dormi mai, molta forza, molto bello – sussurra Gadhri lanciando sguardi maliziosi a Valeria distratta dal panorama.

– Cosa dice ? – Silvia comincia a incuriosirsi di tutto questo borbottio.

– Niente, niente – risponde Sandro – per me i muezzin masticano qat tutta notte, per quello urlano cosi’. – – Dice che col qat puoi scopare sette volte di fila – Roberto ascolta tutto, nonostante la cassa non quadri gia’ al secondo giorno di viaggio.

– Cosaaaa !! Sandro, fatti dare i semi: li piantiamo in giardino e facciamo una coltivazione! – – Dai Silvia , non ho bisogno del qat io! – – Va beh, ma… sette volte in una notte non mi e’ mai capitato …- insiste Silvia.

– A me neanche in un anno – scherza Roberto; ma forse non scherza poi tanto. – Non si puo’ portare fuori dallo Yemen, ti arrestano. – – Pero’ si potrebbe sperimentare qui … – E’ l’ultimo tentativo di Silvia.

-Tu vuoi provare, Sandro? … Qualcuno vuole provare ? – Gadhri stacca alcune foglioline e ce le offre.

– No,no … Grazie. Sembrano foglie di limone, di cosa sentono? Dai Roberto, prova! – – Perche’ proprio io? E se poi fa effetto cosa faccio, mi faccio sette seghe di fila ?!? – Nessuno si azzarda ma si capisce che prima o poi la curiosita’ avra’ la meglio e qualcuno provera’ a masticare le foglioline, per il momento studiamo il meccanismo di masticazione osservando il nostro divertito autista.

Staccate due o tre foglioline, Gadhri le mastica lentamente come se fosse un cicca americana, poi ne aggiunge altre e altre ancora, alternandole a brevi sorsate d’acqua; forma una poltiglia che schiaccia con la lingua contro la guancia per spremerne il poco succo. A poco a poco si forma una palla che nel tardo pomeriggio raggiungera’ proporzioni considerevoli, circa come una pallina da ping-pong ma in alcuni casi molto piu’ grande fino ad una palla da tennis, e se non ci fosse un limite fisico si arriverebbe anche ai palloni da calcio! Masticano tutti, i ragazzi e i vecchi, gli uomini e le donne, anche se queste si vedono meno, probabilmente masticano nascoste tra le mura di casa. Ogni giorno, gli uomini da una parte e le donne da un’altra dedicano buona parte del pomeriggio a dei veri e propri festini, dei qat-party durante i quali si prendono tutte le decisioni piu’ importanti riguardanti la vita della famiglia e della comunita’. Non si puo’ nascondere pero’ che il qat contribuisce non poco alla rovina economica del paese, ha sostituito le piantagioni di caffe’ riducendo drasticamente la valuta pregiata proveniente dalle esportazioni e concorre alla rovina economica delle singole famiglie dove gran parte dei gia’ pochi guadagni vengono spesi per procurarsi la dose quotidiana di foglie.

Da quasi mezz’ora i minareti di Sanaa sono scomparsi alle nostre spalle quando arriviamo al Wadi Dhar; questa valle rigogliosa si allunga tra due pareti calcaree in una grande spaccatura dell’altopiano,una quindicina di chilometri a Nord di Sanaa. Lasciamo la strada asfaltata diretta a Sadaa e deviamo a sinistra per arrivare sul bordo del canyon ed avere una panoramica spettacolare della valle dall’alto. Tra le pareti nude e rossiccie si stende la striscia verde dei piccoli appezzamenti rigogliosi, ordinatamente delimitati e lavorati. Proprio sotto di noi si stacca lo sperone roccioso su cui l’imam Yahyà ha costruito la sua residenza estiva, splendido esempio di casa a torre, in posizione strategica, dominante tutta la valle come un’isola emergente dal mare verde delle coltivazioni. Alcune costruzioni di terra sono abbarbicate ai piedi della roccia, ma la lontananza non consente di capire se sono case o negozi o cos’altro. Piu’ lontano tra il verde intenso dei frutteti, un mucchietto di case sembra scivolato dalla parete del canyon; le costruzioni si confondono tra la terra e solo il piccolo minareto testimonia l’intervento umano: il villaggio si chiama Suq-al-Wadi e contribuisce a rendere ancor piu’ bella questa cartolina panoramica; tra l’altro oggi vi si svolge il mercato settimanale, cosi’ piccolo da non valere la pena di essere visitato, almeno secondo Gadhri. Essendo il tempo disponibile molto scarso dobbiamo a malincuore ammettere che il mercato e’ troppo piccolo. Una volta esaurite le prime decine di rullini possiamo lasciare la numerosa compagnia di jeep e pulmini turistici sopraggiunti nel frattempo e scendere sul fondo della valle. Pochi tornanti di strada polverosa e siamo giu’. I bordi del canyon si staccano netti nel cielo limpido e oltre ai turisti impegnati a fotografare si vedono i resti di antiche postazioni per l’avvistamento e torri di guardia per difendere la valle da chissa’ quali incursioni. La storia dello Yemen e’ un susseguirsi di scontri piu’ o meno importanti tra le innumerevoli tribu’. La strada corre tra i filari di vite; non si vedono le abitazioni probabilmente nascoste dalla vegetazione, rigogliosa nonostante la stagione secca. L’aspetto piu’ sorprendente e’ proprio questo contrasto tra il verde intenso della valle e il resto del paesaggio brullo e secco: dalla pianura sopra ai fianchi scoscesi dello Wadi Dhar, fino alla imponente mole del palazzo sulla roccia.

