Su e giù per la Valtellina

Un percorso di montagna che ci ha lasciato... senza fiato
Scritto da: Laura&Gianni
su e giù per la valtellina
Partenza il: 04/09/2011
Ritorno il: 17/09/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
Alta Valtellina: questa è la meta di Laura (io) e Gianni (il maritozzo) per le vacanze 2011… alla scoperta di un altro pezzo di mondo, o meglio, della nostra sempre bella Italia!

Partiamo domenica 4 settembre piuttosto presto perché vogliamo evitare il traffico e per poter godere un po’ dello splendido panorama offerto dal Lago di Como. Sì perché durante il tragitto percorriamo la strada che costeggia il lago e ci fermiamo per una breve visita all’Abbazia di Piona… davvero un luogo incantevole (bisogna ammettere che i frati sanno scegliere!) dove si respira pace-tranquillità-serenità a tal punto che ci dispiace anche solo scambiarci qualche frase, ci sembra di interrompere “fratello silenzio” nel suo discorso ai visitatori.

L’Abbazia si affaccia a strapiombo sul lago e sorge nella parte più estrema di un costone che scende a picco sulla radura dell’Olgiasca. Qui, una piccola comunità di monaci cistercensi dell’ordine benedettino vive del proprio lavoro e nel raccoglimento più profondo condivide e prega per le gioie e i dolori di molti fratelli, anche quelli più lontani.

Arriviamo finalmente a destinazione, il comune di Valdidentro, purtroppo accompagnati da nuvole e pioggia, però non vogliamo demordere e quindi, dopo una rapida sosta in camera per posare le borse e ambientarci in quella che sarà la nostra “casa” per le prossime 2 settimane, decidiamo di affrontare la pioggia senza alcun indugio e conoscere almeno i dintorni. Mio marito legge un cartello che lo interessa particolarmente: “Museo Mineralogico” e quindi non possiamo assolutamente esimerci dal visitarlo… che bella sorpresa! E’ gestito da un gruppo del posto e, in particolare, dal sig. Edy Romani, suo fondatore e grande esperto, oltre che ricercatore e collezionista, di minerali della zona e del resto del mondo. Appena entrati ci accorgiamo che la persona di fronte a noi è proprio il sig. Romani e ne comprendiamo il carattere un po’ burbero caratteristico della gente di montagna ma Gianni, anch’egli, nel suo piccolo, un buon ricercatore, conoscitore e collezionista, inizia a domandargli informazioni sui pezzi esposti e la corazza del nostro ospite scompare quasi totalmente. E’ davvero interessante sentirlo raccontare delle sue esperienze passate alla ricerca di nuove specie minerarie e le emozioni nello scoprirle e farle conoscere al mondo. Ci racconta anche un po’ della sua vita in Argentina dove è stato emigrante in gioventù e del lavoro in miniera, prima di rimanere vittima di un brutto incidente che gli ha impedito di continuare il mestiere di minatore, ma non di amare la mineralogia!

Inoltre, ci rivela che, oltre ad aver pubblicato alcuni libri sull’argomento, è anche un buon scultore, scrittore di favole e poeta e quasi a ringraziarci per averlo ascoltato con grande attenzione, ci regala la stampa di due sue poesie… che dire: grazie! Ecco, questo è un incontro che ha completamente trasformato la nostra giornata, non ci sono più nuvole e pioggia ma un calore indescrivibile.

Ma altrettanto indescrivibile è la giornata che troviamo al nostro risveglio, martedì 6 settembre, come potevamo aspettarci un cielo sereno e un sole splendente dopo il diluvio dei giorni precedenti? E allora, senza alcun indugio, eccoci diretti verso il Passo dello Stelvio (mt 2760). La strada per raggiungerlo è ripida con circa 40 tornanti dall’imbocco della salita ma non c’è ancora traffico intenso (vista la bella giornata c’è da aspettarsi parecchia gente in auto-moto e bicicletta) e quindi si può godere del panorama mozzafiato sia delle vallate sia delle cime che appaiono maestose sopra di noi. Il gruppo dell’Ortles si staglia contro il cielo azzurro intenso e il contrasto è da cartolina, però il maritozzo ed io ci immaginiamo in un’altra epoca, diciamo inizio secolo scorso, quando, su queste strade non ancora asfaltate, si disputava il Giro d’Italia. E ci sembra di vederli i grandi del passato come Bartali o Coppi affrontare, sotto le intemperie, queste salite per raggiungere il passo dove troneggia il cartello con la dicitura “Cima Coppi”; sì perché così è chiamata, durante il Giro, la cima più alta raggiunta dai ciclisti (che non sempre coincide con lo Stelvio). E una foto sotto il cartello non può mancare soprattutto per me che ho appena terminato di leggere una biografia proprio dedicata a Fausto Coppi e ho scoperto, grazie ad un articolo di giornale, uno sceneggiato sulla vita di Gino Bartali; due grandi campioni, di cui già mio nonno mi parlava quand’ero bambinetta, che tanto lustro hanno dato all’Italia nel mondo!!

