Ottobre 1995 – Yemen

Genova Porta Principe, ore 5.50 del mattino. Uno dei rari autobus notturni che passano per le strade di Genova (niente taxi, F.B.V. Da subito!…) mi deposita nel piazzale antistante la stazione ferroviaria. Mi carico lo zaino in spalla, la borsa fotografica a tracolla, e mi dirigo verso il bar per prendere un necessario caffè quando un fischio...
Scritto da: steweboy
ottobre 1995 – yemen
Partenza il: 01/10/1995
Ritorno il: 23/10/1995
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
Genova Porta Principe, ore 5.50 del mattino. Uno dei rari autobus notturni che passano per le strade di Genova (niente taxi, F.B.V. Da subito!…) mi deposita nel piazzale antistante la stazione ferroviaria. Mi carico lo zaino in spalla, la borsa fotografica a tracolla, e mi dirigo verso il bar per prendere un necessario caffè quando un fischio ben conosciuto mi fa voltare.

Gianni e la Franca stanno arrivando, belli carichi di zaini e zainetti anche loro sono una gioia degli occhi; dopo la preannunciata colazione saliamo sul Pendolino che in poco meno di cinque ore ci deposita a Roma Termini. Un piccolo disguido con l’agenzia viaggi alla quale ho demandato l’incarico di farmi ottenere il visto per lo Yemen mi costringe ad una corsa contro il tempo per le strade della Capitale fino al consolato yemenita, dove riesco per il rotto della cuffia a ritirare il passaporto e ritornare di gran carriera verso la stazione, dalla quale l’apposito treno navetta ci trasporta fino a Fiumicino.

Il volo della Royal Jordanian è fin troppo comodo e signorile e, a parte uno scalo non annunciato ad Istanbul (!), ci scodella senza traumi eccessivi all’aeroporto di Sanàa, la capitale dello Yemen. Il fatto strano delle rotte verso l’Oriente è che – nella stragrande maggioranza dei casi – gli orari di arrivo e di partenza sono programmati nel cuore della notte, quando la maggior parte dei trasporti pubblici per il centro città sono inesistenti. Fedeli a questa consuetudine, ci troviamo nella Sala Arrivi dell’aeroporto verso le tre del mattino; siamo vestiti da “paese caldo”, e superbamente abbiamo ignorato i consigli nelle prime pagine della Lonely Planet: Sanàa si trova a duemila metri di quota, e per quanto ci si trovi nella stagione calda fa un freddo barbino. Ci imbacucchiamo in tre o quattro magliette, una giacca della tuta ed un paio di felpe, e ci sdraiamo sulle poltrone dell’atrio aspettando il mattino, che come sempre non tarda ad arrivare. Contrattiamo un passaggio verso il centro città con un autoctono privato, che in cambio di pochi spiccioli accetta di caricarci sulla sua jeep e di portarci fino alla piazza principale della capitale. Una volta in loco, seguendo le indicazioni della guida non tardiamo a trovare una sistemazione persino dignitosa, a parte gli sguardi di ripugnanza quando – due uomini ed una donna, perdipiù bionda – chiediamo una stanza per tre. Nella stessa via del nostro “albergo” c’è il più trafficato viavai di cambiavalute non ufficiali, e pochi minuti di contrattazione ci consentono di raddoppiare, in pratica, il valore dei nostri dollari.

Senza neanche un attimo di riposo, macchine fotografiche a tracolla e rullini nelle tasche, ci lanciamo verso la città vecchia; capiamo subito che questo Paese potrà essere catalogato come un “Mangiarullini”, uno di quei posti cioè dove non hai ancora finito di chiudere il dorso della macchina fotografica che è di nuovo il momento di caricare un’altra pellicola; questo per la gioia del negozio di fotografia, del laboratorio che sviluppa le pellicole, e per il dolore del portafoglio… e degli amici a casa che dovranno sorbirsi proiezioni lunghe e soporifere (1).

Torniamo adesso alla Sanàa vecchia: indubbiamente lo spettacolo costituito dalle case di fango – caratteristiche di questa nazione – è davvero indimenticabile. L’immaginario collettivo si dipinge queste costruzioni come tristi tuguri modello “igloo marroni”, con un buco come porta e buchi più piccoli come finestre; dimenticatevi tutto questo quando arrivate nello Yemen: qui l’ingegneria civile ha portato all’eccelso lo sfruttamento degli spazi e dei materiali a disposizione. Grazie al clima torrido e sempre caldissimo, il fango – modellato con l’uso di primitivi ma efficientissimi stampi – secca in poche ore, e i mattoni risultanti non hanno nulla da invidiare come qualità, durata ed affidabilità ai prodotti della nostra tecnologia edilizia più avanzata.

Le case yemenite raggiungono anche gli otto piani, e le decorazioni di porte e finestre – tutte effettuate rigorosamente a mano con motivi risalenti davvero al periodo dell’Araba Fenice e delle Mille e una Notte di Sheherazade – lasciano a bocca aperta anche i viaggiatori più scafati. Non siamo in Oriente nel senso stretto, ma il mix di odori e colori di questa via magica e senza tempo, circondata dalle case che brulicano di vita dentro e fuori, con venditori di frutta e spezie in ogni androne, rapiscono tutti i sensi: le frasi più sfruttate da chi cerca di descrivere lo Yemen a chi non l’ha visto sono “Non c’è nulla di simile” e “Sembra di essere nel Medio Evo, o forse più indietro nel tempo”; una volta tanto, concordo perfettamente! E, indietro nel tempo e come sospesi in esso, ci lasciamo scorrere il pomeriggio tra espressioni di meraviglia, miriadi di scatti e sguardi compiaciuti tra noi, che sembriamo complimentarci a vicenda per aver scelto un posto così bello. La sera non tarda troppo ad arrivare, e con essa la voglia di mettere qualcosa sotto i denti. Ci infiliamo nel primo ristorantino affollato di autoctoni (ricordate le “Trattorie dei Camionisti” del Prologo?), prendiamo posto intorno ad un tavolo tra gli sguardi curiosi degli astanti e chiediamo a gesti un menu; in pochi minuti ci rendiamo conto di alcune cose, prima tra tutte che pochissime persone qui sono in grado di articolare qualche parola in inglese; la seconda – di valenza più immediata – è che nessun menu è scritto in una lingua diversa dall’arabo; la terza – che ci accompagnerà per tutto il viaggio – è che viaggiare in un paese “arretrato” (vi prego di considerare questo vocabolo SEMPRE in senso acritico, perlomeno in queste pagine) e musulmano insieme ad una donna bionda, specie se in compagnia di un altro uomo, ingenera in molte occasioni sguardi di disapprovazione a dir poco. In particolare, la donna viene vista come… per quanto mi sforzi di cercare un sinonimo meno violento, il vocabolo “troia” è quello che probabilmente ricalca meglio l’opinione locale.

Bene o male, dopo aver cercato di decifrare il menu che sembra pieno di segnetti molto pittoreschi ma senza alcun significato, ovviamente per noi cerchiamo di ricordare qualche nome dal ristorante arabo (ciao, Nabil!) dove spesso ci ritroviamo a cenare a Genova; decidiamo quindi di ordinare Falafel (polpette di ceci, verdura e spezie) e Shawarma (pane arabo ripieno di carne arrostita su di uno spiedo verticale ed accompagnata da verdura).

Gianni è particolarmente gongolante questa sera; quando gli chiediamo il perché ci risponde con un ghigno, e cominciamo a capire. Franca ed io adoriamo le lingue straniere: lei conosce molto bene inglese e spagnolo oltre a un po’ di francese, io parlo inglese, francese e tedesco; insieme mastichiamo un po’ di indonesiano “di sopravvivenza” e ci piace imparare le parole base di ogni lingua tipica del Paese che stiamo visitando. Gianni è un vero Genovese del Tempo Andato: parla il dialetto della nostra città e – discretamente – l’italiano; è refrattario e tetragono a qualunque altro idioma del mondo. “Finalmente – ci dice questa sera – partiamo ad armi pari: nessuno qui capisce nulla di quello che dite, voi non capite nulla di quello che vi dicono; ora la smetterete di menarmelo con le vostre arie da saputelli, siamo sulla stessa barca!”. Neanche a dirlo, dopo qualche giorno Franca ed io riusciremo ad ordinare al ristorante una decina circa di piatti diversi, avremo imparato i numeri da uno a dieci, qualche parola utile (tipo “the”, “sale”, “quanto costa”, ecc.) mentre il nostro compagno di viaggio non riuscirà a ricordarsi neppure “Shukran” (“Grazie”), incazzandosi di conseguenza.

Va osservato, almeno per la mia esperienza, che in ogni parte del mondo (eccettuate forse Francia, dove gli abitanti capiscono quello che dite e ve lo ripetono correggendovi, ed Inghilterra, dove – comunque le vogliate pronunciare – tutti fingeranno di non capire alla prima le vostre parole) gli abitanti del luogo gradiscono i viaggiatori che cercano di esprimersi nel linguaggio locale, anche se “sparano” degli orrendi strafalcioni.

