In incognito

6-10 gennaio 2006 Tanà o Sanà? Finalmente le vacanze. Meritate, sognate, inseguite. Otto mesi consecutivi di lavoro in realtà non sono tanti, c’è gente che prende le ferie ogni due anni. Ma c’è chi dice che il tempo trascorso alle Comore in realtà vale doppio. Se così fosse, è come se avessi già lavorato un anno e mezzo di...
Scritto da: Chiara Liguori
in incognito
Partenza il: 06/01/2006
Ritorno il: 10/01/2006
Viaggiatori: da solo
6-10 gennaio 2006 Tanà o Sanà? Finalmente le vacanze. Meritate, sognate, inseguite. Otto mesi consecutivi di lavoro in realtà non sono tanti, c’è gente che prende le ferie ogni due anni. Ma c’è chi dice che il tempo trascorso alle Comore in realtà vale doppio. Se così fosse, è come se avessi già lavorato un anno e mezzo di filato… Perciò, conoscendo i miei tempi massimi di resistenza e avendo in mente il mio calendario di impegni, già da mesi avevo previsto che gennaio sarebbe stato per me mese di vacanze. E così, per una volta, mi sono organizzata per tempo… Destinazione: Madagascar. Compagno di viaggio: Giorgio Durata: 15 giorni. Piano di volo: Moroni-Antananarivo il 7 gennaio per me, Roma-Parigi-Antanarivo il 6 gennaio per Giorgio. Itinerario: Antananarivo-Andasibe-Toamasina-Soanierana-Ile Sainte Marie. Hotel a Antananarivo: “Le Jean Laborde, telefono 00261 22 330 45. Agenzia locale per organizzare il tour: Malgasy Tour. Guida del Madagascar: Lonely Planet. Per una volta tutto perfetto, tutto pronto, non ho rimandato l’organizzazione all’ultimo momento, non ho aspettato di arrivare sul posto per vedere cosa fare e dove andare, non ho lasciato nulla al caso. Sono stata previdente, organizzata, diligente. Tutto perfetto, se non fosse per un unico neo… …E’ tutta una farsa! Parto effettivamente il 7 gennaio, ma non per Tanà (come è chiamata Antananarivo in gergo francese). Parto, ma per tornare in Italia…In incognito. Non avevo previsto di fare un salto a casa, nessuno si aspetta che io torni, soprattutto considerando che le feste natalizie sono passate. Ma io ho deciso così all’ultimo momento e allora le condizioni si prestano perché io organizzi una sorpresa con i fiocchi alla mia famiglia. Quando poi l’agenzia di viaggi mi propone un itinerario con tre giorni di scalo a Sanaa, in Yemen, terra araba di attentatori nati e rapitori di professione secondo l’immaginario della mia mamma, mi convinco sempre di più della necessità di tener nascosto il mio progetto imprevisto. Ed è così che invento la copertura del Madagascar, plausibilissima come meta di vacanze, data la vicinanza geografica e il mio annunciato interessamento per quest’isola-continente sin da quando sono arrivata in questo emisfero… Ma scambiare Sanà con Tanà non è solo un gioco di parole…Mia madre è figlia di un ispettore Derrick in versione vesuviana, è una segugia per genetica e per vocazione, è dotata di un sesto senso direttamente proporzionale al tasso di apprensione sanguigna…Farle credere che io sia a Tanà pur essendo a Sanà, non è un gioco da ragazzi…Il colpo va preparato con accuratezza. Non potendo sfuggire al controllo materno, nonostante la mia veneranda età e la mia vagabondaggine cronica, ed essendo, come da copione, costretta a fornire in anticipo indirizzi e numeri di telefono, mi devo accertare almeno che tutto quello che dirò sia il più realista possibile. Il piano di volo, l’hotel, l’agenzia…Tutto deve essere reale. Nulla può scaturire dalla mia fantasia, ma tutto deve venire dall’infallibile Verbo della Lonely Planet. Non mi resta, allora, che studiare e organizzare questo viaggio nei più minimi dettagli, come se partissi davvero… E’ tutto così minuziosamente preparato che quasi mi viene da crederci io stessa. Questa