Good morning Vietnam

E il pensiero va subito alla Guerra e a come Hollywood l’ha raccontata. Anche Patrizio è partito da qui. Poi ha scoperto quanto il Paese sia progredito. E come abbia fatto i conti con il suo turbolento passato
Patrizio Roversi, 18 Feb 2010
good morning vietnam
Per me, che nel ‘68 avevo 14 anni, il Vietnam è la lotta all’imperialismo, è Ho Chi Minh, sono i Vietcong, i pacifisti americani, Peace&Love. E di conseguenza Apocalypse Now, il Delta del Mekong. Quando poi ci sono stato, ho scoperto che il Vietnam è anche di più: la coltura e la Cultura del riso, una civiltà antichissima che ha dato dei punti (e del filo da torcere, assieme a tanti stimoli) alla grande Civiltà Cinese, una cucina raffinatissima, un popolo incredibilmente attivo e dal carattere collettivo fortissimo, un Paese in via di rapidissimo sviluppo. Non mi aspettavo un giro naturalistico – anche se in effetti la Baia di Ha Long, con le sue grotte e le mille isolette del Golfo del Tonchino piene di giunche rappresentano un posto unico al mondo. Io personalmente ho trovato un clima atmosferico poco attraente (tipo Rovigo o Mantova d’autunno…) ma in compenso il “clima culturale” è affascinante!!!

IL DELTA DEL MEKONG

Il Mekong è uno dei grandi fiumi del mondo, l’acqua che scorre in Vietnam arriva dal Tibet e attraversa tutta la Cina, Laos, Tahilandia, Cambogia e… Si vede. Non solo perché è marrone e limacciosa, ma perché si porta dietro tonnellate di storia e di storie. Avete presente il delta del Po? Moltiplicate per dieci, o forse per cento. Il Delta del Mekong è una regione, regolata dal fiume, con una sua fisionomia e una sua economia. Il Fiume lo chiamano appunto (come annotano le Guide) il Gatto a nove code perché, in realtà, verso la foce si divide in nove rami. E sui vari fiumi case, casette, aziende agricole, tempietti. E soprattutto, barche: tante barche con i caratteristici fuoribordo dal piede lunghissimo. Anche i mercati si svolgono sulle barche, e ogni “negoziante” sulla propria giunca a motore ha la sua casa, la sua bottega e il suo magazzino. Tutto semovente, tutto galleggiante, tutto nomade, precario eppure immutabile, ottimamente adattato all’ambiente, e quindi si ha l’idea di “solidità” nel contesto più liquido che ci sia. Anche noi siamo arrivati in barca, partendo da Cai Be, e abbiamo mangiato in un agriturismo ricavato nella villa di un vecchio mandarino che la rivoluzione ha trasformato prima in farmacista e poi appunto in ristoratore. Ma a un certo punto è piovuto, il fiume si è ingrossato, e siamo dovuti letteralmente scappare – dopo l’ultimo sorso di liquore con dentro uno scorpione enorme sotto spirito – prima di restare bloccati dall’acqua. Alla fine siamo arrivati davanti a un ponte dove non si passava più, causa il livello dell’acqua che era salito in pochi istanti. Abbiamo scarpinato nel fango, sotto la pioggia, assieme a un gruppo di contadine che ridevano, fino a un altro canale, e a un’altra barca…