Non è possibile paragonare il modo di andare in bicicletta di Girardengo, Coppi o Bartali con quello degli attuali campioni: le strade erano pietre e fango, le biciclette non certo leggere come le odierne, le forature erano all’ordine del giorno e dovevano riparare da soli la propria bicicletta… insomma un altro mondo! Stessa cosa per lo sci: ma avete mai notato com’era l’abbigliamento un tempo?

E’ un momento di magia immaginare i campionissimi percorrere ancora queste strade o scendere sulle piste innevate; il loro tempo è finito ma le generazioni future non dovrebbero davvero dimenticare i loro sacrifici e il loro amore per lo sport.

La giornata volge al termine ma decidiamo di recarci presso le Torri di Fraele che alla sera ammiriamo, illuminate, dal balconcino della nostra camera. Le torri sono state erette a difesa del valico e della valle di Bormio dalle incursioni nemiche degli antichi abitanti della Val Viola, del Livignasco e della Val Fraele.

Proseguendo per alcuni chilometri, giugiamo ai laghi di Cancano. Sono due laghi artificiali le cui acque andranno a sfociare da un lato nel Mar Adriatico, dall’altro nel Mar Caspio. La stradina sterrata che ne percorre il perimetro è adatta soprattutto per le biciclette e chissà che la prossima settimana, tempo permettendo, non affittiamo un tandem e ci lanciamo in questa impresa!

Mercoledì 7 settembre

Giornata dedicata al Bernina Express, il treno panoramico lungo 122 km (partendo da Lugano) e che, grazie al fondersi di arte ingegneristica e paesaggio, rappresenta uno dei patrimoni mondiali dell’Unesco. Noi partiamo da Tirano per raggiungere S. Moritz e, durante questo percorso, si toccano e si ammirano alcuni esempi di questo connubio; come, ad esempio, a Brusio dove il trenino si inerpica sul viadotto elicoidale così costruito per permettere il superamento del dislivello perché sviluppandosi a quarto di cerchio consente di allungare il percorso in uno spazio ristretto. Si incontrano, poi, le dighe di sbarramento delle centrali elettriche di Palu e Cavaglia e l’Alpe Grun con l’edificio della stazione risalente al 1923 e un paesaggio montano unico, infatti, dal ghiacciaio del Palu con l’omonimo lago, lo sguardo può estendersi sino alle alpi bergamasche. Poco oltre eccoci giungere all’Ospizio Bernina situato a 2253 mt e, quindi, la stazione più alta della ferrovia retica; l’ospizio segna anche un confine linguistico perché nella valle a sud si parla italiano, nell’Engadina il retoromano e il tedesco. Appena superato il passo del Bernina ecco apparire il Lago Bianco e il Lej Nair, i cui nomi fanno riferimento al diverso colore dell’acqua: chiara quella del primo, scura quella del secondo!

Consiglio: acquistate il biglietto ordinario presso agenzia viaggi di fronte alla stazione e il supplemento carrozza panoramica e prenotazione posti, solo per l’andata, presso la biglietteria interna (costo 12 franchi svizzeri a testa) così, al ritorno, potrete usufruire di uno qualsiasi dei treni regionali.

Il tragitto in treno è veramente particolare: il trenino rosso si inerpica sino ai 2500 mt dell’Ospizio Bernina e attraversa ampie valli circondate dai ghiacciai. Anche qui, come già sullo Stelvio, osservando le lingue di ghiaccio si nota come l’aggettivo “eterno” non sia più così azzeccato perché negli ultimi 20-25 anni il ritiro dei ghiacci perenni è stato davvero notevole e impressionante. Dove, sino a qualche decennio fa, c’era ghiaccio, ora cresce un leggero manto erboso… che tristezza.