Il pasto è ottimo ed abbondante, i gestori del locale simpatici… l’unica cosa alla quale bisogna ancora fare il callo sono gli sguardi non troppo discreti degli astanti, che non nascondono neanche un po’ il desiderio di lumare sotto il vestito della Franca. Terminata la cena, con già qualche piccola protesta da parte dell’intestino (San Bimixin, aspettami in camera!) decidiamo di rilassarci un po’ pianificando le prossime giornate. L’indomani mattina ci recheremo presso una delle società che propongono jeep con autista per contrattare un giro completo dello Yemen.

A differenza dei viaggi narrati nei capitoli precedenti, infatti, lo Yemen non consente facilitazioni ai turisti “100% fai da te”; teniamo presente che nel 1995 lo Yemen stava uscendo da una guerra civile (tra Yemen del Nord e Repubblica Socialista dello Yemen del Sud) che ha portato all’unificazione della nazione, ma con malcelati ed ovvi malcontenti da entrambe le fazioni. Il clima pertanto era tutt’altro che rilassato e non era assolutamente infrequente vedere persone che si aggiravano per le strade armate di Kalashnikov, pistole, fucili ad avancarica, alabarde o altre armi, convenzionali e non.

Pensare di affrontare un viaggio attraverso i due ex-stati, senza conoscere l’esatto tragitto, i problemi burocratici, locali e militari, la lingua locale, il tipo di strade che ci si potrebbe trovare a percorrere (come, ad esempio, attraversare il deserto – regno incontrastato dei Beduini già più volte assurti all’onore della cronaca internazionale per rapimenti di varia matrice e durata – senza né mappe né la minima strada battuta), il sistema di superare indenni i numerosissimi posti di blocco ancora funzionanti, il giusto itinerario per non incappare in uno dei molti campi minati ancora attivi… beh, non significa “pensare locale”, ma semplicemente “pensare di non voler tornare più indietro”. Niente inutili fanatismi, ricordate? E per evitare ogni forma di sterile fanatismo – fatta salva la mania di voler assaggiare qualunque porcata edibile proposta dalle bancarelle ambulanti, realmente irresistibile – ecco che il mattino successivo, dopo una notte rallegrata da alcuni piacevoli interventi vocali del locale muezzin, ci rechiamo presso l’Agenzia di noleggio più referenziata dalla Guida, e chiediamo informazioni dettagliate sull’itinerario che ci piacerebbe percorrere; gli impiegati, naturalmente gentilissimi, preparati ed in grado di formulare alcuni fondamentali concetti in inglese, soddisfano ogni nostra curiosità. Morale della favola, una jeep modello Toyota Land Cruiser con autista esperto e garantito, con benzina, spese e chilometraggio illimitati, con sostituzione del veicolo entro 24 ore in caso di guasti, che per 14 giorni ci porti su e giù per l’Arabia Felix ci costa – in totale – il controvalore di 40 dollari americani scarsi al giorno, circa 13 dollari a testa.

Giusto per salvare la faccia, sotto gli occhi torvi di Gianni che disapprova il Principio Fondamentale “Contrattare Oltre La Morte”, cerchiamo di mercanteggiare un po’ sul prezzo, senza in verità ottenere risultati degni di nota.

La partenza viene fissata per l’indomani mattina, ed il tempo a nostra disposizione viene dedicato in primis alla costituzione della “cambusa”: ci viene spiegato infatti che, al di fuori dei principali centri abitati, il reperimento di alcuni generi di prima necessità – acqua su tutti – risulta molto, molto difficile e dispendioso. Visti i prezzi veramente ridicoli, ci lasciamo tentare dagli acquisti di agrumi di vario tipo (squisiti i mandarini), di cibi improbabili e di bevande dal colore quantomeno inquietante (per non parlare del sapore: aranciata viola dal sapore a metà tra la gomma da masticare e la canfora antitarme). Prima di abbandonare il mercato ci lasciamo tentare ed acquistiamo un’enorme quantità (tanto che la Franca ne riporterà un assaggio anche a Genova!) di dolcissimi ed appiciccosissimi datteri giganti che il venditore estrae da antiche ed ammaccate scatole di latta nelle quali – pare – questi frutti vengano “tradizionalmente” conservati.

Le operazioni di vettovagliamento si concludono in pochissimo tempo, e ci rimane tutto il pomeriggio per organizzarci qualcosa. Decidiamo di prendere un autobus pubblico e di recarci a pochi chilometri da Sanàa dove, nel Wadi Dahar (vedere più avanti per una breve spiegazione del termine ”Wadi”) si può osservare il famoso Dar el-Hajjar (Palazzo sulla Roccia), una vera e propria residenza di lusso (anche se costruita sempre con i soliti mattoni di fango) posta in apparente bilico sopra una rocca, in mezzo ad una valle tra due altopiani. Scattiamo un’altra mezza dozzina di rullini, e dedichiamo particolare cura nell’immortalare le donne coperte di nero da capo a piedi, che contrastano incredibilmente con il bianco dei muri delle costruzioni circondanti il Palazzo. Torno a ripetere che, specialmente in Paesi caratterizzati dalla presenza di religioni particolarmente intolleranti (e su tutte non si può negare che quella musulmana ricopra di gran lunga la prima posizione in termini di integralismo cieco), non bisogna mai dimenticare che gli ospiti siamo noi, e che ci piaccia o no dobbiamo adeguarci agli usi e costumi di chi gentilmente ci accoglie nella sua patria (ecco perché quando sento parlare di togliere il crocifisso dalle aule delle scuole italiane per non offendere i non-cristiani perdo la testa… ma questa è un’altra storia!); ad una richiesta accompagnata da un sorriso spontaneo e sincero ben difficilmente viene opposto un rifiuto, e vi posso giurare che in ogni Paese che ho avuto la fortuna di visitare nessuno mi ha mai negato il permesso di fotografare qualcosa, a meno che ciò non contrastasse recisamente con dettami “superiori”. Molte religioni vietano di fotografare i luoghi di culto, a Varanasi in India non è permesso riprendere le pire funerarie, e non trovo politically correct riprendere scene di povertà o di particolare intimità (anche se qualche volta ho ceduto per cupidigia al Dio Otturatore…), e non dobbiamo quindi offenderci se in questi casi veniamo pregati (o decisamente diffidati) di non usare la nostra apparecchiatura.

Nello Yemen, al contrario, a parte l’interno di alcune moschee e di qualche cimitero musulmano, abbiamo sempre incontrato persone disponibili e sorridenti, che anzi ci chiedevano di essere riprese; alcune addirittura ci hanno scritto il loro indirizzo – in arabo! – pregandoci di spedir loro una copia della fotografia. (Lo faccio sempre, giuro, anche a costo di ricopiare sulla busta “impossibili” scritture).

Concludiamo il pomeriggio passeggiando per la valle, salutando gli onnipresenti e tenerissimi bambini, fotografandoci in un gruppo di macho locali con tanto di jambija (il celeberrimo coltello ricurvo) legato in vita. Ritorniamo a Sanàa in tempo per concederci un vivace localino del centro storico per rifocillarci con calma. Prima di addormentarci, un pensiero ed un augurio di raucedine fulminante non può non raggiungere il solerte muezzin del vicino minareto.

Al mattino presto ci rechiamo presso l’agenzia turistica, dove – con il motore in moto “che tanto il diesel soffre meno e poi non inquina mica poi tanto” – ci attende una magnifica jeep nuova fiammante dalla quale salta giù uno striminzito omuncolo ricoperto da un kefiah che gli lascia scoperti i denti ed i piedi. Sorride e prorompe in un “Gud monin mai neim Abdullah” che – scopriremo dopo qualche ora – è ahinoi l’unica espressione in inglese che conosce.

Ci presentiamo con i nostri nomi di battesimo. Gianni diventa “Djani”, la Franca diventa, non si è mai capito perché, “Fristìna” e io divento “Sifàno”; gli ripeteremo la corretta pronuncia dei nostri nomi per tutto il viaggio, provando anche a provocarlo chiamandolo “Bubullà”, “Trullallà” e “Stronzo”, ma Djani, Fristìna e Sifàno sarà tutto quello che otterremo per quattordici giorni.

Senza indugio, carichiamo la vettura con le masserizie acquistate il giorno prima ed in men che non si dica siamo sulla strada che da Sanàa ci porta verso Marib, patria della Regina di Saba, del cui favoloso tempio pare rimangano alcuni resti. Il paesaggio dello Yemen, che impareremo a conoscere, è caratterizzato da subitanei e continui cambiamenti radicali: gigantesche rocce nere lasciano spazio in un batter d’occhio a sabbie chiare, che si trasformano in verdeggianti coltivazioni e subito dopo in imponenti altipiani per ritornare alle rocce nere. Fa caldo, molto caldo, e quelli che dicono “ma tanto il caldo secco non si patisce” dovrebbero salire con noi sulla jeep guidata – con perizia, bisogna dire – dal “nostro” Abdullah.