… (omissis) Huth sarebbe solo uno dei tanti villaggi anonimi inquadrati di sfuggita nei finestrini delle jeep, se proprio qui non iniziasse la strada, che dopo pochi chilometri diventa una pista accidentata, diretta a Shihara. Questa strada attraversa alcuni villaggi il piu’ grosso dei quali, Al-Qabai, e’ solo a una quarantina di chilometri, ma per percorrerli sono necessarie piu’ di due ore e un’auto con quattro ruote motrici.

Attorno al bivio sono spuntati come funghi ristorantini e funduk per le soste ristoratrici di autisti e passeggeri in procinto di intraprendere la lunga e tortuosa pista delle montagne o di proseguire verso Nord. Abbiamo percorso 130 chilometri da Sanaa a Sud e Saada e’ 115 chilometri piu’ a Nord, il nostro “ristorante” e’ a pochi metri, ad Ovest. Se la regola dell’affollamento fosse valida questo posto sarebbe segnalato dalla Michelin, peccato che dei centomila esseri viventi accalcati tra i tavoloni, novantanovemila e novecento siano mosche. Un centinaio di persone sono comunque troppe per questo stanzone, forse una ottantina di metri quadrati, con tre pareti in muratura e la quarta inesistente per consentire alla polvere e al calore di dare all’ambiente quel non so che’ di caratteristico. Non so che’. Dall’angolo piu’ buio, dentro una nuvola densa di fumi e vapori la voce allegra di Assan saluta Gadhri e Ali; a poco a poco compaiono dalla foschia un grembiule quasi bianco e un cappello da cuoco quasi pulito appoggiato sopra un groviglio di peli neri. Tra capelli, barba, baffi e sopracciglia chef Assan sembra protetto da un velo, come le donne. La cucina e’ un largo muretto di cemento alto poco piu’ di un metro sul quale sono appoggiati alcuni fornelli a gas, dei pentoloni incrostati, frattaglie indefinibili, bucce di pomodoro e pezzi di verdure mezze marce, scatole di latta bisunte e arrugginite contenenti olio e spezie, e una pila di piatti sporchi a disposizione dei clienti. Grandi tavoloni di legno sono allineati nella sala con attorno qualche panca e numerose sedie sgangherate, tutti i tavoli sono occupati. Se si esclude una famiglia di turisti tedeschi che illuminano con le loro capigliature il centro della sala, gli avventori sono tutti arabi. La maggior parte sono autisti di passaggio: fuori, nella polvere, sono parcheggiate molte jeep e una decina di grossi camion malmessi. In queste zone il contrabbando di merce proveniente dall’Arabia Saudita e’ fiorente e i controlli governativi in pratica non esistono grazie ad un tacito accordo tra le polizie di frontiera dei due paesi.

Il primo a riaversi e’ Sandro: – Le bettole dei camionisti sono sempre le migliori, magari non si presentano bene ma si mangia da dio e si spende una miseria! – – Hai ragione, infatti non c’e’ manco un tavolo libero. Possiamo andare… – cosi’ dicendo Giulia cerca di riguadagnare l’uscita.