RISO E RISAIE

Per un Vietnamita la sua risaia è tutto: nella risaia ci si fanno anche seppellire, in tombe di calce che sembrano dei sarcofagi. Il Vietnam del Nord, in teoria, ha vinto e quello del Sud ha perso, ma ora le parti rischiano di invertirsi, per le solite contraddizioni economiche che il buon Zio Ho non poteva prevedere: al Nord infatti hanno davvero distribuito la terra ai contadini, ma in questo modo hanno creato appezzamenti troppo piccoli, che non possono permettersi nessuna meccanizzazione: ho visto pompare l’acqua da un canale all’altro con sistemi letteralmente medioevali, con pale di legno mosse a mano. Al Sud, viceversa, dove resistono ancora elementi di economia postcapitalista e latifondista, le aziende sono più grandi e quindi più forti. L’operosità dei vietnamiti è incredibile: ogni casa è divisa in tre parti. Nel retro, in cortile, c’è una attività artigianale qualsiasi (per esempio lavorare il riso e farne delle sfoglie sottili e bianche, a uso dei ristoranti). Al centro della casa abita la famiglia. E davanti c’è la parte pubblica, in genere una bottega, in cui si vende il prodotto. Non contenti, i contadini vietnamiti hanno regolarmente un secondo o un terzo lavoro. Abbiamo visitato anche una fabbrica di lavorazione del pesce, in cui a tempo perso vanno a lavorare le donne del villaggio: una ragioniera della cooperativa segna le ore e alla fine del mese ci si divide l’utile in base al lavoro fatto. Competere con gente così sul piano produttivo non sarà facile, in futuro…

MOTORINI: QUANTI SONO?

Io sono arrivato a Ho Chi Min City (la vecchia Saigon) e sono ripartito da Hanoi, ma in entrambe le città mi ha colpito il traffico. Traffico – per ora – di motorini. Per ora, perché è chiaro che, prima o poi, il sogno di tutti è avere una macchina… Se davvero tutti i milioni di motorini vietnamiti si dovessero trasformare in automobili… Auguri! Altro che crisi energetica, altro che buco nell’ozono, riscaldamento del Pianeta ecc ecc. I motorini qui rappresentano un fiume denso, continuo, solido. Che scorre per le strade come una colata di ruote e marmitte. C’è gente che si è fidanzata in motorino, percorrendo fianco a fianco, a passo d’uomo, chilometri insieme. La cosa tragicomica è attraversare la strada a piedi. Una vera impresa! Bisogna prima fare un minimo di meditazione. Poi, a occhi chiusi, si decide di passare. E si avanza lentamente ma inesorabilmente, senza fermarsi!

NEI CUNICOLI DI CU CHI

Le gallerie di Cu Chi hanno cominciato a scavarle, sottoterra, per ripararsi e nascondersi dai francesi. Poi, nella guerra contro gli USA, si è formata una vera e propria città sotterranea: 250 chilometri di cunicoli, camere sotterranee, ospedali da campo, cucine, luoghi di riunione. Un reticolo che si sviluppa anche su tre o quattro piani, tutti sottoterra. Le gallerie sono alte circa 80-90 centimetri: i Vietcong ci correvano dentro, portando armi e munizioni, stando in ginocchio. Io ci ho provato, ma sono riuscito a percorrerne soltanto una ventina di metri, peraltro già allargati per farci entrare i turisti, prima di crollare con il mal di schiena, in preda a una sorta di crisi di claustrofobia. Quando i marines provavano a entrare, ci restavano incastrati. Uscendo all’improvviso da buchi nella terra, piccolissimi e mimetizzati tra i cespugli, i Vietcong riuscivano a praticare la loro guerriglia. Per contrastarli, gli Americani hanno trasformato questa zona, di circa 400 chilometri quadrati, nell’area di guerra più devastata, bombardata e martoriata del mondo e della storia. Ci hanno buttato sopra bombe, napalm, agenti chimici. Ma alla fine hanno perso la guerra, perché la resistenza dei Vietnamiti non ha ceduto di un millimetro. Tutta la storia dei cunicoli di Cu Chi ce l’ha raccontata un generale in pensione, un vecchio amico del generale Giap, che adesso è lì apposta per spiegare, per tener viva la memoria, per i giovani e anche per i turisti. La visita ai cunicoli è una delle cose che mi ricorderò sempre, e non specificatamente del Vietnam, ma di tutti i viaggi fatti. Il senso di dedizione, sacrificio, dignità, ostinazione che questo luogo trasmette è incredibile. Qui capisci il senso di appartenenza collettivo degli orientali, simile a quello delle api, o delle formiche: l’individuo è un elemento che appartiene a un “corpo” collettivo unico. Ogni persona è una molecola di un insieme. Per noi, figli dell’individualismo, dell’Umanesimo e della Rivoluzione Francese, è davvero difficile capire. Ma è affascinante provarci.