Quando la strada che ci troviamo a percorrere fiancheggia per la seconda volta una sterminata coltivazione di alberelli verdissimi, proviamo a chiedere al nostro autista di che pianta si tratti; come anticipato, egli non parla una sola parola di inglese, né lo capisce molto meglio. Si vanta però di parlare qualche parola di italiano, “perché ho già avuto turisti italiani insieme a me”; ci spiega quindi che le piantine che tanto ci hanno incuriosito sono il famosissimo Qat. Il Qat (che si pronuncia “cat”) è la maggior fonte di reddito dello Yemen: le foglie più piccole che spuntano sulle cime degli alberelli vengono raccolte con cadenza quotidiana da una miriade di addetti, selezionate con mani esperte, impacchettate negli onnipresenti sacchetti di polietilene (di solito di color rosa pallido), trasportate entro il primo pomeriggio nei principali centri abitati, e commercializzate con foga. Qui, praticamente tutti gli uomini in grado di camminare o almeno di trascinarsi fanno follie di ogni tipo (ma soprattutto economiche) per accaparrarsi i germogli più freschi e pregiati; una volta perfezionato l’acquisto, si siedono all’ombra e cominciano ad infilarsi in bocca ad una ad una le foglioline di Qat, masticandole con lentezza senza ingoiarle, conservandole in un lato della bocca, tra le gengive e la guancia. Quando il bolo ha raggiunto le dimensioni di una palla da tennis smettono di infilarsi foglie in bocca, e cominciano a ruminarlo lentamente. Le foglie liberano una sostanza che viene paragonata ad una droga leggera e leggermente eccitante, e tutta la popolazione maschile dello Yemen pare dedita a questa sorta di rincoglionimento quotidiano generale; molti hanno addirittura la pelle della loro guancia preferita sensibilmente più dilatata rispetto all’altra.

Veramente, a voler osservare con spirito critico gli occhi di chi si dedica alla masticazione del Qat, si potrebbe supporre che il principio attivo liberato funga da lieve anestetico; ho visto bovini dallo sguardo molto più acuto. Durante il nostro itinerario abbiamo voluto naturalmente provare a masticare il Qat, ma come al solito gli effetti inebrianti – nonostante Gianni abbia rischiato più volte di sbavarsi addosso durante la non facile opera di ruminaggio del bolo – sono stati ben lungi dal farsi avvertire. Probabilmente bisogna dedicarsi a questa pratica per lungo tempo e con molta più abilità (e con molto più Qat in bocca) per riuscire ad ottenere i risultati “sperati”.

Arriviamo in perfetto orario a Marib, dopo aver superato almeno quattro posti di blocco dove, senza la perfetta padronanza della lingua araba, sarebbe stato veramente impossibile aver via libera; non dimentichiamoci che – in parecchi casi – gli autoctoni non riescono a comprendere cosa possano trovarci di interessante i turisti nel loro Paese (quante volte avete visto, nella vostra città, persone fotografare cose apparentemente stupide e vi siete chiesti “chissà cosa gliene frega a questi di immortalare una strada insulsa o una fontana piena di monetine…”) e che, specialmente con ancora negli occhi e nelle orecchie i boati di una guerra civile, pare loro impossibile che qualcuno possa percorrere migliaia di chilometri per venire ad osservare con commosso entusiasmo quello che hanno sempre considerato solo un deserto inabitabile o una città piena di palazzi in rovina.

Appena entrati in città, Abdullah ferma la jeep di fronte ad un ristorantino gremito di clientela locale, e ci invita a scendere per il pranzo. Sicuramente ogni ristorante (e buona parte degli alberghi…) che ci viene consigliato passa una percentuale del ricavo ad Abdullah, ma così va il mondo (e in India, vedrete, è incredibilmente peggio!); nello stesso momento in cui ci si rende conto che il prezzo che si paga è in linea con quello che si dovrebbe sostenere in un qualsiasi altro ristorante/albergo, e che la percentuale riconosciuta alla nostra guida lo ricompensa – da parte nostra – per il tempo che ci ha fatto risparmiare evitandoci di girare ore ed ore alla ricerca di un posto di nostro gradimento, ecco che tutto l’ingranaggio comincia a “girare” come un meccanismo collaudato da secoli, perfettamente oliato e tuttora funzionante.

Il padrone del ristorante – come a voler suggellare quanto espresso nel paragrafo precedente – saluta Abdullah con un abbraccio e ci invita ad accomodarci ad un tavolo; dopo appena pochi minuti veniamo serviti con un intero pollo al forno, il delizioso pane yemenita (una sorta di pizza multistrato, oleosa, saporita e succulenta), enormi porzioni di riso “integrale” (tanti sono i corpi estranei mescolati ai chicchi, che abbiamo deciso di considerarlo così per non sentirci colpevoli nei confronti del nostro intestino…) ed una nutrita serie di piattini di metallo contenenti saporitissime – ed alcune piccantissime! –salsine multicolori, dove intingere il pane è una vera libidine. Il prezzo che paghiamo congedandoci dal ristoratore (anche se sicuramente comprensivo di “cagnotta”, vedi sopra) è talmente basso da farci quasi vergognare, tant’è che – orrore! – non contrattiamo neppure; Gianni gongola, ma non sappiamo se è perché gli è stata risparmiata la patetica scena del mercanteggiamento o perché ha capito che in questo Paese non morirà mai di fame.

Marib è molto interessante, non tanto per il tempio della Regina di Saba (ridotto veramente a poche colonne ed a qualche rovina sparsa nella sabbia) quanto per l’ingegnoso sistema di dighe che hanno consentito fin da tempi remoti di trasformare un posto arido ai confini del deserto in un’unica, gigantesca e piacevole oasi verdeggiante. Superato senza traumi un saporito battibecco tra Gianni e la Franca (che ogni tanto sale in cattedra, forte delle sue due lauree, facendo pesare al suo partner gli anni bui – cioè prima di avere l’onore di accompagnarsi a lei… – trascorsi ad ormeggiare navi), peraltro eternamente immortalato su nastro (capito, ragazzi?), trascorriamo la calda serata mediorientale a passeggiare per il mercato notturno. Alcune bancarelle tradiscono la guerra appena terminata: per 40 dollari mi viene offerta una Luger ancora fasciata nella carta oleata, per poco di più un Kalashnikov “usato poco”; con il controvalore di pochi dollari si possono comprare proiettili, coltelli, baionette, elmetti, mine “disinnescate”(!), bombe a mano. A fianco, una donna a viso coperto vende caramelle e vestiti per bambini, e poco più in là si può comprare verdura succulenta e mandarini profumatissimi, mentre la popolazione maschile, Abdullah compreso, soggiace da ormai parecchio tempo tra i fumi (e le bave…) procurati dal Qat.

Prima di andare a dormire, la nostra guida ci conferma che domani mattina cominceremo la traversata del deserto, dove è previsto che dormiremo una notte in un – o nei pressi di un – accampamento beduino. L’unico problemino, aggiunge cercando di farsi capire al meglio, utilizzando arabo, tre pezzi di inglese e qualche parola in quello che lui crede sia italiano, è che il beduino che ci deve fare da guida per il deserto vuole 50 dollari. Chi di noi non ha mai letto – o sentito nei vari TG – di turisti intrappolati dai beduini dello Yemen, e rilasciati intatti qualche giorno dopo? Il meccanismo è piuttosto semplice: stufi di essere considerati (a torto o a ragione) i “predoni del deserto”, questi nomadi millenari hanno dovuto giocoforza escogitare qualche sistema per sopravvivere senza depredare nessuno in maniera troppo coercitiva (tipo con l’uso delle armi o con minacce varie…). La soluzione è stata fin troppo semplice: chiunque voglia attraversare il deserto deve (e sottolineo deve) farsi scortare da una jeep guidata da un beduino; al riparo tra le dune di sabbia, i colleghi di questo individuo osservano chi transita sulle piste sabbiose. Quando viene individuato qualcuno che ha deciso di sfidare la sorte e ha optato per avventurarsi senza scorta in giro per il deserto, ecco che le ataviche pulsioni predatorie riprendono il sopravvento, ed i telegiornali europei hanno qualcosa di cui parlare per una sera o due.

Diamo il nostro assenso ad Abdullah, non dimenticando però di farglielo pesare moltissimo, facendolo sentire il colpevole membro di una sconsiderata genìa di ladri e predatori mangiacarogne, indegni persino di leccare le tracce delle più stolide ed avide jene zoppe e putrefatte. Grazie anche al Qat masticato (e forse perché non ha capito un cazzo di quello che gli abbiamo detto) il prode microarabo sorride e ci augura la buonanotte.