– Nessun problema, aspettate! – Gadhri scambia due parole col cuoco-gestore-cameriere-cassiere e poi insieme vanno verso il fondo del salone dove ai capi di un lungo tavolone due ignari yemeniti stanno serenamente inzuppando pezzi di pane e di dita in una brodaglia scura. Dopo un vivace scambio di vedute, di sicuro non riguardare la politica locale o il clima torrido delle mezze stagioni, i quattro cominciano ad alzare la voce snocciolando una sequela di urla e imprecazioni nelle quali Hallah sembra essere il protagonista principale; alla fine i due disgraziati raccolgono le loro tazze, i bicchieri, i pezzi di pane rimasti e si trasferiscono brontolando su un tavolo vicino, gia’ occupato da altri tre individui. Una veloce passata con lo straccio per sporcare anche i pochi angoli puliti e voila’, il tavolo e’ a nostra disposizione.

– Prendi un po’ di sedie… Attento che la panca e’ scassata. – Arriva Gadhri visibilmente soddisfatto – Vado nel negozio di fronte a prendere qualche bottiglia d’acqua fresca perche’ qui non c’e’ frigorifero. Intanto ordinate pure. Io e Ali abbiamo gia’ fatto. – – Gadhri, vedi se trovi anche delle birre fresche! – Marcello ci prova ogni volta ma e’ gia’ rassegnato, impossibile trovare alcoolici, e anche la birra, analcolica, non si trova facilmente, e quando si trova e’ cara e fa schifo. – Dov’e’ il menu? – chiede Giulia quando Gadhri e’ uscito.

– Prova a chiedere allo chef – sghignazza Marcello.

Provo a riprendere in mano la situazione: – Meglio vedere coi nostri occhi? Chi viene con me in cucina? – – Vengo io – grida Valeria – se vi fidate.

– Mica tanto, aspettatemi – anche Sandro si aggrega.

I larghi dischi di khubz, il tipico pane non lievitato diffuso in tutto il paese, formano una colonna traballante sopra un tavolino ancor piu’ traballante, un largo asciugamano lurido ripara dalle mosche le pagnotte calde e fragranti, ma solo quelle in cima alla pila. Il pane non manca mai e come al solito sara’ la portata principale del pasto. Le uova dovrebbero essere abbastanza fresche, visto il largo uso che se ne fa e ordiniamo una mezza dozzina di omelette da arrotolare in mezzo al pane confezionando cosi’ degli ottimi sandwich. Il cuoco ci invita a guardare nei pentoloni bollenti per scegliere il menu’, ma forse era meglio ordinare a scatola chiusa. Nella pentola piu bassa borbotta una densa zuppa di lenticchie, ceci, patate, spezie e chi piu’ ne ha piu ne metta. La Saltah e’ il piatto nazionale, un piatto povero ma sostanzioso, dentro c’e’ un po’ di tutto, e il tutto e’ in perenne ebollizione in un brodo di carne e verdure con aggiunta di abbondanti spezie di cui almeno una deve essere infuocata. Valeria prende un mestolo di legno e riempie di Saltah una larga marmitta di terracotta, useremo la zuppa come condimento per il riso, una leccornia gia’ gustata a Sanaa..

Il problema piu’ grosso e’ accontentare i carnivori. Assan fa segno di pescare i pezzi di carne a bagno dentro una brodaglia molto annacquata in perenne bollitura nella pentola piu’ grande, una vera impresa: i pezzi rimasti sono pochissimi e sono in acqua da cosi’ tanto tempo da essere ormai in decomposizione. Affondiamo piu’ volte mestoli e forchettoni cercando di riportare a galla qualcosa e in tre riusciamo a prendere una decina di pezzi, difficile dire se pollo o montone. Scartiamo le parti indecifrabili e portiamo le due rimaste in tavola con tutto il resto e con una decina di piatti tra i meno sporchi del mucchio. Le posate non esistono, e’ in uso l’utilizzo delle dita e del pane sbocconcellato per portarsi il cibo alla bocca, preferibilmente le dita della mano destra, come consiglia il profeta, ma non per questo i mancini muoiono di fame.