Dopo circa due ore di viaggio il treno arriva alla stazione di S.Moritz, paese chic ed elegante e infatti, dopo poche centinaia di metri, eccoci a percorrere una delle strade centrali del paese e ci sentiamo catapultati in un altro mondo; le vetrine sono tutte Prada-Roberto Cavalli-Gucci-Cartier e chi più ne ha più ne metta! I pezzi esposti sono superbi e anche i prezzi non scherzano anzi, a dire la verità, osservando i cartellini abbiamo un leggero mancamento!

S.Moritz è tutto questo: negozi e alberghi a 4 o 5 stelle; la parte più caratteristica è il lago con una piacevole passeggiata tutt’intorno e gli scoiattoli che, potendo, ti si siedono accanto per un pezzettino di pane o di frutta. Lago che, d’inverno, completamente gelato è utilizzato per le partite di polo a cavallo.

Come avrete capito, cari lettori, il maritozzo ed io solitamente non amiamo il glamour, preferiamo addentrarci in zone più spartane e “selvagge” e quindi oggi, 8 settembre, decidiamo di superare nuovamente la frontiera tra Italia e Svizzera e dirigerci verso l’Alpe Diavolezza. Con la nostra “ferrari” ovvero Panda rossa, percorriamo la strada che costeggia la ferrovia retica e, di tanto in tanto, uno dei treni rossi svizzeri sembra farci da compagno di viaggio.

All’alpe Diavolezza prendiamo la funivia (33 ChF a persona) che ci trasporta sino a 2950 mt e da qui ammiriamo estasiati il magnifico spettacolo della natura, e nello specifico, quello del ghiacciaio del Bernina, la cui cima è posta a 4050 mt proprio di fronte a noi. Dopo un rapido sguardo ci incamminiamo sul sentiero che ci conduce sulla cima del Sass Quere a 3080 mt.

Lo sguardo spazia a 360° sulle alte montagne intorno e raggiungiamo la cima con facilità anche se il vento spazza tipo bora triestina; a tratti però sembra placarsi e subito sentiamo caldo ma meglio non togliersi la giacca paravento perché, senza alcun preavviso, ecco arrivare folate ancor peggiori delle precedenti! Proprio sulla cima notiamo un piccolo esercito di “ometti”, ossia gruppi di pietre posti normalmente ad indicare i sentieri di percorrenza, che sembrano dare il benvenuto a quelli che, come noi, si avventurano sin lassù e apostrofare tutti affinché rispettino la montagna e mai e poi mai sfidarla.

Ritornati al rifugio, e non senza aver bevuto un cappuccino caldo per ritemprarci, decidiamo di scendere verso il ghiacciaio e percorrere la cresta della morena. Non è così facile come pensavamo, il sentierino è largo appena una ventina di centimetri e bisogna fare molta attenzione a dove si poggiano i piedi però, ragazzi, che spettacolo quando arriviamo nel punto in cui le lingue di ghiaccio dei due ghiacciai, divisi solo da una alta rupe, si incontrano a formare un grande mare bianco! Ora, però, il tempo di ammirare è finito, bisogna risalire al rifugio che si raggiunge dopo ca. 1h di risalita abbastanza faticosa. Passo dopo passo, il rifugio è sempre più grande e più vicino… ma perché allora sembra non arrivare mai? La giornata volge al termine: grazie, ancora una volta, alla natura, per i meravigliosi spettacoli che ci offre… dovremmo davvero amarla di più!

Venerdì 9 settembre: altra giornata di sole splendente e quindi partiamo per raggiungere la Val Cedec poco oltre Santa Caterina Valfurva. La nostra meta, oggi, è il Rifugio Pizzini posto a ca. 2700 mt di altezza; il sentiero, anzi la stradina sterrata in questo caso, parte dalla Baita dei Forni che prende il suo nome dal ghiacciaio dei Forni che la sovrasta. Lungo la strada incontriamo parecchie baite e quindi ecco le mucche al pascolo che, sollevando il muso, ci osservano con sguardo pigro ma curioso; chissà cosa penseranno nel vederci? Forse qualcosa del tipo: “Non mi disturbare mentre mangio quest’erbetta fresca e deliziosa e poi fai ciò che vuoi!” I loro campanacci fanno da sottofondo al nostro intercedere e si confondono con i rumori della montagna: lo scorrere del torrente e i fischi delle marmotte. Anche questi simpatici animaletti, grassottelli, perché quasi pronti per andare in letargo, ci seguono con lo sguardo naturalmente molto guardingo, in effetti il loro fischiare, tipo le vecchie locomotive all’arrivo e partenza dalle stazioni, è un segnale di attenzione o pericolo… state tranquille marmotte, da noi non riceverete alcun disturbo, al massimo tentiamo di fotografarvi! Il rifugio Pizzini si trova nelle vicinanze della Vedretta del Cedec tra il Monte Pasquale e il Gran Zebrù, entrambi cime a quasi 4000 mt. infatti sono due delle salite che si possono intraprendere partendo proprio dal rifugio che è stato ristrutturato grazie a un lascito in memoria del Generale Frattola (alpino) e del figlio scomparso prematuramente sul Lavaredo.