All’alba ci svegliamo, carichiamo la jeep di zaini ed acqua fresca e ci dirigiamo al luogo dell’appuntamento, dove un beduino dall’aspetto affascinante e misterioso al limite del romanzesco ci attende a bordo di un pick-up Toyota nuovo fiammante; anche se non ci aspettavamo un “uomo blu” in groppa ad un cammello biascicante, il gippone da truzzo metropolitano ci sconcerta almeno un attimo. Esperite le presentazioni d’obbligo, il nostro apripista si esibisce in una filippica di dieci minuti in arabo stretto, durante la quale tutti – Gianni in testa – annuiscono vigorosamente, basta partire.

Dopo pochi chilometri di strada asfaltata, il pick-up gira improvvisamente sulla destra, e ci ritroviamo in un batter d’occhio in mezzo alle dune; a questo punto entrambi gli automezzi si fermano, e gli autisti si affrettano a sgonfiare parzialmente i pneumatici per assicurare una maggior tenuta di strada sulla sabbia. Finalmente si parte! Mentre Gianni e Franca hanno nel loro palmarès un magnifico viaggio in Mali e Mauritania risalente a qualche anno prima, e di deserto hanno quindi una buona esperienza, è la prima volta che mi trovo a perdere lo sguardo su di una distesa monotona di sabbia; adoro il mare, però, specialmente il mare “lungo”, con onde grandi e lente che si muovono impercettibilmente: adoro fermarmi a guardare il mare mosso dal libeccio, il rumore del vento sulle onde e l’odore che mi colpisce; se queste affermazioni possono apparentemente sembrare inopportune, vi garantisco che la prima sensazione che mi colpisce con la forza di un pugno è quella di trovarmi in riva ad un mare immenso, mosso da un vento caldo simile allo scirocco; persino l’odore che mi colpisce mi ricorda quello delle mareggiate, e mi fermo con la mascella mezza cadente a guardare le dune, ferme solo in apparenza ma in realtà in perenne e costante movimento. Neanche gli scrolloni della jeep che sbanda sulla sabbia finissima riescono a riportarmi alla realtà; ci riesce però immediatamente il “click” dell’otturatore della macchina fotografica di Franca, che mi ricorda che se non mi sbrigo a scattare qualche fotografia tutto quello che vedo resterà soltanto nei miei ricordi.

Abdullah ha un certo mestiere, e riesce a farci sentire veramente intrepidi esploratori: si getta a con l’auto a capofitto giù per altissime dune, guida con perizia il suo veicolo sul bordo della pista, ci segnala i posti migliori dove fermarci, scattare fotografie, correre a perdifiato in discesa sulla sabbia rovente… trova anche un cespuglio rinsecchito che permette a Franca di fare quello che noi siamo riusciti a fare semplicemente voltandole le spalle. In tutto questo tempo il beduino, rispettoso e vero Signore, si ferma insieme a noi, ci osserva sorridente e distaccato, riparte quando siamo pronti noi, senza mai farci fretta o criticare alcunché. Verso mezzogiorno, sotto un sole di cromo che ci spela vivi, arriviamo in un paese vecchio di centinaia d’anni e completamente in rovina, che ci affrettiamo a visitare mentre Abdullah ed il beduino parcheggiano le jeep all’ombra di strane piante ad alto fusto. Ci rifocilliamo con panini al formaggio, verdura, frutta ed ancora alcuni dei datteri appiccicosi dal valore calorico imbarazzante che abbiamo acquistato a Sanàa. Nel tardo pomeriggio arriviamo all’accampamento dei beduini dove passeremo la notte. Qui, uomini e donne dormono insieme sotto enormi tendoni che, grazie al sole cocente, riescono a mantenere costantemente una temperatura considerata “di benessere”, e che da noi potrebbe consentire la gestione di un bagno turco. Appena arrivati, veniamo fatti oggetto di una certa curiosità, il che ci fa presumere (con la nostra solita, un po’ superba ostinazione da viaggiatori-ma-non-turisti) che questo tipo di visite non avvenga poi con una frequenza così smisurata; finite le presentazioni, gli uomini – già in ritardo – si ritirano a masticare Qat, mentre le donne ci assegnano i posti-letto e ci consegnano le coperte che utilizzeremo per la notte. Gianni apre la sua per controllarne più che altro le dimensioni, e ne cadono svariate cimici “corazzate” che corrono a rifugiarsi dentro altre coltri; sorridiamo a denti stretti e provvedo a tirar fuori dallo zaino la mia tenda a igloo, mentre Franca spiega alle donne (non è bello che uomini sconosciuti rivolgano la parola a donne musulmane… specie in mezzo al deserto dove gli uomini sono uomini e le cammelle dormono sonni agitati) che preferiremmo dormire all’aperto. Nessun problema, ovviamente.

Finito un altro paio di rullini prima del tramonto e durante la cena illuminata da un enorme falò, montiamo in un batter d’occhio la tenda e ne prendiamo possesso; appena all’interno, scopriamo che i “due posti belli comodi” gabellati sull’etichetta sono stati forse certificati da una coppia di nani anoressici, e che essendo noi la bellezza di tre (ivi compreso il sottoscritto che da solo vale quasi un posto e mezzo…) la notte riprometteva di rivelarsi un discreto incubo. Ho già scritto su queste pagine che il corpo umano è una macchina perfettamente adattabile ed infatti, dopo alcuni tentativi di incastro che neanche l’ultimo livello di Tetris, riusciamo a trovare una sistemazione soddisfacente; proprio un attimo prima di addormentarci veniamo colti da una crisi irrefrenabile di riso, immaginandoci di venire travolti da una carica di dromedari selvaggi. La notte – gelida come tutte le notti nel deserto – passa piuttosto comodamente, e l’alba ci vede già in piedi a bere shai ed a scattare foto al sole che sorge.

Si riparte alla volta di Haynin, il primo avamposto abitato alla fine del deserto; vi giungiamo nel primo pomeriggio, dopo aver apprezzato negli ultimi chilometri un altro tipo di deserto, questa volta roccioso ma ugualmente suggestivo. Appena entrati in città il beduino si affretta a congedarsi, e senza neppure fermarsi a bere un sorso d`acqua volta la jeep e si rituffa nel deserto; lo vediamo allontanarsi non senza provare una punta di invidia: a modo loro ricalcano piuttosto soddisfacentemente il concetto di “uomini liberi” tanto rincorso dai moderni sociologi (ma questa, tanto per cambiare, è un’altra storia ancora…); noi entriamo nel solito ristorante gestito dal “cognato” di Abdullah, e proprio dopo il primo sorso di Coca Cola gelida il mio intestino comincia a sentirsi sprimacciato da Cassius Clay: chiedo con una certa malcelata urgenza al proprietario del locale dove si trovi la toilette più vicina e questi, con la tipica cortesia di questi popoli deliziosi, mi indica una porticina in fondo alla sala. La apro tradendo un po’ di fretta… e mi trovo in un cortile pieno di erbacce secche e costellato di altri prodotti organici (un numero impressionante di prodotti, devo ammettere!), secchi anch’essi ma tuttavia non scevri di un certo residuo aroma pungente che stimola ancor più in me il desiderio di aggiungere qualcosa di personale a questa già notevole collezione. Eseguo, non senza un certo imbarazzo (a metà dell’opera scopro con sconforto che sono osservato criticamente in silenzio quasi mistico da una dozzina di bambini, seduti sul muretto che delimita il cortile), e terminata senza difficoltà la scorta di fazzolettini di carta a mia disposizione, ritorno fischiettando a tavola. Le mani? Le ho lavate, le ho lavate… Subito dopo mangiato (è ormai quasi sera), ci rechiamo a cercare un alberghetto; questa volta, nonostante le insistenze (remunerate) di Abdullah, decliniamo quello che ci viene offerto e ci facciamo accompagnare un po’ in giro per la città fino a trovare un posticino che ci soddisfi davvero (e che faccia capire al nostro accompagnatore che, ogni tanto, non accettiamo di esser presi per sprovveduti).

Il giorno successivo ci vede impegnati a visitare le “Manhattan del deserto”; Tarim, Shibam e Seyun sono (specialmente la seconda) città giustamente famose per il loro piano regolatore. Costruite a pianta quasi perfettamente circolare sulle rive di un wadi (i wadi sono in pratica corsi d’acqua sotterranei, non tanto grandi da poter uscire e scorrere normalmente nel loro letto ma sufficienti a lasciar filtrare la loro umidità all’esterno, consentendo così alla vegetazione – che si accontenta veramente di poca acqua – di prosperare e di trasformare il deserto in un giardino; senza wadi, probabilmente non potrebbe esistere, nei Paesi desertici, nessun centro abitato distante più di qualche chilometro dalla costa), queste città sono caratterizzate da edifici altissimi, anche più di nove piani, sempre costituiti da mattoni di fango. I diversi colori con cui le case sono dipinte, poi, contribuiscono a creare l’illusione di osservare la downtown in scala ridotta di una metropoli nordamericana; mura di protezione circondano l’abitato, e solo in alcuni punti è consentito l’ingresso. Su panche improvvisate, vecchi rugosi dagli occhi sempre socchiusi per il sole siedono ad accarezzare il tempo che passa, mentre bambini e ragazzi giocano a palla sul letto del wadi, sollevando nuvole di polvere che velano il sole aumentando la sensazione di trovarsi su di un lontano pianeta; girare per le viuzze di queste città dove il sole non riesce a penetrare è davvero qualcosa di magico; i rumori, i colori e gli odori trasportano chi prova a chiudere gli occhi in un Paese incantato nei cui cieli volano tappeti e nelle cui torri, in stanze profumate di mirra, bellissime fanciulle velate raccontano fiabe antiche a uomini che fumano dal narghilé.