sovrapposizione di viaggi mi produce una sensazione di sdoppiamento. Parto per lo Yemen, con una guida sul Madagascar. Ho un piano di volo immaginario e uno effettivo, un viaggio finto da organizzare sulla carta e uno vero da gestire live. Preoccupazioni fittizie della mamma sul Madagascar e sui suoi pericoli e apprensioni mie personali sullo Yemen e sulla sua moda rinnovata del rapimento dei turisti. Sì perché, dopo anni di strana tranquillità, i predoni nomadi del deserto yemenita hanno deciso di tornare all’attacco proprio in questi giorni…Tre turisti tedeschi prima e cinque italiani poi, proprio alla vigilia della mia partenza, sono caduti vittima dei corsari del deserto, ostaggi in cambio della liberazione di qualche prigioniero delle loro tribù. Un minimo di preoccupazione mi pervade di fronte a queste notizie. Non tanto perché creda effettivamente alla pericolosità del luogo: sono abbastanza incosciente da ritenere che se otto turisti sono stati rapiti, non è detto che la stessa sorte tocchi a qualunque visitatore occidentale che metta piede in terra yemenita… E poi, lo sanno tutti che i predoni del deserto non sono cattivi, i loro rapimenti sono all’acqua di rose e tutti coronati da un happy end, sono un diversivo per il turista in cerca di avventure piuttosto che un vero atto di violenza da dimenticare…In ogni caso, mi dico, sarebbe comunque opportuno evitare di farsi rapire. Prima di tutto, perché mi seccherebbe non poco passare le mie tre settimane di ferie a guardare nelle palle degli occhi un beduino sconosciuto e a decifrare i suoi incomprensibili suoni gutturali per poi esser liberata proprio al momento di ritornare tra le braccia del mio capo (si potrebbe, in quel caso, scegliere l’opzione di prolungare il soggiorno col predone???). Ma anche perché viaggerò in incognito e vorrei risparmiare l’attacco di cuore ai miei nel vedere la mia foto in televisione tra la cerchia dei rapiti in Yemen…Quando mi sanno in Madagascar! E si sa, per la solita legge di Murphy, più si vuole tenere nascosta un fatto, più è probabile che succederà un qualcosa che farà venire i piani a galla… Devo, quindi, prendere le dovute precauzioni. Non restare tappata in albergo tre giorni, sarebbe contrario ai miei principi di turista per caso: grazie anche ai viaggi di lavoro regalatimi da mamma ONU, ho imparato ad organizzarmi perché anche solo una mezza giornata libera in un paese nuovo possa risultare proficua in termini di visite, shopping e nuove scoperte. Devo escogitare, allora, alternative a me più congeniali per visitare il paese senza attirare l’attenzione del bandito del deserto…Travestirmi da yemenita, per esempio! Mi dico che non sarebbe poi così difficile: i miei colori e il mio sangue partenopeo con discendenza presumibilmente arabica potrebbero facilitarmi l’operazione mimetica, il mio amore per i costumi tipici potrebbe farmi accettare perfino di nascondermi sotto l’informe e lugubre chador nero della penisola arabica…C’è un unico problema: come far credere alla bontà del mio travestimento nel caso in cui qualcuno mi rivolgesse la parola e fossi costretta a ammettere di non saper nemmeno farfugliare due parole in arabo? O meglio tre parole le conosco “Allah u akbar”, Allah è grande, ma non credo che mi converrebbe declamarle in risposta a qualcuno che mi chiedesse di acquistare la sua pagnotta o di indicargli il mercato più vicino…A meno che non fossi disposta a farmi sposare all’istante dal primo passante colpito dalla mia particolare devozione e timore nei confronti di Dio… Poiché, in fin dei conti, l’opzione del travestimento da yemenita sordomuta non mi sembra nemmeno quella più efficace per scongiurare il rischio rapimento, decido