Uzbekistan, un viaggio fuori dal comune

Un compleanno che segna una tappa importante nella vita è l’occasione di un viaggio fuori dal comune. Ed una tappa della leggendaria Via della Seta sembrava l’ideale.
Scritto da: mronz
uzbekistan, un viaggio fuori dal comune
Partenza il: 13/07/2019
Ritorno il: 20/07/2019
Viaggiatori: 2

Tutto inizia, come sempre, procurandoci le informazioni necessarie alla programmazione del viaggio, quindi dove fermarci e come muoverci, fissando le prenotazioni degli alloggi e degli spostamenti interni in treno, auto e aereo. Sebbene avessimo già viaggiato in diversi Paesi musulmani in Nord Africa, Africa Occidentale e Medio Oriente, questa meta in Asia Centrale era un mondo nuovo per noi, forse ancora più affascinante di quelli già visitati. Si, lo ammettiamo. Chi avrà la voglia e la pazienza di leggere questo racconto si chiederà se la quantità di siti visitati, che si possono fare rientrare in tre categorie principali (moschee, madrase e mausolei), alla fine non possa far sembrare tutto un po’ uguale e ripetitivo. Credetemi, non è così. Certo se siete appassionati di shopping a New York o aperitivi a Dubai, forse non resterete così coinvolti.

Lasciando la storia a testi più autorevoli, qui possiamo dire che l’attuale Uzbekistan si trovava lungo la Via della Seta, uno degli antichi itinerari di collegamento terrestre tra Oriente ed Occidente. E questo ne fece la fortuna. A causa dell’enorme traffico commerciale in transito e della vitale necessità di punti di sosta e scambio, lungo la Via della seta sono nate e si sono sviluppate città e civiltà ricche e potenti. Mercati e caravanserragli, che fornivano il luogo ideale per il riposo dei carovanieri, per il deposito delle merci e per le trattative, gradatamente si trasformavano in insediamenti urbani sempre più vasti ed organizzati dove sorgevano luoghi di preghiera, di istruzione, di sepoltura, di potere: moschee, madrase, mausolei, palazzi. La promiscuità di genti e di culture sia di passaggio che stanziali nella regione ha fatto sì che non esista un vero e proprio ceppo etnico uzbeko; nei tratti somatici delle persone si riconoscono lineamenti europei, russi, asiatici, arabi, mongoli, cinesi, ecc. E questo rende tutto ancora più intrigante.