Superato il primo momento di smarrimento, e armati dei nostri bei completini di posate Ferrino, comprensivi di bicchiere e stuzzicadenti, dopo lunghi sfregamenti di piatti con gran dispendio di fazzolettini di carta, tutti ci diamo da fare a combinare gli ingredienti secondo le personali fantasie culinarie: saltah nel riso, pollo nella saltah, omelette nel pane, riso nell’omelette, pane nel pollo, banane nella Saltah. La fame ha preso il sopravvento, solo Giulia e Roberto si accontentano dei blocchi informi di riso senza salse. Nessuno anche volendo, puo’ fare a meno del contorno di mosche, sono ovunque: sul tavolo, sui colli sudaticci, sul pane, sulle fronti, nei piatti, nel riso, nell’aria. Ogni manata e’ una strage e la parete di fianco al tavolo, originariamente verniciata in azzurro, e’ ormai per gran parte tappezzata dai corpicini spiaccicati; il resto del muro e’ coperto da adesivi di agenzie viaggio straniere, molte sono italiane, la maggior parte di Avventure nel Mondo: un sacco di gente ha mangiato qui! Finalmente arriva Gadhri con l’acqua fresca, una grande invenzione l’acqua fresca, le lunghe sorsate inondano la gola e trascinano via tutto: Saltah, pollo, riso, tutto, aaahhh…L’acqua fresca! Birra no possibile.

Chiudiamo il pasto con una fetta di torta, attaccaticcia, dolcissima, ma veramente buona, e l’immancabile the’ alla menta sempre ben accetto nonostante la temperatura amazzonica. Sono passate da poco le due quando Assan approfittando del fatto che nel locale siamo rimasti solo noi e un paio di yemeniti impegnati a leccarsi le dita, lascia la cucina e viene a sedersi sorridente e sudato al nostro tavolo per scroccare un paio di sigarette, scambiare due chiacchiere con Ali e portare il conto. Nonostante con l’inglese stia molto peggio di me riusciamo a intavolare una lunghissima discussione sul conto un po’ salato dove sono conteggiati, per ognuno di noi compresi gli autisti, due primi (riso e saltah), due secondi (omelette e carne), il dolce per tutti (ma ne abbiamo preso solo cinque), pane e the. Con la mediazione di Ali riusciamo a riportare l’importo entro limiti piu’ realistici e alla fine spuntiamo un prezzo di 350 ryal a testa, contro i 150 che avrebbe pagato un locale e contro i 900 pagati dai tedeschi.

Al momento della partenza, grandi saluti e inevitabili arrivederci al giorno dopo: al ritorno dovremo per forza ripassare da Huth. Prima di avviarci facciamo una bella scorta di bottiglie di minerale da portare su per i monti, perche’ ad Al-Qabai non c’e’ la sicurezza di trovarla e a Shihara non sappiamo se arriveremo prima di notte. Per circa tre chilometri la strada e’ asfaltata poi comincia lo sterrato e ci vuole un’ora per riuscire a percorrere i 15 chilometri fino al microscopico villaggio di Ashsha: – Un villaggio fantasma – sentenzia Roberto in uno dei rari momenti di lucidita’ tra un pisolo e l’altro.

– La’ c’e’ gente, guarda! Sembrano addirittura negozi! – Rossana e’ sempre ben sveglia, non sfugge niente alla sua Nikon compatta super automatica.

– Se vuoi fare un po’ di shopping noi ti aspettiamo qui. – Ai lati della pista sono allineati una serie di negozietti. Non si capisce cosa vendano, per fortuna l’acqua l’abbiamo gia’ presa. Le due jeep non rallentano, anche perche’ piu’ lente di cosi’ sarebbero ferme, e ai pochi curiosi raggruppati all’ombra delle tettoie di frasche, lasciamo solo il ricordo di una nuvola di polvere. La pista si fa piu’ stretta, in parte sassosa e con lunghi tratti sabbiosi. Nella stagione delle piogge deve essere difficile da percorrere specialmente dove sfrutta il letto asciutto del wadi Al-Waar. Tenendo una media oraria attorno ai 20 chilometri, tra saliscendi e avvallamenti, tra bassi cespugli e alberi di banane verdeggianti, proseguiamo sballottati per una mezz’oretta prima di scorgere in lontananza le prime montagne di un certo interesse; sui crinali si intravedono i profili di antiche costruzioni, qualche volta pochi resti semi distrutti, altre volte bellissime rocche circondate da mura merlate. Superiamo un altro minuscolo villaggio semi nascosto dalla polvere delle jeep, anch’esso sembra deserto e invece, non solo e’ abitato ma, ogni Domenica il suo mercato e’ il punto d’incontro delle popolazioni dei dintorni tanto da risultare addirittura affollato. Piu’ che villaggi veri e propri nella zona ci sono degli insediamenti abitativi molto piccoli, distribuiti su di un territorio vasto quanto inospitale; essendo i nuclei abitativi molto lontani tra loro i rapporti sociali e interpersonali sono ridotti al minimo, per organizzare una briscola ci vuole una settimana, e allora il mercato settimanale diventa occasione d’incontro, di commercio, di divertimento e, tra le povere mercanzie offerte sulle bancarelle di legno, con un po’ di sfortuna si puo’ anche trovare una moglie. Subito fuori da Al-Ahad, la pista sabbiosa attraversa altri bananeti e qualche piantagione di papaya poi comincia a salire verso Al-Qabai e diventa dura e sassosa.