di ripiegare su un’alternativa ben più ordinaria. Mi rifugio sotto l’ala protettiva di Mohamed Alfaoud, ordinariamente dipendente della compagnia aerea Yemenia e straordinariamente chauffeur e guida per turisti di passaggio. I suoi affari extra-lavorativi si fanno soprattutto sul mercato comoriano. Mohamed parla francese ed è stato scoperto da Alberto Girini, in uno dei suoi innumerevoli transiti in terra yemenita nel corso dei 25 anni passati ad Anjouan…Perciò, come tutti gli altri italiani residenti alle Comore e costretti a transitare per Sanaa, anche io vengo messa in contatto con Mohamed da Girini. Per precauzione ho comunque messo in valigia il mitico segnalibro color celeste “Cosa fare se siete presi in ostaggio” che da mesi giace appeso alla mia bacheca in ufficio…Ho sempre disprezzato le trovate paranoiche di mamma ONU sulla sicurezza del personale e continuo a credere che quel decalogo di banalità non possa essere di alcuna utilità. Ma lo metto in valigia per scaramanzia. Non si sa mai… Ma in realtà non ho nulla da temere, Girini mi assicura che con Mohamed sono in buone mani. Non sarà una guardia del corpo professionista, ma è pagato apposta per scarrozzarmi, guidarmi e farmi sentire al sicuro. Contenta per la soluzione trovata e fiduciosa nell’abilità di Mohamed di vegliare sull’integrità e sull’inamovibilità della mia persona, posso finalmente soffocare le mie preoccupazioni alla vigilia del viaggio. Non così mia madre, che a 10 ore dalla mia partenza fittizia e a 4 dalla mia partenza reale, non riesce a risparmiarmi le ultime raccomandazioni telefoniche sui quartieri da evitare e sulle precauzioni da adottare in…Madagascar… In buone mani con Mohamed Le guide e i mass media consigliano di restare a Sanaa e non avventurarsi fuori della capitale? Appena arrivata, Mohamed mi propone un giro di due giorni nella provincia di Sanaa, a 100 Km dalla capitale. E io accetto. Ho certo qualche riserva mentale, mi dico che avere una guida non è necessariamente una garanzia di salvezza dal ratto del deserto, anche i turisti rapiti viaggiavano con una guida…Ma non resisto all’allettamento di una gita fuori porta… E poi tanto so che con Mohamed sono in buone mani.

Per accompagnare i turisti stranieri fuori città occorre un lasciapassare, un’autorizzazione di viaggio. E Mohamed ovviamente…Non ce l’ha! E’ un free-lance lui, non avrebbe diritto a lavorare come guida, né tanto meno a scarrozzare donne occidentali sole in giro per il paese. Certo ai numerosissimi posti di blocco che incontriamo, potrebbe far credere che io sia sua moglie. Ma il mio look lo tradirebbe, oppure lui non sfuggirebbe alle critiche e al biasimo generale per questo suo atteggiamento permissivo nei confronti della moglie libertina…E allora ne ha pensata una migliore. Ha contattato una sua amica francese gestrice di un’agenzia di viaggi ben nota, Agorà Tours, e le ha chiesto il permesso di fare il suo nome ad ogni posto di blocco. La scena si ripete N volte. Mohamed arresta la sua Mercedes bianca vecchio modello al cospetto di un trasandato soldato con kalashnikov di traverso, divisa logora e rattoppata e un atteggiamento troppo stanco per incutere la benché minima paura. Alla domanda di rito dell’agente che suppongo essere “E quella chi è?”, Mohamed sfodera le parole d’ordine: “Italia, Agorà Tours”. Il soldato stancamente mi guarda, lo guarda, ripete meccanicamente “Italia, Agorà Tours?”, Mohamed annuisce e il milite annota le tre paroline magiche su un pezzo di carta sfuso. Senza neanche aspettare un cenno di via-libera, Mohamed riparte, sicuro di sé e della sua perizia nel gabbare i controlli locali. Non c’è che dire, con Mohamed sono decisamente in buone mani.