Dopo una sosta rinvigorente (tagliere di salumi e formaggi) decidiamo di percorrere una parte del sentiero che porta al ghiacciaio dello Zebrù ma il torrente di limo, ossia di fango causa lo scioglimento della neve, ci impedisce il passaggio e siamo costretti a tornare sui nostri passi. Ad un tratto ci soffermiamo di fronte ad una croce qui posta in memoria di una ragazza morta proprio sullo Zebrù nel 1980; i suoi “Amici del campeggio” ogni dieci anni vengono fin quassù a poggiare una piccola piastra di metallo su cui è scritto un messaggio in suo ricordo… questo fatto ci commuove e anche noi, in un attimo di raccoglimento, lasciamo un piccolo pensiero.Anche oggi torniamo in albergo stanchi ma molto soddisfatti… cosa vogliamo di più?!

Ancora una volta il sole ci sveglia facendo capolino dalle tende scure della nostra camera. Senza troppi indugi partiamo per la Val Viola: valle bianca che si apre a occidente fra i paesi di Isolaccia e Semogo. Il nome sembra derivare da una interpretazione dell’antica grafia “albiola” dall’aggettivo latino “albus” ossia bianco; inoltre, antiche leggende, la vogliono popolata di strani esseri: giganti per alcuni, uomini non più alti di un ragazzino per altri.

Dalla strada principale che porta verso il Passo Foscagno, ad un tratto, sulla sinistra, si dirama una stradina secondaria non troppo ampia e con molte curve e dopo 5 km si raggiunge l’ultimo parcheggio. Lasciata l’auto si inizia la passeggiata su strada sterrata, molto adatta anche per le mountainbike, e infatti tanti sono i ciclisti che incontriamo durante il tragitto. Noi decidiamo per un percorso ad anello quindi dopo circa 2,5 h raggiungiamo il Passo della Val Viola che svalica direttamente in territorio elvetico; scendendo raggiungiamo il Rifugio Viola dove sostiamo per qualche foto e poi continuiamo sul sentiero, purtroppo poco frequentato e quasi abbandonato, che conduce al Rifugio Federico dove Gianni, sentendo i morsi della fame, decide di mangiarsi un ottimo panino al formaggio!

Oggi partiamo alla scoperta della Val Zebrù che si trova in Valfurva. Il suo imbocco si raggiunge attraversando il piccolo abitato di Madonna dei Monti e partendo dalla frazione di Niblogo, dov’è possibile parcheggiare l’auto. Da qui parte una stradina sterrata che costeggia l’omonimo torrente e si inerpica per circa 12km sino alle Baite del Pastore (circa 3 ore di cammino) punto da cui cominciano i sentieri verso il Passo Zebrù o il Rifugio V Alpini (almeno altre 2 ore di cammino). La valle è totalmente compresa nel Parco Nazionale dello Stelvio e caratterizzata da un’alta densità di ungulati (camosci, stambecchi, cervi e daini) e di rapaci (aquila reale e gipeto), purtroppo non siamo fortunati e non scorgiamo né gli uni né gli altri, in effetti la stagione non è quella giusta, sarebbe meglio inizio estate, e nemmeno l’orario è ottimale perché questi animali tendono a scendere più a valle al mattino presto (prima dell’arrivo degli umani) oppure in tarda serata. In compenso osserviamo con piacere gli scoiattoli che, sì, ci guardano incuriositi, ma al minimo rumore o movimento, fuggono saltellando veloci di ramo in ramo… aspettate: dateci il tempo di fotografarvi! Molte sono le baite lungo il percorso, alcune trasformate in punti di ristoro, tutte ben ristrutturate e circondate da prati erbosi creati dall’uomo nei secoli scorsi; in effetti queste aree sono state disboscate per creare prati a sfalcio adatti al pascolo del bestiame. Le baite stesse erano utilizzate come maggenghi ossia stazioni di sosta durante la montificazione degli animali.