Scattiamo decine di fotografie sia all’interno delle città che recandoci sulle colline circostanti in modo da poter abbracciare con lo sguardo l’incredibile paesaggio che ci si offre; il tempo scorre piacevole, la gente ci guarda e sorride, nessun problema, nessuna fretta, non sentiamo né fame né stanchezza né caldo… né tantomeno nostalgia di casa; l’unica nota triste è che domani lasceremo “Manhattan” per proseguire, ma tant’è. Molte volte mi è capitato di partire da un posto a malincuore, perché ero convinto che non avrei potuto trovare nulla di meglio, ed altrettante volte sono stato smentito, quindi ben presto la tristezza lascia il posto ad un entusiasmo curioso, che è poi la molla principale che spinge il viaggiatore a cercare posti inesplorati o a guardare sbavando le pagine di un atlante.

La jeep di Abdullah parte rombando, lasciando dietro di sé una suggestiva nuvola di polvere dorata; stiamo percorrendo il Wadi Adramauth – il wadi più importante dello Yemen – dirigendoci a sud, verso il mare. La strada non è assolutamente asfaltata, ed è ricoperta da sassi tondeggianti, levigati migliaia di anni fa da un fiume impetuoso che ora occhieggia indebolito da sottoterra, sui quali solo la reale perizia del nostro autista – che guida per inciso ad una velocità da sospensione immediata della patente – riesce a tenere in corretto assetto il veicolo che ci trasporta. Un paesaggio ancora diverso dai precedenti ci attende: ai lati del wadi, donne e ragazze pascolano greggi di capre, le loro teste ricoperte da alti cappelli di paglia che contribuiscono anche a mantenere aria fresca al loro interno (nei posti caratterizzati da condizioni estreme, niente è lasciato al caso e mai nulla ha solo funzioni meramente estetiche). Abdullah – vero marpione – cerca di adescarne alcune profferendo frasi che, pur non sapendo l’arabo, risuonano offensive persino alle nostre orecchie semplicemente per il loro tono.

Altro cambio di paesaggio: strada dissestata ma senza più sassi (solo una ghiaietta fastidiossisima ed insidiosa), montagne color ruggine (composte quindi principalmente da minerali ferrosi), e ogni tanto qualche carro armato – residuo della passata guerra – ridotto ad un ammasso di lamiere contorte. Durante una sosta pro-vescica, ne vedo uno particolarmente ben conservato a poche centinaia di metri dal ciglio della strada, afferro la macchina fotografica dopo aver riposto con cura l’altro oggetto che stringevo in mano, e che ha causato la sosta, e mi dirigo correndo verso di esso per scattare qualche immagine. Vengo congelato dalle urla belluine (o beduine?…) di Abdullah, che si sbraccia forsennatamente nella mia direzione senza osare però muovere un passo verso di me. Mi fermo e, con il gesto universale delle dita a mazzetto, gli chiedo cortesemente che cosa voglia. Con sguardo implorante, giunge le mani in segno di preghiera e mi fa segno di tornare indietro con calma, mimando con le gambe dei passi lenti ed ampi; scrollo le spalle e ritorno verso la jeep, mentre Gianni e Franca guardano Abdullah come se fosse rincoglionito di colpo. Quando risalgo sul ciglio della strada, la nostra guida mi prende per mano e mi trascina verso un cartello sghimbescio, inchiodato su di un paletto qualche decina di metri avanti alla jeep. Guardo il cartello, senza capire alla prima; quando realizzo, le gambe mi mollano e, se non fosse che poco prima mi sono svuotato la vescica, probabilmente – diciamolo! – mi piscerei addosso senza ritegno. Sul cartello fa bella mostra di sé un teschio abbastanza primitivo, sotto al quale si trova una frase in arabo. Ancora sotto, una frase in cinese (sono ideogrammi, e visto che i cinesi hanno avuto in passato alcune ingerenze nello Yemen…), una in cirillico e quindi – finalmente – una in inglese, la cui approssimativa traduzione potrebbe suonare come: “Attenzione, pericolo di morte! Campo minato ancora attivo! Non scendere dal ciglio della strada!”; un altro simpatico teschietto chiude la poco rassicurante avvertenza. Abdullah mi guarda, e dalla mia espressione capisce che ho compreso la cazzata che stavo per fare; per contro, dalla sua faccia capisco che se per caso fossi saltato in aria la sua carriera di guida turistica sarebbe terminata nello stesso momento del Boom! In tarda serata, dopo aver recuperato l’uso della parola e perso quello delle chiappe grazie ai sobbalzi incontrollati ai quali sono state sottoposte per tutta la giornata, arriviamo in riva al Golfo di Aden, nella ridente cittadina di Al-Mukhalla, relativamente alla quale la Lonely Planet, sforzandosi non poco, riesce ad indicarne nel lungomare e nei prospicienti ristorantini l’unica reale attrattiva. Qui riusciamo a toglierci la voglia di pesce che covavamo da parecchio tempo, spendendo il controvalore di un panino imbottito in un bar di Genova, e anche se non avete mai visto mangiare me e Gianni vi posso garantire che si è speso davvero poco… L’unico neo di Al-Mukhalla, cittadina altrimenti senza infamia né lode, è dato dalla fogna principale a cielo aperto che attraversa il centro, e che malauguratamente scorre sotto le finestre del nostro alberghetto, rendendone l’aroma interno simile ai cessi intasati dell’aeroporto di Calcutta durante la siccità. Meno male, ce ne accorgiamo prima di pagare la stanza e fuggiamo quindi a gambe levate verso altri hotel; il problema che l’unico altro albergo ad avere posti liberi è un quattro stelle popolato da business men stranieri, e chiede 80 dollari americani per la stanza doppia. La F.B.V., anche se Gianni storce il naso (e non per la puzza…), ci proibisce un tale abominio, ed è così che, parcheggiata la jeep sul bordo della strada con Abdullah che dorme stravaccato all’interno, la mia tenda ad igloo viene utilizzata la seconda volta, su di una splendida spiaggia in riva al mare e ben lontana dalla foce della fogna. Il rovescio della medaglia questa volta è rappresentato dalle fameliche orde di zanzare che vegliano sulla soglia del nostro rifugio notturno; quando Gianni si alza nel cuore della notte per fare i suoi bisogni e apre la zip, almeno un centinaio di zanzaroni invade l’interno della tenda, costringendoci ad accendere la torcia elettrica e dare il via ad un safari dagli esiti incerti, che termina solo un’oretta dopo con un discutibile pareggio.

Ci svegliamo (un po’ grattarelli…), risaliamo sulla jeep decisi ad abbandonare questa città puzzolente e le sue zanzare da caccia grossa, e sproniamo Abdullah perché ci conduca verso qualche spiaggia da sogno, dove abbiamo progettato di riposarci un paio di giorni prima della seconda parte – faticosa – del viaggio, che dovrebbe riportarci a Sanàa (da dove io tornerò in Italia e i due stronzi miei amici proseguiranno – per il MOLTO tempo che ancora rimane a loro disposizione – verso la Siria e la Giordania). L’intelligenza, l’eloquenza e la furbizia del popolo arabo sono state oggetto di innumerevoli racconti e descrizioni in ogni tempo, ed Abdullah non si discosta dal DNA di questo popolo millenario: quando Gianni, probabilmente provato oltre ogni limite dalla dieta mediorientale che gli sconvolge il sistema digestivo e la flora batterica intestinale, decide di non riuscire più a trattenersi e rilascia all’interno della jeep una nube di gas mefitici che ci cambia i connotati in pochi secondi, il nostro autista riesce ad esprimere un concetto significativo utilizzando lo scarno vocabolario a sua disposizione; lo guarda e, sospirando disgustato ma divertito, gli sussurra: “Djani Mukhalla!”.

Finalmente cominciamo a costeggiare il Mar Rosso – quello vero, ma quale Sharm, ma quale Hurgada – che bagna il Golfo di Aden; il paesaggio varia ancora una volta, e ci troviamo a percorrere una strada che sulla destra è fiancheggiata da aspre montagne di roccia vulcanica nera mentre sulla sinistra viene lambita da una striscia di sabbia finissima e quasi bianca che la divide dal mare, lontano solo poche decine di metri. Sulla spiaggia, pescatori vecchi appena poco meno del mare riparano le reti all’ombra delle loro imbarcazioni fatiscenti ma ancora coloratissime.