Sfreccia Mohamed sulle strade trafficate di Sanaa e sulle vie tortuose delle montagne yemenite. Si infila tra canali strettissimi, sorpassa a destra, frena ad un centimetro dalla macchina antistante. Continuo a ripetermi che non ho nulla da temere, che con lui sono in buone mani, ma non posso fare a meno di gettare la mano destra a tentoni, alla ricerca della cintura di sicurezza. Invano. E’ coperta da uno strato di polvere atavica e il gancio per incastrarla è sepolto sotto un tappetino in finto pelo di montone. Non credo che mai nessuno abbia avvertito questa “bizzarra” esigenza di protezione in 15 anni di vita e di frequentazione della sua Mercedes…Rassegnata, tengo gli occhi ben aperti e mi abbandono all’ebbrezza di sentirmi pilota di un videogioco di macchine da corsa. Cerco di rassicurarmi affogando le mie apprensioni nelle mie origini partenopee. Ma non mi pare che funzioni. Lo so che sembra impossibile ma ho come l’impressione che Mohamed e i suoi compatrioti superino di gran lunga l’arte della guida anarchica e eufemisticamente sportiva dei miei compaesani. Ogni tanto, perciò, mi scappa un sussulto di fronte a quello che mi appare come uno scontro frontale assicurato o un tamponamento garantito. Ma Mohamed ogni volta riesce a gestire la situazione, volge a suo favore quell’ultimissima frazione di secondo rimasta ed evita il peggio. Di fronte al mio stress, cerca di tranquillizzarmi. “Non ti preoccupare, io guido da quando avevo 10 anni, so come cavarmela”. “Ma Mohamed – rispondo io ingenuamente – come facevi a guidare a 10 anni se non avevi la patente?”. “Che c’entra? – replica scaltro il mio accompagnatore – se è per questo neanche adesso ho la patente, non l’ho mai presa”. Ah, bene, benissimo, mi dico. Mi sto solo facendo scarrozzare da una finta guida senza patente in un paese di predoni…Simulando un notevole self-control, senza batter ciglio, gli pongo l’ennesima stupida domanda: “E come fai a gestire i controlli di polizia?” Certo, avrei potuto immaginare la risposta, notando che ai numerosi posti di blocco già superati mai una volta Mohamed aveva dovuto esibire un qualche documento…“In genere non controllano, ma se proprio capita, pago qualcosa sottobanco e tutto si risolve”. Certo, come no, sarei potuta arrivarci. Anche in questo caso, mi dico, gli yemeniti fanno un baffo ai napoletani … Mentre guidiamo diretti a Manaka, meta turistica e suo paese d’origine, Mohamed ad un certo punto sussurra disinvoltamente che il villaggio che stiamo attraversando è “free”, ci si può acquistare liberamente alcool e marijuana. “Perché? a Sanaa non si trovano?” chiedo. “No, si trovano, ma costano molto di più”. Paga di questa informazione di costume e società, mi rimetto a seguire il filo dei miei pensieri mentre vedo sfrecciarmi davanti agli occhi immagini di quel paesaggio così ruvidamente diverso da quello tropicale a cui mi sono assuefatta alle Comore. Ma dopo qualche istante, Mohamed riprende il discorso. “Tu bevi?” domanda. “Sì, non sono un’alcolizzata, mi piace bere solo in compagnia, quando capita” rispondo. “Dai, vuoi che ci fermiamo a comprare qualcosa? Che preferisci birra o whisky?” chiede ammiccante. “No, certamente non whisky, ma comunque anche per quanto riguarda la birra, penso di poterne fare a meno, non muoio se non ne bevo”. “No, ma guarda che stasera, in albergo, ci saranno tanti turisti e vedrai che tutti quanti avranno la loro birra da sorseggiare. Se non la prendiamo ora, potresti pentirtene poi” replica Mohamed. Continuo a ripetere che non mi interessa, che non lo vedo un acquisto indispensabile, che anzi credo proprio che voglia di birra non me ne verrà, ma purtroppo non ho molte