Per capire che siamo arrivati ad Al-Qabai dobbiamo aspettare l’annuncio di Gadhri perche’ in realta’ il paesaggio non cambia di un sasso: il solito gruppo sperduto di costruzioni in pietra e fango, il solito silenzioso deserto. Il paese sara’ anche grosso ma la densita’ della popolazione e’ vicina allo zero per chilometro quadrato. Al-Qabai e’ ai piedi delle montagne, a 45 km da Huth e all’inizio dei 1.500 metri di dislivello che portano in cima allo Shihara, il monte che da’ il nome alla meta della nostra giornata, abbarbicata sulla sua cima a 2.600 metri di altezza. Una sosta veloce, il tempo di scattare un migliaio di foto e di vedere in lontananza zigzagare tra le rocce della montagna la pista da percorrere. Vista da qui sembra molto spettacolare. All’inizio della pista, a circa un chilometro da dove ci troviamo ora, c’e’ una specie di avamposto di frontiera dove si devono lasciare le auto; Ali lo sta indicando a Giulia ma ci vuole un tele potente per distinguere qualcosa tra le pietre. Avvicinandoci si intravedono fatiscenti costruzioni sulla cima di una collinetta; la pista si ferma fuori dal muro di mattoni che delimita l’area di parcheggio. Qui dovremo lasciare le jeep per …Accomodarci (si fa per dire) su due degli otto pick-up locali parcheggiati disordinatamente qua e la’. Entriamo nel cortile, alcuni uomini stanno sdraiati, addossati ai muri delle baracche, chiacchierano, ridono e non sembrano interessati al nostro arrivo; un paio di loro finiscono la birra e stancamente si trascinano verso di noi dopo aver gettato le bottiglie dentro un basso cespuglio. Portano il solito pugnale ricurvo infilato nel fodero verde penzolante sul fianco e agganciato ad un cinturone di cuoio; non tralasciano di mettersi a tracolla i Kalashnikov che tenevano appoggiati al muro. Salutano Gadhri e Ali Grande, naturalmente sanno già’ il motivo del nostro arrivo, il prezzo e’ fisso ed e’ inutile discutere: l’unico modo di salire a Shihara senza i pick-up e’ una lunga e faticosa camminata attraverso le terrazze di qat che abbiamo deciso di farci al ritorno (la camminata … Non il qat).