Abdullah arresta la Toyota ai pendici di una collina alta sui quattro-cinquecento metri e ci invita a salire fino in cima; lo guardiamo attoniti per cercare di capire se sta dicendo sul serio o se vuole prendere quattro sberle: ci saranno 40° all’ombra, la roccia è nera come il fondo dei calzoni di un carbonaio etiope, la pendenza è praticamente verticale… e la nostra guida continua a far cenni piuttosto imperiosi. Con una scrollata di spalle decido di cominciare l’arrampicata pensando “Che diamine, lo paghiamo ben per farci da guida…Magari avrà ragione!”.

Per quanto la mia prima impressione – una volta in vetta – possa essere stata distorta sia dal debito di ossigeno che dal bruciante dolore ai quadricipiti, devo confessare che ben poche volte ho avuto la fortuna di poter ammirare un’immagine così splendida: la collina è in realtà un vulcano spento, nel cui cratere si è formato un lago quasi perfettamente circolare, ai bordi del quale una spiaggia senza tempo, con i colori degradanti dal rosso al giallo, gli funge da perfetta cornice. Sembra di guardare dall’alto un pianeta sconosciuto sul quale per la prima volta esseri umani posano il piede. Gianni vorrebbe provare a scendere all’interno del cratere, ma lunghe lame di roccia vulcanica tagliente lo fanno desistere dopo pochi passi.

Abdullah è un puntino minuscolo visto da lassù, ma dentro di noi non sappiamo come ringraziarlo; la discesa presenta non poche difficoltà, visto che la roccia è particolarmente scivolosa, ma in poco tempo possiamo sederci di nuovo sulla jeep e ripartire alla volta della spiaggia dove abbiamo pianificato di passare la notte.

Dopo qualche vicissitudine connessa al non facile reperimento del cibo per la cena (siamo piuttosto lontani da qualunque centro abitato, anche volendo stiracchiare questa definizione fino a ricomprendere un nucleo di quattro capanne di fango) con conseguente sclero di Gianni il Famelico, riusciamo a riempirci la pancia con del pane caldo e con quello che sembrava uno stufato di agnello e verdure, piccante oltre l’inverosimile; ci dirigiamo quindi sulla spiaggia prescelta – un piccolo golfo bianchissimo punteggiato qui e là da scure rocce vulcaniche – montiamo la tenda e ci schiantiamo ancora prima di darci la buonanotte.

A risvegliarci, verso le sei del mattino, ci pensano alcuni assordanti spari, che ci fanno sobbalzare nel “letto”: ci precipitiamo fuori per vedere un sorridente Abdullah seduto a fianco di due sconosciuti che imbracciano un kalashnikov regolato sul Colpo Singolo e sparano verso il mare aperto (devo ricordare che la guerra civile è finita da poco tempo e che quasi tutti girano armati?); i “cecchini” si girano verso di noi (e un po’ di strizza mi sale verso lo stomaco) e poi ci porgono il mitra e ci invitano a sparare. Per non sembrare scortese accetto, ma dopo due colpi ho perso completamente l’udito, ho una mano che formicola e la polvere da sparo mi ha bruciacchiato il dorso della mano. Quelli ridono… Dopo una frugale colazione con quanto siamo riusciti a trovare all’interno della jeep decidiamo di dedicare la giornata al mare. Vicino a noi apre la sedia a sdraio un tizio biondo e grassottello (con un minuscolo servitore che a tutti noi sembra ben più di un semplice cameriere…) dall’aria viscidina anzichenò, che si presenta come il console onorario dell’Olanda, e che in un inglese finalmente intelligibile comincia a spiegarci qualcosa di più di questo Paese straordinario; ci troviamo – dice – sulla spiaggia che un tempo era conosciuta come Al-Mokha: le carovane del caffè sostavano proprio qui. Indica il monte che sovrasta la spiaggia e ci dice che se provassimo ad arrampicarci fino in cima potremmo scorgere ancora, parzialmente seppellita dal mare, la vecchia città che qui sorgeva, dal cui nome deriva il Moka, cioè il famosissimo caffè. Pare infatti che il vero, unico ed incontrovertibile luogo d’origine della bevanda nota in tutto il mondo sia proprio lo Yemen.

Facendo finta di assecondare il nostro interlocutore, ma in realtà consumati da un’incontenibile curiosità, ci arrampichiamo sulle pendici della collina a picco sul mare e riusciamo in effetti ad individuare con facilità l’antica planimetria della scomparsa città di Al-Mokha, perfettamente riconoscibile anche se ormai confusa tra le onde e la sabbia. Quando posiamo i piedi sulla spiaggia è ormai mezzogiorno, e lo sguardo di Gianni sta perdendo ogni sembianza umana per ricordare quello di uno sciacallo con il mal di denti; neanche a farlo apposta, a pochi metri da noi prende terra una minuscola barchetta di legno dalla quale scende un ancor più minuscolo pescatore, che ci si avvicina timido timido per offrirci… due aragoste lunghe circa un metro l’una! Gianni lo abbranca e gli tira sulla faccia una manciata di Rial, una cifra irrisoria per noi ma probabilmente oltraggiosamente elevata per il pescatore, che si affretta ridacchiando ad accendere un fuoco, a cucinare perfettamente i crostacei ed a servirceli pezzo per pezzo, rompendo persino le zampe degli animali per estrarne anche l’ultimo frammento di carne, fino a farci scoppiare la pancia. Tra un sospiro digestivo e l’altro ringraziamo il pescatore, che si accomiata sorridendo a sessantaquattro denti (“Ma quanto cazzo gli hai dato?” chiede torvamente la Franca al suo compagno) e riprende il largo remando come i Fratelli Abbagnale.

Per raggiungere la nostra prossima destinazione abbandoniamo la costa per deviare verso l’interno; Taizz è la seconda città in ordine di grandezza del nuovo Yemen unificato; vi giungiamo poco prima dell’imbrunire, e cominciamo come al solito a gironzolare in cerca di un alberghetto senza pretese. Dopo un paio di (preventivati) infruttuosi tentativi, Abdullah ci si avvicina con sguardo cospiratore e – tirando fuori il suo miglior inglese di tutti i tempi – ci fa capire che nei pressi di Taizz vive una delle sue mogli, che è molto tempo che non la vede, che gli farebbe molto piacere andarla a trovare e che se gli permettiamo di condurci da lei con la jeep (da noi peraltro noleggiata) la sua consorte sarà lieta di offrirci la cena, il pernottamento e la prima colazione.

La sola prospettiva di andare anche solo un pochino al di fuori delle usuali rotte turistiche fa subito brillare gli occhi alla Franca ed al sottoscritto; convincere Gianni è poco più di una formalità e dopo qualche minuto ci troviamo in macchina, con Taizz alle spalle, diretti di gran carriera verso le montagne.

Ora, posso dire senza tema di smentita di essere una persona che apprezza e ricerca la emozioni forti; mi piace andare sott’acqua con le bombole, ma ancor più volare in parapendio ed ancora meglio se riesco a gettarmi da un aereo con il paracadute, e più dall’alto mi butto meglio è (la caduta libera dura più a lungo); mi piacciono tutti i giochi da Luna Park che regalano velocità o vertigini e ridacchio sadico quando vedo i miei amici – che sono riuscito a convincere a seguirmi – guardare terrorizzati verso il basso o gridare per l’accelerazione o le improvvise cadute. Bene. Quella sera, mentre Abdullah guidava verso le montagne sopra una mulattiera dissestata ed assolutamente non asfaltata, mentre affrontava tornanti mozzafiato senza il minimo guard-rail di protezione che ci dividesse dall’oscuro abisso che si stendeva al di là, mentre sentivo da una parte le ruote perdere aderenza sulla ghiaietta e dall’altra Gianni bestemmiare senza sosta, mentre ero piuttosto sicuro di perdere la vita su quella strada e già immaginavo le lungaggini burocratiche che i miei parenti avrebbero dovuto affrontare per il rientro della salma…Quella sera, dicevo, tutti i miei hobbies e le mie emozioni forti mi sembravano giostrine per bambini: per la prima volta in vita mia mi sono sentito talmente in preda al panico da non riuscire ad architettare neppure un pensiero elementare che si discostasse da “Ora moriamo, ora questa fottuta jeep e quel bastardo di Abdullah ci fanno precipitare giù dal burrone e ci ridurremo in uno stato talmente pietoso che ci raccoglieranno con il Folletto”; ad un certo punto Gianni si riscuote dal suo delirio bestemmiatorio ed apre di scatto la portiera, poi si volta verso di noi e sussurra: “Io qua dentro non ci rimango, se questo porco crede che voglio morire con lui se lo mena davvero! Ancora una sbandata e mi butto giù dalla macchina!”.