armi di difesa contro l’insistenza mediorientale. Ci fermiamo, senza scendere dalla macchina chiede con fare guardingo 4 birre all’oste volante, e paga un euro e mezzo a lattina. Mi sento in dovere di rimborsarlo, in fondo, mi dico, è una spesa che fa per me, per compiacermi, probabilmente mosso dalla convinzione che tutti gli occidentali siano delle specie di alcolisti a piede libero che in viaggio in terre astemie per definizione e virtuose per eccellenza potrebbero andare in crisi di astinenza in qualunque momento. Ma Mohamed non vuole che gli dia i soldi, dice che è lui ad invitarmi. Solo il giorno dopo capisco il perché di tanta insistenza e generosità. Rimettendoci in viaggio da Manaka, mi propone una birra. Io sono già in preda a un principio di mal di pancia e la birra è l’ultima cosa al mondo che mi va di ingerire. In più è mezzogiorno, sono a stomaco vuoto e non ho niente da sgranocchiare in accompagnamento; insomma non c’è niente che giustifichi una birra secondo le mie abitudini. Deluso, Mohamed insiste. Mi devo imporre strenuamente perché non mi stappi la lattina e mi tracanni il contenuto giù per la gola. A quel punto, di fronte alla mia saldezza, non gli resta che uscire allo scoperto. Prende una birra e comincia a sorseggiarla mentre guida. Confessa che è un piacere che a Sanaa non si può concedere, quindi approfitta di queste occasioni. Io guardo il sacchetto e vedo che rimane solo una lattina. Non oso immaginare quando si sia scolato le altre due, spero non prima di mettersi al volante… Nonostante tutto posso star tranquilla. Non credo ci sia il rischio che oltre a ripetere “Italia, Agorà Tours”, il soldato di turno chieda anche a Mohamed di fare una prova del palloncino. E se pure fosse, sono sicura che il mio accompagnatore saprebbe trovare la soluzione giusta 😉 E non penso, in ogni caso, che la guida in stato d’ebbrezza o sotto effetto di stupefacenti sia un’infrazione punibile secondo il codice della strada yemenita. Anche perché, se così fosse, nessuno avrebbe più il diritto di circolare. Sì, perché, Mohamed, come del resto la maggior parte dei suoi concittadini, usa guidare, a partire dall’una del pomeriggio in poi, masticando foglie di qat, la droga leggera di produzione locale, vero emblema dell’identità nazionale. Prima di partire per la nostra gita, ancora a Sanaa, Mohamed si è avvicinato a degli uomini acquattati per terra su un lenzuolo bianco e ha contrattato per un sacchetto di foglie. Una volta in macchina se l’è messo accanto al freno a mano e ogni tanto attinge. Stacca le foglie con i denti o con le mani, getta dal finestrino il rametto e lentamente comincia a masticare. Non ingoia mai, le foglie sminuzzate si incollano all’interno della guancia destra e formano un palloncino destinato a crescere man mano che nuove foglie saranno ingurgitate. Si vede che è soddisfatto. Certo, è sempre più gradevole “qatteggiare” in compagnia, magari dopo pranzo, mollemente adagiati nelle comode poltrone basse del mafraj . Ma in mancanza di meglio, Mohamed cerca di fare di me la sua compagna di qat. Sempre guidando, mi porge un rametto. Mi tiro indietro, so cosa sia ma ne ignoro gli effetti, non vorrei ritrovarmi stordita e svampita tra le braccia di un ruvido predone yemenita. Per quanto sappia di essere in buone mani con Mohamed, mi dico che è meglio mantenere alto il livello di guardia. Rifiuto educatamente. Ma Mohamed insiste. Continuo a rifiutare, anche perché non ci tengo particolarmente ad ottenere l’abilitazione da ruminante. Ma lui continua a insistere. Alla fine, per esaurimento e, lo confesso, anche per un briciolo di curiosità, accetto… Bleah!!! Le foglie sono amarissime! E