Lasciamo la maggior parte dei bagagli sulle jeep; Ali Grande restera’ a dormire qui per tener d’occhio i bagagli mentre Gadhri insiste per venire con noi. Con gli zainetti da trekking e le macchine fotografiche prendiamo posto sui due carri scoperti usando i sacchi a pelo come cuscini per riparare schiena e fondo schiena dai colpi che si prevedono numerosi. Gadhri si infila in cabina di fianco a Valeria. Schiacciata tra lui e l’autista, lei sembra divertirsi molto ma non quanto Gadhri che mi lancia uno sguardo pieno di speranze e sottintesi. Naturalmente i camioncini non salgono solo per noi e quindi ci ritroviamo in buona e numerosa compagnia, ben incastrati tra persone e mercanzie di ogni genere destinate ai paesi sulle montagne. Danno un po’ fastidio le canne dei fucili che ad ogni scossone ci solleticano la pancia o le orecchie, i nostri compagni di viaggio yemeniti sghignazzano in continuazione nonostante gran parte della bocca sia occupata dalle palle di qat. Dopo un paio di chilometri sostiamo al primo dei quattro villaggi lungo la pista, carichiamo ogni genere di sacchi e scatoloni e gli spazi si riducono ulteriormente ma in fondo questo gioco ad incastro aumenta la stabilita’ generale. La strada, un sentiero appena sufficiente per consentire il passaggio di due auto, e’ lastricata con pietroni di forme irregolari molto distanti l’uno dall’altro, si fa sempre piu’ ripida e ad un certo punto arrivo a dubitare dei nostri malmessi mezzi di trasporto, e invece pian piano si sale si sale … E si salta … E si pigliano botte tremende in tutte le parti del corpo. Tra polvere, lividi e la sicura mancanza di acqua e di luce a Shihara questa sera sara’ un impresa riuscire a riconoscerci a vicenda . A destra c’e’ la parete rocciosa ai cui piedi corrono le file irregolari delle piantine di qat racchiuse tra i muretti di pietra, un collage di orti e rocce. A sinistra si aprono strapiombi cosi’ paurosi da permettere di spaziare su un panorama grandioso: sfumati da una leggera foschia i profili delle montagne sembrano appoggiati sulle nuvole, le linee arrotondate increspate dalle sagome di improbabili villaggi si distinguono appena. Si sale, e la strada si avvolge su se stessa in tornanti strettissimi; basta sporgersi un poco per vedere sotto di noi l’altro pick-up arrancare faticosamente. Il rumore dei motori si disperde nella valle, non si disperdono invece i canti romaneschi: Marcello, Silvia, Roberto e Andrea sdraiati sul fondo del cassone si esibiscono in un ignobile spettacolo sfoderando rime boccaccesche e note cosi’ stonate da far dubitare sulle loro condizioni mentali. Potrebbero aver ceduto alle insistenze dell’autista e provato qualche fogliolina di qat dagli inattesi effetti, simili a quelli di un bottiglione di Barbera a stomaco vuoto. Mi chiedo quanto ci vorra’ prima che gli attoniti yemeniti comincino ad usare i fucili o i pugnali a scapito dei nostri disgraziati compagni di viaggio.

– Visto come sono conciati gli darei una mano anch’io. – sghignazza Sandro fingendo di cercare la lama giusta nel suo coltellino finto-svizzero multi funzioni. – Probabilmente questi scossoni gli hanno spappolato il cervello. – – … Oppure sono fatti di qat, quelli si son mangiati anche i rami. – insiste Sandro che ha una scarsa considerazione per tutti quelli che stanno a Sud di Bologna.

– Guarda, ecco il ponte! – Lassu’ lontano (cazzo quanto e’ lontano ancora!) il minuscolo passaggio sembra uno stuzzicadenti appoggiato tra le due pareti rocciose. Il 135 non ce la fa a inquadrarlo e comunque uscirebbe un po’ mosso, una curva e via: ponticello sparito e di nuovo panorami sempre piu’ ampi e dirupi sempre piu’ alti … E botte alla schiena sempre piu’ forti. Dopo un paio d’ore di salita e girato l’ennesimo tornante siamo sotto l’ultima parete della montagna. Il profilo roccioso e’ interrotto qua e la’ dalle prime case di Shihara, la sosta fotografica e’ d’obbligo e la luce arrossata del tramonto e’ ideale per mettere in risalto le mura della cittadina e le rocce sottostanti. Tra la valanga di spazzatura sotto l’edificio piu’ grande scintillano una miriade di frammenti di vetro, quasi una cascata di lustrini dai riflessi purpurei: bottiglie di plastica, sacchetti e scatolette di vario tipo contribuiscono a colorare le diapositive ma riportano drammaticamente in primo piano il grave problema dello smaltimento dei rifiuti. Plastica e vetro hanno invaso il paese negli ultimi anni e rappresentano una triste costante nel paesaggio yemenita; non mi aspettavo che il problema esistesse anche fuori dalle citta’ piu’ importanti. Attraverso l’antica porta, Bab an-Nakhla, irrompiamo nella tranquilla sonnolenza della cittadina. I romani hanno smesso di cantare quasi avessero paura di rovinare l’incanto del luogo. Ombre nere e silenziose scivolano lungo le pareti di pietra tra le viuzze lastricate, lo sharshaf nero scende ondeggiando fino ai piedi, il velo sul viso nasconde anche la piu’ piccola porzione di pelle agli occhi indiscreti degli intrusi. A parte un impercettibile aumento di velocita’ delle donne per sparire al piu’ presto tra le mura amiche, il nostro arrivo passa nella piu’ totale indifferenza. Percorriamo un centinaio di metri e parcheggiamo tra la grande cisterna di acqua salmastra e la casa di Franzisca. La cisterna serviva un tempo per raccogliere l’acqua piovana e permettere cosi’ agli abitanti di sopravvivere, ora l’acqua sul fondo e’ di un bel verde smeraldo e i gradini ad anfiteatro un tempo usati per scendere a pulire il fondo sono deserti. I moderni sistemi di tubature e pompe portano l’acqua nelle case del paese e le cisterne disseminate qua e la’ nel villaggio sono solo desolanti testimonianze di un passato neanche tanto lontano; e come la cisterna serviva un tempo agli abitanti del posto, la casa di Franzisca serve oggi ai pochi turisti che scelgono di passare la notte quassu’ e provare l’inebriante sensazione di riposare in un nido di pietra a 3000 metri di altezza.