IL CUOCO E’ IMPAZZITO

La cucina è stato appunto il primo segnale che mi ha fatto intendere quanto profonde siano le tradizioni e la cultura vietnamita: una cucina tanto raffinata ed elaborata (tanto da dare dei punti a quella cinese) non può non provenire che da una storia lunga e complessa, fatta anche di stratificazioni sociali successive. E non mancano le sorprese spettacolari: ero in un ristorante ad Hanoi e a un certo punto sento rumore di stoviglie fracassate. Ho pensato a un incidente, invece in un angolo della sala vedo un cameriere che… Rompe un vaso di coccio a martellate. Poi lancia quel che resta dalla parte opposta, dove a 10 metri di distanza un altro cameriere afferra al volo il contenuto della pentola, con un guantone. Ma sono impazziti? No, è il rito del riso “saltato”. Ho scoperto poi andando in cucina che si usano delle anforine di coccio, con un collo stretto. Le riempiono di riso, e poi mettono il coccio in forno. Il riso si cuoce perfettamente, ma poi naturalmente non esce più. Allora rompono il vaso e, per separare il riso – che nel frattempo è diventato una specie di torta sferica – da eventuali residui di cotto, lo lanciano in aria: la terracotta, più pesante, casca a terra e il riso vola nelle mani del secondo cameriere, e poi in tavola…

L’AUTORE DELLA TORRE EIFFEL E’ PASSATO DI QUI

Ad Hanoi, dopo un giro attorno ai suoi laghi, sono andato allo spettacolo (bellissimo!) delle marionette, una antica tradizione unica nel suo genere. Nella cittadina di Hoi An, sotto al suo ponte giapponese, gli ambulanti vendono dei fischietti a forma di animali, e i suoi sarti ti confezionano in poche ore dei vestiti di seta cruda (attenti alle misure: tendono sempre a farvi il vestito stretto, perché non sono abituati alle dimensioni degli occidentali). Io ho preso una barca, una sorta di vaporetto che fa servizio pubblico, e sono andato in giro per i paesini bellissimi dei dintorni. Poi c’è la Cittadella a Huè, la vecchia capitale, con il Palazzo dell’Armonia Suprema, la sala dei mandarini e naturalmente la pagoda di Thien Mu. Tutte cose bellissime, da non perdere, ma di tutto questo son piene le guide. La cosa che invece, paradossalmente a me è rimasta impressa è la Saigon coloniale, e in particolare la… Cattedrale di Notre Dame e l’Ufficio Postale, progettati proprio da quel Gustave Eiffel che a Parigi ha fatto la Torre. Davanti all’Ufficio Postale c’era un gruppo di studenti di architettura che ridisegnavano le strutture nude di ferro del grande architetto francese, e stavano ri-progettando una nuova estetica per Ho Chin MinhCity-Saigon. Magari, i cosiddetti Paesi in via di sviluppo, trovassero il modo di progettare, appunto, uno sviluppo diverso e migliore rispetto al nostro! Dal tipo di sviluppo, più o meno compatibile, che Paesi come il Vietnam riusciranno a esprimere, dipende anche il nostro futuro. Tutti quei motorini, destinati a diventare macchine, mi hanno preoccupato molto…