poi proprio non capisco come facciano gli yemeniti a forgiarsi il loro palloncino interno, a me sono bastate poche masticazioni e già le foglie sono ridotte ad una poltiglia da inghiottire…Ripeto l’esperimento più volte, Mohamed dice che a lungo andare il gusto amaro svanisce e vuole che perseveri finché quella ruminazione non mi appaia gradevole. Ma io prendo qualche foglia solo ogni tanto, giusto per farlo contento, ma continuo ad essere disgustata e…Per fortuna vigile… …Stiamo arrivando a destinazione a Manaka, quando Mohamed mi prospetta l’albergo in cui dovremo pernottare. Si tratta del Manaka Tourist Hotel, il miglior funduk del villaggio, tipico ostello ricavato in una vecchia torre dalle finestre in vetro colorato. “Sai in questo tipo di alloggio non ci sono stanze singole, solo camerate con materassi a terra” mi annuncia. Beh, certo, mi dico, data la mia precedente notte trascorsa a inseguire il sonno sui poco accoglienti sedili di un aeroporto prima e di un aereo poi, mi sarebbe piaciuto dormire in un vero letto in una stanza tutta per me. Ma non batto ciglio, posso adattarmi anche a questo. “Comunque noi possiamo prendere una stanza solo per noi” afferma Mohamed. ALT! A QUESTO NON POSSO ADATTARMI ! Con tutta la buona volontà, con la massima apertura mentale e con la massima fiducia nell’integrità morale di Mohamed, non sono comunque disposta a dividere da sola la camera con un uomo che non conosco. Non metto in dubbio di essere in buone mani con Mohamed, ma come è che si suol dire? Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio…Non vorrei, per evitare il beduino rapitore, essere finita tra le braccia di un insospettabile maniaco o di un ordinario musulmano machista. Mi vengono infatti in mente anche idee molto politically scorrect: forse questi uomini musulmani pensano davvero che le donne occidentali siano tutte un po’ put…, che basta ritrovarsi in un ambiente e in una situazione congeniale per ottenere ciò che vogliono…Ma non serve abbandonarsi in considerazioni socio-antropologiche, urge piuttosto trovare una risposta negativa ma non offensiva per Mohamed, in fin dei conti non posso sapere quale sia la vera origine di questa sua sortita. Farfuglio qualcosa che ha a che fare con il fatto che essere in una camerata con tanta gente potrebbe essere più simpatico, che io preferirei far conoscenza con qualcuno, ecc. Non sono troppo convincente e Mohamed si insospettisce “Perché? hai paura di me?” chiede. “Certo che no, è solo che preferisco le compagnie numerose. Ma vediamo cosa ci propongono in albergo” Prendo tempo. Stratagemma riuscito, grazie a un leggero colpo di fortuna. Contemporaneamente a noi, arriva infatti al funduk un gruppo di turisti italiani che avevamo incrociato per strada e con i quali avevo già fatto conoscenza. Non ci penso due volte e chiedo ospitalità nelle loro camerate, raccontando immediatamente da quale minaccia stia cercando di scappare. Comprensivi e solidali, mi accolgono prontamente e mi destinano alla camerata femminile. Uff, sono salva, anche per questa volta sono in buone mani…Anche se non in quelle di Mohamed… All’ombra dei riflettori Passando di una buona mano a un’altra, non rischio di certo di passare agli onori della cronaca nera yemenita e internazionale. Eppure tutto lascia intendere che io abbia buone possibilità di finire sotto l’ombra dei riflettori. Non ho fatto nulla, sono solo capitata in Yemen al momento sbagliato…O giusto, secondo i punti di vista. Sono sbarcata in Yemen da un paio d’ore, ho appena fatto il mio ingresso nella città vecchia di Sanaa, non ho ancora fatto in tempo ad immergermi nei profumi, colori e suoni mediorientali del