Guidato da Gadhri entro nella casa-pensione di Franzisca, a dire il vero un po’ trasandata, ritrovandomi nel buio piu’ completo; avanzo a tentoni indovinando un cunicolo a fondo chiuso. Gadhri torna indietro a prendermi e insieme andiamo su per una scala che si puo’ solo immaginare; nel buio si sentono ai piani superiori numerose voci maschili, risate miste a imprecazioni. Dopo un paio di rampe la flebile luce di una candela compare qualche metro piu’ sopra indicandoci la strada; Franzisca non e ‘ in casa e dietro alla candela una delle sue sorelle , o piu’ precisamente l’ombra nera di una delle sorelle, dopo alcuni stentati saluti in inglese ci guida a vedere il locale adibito a ristorante e camera da letto comune. Di bello c’e’ il panorama dalle finestre, il resto e’ uno spoglio stanzone scarsamente illuminato da una lampada a petrolio. Per tutto il perimetro ai piedi delle pareti sono allineati una serie di materassi dai colori indefinibili, per fortuna la poca luce non permette di approfondire i particolari, alcune coperte variopinte e grandi cuscini bitorzoluti completano l’arredamento della sezione notte, la cena sara’ servita per terra al centro dello stanzone il cui pavimento e’ coperto da grandi tappeti scuri, sicuramente molto piu’ scuri di quanto fossero in origine, e consunti, molto consunti. Sullo stesso piano si aprono le porte di altri locali simili al nostro dai quali escono le voci e gli odori di chiassosi ospiti yemeniti. E’ in corso il rituale party pomeridiano a base di qat. Butto uno sguardo incuriosito, alcune ombre si muovono proiettate sulle pareti dalla flebile luce di una lanterna appoggiata per terra; da un’ombra tra le ombre si leva un invito a partecipare, Gadhri declina l’invito anche a mio nome. Una delle varie porticine sul pianerottolo corrisponde all’unico gabinetto, facilmente individuabile grazie alla scia puzzolente. Provo a dare un’occhiata ma non si vede niente, il buio nasconde sicuramente il solito buco nel pavimento, i due mattoni poggia-piedi e lo scarico a pioggia direttamente all’esterno, infatti guardando giu’ si vedono brillare i vetri rotti tra la valanga di spazzatura. In un angolo c’e’ il secchio d’acqua per ripulire gli errori di mira e, a portata di mano, c’e’ un rotolo di carta igienica, molto sottile … Troppo sottile, meglio portarsela da casa.

Una volta riguadagnata l’uscita l’aria fresca e’ una manna, inutile rendicontare la visita ai miei compagni radunati attorno alla cisterna: le alternative a Franzisca sono limitate all’edificio sull’altro lato della piazza, ma questa diversa dislocazione rimane l’unica differenza evidente tra i due funduk. Meglio lasciar perdere e godersi gli ultimi fiammanti ritagli di sole dipinti sui muri di pietra; dopo pochi minuti il buio inghiotte case e persone e solo qualche debole luce attraversa con fatica i vetri colorati delle minuscole finestre, fiammelle tremolanti e misteriose sparse qua e la’ nel cielo di Shihara reso piu’ buio dalla mancanza di illuminazione esterna. Quando luci e stelle si confondono e’ ora di rientrare.



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