IL CORAGGIO DEI MONACI BUDDISTI

Quando hai a che fare con i vietnamiti percepisci una dignità, una misura, uno stile e un’etica davvero straordinari. Qualcuno azzarda l’ipotesi che il merito sia anche delle sue antiche e complesse tradizioni religiose, che nessun regime è mai riuscito a tagliare del tutto. La religione qui è stata determinante, anche sul piano politico. Furono i bonzi, cioè i monaci buddisti, a darsi fuoco per protesta e a far divampare la resistenza e la guerra (si conserva ancora l’automobile, la piccola utilitaria azzurra con la quale sono andati sul luogo del loro terribile sacrificio: l’ho vista a Huè e mi ha fatto impressione). Nonostante le varie comunità religiose siano state (e in parte siano ancora) osteggiate, il Vietnam è tutto un fiorire di pagode, chiese cattoliche o protestanti o di altri culti o sette. Io ho visitato una sorta di missione cattolica dell’università di Bologna, ad Hanoi, che porta avanti progetti avanzati nel campo dell’assistenza e dell’educazione. Ed è stato interessantissimo visitare una scuola vietnamita, e un centro volontario di assistenza per non-vendenti. Nella scuola elementare ogni mattina c’è ancora l’alzabandiera con tanto di inno, e la pubblica confessione delle mancanze commesse il giorno prima dai vari studenti, ma i programmi sono avanzatissimi e si studiano le lingue straniere molto meglio che nelle nostre scuole. Anche questo è un filone da cercare di visitare con attenzione, se si vuol provare a capire qualche cosa del moderno Vietnam.

LA STORIA RECENTE E LA MEMORIA DELLA GUERRA

Prima di andare in Vietnam è meglio ripassare, almeno per sommi capi, la sua storia recente. Le date sono poche, ma fondamentali: nel 1954 Ho Chi Minh sconfigge e caccia via i francesi, a Dien Bien Phu, e il Vietnam con la Conferenza di Ginevra viene diviso in due, all’altezza del 17° parallelo: il Nord Comunista e il Sud filo-occidentale, che cade poi sotto la dittatura filo-americana di Van Thieu. Nel 1963 scoppia la seconda guerra indocinese, la Guerra del Vietnam, che dura fino al 1974-75, e che ha provocato 4 milioni di morti (c’è chi dice più di 7 milioni fra morti e feriti) fra i vietnamiti e 60 mila fra gli americani. Dopodiché, tagliando un po’ le cose con estrema approssimazione e molta superficialità, possiamo osare dividere la storia politica recente del Vietnam in tre fasi: quella eroica iniziale, di lotta, all’insegna di Giap e Zio Ho. Poi una seconda fase post-bellica più buia e stalinista e ora, da qualche anno, una progressiva apertura, più economica che politica. Ma, in ogni caso, è stupefacente come i vietnamiti abbiano saputo rappresentare la memoria e la loro storia recente. Il Museo di Ho Chi Minh e soprattutto il Museo della Guerra sono assolutamente imperdibili. Nel primo (bellissimo anche da un punto di vista architettonico e scenografico) è rappresentata la storia del Padre della Patria, perfettamente contestualizzata: dal periodo giovanile degli studi a Parigi (assieme a Pol Pot, il futuro folle genocida cambogiano, che ben rappresenta “l’altra faccia della medaglia”) fino al lavoro politico e militare durante la Guerra. Ma, a proposito di guerra, l’altro museo che racconta gli 11 anni di delirio distruttivo a cui fu sottoposto il Vietnam dal 63 al 74, è la cosa più emozionante che ho mai visto. Poteva essere trionfalistico, retorico. E non lo è assolutamente. Poteva essere – giustamente! – una demonizzazione del nemico, e invece non lo è. Anche se documenta in modo raccapricciante i feti nati deformati dal napalm, le torture mostruose subite (Vietcong tagliati a pezzi, a fettine, letteralmente) riesce nel miracolo assoluto di non essere anti-americano. È semplicemente contro la guerra, contro tutte le guerre, contro l’abominio della violenza. È visitato da molti americani, e da molti reduci, che piangono, che lasciano al museo le loro decorazioni militari, come estrema dissociazione dalla follia collettiva che chiamiamo guerra.