suq, che già ritrovo qualcuno dalle fattezze familiari. Una donna, in abiti chiaramente occidentali, dirige freneticamente un cameraman. Non ci metto molto a capire di che e di chi si tratta. Deve essere una giornalista italiana venuta a relazionare sul rapimento dei nostri sfortunati connazionali. Il simbolo del TG1 sulla telecamera mi conferma i sospetti, così come mi pare di distinguere chiaramente i tratti di un volto noto del piccolo schermo italiano: la giornalista deve essere Tiziana Ferrario. Sono a pochi metri da loro e mi godo la scena, soprattutto considerando che non ho mai assistito dal vivo a delle riprese, né tanto meno ho mai provato l’emozione di trovarmi sul set di una notizia. Avrei quasi la tentazione di spacciarmi per un Paolini in versione yemenita, o di produrmi in un banale ma appagante “ciao mamma” davanti alla telecamera. Ma poi mi ricordo. Non sia mai, devo tenermi ben lontana da quella telecamera, la mamma non va salutata, perché la mamma non sa… La mattina dopo mi destreggio per farmi strada, al fianco di Mohamed, tra l’indisciplinata e assordante folla di mercanti in fiera nel suq di Manaka. Ad un tratto vedo un gruppo di bianchi con una telecamera. Guardo meglio e mi rendo conto che si tratta di ancora connazionali. TG2 questa volta. Passo davanti alla cricca e saluto in italiano. “Sei italiana?” mi chiede uno dei giornalisti senza perdere un secondo. “Sì” rispondo. “Viaggi da sola?” “Sì, ma sono in transito”. “In transito da dove?” “Dalle Comore”. Non so quanto abbia capito di quello che ho detto, penso che gli sia bastato sentir odor di donzella in viaggio da sola in Yemen per azionare il suo istinto professionale. “Facciamo una battuta!” si rivolge sicuro al suo operatore. Mi ci vuole una frazione di secondo per tradurre in italiano corrente questo gergo da cronisti e per realizzare quello che sta accadendo. Vogliono intervistarmi! Il senso di lusinga nel sentirmi soggetto da notizia e l’incredulità di essere incappata proprio in qualcuno che potrebbe fare di me un volto pubblico sono rapidamente scalzati dalla disilludente consapevolezza che quell’intervista “non s’adda fare”…”No, non posso, mi dispiace” reagisco. “No, ma non c’è niente di sconvolgente, giusto una battuta…” cerca di convincermi il cronista. Ma io sono ferma, so di doverlo essere a tutti i costi: “No, non posso, vi ho detto. Viaggio in incognito. Mia madre mi crede in Madagascar!” “Eh ma che vuoi che tua madre faccia la differenza tra Yemen e Madagascar?” chiede il giornalista tra il canzonatorio e l’insistente. “Certo che la fa!”, rispondo io con un sorriso che vorrebbe dire “voi non sapete chi è mia madre…”. Quindi saluto e vado via, annullandomi in questo alone di mistero che io stessa ho creato con le mie frasi spezzate. Chissà, mi chiedo, se ho suscitato un minimo di curiosità in questo giornalista di passaggio, confondendo Yemen, Comore e Madagascar, parlando di transiti e viaggi in incognito, illudendolo prima con il mio saluto espansivo per lasciarlo poi a bocca, anzi a videocamera, asciutta con una scusa così terribilmente banale come quella della mamma da gabbare… Non ci posso credere. E’ la prima volta che viaggio in incognito e la prima volta che gli eventi tramano perché questo mio viaggio diventi addirittura pubblico! Dopo aver alimentato la curiosità e il bisogno di seguirmi di mia madre con informazioni il più veritiere e plausibili possibile, ora mi tocca perfino dribblare l’interessamento e le profferte della televisione italiana, evidentemente a corto di soggetti di vera rilevanza. Spero solo che mia madre non abbia ancora tirato fuori dall’armadio il suo vestito da Signora in giallo e