Tashkent, la capitale

Si parte. L’Aeroflot ci porta in Uzbekistan via Mosca in circa 8 ore. Un volo piuttosto lungo, a dire il vero, ma le alternative più dirette e rapide erano anche decisamente più costose. TASHKENT, la capitale, è una città accogliente che, seppur priva delle magnifiche attrattive storiche ed architettoniche di altre località, segna un punto nevralgico per la visita del Paese. Oltre ad avere un aeroporto internazionale direttamente a contatto col centro urbano, offre buone sistemazioni alberghiere e la possibilità di acclimatarsi sia per le temperature che per la vita uzbeka. Veniamo accolti da 40° ed il caldo segnerà tutta la nostra permanenza in Uzbekistan. Subito capiamo che la gente è ospitale e gentile ed impariamo al volo una parola fondamentale: “rakhmat” cioè grazie. Il proprietario dell’Hotel Nice, base scelta nella capitale, viene a prenderci in aeroporto e ci conduce in breve tempo presso la sua abitazione trasformata in albergo. Il primo impatto con la città ci rivela la sua ariosità, con viali multicorsia e gli ampi spazi, ma anche la rigida architettura russa della periferia con squadrati ed identici caseggiati, retaggio dell’appartenenza all’U.R.S.S. fino al 1991, alcuni resi meno lugubri dalle colorite facciate. La viabilità è relativamente ordinata, con una media piuttosto attuale dei veicoli, anche se curiose auto e muscolosi autocarri dell’epoca sovietica girano indifferenti ai moderni motori Hibrid o a gas. Notiamo immediatamente però che non esistono cartelli di indicazioni stradali agli incroci e nemmeno i nomi delle vie… Per ambientarci scegliamo come di consueto di girare a piedi. Raggiungiamo dapprima il Bazar Charsu, sotto la cui enorme cupola si svolge un grande mercato di generi alimentari tra i quali spiccano spezie, frutta, verdura, formaggi ed il caratteristico pane a ciambella. Nell’antichità i bazar, distribuiti strategicamente alla confluenza delle strade cittadine, oltre a fornire fresca ombra ed essere luoghi di vendite e scambi, ospitavano i laboratori artigianali che producevano carta, ceramiche, tappeti e tessuti. Poco distante si trova il primo edificio storico del nostro viaggio: la Madrasa di Kuleldash risalente al XVI secolo. Le madrase erano scuole, elevatasi successivamente ad istituti di cultura superiore islamica, spesso dotate di una propria piccola moschea e strutturate su piani intorno ad un ampio cortile-giardino interno dove gli studenti vi alloggiavano in piccole celle. Arriviamo poi alla Moschea Jameh (o Moschea del Venerdi). Le moschee, come noto, sono i luoghi di preghiera dell’Islam; la loro architettura presenta una struttura simile ad una madrasa ma spesso molto più sfarzosa, il cui centro è la “sala della preghiera” affiancata ad uno o più minareti, le inconfondibili torri dalle quali il muezzin cinque volte al giorno chiama alla preghiera i fedeli. Di norma moschee e madrase sono posizionate su un piano più elevato rispetto a ciò che le circonda, per avere una presenza più significativa ed un impatto visivo più imponente. Qui quasi sempre saranno decorate con iscrizioni arabe e persiane, stucchi, maioliche, piastrelle e mosaici, ad impreziosire colorate e spettacolari facciate ed “iwan” (una sorta di androni a copertura degli enormi portali), ma a volte i chiaroscuri creati dall’abile posizionamento di semplici mattoni monocromatici suppliscono alla mancanza di colori. Il giro odierno finisce al Parco Navoi, una vasta area verde con laghetti e ruscelli, dove spicca la grande statua bronzea del poeta e filosofo da cui prende il nome. Ceniamo in un semplice locale dove servono un ottimo chawarma (un tipo di kebab) bevendo acqua con menta ed arancia. Sentiamo di essere solo all’inizio. Ci aspettano ancora tante meraviglie che ancora non sappiamo quanto ci lasceranno esterrefatti.