Adesso è il momento anche di spiegarvi l’origine del nome Zebrù: si narra che, in tempi antichi, un cavaliere di nome Zebrusius avesse qui molti possedimenti. Nel sentire avvicinarsi l’ora della morte, il cavaliere decise di costruire, con le sue stesse mani, un sepolcro. Un giorno si sdraiò dentro la tomba e, grazie a un marchingegno di sua invenzione, riuscì a chiudere da solo il coperchio e attese di passare a miglior vita.

Molti sono convinti che il sepolcro esista veramente, altri che sia solo una leggenda… chi avrà ragione? Non importa, il racconto è suggestivo e a noi piace pensare che da qualche parte il buon cavaliere riposi in pace nella sua valle.

Dopo una settimana, rieccoci al Passo dello Stelvio. Oggi il programma è raggiungere alcune cime poste tutt’intorno e che segnano il confine con la Svizzera. Il sentiero inizia proprio di fronte al parcheggio e dopo 10 minuti di ripida salita giungiamo al Rifugio Garibaldi per poi proseguire per circa 1,5h sin alla Punta Rosa (3026 mt) così chiamata per il colore rossastro delle rocce che la formano. Foto di rito, naturalmente, e poi via verso Cima Quaira che permette una vista a 360° su Valtellina, vallatte elvetiche secondarie e Val Venosta.

Per la discesa decidiamo di affrontare il sentiero “basso” e quindi possiamo soffermarci a leggere i vari cartelli esplicativi che raccontano del periodo 1915-1918, sì perché queste erano zone di confine e quindi di guerra durante il primo conflitto mondiale; molti sono ancora i resti di accampamenti e baraccamenti più o meno ben conservati. In particolare ci attardiamo a leggere le vicende di Seppl, Wastl, Hans, Peppino, Sergio e Valentino che qui, per 4 anni, spararono e lottarono sino alla morte sebbene nessuno di loro avesse il benché minimo interesse a farlo. I sei soldati in questione si conoscevano grazie alle scalate in montagna e ai vari commerci della zona e le loro differenti culture erano rispettate dagli uni e dagli altri; ma tutto ciò ai potenti non interessava minimamente e la guerra continuò e, anzi, si intensificò. Ciò che ci ha impressionato è venire a sapere che sino all’autunno del 1915 i rifornimenti (legna, viveri, munizioni e armi) venivano trasportati con la sola forza dell’uomo. Solo in seguito, si misero in funzione le teleferiche anche se spesso i trasporti si interrompevano causa maltempo e valanghe.

Dopo circa una settimana torniamo in Val Cedec per affrontare due nuove avventure di alta montagna. Martedì raggiungiamo il Rifugio Pizzini e, da qui, ci incamminiamo verso il ghiacciaio del Gran Zebrù arrivando sin a lambire il ghiaccio a circa 3000 m. Il giorno seguente, invece, sempre partendo dal Pizzini, affrontiamo il sentiero che conduce al Rifugio Casati, a 3300 m di altezza. E’ stato un percorso difficile, un vero “muro” soprattutto nell’ultimo tratto in quanto il sentiero scompare causa frane durante il periodo invernale. La fatica, però, è stata ricompensata dallo spettacolo di fronte a noi giunti sulla terrazza del rifugio: vista a 360° sui ghiacciai del Cevedale… fantastica emozione anche se, poco dopo, decidiamo di ridiscendere in quanto il vento freddo e sferzante sta portando con sé parecchie nuvole e il tempo potrebbe peggiorare da un momento all’altro.

Giunti alla fine di questo nostro viaggio alla scoperta dell’Alta Valtellina, non possiamo che essere soddisfatti. Il bel tempo ci ha accompagnati, le montagne ci hanno accolto e ci hanno permesso di godere di panorami mozzafiato, le persone che abbiamo incontrato sono state cordiali e disponibili. Insomma, di più, davvero, non potevamo aspettarci!

Grazie e buon viaggio a tutti!

Laura & Gianni



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