che il mio universo parallelo sia ancora credibile ai suoi occhi. Altrimenti a nulla sarebbe valso questo sacrificio che già mi pesa. Il sacrificio dei miei cinque possibili minuti di celebrità… Carramba, che sorpresa In realtà ho fatto qualcosa che potrebbe tradirmi. Ho dato ai miei il numero dell’albergo in Madagascar ma poi li ho chiamati dallo Yemen, pur sapendo che i loro telefoni mostrano sul display il numero in chiamata. Quanto ci metterà la Miss Marple di famiglia a scoprire che il prefisso internazionale da cui chiamo non è quello del Madagascar? Telefonando, so benissimo di correre questo rischio ma non posso fare altrimenti: l’ansia di mia madre impone che io chiami per informare che va tutto bene e d’altronde non posso che telefonare da una cabina, il cellulare italiano non prende…Chiamo perciò sabato mattina, all’arrivo a Sanà o Tanà, a seconda di quale realtà si consideri…E chiamo anche l’indomani mattina, domenica. “Sì, qui tutto bene, mi sono incontrata con Giorgio, ora siamo in giro per Tanà, non mi chiamate in albergo perché non c’è il telefono in camera, domani partiamo per un giro verso est, vi chiamerò martedì”, mentre invece sono sotto scorta di Mohamed in un centro telefonico nel bel mezzo del mercato di Manaka, tra urla di venditori agguerriti, squilla di clacson di automobilisti prepotenti e belati di capre e montoni da portare al macello in vista della gran festa dell’Aid Al-Kabir… Dell’ultima chiamata di domenica mattina non ho riscontri. Non posso sapere se mia madre ha scoperto tutto nel frattempo. Ma io vado comunque avanti per la mia strada, secondo il piano prestabilito. E così, dopo un’ultima giornata trascorsa a fare spese nei mercati di Sanaa, saluto Mohamed, mi imbarco alle 3 del mattino del martedì alla volta di Roma e ricevo a Fiumicino alle 7 del mattino una sana accoglienza da profuga da parte di due mie amiche debitamente convocate per offrirmi cappotto, sciarpa e cappello e per tradurmi alla stazione. Superati diversi ostacoli logistici, arrivo a Napoli, prendo la circumvesuviana e alle 14 approdo finalmente a Castellammare. Sempre secondo i piani, mi rifugio dalla mia amica Ornella, che mi offre riparo e rifocillamento, mentre progettiamo il culmine della sorpresa. Per settimane mi sono tormentata: presentarmi addirittura alla porta di casa o annunciarmi con una telefonata preventiva in modo da scongiurare un attacco cardiaco? “La seconda che hai detto” mi consiglia Ornella. Mi faccio coraggio e chiamo. “Mamma, sono io”, “Ehi! Ma come fai a chiamare dal numero locale?”, “Mamma, SORPRESA! sono a Castellammare, a casa di Ornella, ma non ti preoccupare, va tutto bene”, “Chiara, ma che stai dicendo? Come è possibile? Non eri in Madagascar?”, “No, mamma, è stata tutta una farsa, sono venuta a casa”, “No, non ci credo…Mi sento male”, “No, per carità, era quello che temevo, stai tranquilla, va tutto bene”, “Ma che è successo, stai male?”, “No, mamma, sto bene, ho solo deciso di tornare a casa per le vacanze e di farti una sorpresa”, “Mamma mia! Non ci credo! E come sei venuta?”, “Eh, è una lunga storia, posso venire a casa?”, “Certo che puoi venire, vieni con Ornella”.

Sull’uscio di casa mi accoglie agitando la mano “Sei pazza, sei pazza, sei completamente pazza!!!”. Ma è felice, commossa, sorridente. Mai, in vita sua si sarebbe aspettata di replicare su scala familiare un set alla Raffaella Carrà… Pochi passi in casa e mi accorgo che sta leggendo “In viaggio con Mohamed. Nello Yemen e nel Mar Rosso” di Eric Hansen. Ehhh, sussurro tra me “spero proprio che questo Eric sia stato in buone mani con il suo Mohamed…



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