Samarcanda

Il giorno successivo è il mio compleanno. Andremo in treno a Samarcanda, distante circa 300 km. L’impatto con le linee ferroviarie uzbeke è ottimo. La stazione è nuovissima, organizzata ed efficiente, i treni moderni e puntuali ed il personale di servizio cortese e disponibile a tradurre le incomprensibili indicazioni delle destinazioni e delle rotaie scritti in cirillico; gli unici evidenti sono i numeri, ma cosa te ne fai se non capisci il resto? Senza di loro saremmo ancora là a guardare i tabelloni con un enorme punto di domanda sopra la testa… Le carrozze sono silenziose e pulite e viaggiano a velocità da TGV. Fuori dalla capitale scorre una campagna piatta interrotta da sparuti gruppi di abitazioni con i tetti in lamiera; a circa metà percorso diventa brevemente collinare per poi tornare pianeggiante fino a Samarcanda. In un paio d’ore totali siamo a destinazione ed essendo metà mattina abbiamo quasi l’intera giornata a disposizione. Fuori dalla stazione, anch’essa moderna, troviamo 42° e Umi’d, un simpatico taxista che parla inglese e che si offre di farci da cicerone nei due giorni in cui resteremo qui. Samarcanda ha molti luoghi da visitare, ma sono sparsi su un territorio piuttosto grande e quindi molto meglio girare in taxi per ottimizzare gli spostamenti. Girare a piedi sarebbe impensabile ed il prezzo richiestoci è onesto. Lasciati i bagagli all’Hotel Orient Star iniziamo la perlustrazione della città lungo ampi e luminosi viali. Prima tappa la Fabbrica della Carta dove assistiamo alla linea produttiva artigianale, a partire dalla pianta fino al prodotto finale; tutti i macchinari sono mossi dall’acqua con ingegnosi meccanismi in legno e le lavorazioni avvengono ancora a mano per tramandarne la tradizione. Passiamo poi a ciò che resta dell’Osservatorio Astronomico di Ulugh Beg. Questo illuminato studioso ed astronomo del XIV-XV secolo realizzò un edificio grandioso con un enorme sestante che permetteva di identificare posizione ed altezza delle stelle; a causa della sua scienza ritenuta antireligiosa fu ucciso ed il suo osservatorio distrutto. Proseguiamo verso l’area archeologica della collina Afrosiab. Dalla Moschea Khazret-Khizr, eretta nel XIX secolo sulle fondamenta di un antico tempio pagano, si gode un ottimo panorama sulla città; qui troviamo una delle più ricorrenti e caratteristiche sagome architettoniche del paese: le colonne lignee. Queste strutture portanti a sezione cilindrica affusolata e riccamente intarsiata ricavate da un unico tronco, sono poste a sostegno di soffitti e porticati detti “talar”. All’interno del piccolo Mausoleo di Khodja Danyar, realizzato in mattoni a vista, si trova un curioso lunghissimo sarcofago ricoperto da un drappo verde ricamato in oro che conterrebbe le spoglie del Santo, uno dei primi a divulgare l’Islam a Samarcanda e che la leggenda vuole non smetta mai di crescere. Arriviamo poi alla Moschea di Bibi Khanum del XV secolo, superbo esempio della grandiosità delle opere dell’epoca e da lì, attraverso il Bazar delle Spezie, alla Necropoli di Shakhi-Zinda, all’interno della quale si trovano oltre trenta tra moschee, madrase e mausolei con cupole, facciate e iwan splendidamente decorati ma anche semplici ed essenziali tombe. Va detto che i musulmani accettano la morte quale volere di Allah e credono in un aldilà di pace e serenità; vengono accompagnati nell’ultimo viaggio avvolti nel lenzuolo bianco indossato, per chi ha potuto, durante il pellegrinaggio alla Mecca. Le normali tombe sono spesso a forma di culla, il luogo in cui inizia la vita, ed il corpo del defunto è deposto nella terra, generatrice di nuova vita. Il successivo Complesso Gur-I Amir o Mausoleo di Tamerlano fu fatto erigere dal famoso condottiero turco-mongolo morto nel 1405 durante una campagna militare. A differenza del presunto predecessore Gengis Khan, oltre che spietato conquistatore e signore di una immensa area geografica che abbracciava l’Asia Centrale, la Persia e l’India, fu anche il protettore di uomini colti ed artisti e a lui si devono la maggior parte degli spettacolari edifici dell’Uzbekistan. Il complesso comprende il mausoleo, una madrasa ed una khanaka (luogo di ritiro spirituale) e la sua imponenza fu di ispirazione per altre meraviglie architettoniche sia in Uzbekistan che in India. Un’ultima breve visita alla Moschea di Oq Saroy, un ex mausoleo del XV secolo il cui esterno in mattoni nasconde mirabili decorazioni interne ci riporta verso l’albergo. Il buon Umi’d ci ha lasciato per ultimo il Registan, la fantastica piazza contornata su tre lati da enormi madrase con le loro torri, gli alti portali ed i rivestimenti in maioliche. Ulugh Beg (l’astronomo) fece costruire qui la prima madrasa, rimasta tra le più importanti ed imponenti di Samarcanda, dove vennero ospitati i migliori astronomi del tempo, cui fecero seguito a distanza di due secoli le altre due a formare un luogo unico al mondo. Nel momento più fulgido della storia uzbeka legata alla Via della Seta, la piazza era posta al centro del crocevia di sei importanti strade e quindi teatro di un grande mercato, di manifestazioni, rappresentazioni, parate militari ed esecuzioni. E’ a dir poco emozionante ma ci soffermiamo poco, lasciandoci il lusso di ritornare più tardi e contemplarla con le luci della sera. Così, dopo un meritato relax in albergo, ritorniamo al Registan. La piazza è piena di gente, chi in attesa dello spettacolo “Suoni e luci”, chi semplicemente a passeggiare o giocare con i figli. La rappresentazione è impressionante, per le musiche e per i giochi di colore. Al termine resta il sereno piacere di camminare intorno agli edifici con il naso all’insù, osservando l’opera costruttiva, mettendo a fuoco i dettagli, cercandone le peculiarità. Dopo un’intera giornata a più di 40°, ceniamo appagati nel cortile interno di un locale che sembra un’officina, rinfrescati da un ingegnoso sistema di “condizionamento” realizzato con bottiglie di plastica artigianalmente microforate collegate ad una canna dell’acqua. Io e Paola brindiamo al mio super compleanno con ottima birra fresca uzbeka.