Naturalmente non succede niente, e dopo qualche ulteriore tornante e qualche curva invero un po’ troppo sottosterzata, la jeep ci deposita nella piazza principale del paesino montano (leggermente più piccolo del vostro ingresso, ma con molte più capre selvatiche) dove vive una delle mogli di Abdullah; veniamo condotti verso una casa – l’unica ancora illuminata – ed invitati ad accomodarci all’interno. Nell’ingresso si schiera una panoplia di parentame sorridente che neanche Mino Reitano, ed io mi distinguo quasi subito poiché – da vero maestro di cerimonie islamiche – mi precipito a stringere la mano (orrore!) alla presunta moglie del nostro autista, che invece si rivela esserne la cognata, peraltro dotata di marito integralista al suo fianco. Questi, impietosito dalla mia gravissima gaffe, decide per il momento di non castrarmi con la regolamentare jambija ma semplicemente di incenerirmi con uno sguardo torvo da terrorista mediorientale con le coliche renali.

Veniamo fatti accomodare in “salotto” dove la cena – l’onnipresente pollo al forno con insalata di riso bollito e pezzettini neri non meglio identificati – ci attende fumante in un enorme piatto di alluminio posato al centro del pavimento. Mangiamo a quattro palmenti (la paura mette fame, pare…) innaffiando il tutto con dello shai d’annata, e mentre stiamo deglutendo l’ultimo boccone Abdullah ci augura la buona notte e ci chiude dentro la stanza; la sua consorte, con perfetto sincronismo, stacca nel frattempo il generatore facendo precipitare l’abitazione nel buio più buio che io abbia mai potuto sperimentare. Il down di adrenalina, lo stomaco pieno, i settecento e più chilometri percorsi nelle giornata che volge al termine ed il buio totale che ci avvolge non fanno che facilitare il nostro ingresso nel mondo dei sogni.

Ci ridestiamo in un gelido mattino dall’aria limpidissima e cominciamo ad esplorare curiosi la casa che ci ha ospitato; sul bellissimo terrazzo, accoccolate in un angolino, due ragazze stanno infornando il delizioso pane yemenita, che verrà servito entro pochi minuti – con un succulento companatico di uova e fagioli al pomodoro – quale corroborante colazione.

La vista dal terrazzo è semplicemente splendida: ci troviamo probabilmente molto in alto, tanto che sotto di noi le valli sono completamente nascoste da un’impenetrabile coltre di nubi bianchissime; tutto intorno verdi montagne circondano il nostro villaggio, che nonostante l’ora antelucana (non sono neanche le sei del mattino) brulica di vita e soprattutto di bambini; le donne della famiglia ci spiegano infatti che dopo le undici del mattino la temperatura diventa insopportabile (ben oltre i 40°, per giunta non filtrati dalle nubi a causa dell’altitudine); le scuole iniziano quindi le lezioni alle 6.30 e terminano per l’appunto alle 10.30.

Dopo aver trascorso un po’ di tempo a discorrere piacevolmente (perlopiù a gesti, dato che nessuno parla il benché minimo inglese) con la famiglia di Abdullah, decidiamo di riprendere il nostro itinerario originale, che ahimè volge quasi al termine. Risaliamo sulla jeep e, seguiti fino al confine del villaggio da uno sciame di bambini urlanti, ci ributtiamo sull’odiata mulattiera che ci ricondurrà in pianura dopo ore di sussulti, strizzoni di panico e bestemmie assortite (il tutto infarcito da sardonici risolini da parte del nostro autista).

Taizz viene bypassato con una certa velocità, in quanto dotato ancora delle sempiterne case di fango che ormai conosciamo a menadito e che di conseguenza hanno perso molto del loro interesse. Strano e complesso, il meccanismo che regola la curiosità ed il livello di attenzione del genere umano: abbiamo deciso di viaggiare nello Yemen proprio perché attratti magicamente dalle sue celeberrime case di fango, così particolari e uniche; siamo qui da circa quindici giorni e già il motivo principale che ci ha portati fin qui ha perso molto del suo fascino iniziale, anzi ci è quasi venuto in uggia. Forse è questa la ragione per cui l’essere umano è stato in grado di compiere la sua straordinaria evoluzione: perché non si è mai fermato, non si è mai accontentato, non si è mai sentito sazio od appagato per qualsiasi scoperta, qualsiasi risultato, qualsiasi conquista portata a termine. In questo, devo confessare, mi riconosco molto; ricordo mia madre che – prendendo sicuramente a prestito la definizione da qualche “Chi l’ha detto” della Settimana Enigmistica – mi ha sempre descritto come “qualcuno che quando fa qualcosa, qualunque cosa, si sbriga a farla in modo da poter fare subito dopo qualcos’altro”. Desidero sottolineare che non è vero, come molti pensano, che gli individui come noi non siano in grado di godersi la vita o le cose che fanno; è solo che le godiamo con una velocità magari un po’ superiore alla norma, ma sicuramente con la stessa intensità, con lo stesso appagamento, con la stessa gioia.

Lasciataci quindi alle spalle Taizz, ci dirigiamo sulle coste sudoccidentali dello Yemen per trascorrere ancora un paio di giorni sul Mar Rosso; arriviamo ben presto di fronte ad una bellissima spiaggia, infuocata dallo splendido tramonto, dove sorge quello che dagli autoctoni viene considerato un resort turistico di alto livello. L’impronta del villaggio vacanze aleggia in effetti qua e là, ma è un aleggiare estrememente etereo: ci sono alcuni bungalows costruiti, indovinate un po’, con il fango, anche se qui esso è stato artigianalmente imbiancato con cospicue cazzuolate di calce per dare (ohi ohi) l’impressione del corallo. L’interno di ogni capanna è lussuosamente arredato con pagliericci di vimini (due o tre a seconda della tipologia della camera…) e un tavolino-comodino-armadio-toilette. L’area comune offre un ristorante, una sala-salone-soggiorno e un complesso di bagni e docce. L’ultima peculiarità dell’ameno posticino è che è completamente deserto, compresi i (presunti) gestori: Abdullah deve infatti recarsi fino al vicino villaggio per trovare qualcuno in grado di assegnarci una camera, che nel nostro delirio di turisti “senza fronzoli” decidiamo di scegliere a tre letti (anche se credo che a questo punto Gianni, dopo quindici notti “in bianco”, un minimo di intimità coniugale l’avrebbe gradita senza dubbio, ma tant’è). Sistemati i nostri zaini per terra (e dove, se no?) e i nostri ormai consunti asciugamani sul comodino-tavolino-ecc. Di cui sopra, ci sdraiamo qualche istante sui pagliericci per recuperare un po’ di forze, e proprio in quel momento scopro con orrore che il mio giaciglio non è più lungo di un metro e sessanta; essendo la mia statura superiore al metro e novanta, va da sé che le prossime notti si prospettano come minimo difficoltose. In nessuna capanna del “villaggio” riesco ahimé a recuperare un lettino più lungo.

Data la “desertificazione” del luogo, il ristorante annesso al resort è ovviamente chiuso, e prima di farci sorprendere da un Gianni licantropo per la fame ci facciamo condurre da Abdullah verso il vicino paesino, dove per una cifra vergognosa (verso il basso) otteniamo dell’ottimo pesce fresco cucinato in ogni modo conosciuto all’uomo, e probabilmente anche in qualche modo non conosciuto visto che – una volta rientrati a “casa”- mentre passeggio meditabondo sulla spiaggia, un istinto interno mi spinge a restituire con violenza ai flutti il pesce poco tempo prima così apprezzato, accompagnando codesta restituzione con sonori conati che risvegliano persino i miei amici già assopiti.

I due giorni successivi trascorrono all’insegna del “mare mare mare”, anche se in queste zone il Mar Rosso è ben lungi dall’essere quel paradiso della subacquea che lo ha reso (alle latitudini egiziane, israeliane e sudanesi) uno dei siti di immersione più famosi del mondo: le correnti del Golfo di Aden incontrano infatti quelle provenienti dal Nord e trasformano quest’angolo di mare in un guazzabuglio di onde piccole e turbolente; le acque sono quindi torbidissime, indossando la maschera per fare un po’ di snorkeling non si riesce a vedere nulla già ad un solo metro di distanza, e visto che comunque in questi paraggi non è infrequente incontrare squali piuttosto aggressivi, l’idea di trovarsene uno – non visto – a portata di polpaccio costituisce un incentivo piuttosto allettante a ritornare di gran carriera sulla sabbia calda.

Sfruttiamo però questo tempo per gironzolare nei villaggi della costa, nell’assistere al lavoro dei pescatori che sfidano le onde con barchette al limite del ridicolo, specie quando le riportano a terra stracariche dopo aver salpato le reti, piene all’inverosimile di pesce; passiamo una mezza giornata in un “cantiere navale”, dove i tanti discorsi sul lavoro infantile non devono essere mai arrivati: tutta la “forza lavoro” consiste infatti in un pugno di ragazzini ben al di sotto dei quattordici anni che per dieci ore al giorno segano, piallano, inchiodano, incatramano, levigano e verniciano i tronchi d’albero dai quali a poco a poco prende forma una nuova imbarcazione. Gianni è di estrazione “marinara”, ed osservando questo lavoro condotto con attrezzature di fortuna da operai quantomeno non specializzati ne resta talmente affascinato ed ipnotizzato da costringerci a portarlo via di peso dopo qualche ora.

I due giorni che abbiamo deciso di dedicare al “riposo vacanziero” stanno terminando, e sfruttiamo l’ultima sera per una lunghissima passeggiata sul bagnasciuga dove diamo fondo senza ritegno alla nostra scorta di rullini fotografici; il posto a modo suo è davvero magico, specialmente perché – ed è splendido le poche volte che accade – abbiamo cominciato a sentirlo davvero “nostro”, senza alcuna interferenza esterna, senza doverlo dividere con masnade urlanti di animatori e di appassionati di beach volley o di cacce al tesoro; certo, magari non è stupendo come certi atolli maldiviani o certe spiagge incantate della Polinesia, ma i momenti di intimità ad osservare un tramonto che sembra ordinato su misura solo per noi, dove l’unico rumore oltre alle onde del mare che trascinano avanti e indietro le conchiglie sono i nostri respiri uniti alle strida dei gabbiani, dove non bisogna rispondere a nessun segnale esterno, a nessuna campanella modello “la zuppa l’è cotta”, a nessun SMS, a nessuna telefonata, rendono questo luogo uno di quelli che conservo dentro di me e che tiro fuori quando ho bisogno di ricordarmi che Shangri-La esiste davvero.

La jeep sgomma sulla sabbia e ben presto l’odore del salino è sostituito da quello del gasolio, ben presto le strida dei gabbiani lasciano il posto al suonare convulso dei clacson: stiamo per raggiungere Sanàa, dove siamo arrivati e da cui partirò l’indomani. Gianni e la Franca – soliti bastardi dalle ferie lunghissime – continueranno ancora una settimana a nord della capitale e ripartiranno quindi verso la Siria e la Giordania, dove trascorreranno un’altra quindicina di giorni. No comment, ancora una volta… Prima di entrare in città, ci fermiamo a fare (ancora!) qualche fotografia; ne approfittiamo per scattare un autoscatto di noi quattro di fronte alla jeep, ai piedi di una montagna alta ed asprissima. La sera prima abbiamo deciso – cosa eccezionale, e per la prima volta in assoluto da quando abbiamo cominciato a viaggiare insieme – di regalare ad Abdullah qualche dollaro, per dimostrargli quanto abbiamo apprezzato la sua guida, le sue capacità, la sua disponibilità e la sua discrezione; facendo qualche calcolo, e basandoci sul fatto che un giorno intero di noleggio tutto compreso ci costa 13 dollari, abbiamo pensato che 50 dollari (quasi quattro giorni di lavoro) sarebbero stati una mancia più che dignitosa, quasi sibaritica. Non appena risaliti sul veicolo, prima che Abdullah riparta ci guardiamo e gli consegniamo il verdeggiante biglietto da cinquanta, accompagnandolo con ampi sorrisi e cenni di ringraziamento; il nostro autista lo prende, se lo mette in tasca sbuffando e scrollando la testa, ingrana la marcia e riparte nervoso. Gianni – che essendo un “buono” vero, quando vede che la generosità senza secondi fini non viene apprezzata si incazza come un toro – gli impone bruscamente di fermare la jeep e gli chiede a gesti che cazzo gli sia successo: Abdullah ci spiega lentamente ma sempre molto incazzato che la mancia che gli abbiamo dato è pochissima e che i turisti precedenti, per lo stesso tragitto e senza neppure essere stati invitati a casa di sua moglie, gli hanno dato cento dollari a testa.

Ecco un altro esempio di come un turismo becero ed irrispettoso delle usanze locali, anche se praticato – mi auguro – in buona fede, possa rovinare letteralmente tutto; proviamo a ragionare un istante: siamo in tre e tutto compreso paghiamo 39 dollari al giorno, che vanno alla società che gestisce Abdullah e numerosi altri autisti. Detratto il costo del carburante ed un ragionevole ammortamento della jeep (abbiamo percorso non meno di tre/quattromila chilometri, quasi tutti su strade sterrate che mettono a dura prova ogni organo del veicolo e costringono sicuramente la società a frequenti revisioni per non lasciare i turisti a piedi nel mezzo dello Yemen), non credo onestamente che lo stipendio della nostra guida – considerato anche il costo della vita, bassissimo per noi ma probabilmente ancora più ridotto per un autoctono – possa superare di molto i 5/7 dollari al giorno. Ebbene, con una mancia pari a dieci giorni di lavoro egli si è sentito profondamente insoddisfatto! Grazie a chi? A turisti sconsiderati che magari si sono divertiti a contrattare un po’ di sconto per la tariffa giornaliera e che poi hanno dato di mancia all’autista il controvalore – pro capite – di sette giorni di viaggio, senza pensare che un atto del genere potrebbe avere conseguenze molto gravi. Provate a riflettere: Abdullah decide che, se guadagna solo di mancia trecento dollari ogni quindici giorni, i settanta/cento dollari pagatigli dalla società sono una miseria. Primo caso: chiede un aumento, che viene ovviamente rifiutato o enormemente ridotto; comincia allora a lavorare di malavoglia, ed al primo reclamo presentato da turisti scontenti viene licenziato senza tanti preamboli. Secondo caso: decide di lavorare solo quindici giorni ogni due mesi, tanto il reddito sarebbe uguale; rischia di perdere il posto lo stesso, perché non credo onestamente che i contratti di lavoro yemeniti prevedano il part-time. Terzo caso (il nostro): riceve una mancia generosa ma mostra a chiari segni la sua scontentezza; non fa una bella figura, imbarazza le persone che erano convinte di fargli un regalo gradito, dimostra di essere piuttosto avido e ingenera il sospetto di essersi comportato gentilmente nei nostri confronti sempre e solo per un preciso calcolo economico.

Grazie al cielo, dopo un primo istante di delusione, propendiamo per assolvere Abdullah in quanto “non pienamente in grado di intendere e di volere” e – considerato anche che Gianni e la Franca viaggeranno con lui ancora una settimana – far finta che nulla sia accaduto; anch’egli capisce istintivamente il nostro desiderio di seppellire l’ascia di guerra e fa buon viso a cattivo gioco, tornando il solito, vecchio compagno di viaggio.

L’ultima serata a Sanàa trascorre come usanza con una cena pantagruelica accompagnata da sontuosi brindisi a base di shai dolcissimo (essendo un paese totalmente musulmano, nello Yemen l’alcool è rigorosamente bandito, fatte salve le solite onnipresenti eccezioni della serie “Allah è in cielo, Maometto è morto e sepolto e l’Ayatollah è ben lungi da qua”); prima di riguadagnare l’aeroporto, dal quale il mio aereo decollerà ad un’imprecisata ora notturna, Gianni e la Franca mi regalano una confezione letale di dolcetti yemeniti al miele e pistacchio, nonché un residuo degli appiccicosissimi datteri in latta che ci hanno accompagnato e sostenuto per tutto il viaggio. Tralascio il lacrimevole commiato.

Giunto all’aeroporto della capitale yemenita, per rafforzare il detto “credevate di averle viste tutte ma il peggio deve ancora arrivare”, non appena sceso dal taxi il mio zaino viene afferrato da un poliziotto in alta uniforme, che mi fa imperiosi cenni di seguirlo, mentre il suo compagno si appropria della mia borsa fotografica e s’incammina dietro il superiore; troppo stupito per protestare (e in che lingua, poi?) seguo i due, che si fermano molto cerimoniosi di fronte alla macchina a raggi X per il controllo bagagli e passano i miei sotto di essa; li prelevano quindi dal nastro trasportatore, li caricano su di un trolley e spingono quest’ultimo fino al banco del check-in, ancora deserto. A questo punto il “generalissimo” mi saluta militarmente, ignora il mio sguardo spaesato, tende la mano con fierezza e mi sussurra “bakshish!” (mancia). Al mio “ma vaffanculo, va’!” dal quale traspare comunque un po’ di sollievo alza le spalle (decorate), si volta se ne va, facendo cenno al sottoposto di seguirlo. Sbuffo sollevato e mi siedo sullo zaino attendendo l’apertura del check-in. A parte una noiosa procedura di riconoscimento bagagli prima dell’imbarco a fini antiterroristici (sic!), un vicino di sedile profumatissimo e loquacissimo che mi ha rintronato fino allo scalo di Amman, un paio di turbolenze degne delle migliori montagne russe, una perquisizione al limite della molestia sessuale all’aeroporto di Fiumicino, quattro ore di ritardo e solo-posti-in-corridoio sul treno Roma Termini – Genova Brignole ed una dozzina di sguardi preoccupati sul bus numero 17 che dalla stazione mi porta a casa (indosso ancora il kefiah acquistato a Sanàa ed ho in effetti un po’ il look da terrorista mediorientale; forse puzzicchio anche…), il viaggio di ritorno avviene senza grossi intoppi.

Il resto, come al solito, è storia.



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