L’indomani il nostro taxista Umi’d ci conduce verso i rilievi montuosi a sud della città. La strada è tortuosa e sconnessa e scorre tra strane formazioni rocciose ed un torrente con acque gelide. Giunti al passo che valica la montagna, un piccolo mercatino dove si vendono frutta essiccata, formaggi e spezie fa da contorno ad un grande monumento con la scritta “Samarqand”. Stiamo andando verso Shakrisabz, la città natale di Tamerlano, anticamente circondata da una cinta muraria che conteneva moschee, giardini e palazzi. Della città originale oggi resta solo parte del gigantesco portale alto oltre 50 metri del sontuoso Palazzo Ak-Saray (Palazzo Bianco) decorato con superbe ceramiche, le cui ciclopiche dimensioni sono inimmaginabili finchè non vi si giunge a ridosso; solo la fantasia ed una ricostruzione in un piccolo museo possono far lontanamente capire la sua enormità. Da lì un grande viale supera una bella statua del grande condottiero e conduce all’interno dell’ampio complesso dove si trova la Moschea Kok-Gunbaz con le sue cupole azzurre e la Necropoli Darus-Siadat voluta da Tamerlano per la sua famiglia e per se stesso, anche se alla sua morte i suoi seguaci decisero di deporne le spoglie a Samarcanda. Nel pomeriggio, ritornando poi in città, ci fermiamo prima presso una fonte che sgorga dalla montagna a dissetarci con fresca acqua di sorgente e poi in un ristorante dove pranziamo con una buona zuppa di verdura e carne di pecora. La giornata termina con la magnetica attrazione del Registan e con una frugale cena in un piccolo locale semivuoto adiacente alla grande piazza; frugale non per mancanza di appetito ma perché siamo usciti dal locale pagando solo il bere dopo più di un’ora e mezza di attesa senza che ci avessero ancora portato nulla da mangiare.

Bukhara, città dalle mille cupole

Oggi è il compleanno di Paola. Il treno veloce per BUKHARA, distante circa 220 km, parte alle 09:50 ed in meno di due ore ci porta a destinazione. La bella stazione è ad una ventina di km dalla città. Fa un caldo bestia che in giornata oscillerà tra i 44° ed i 47°. In taxi arriviamo al Kukaldosh Hotel proprio in centro dove, a differenza di Samarcanda, si trovano i maggiori punti di interesse. Da quello che abbiamo già potuto vedere ci sarà da stare di più a bocca aperta che chiusa. Decidiamo in prima battuta di raggiungere in taxi i siti più lontani, lasciando a domani le visite da potersi fare a piedi. Ci portiamo quindi al Complesso di Bakha Ad-Din Nakshband, del XIV secolo, dal nome del fondatore della confraternita religiosa dei “dervisci”, monaci devoti al distacco dai beni materiali che, ruotando vorticosamente su se stessi, raggiungono una sorta di trance che li avvicina a Dio. All’interno del complesso si trovano diversi mausolei tra cui la tomba del religioso, segnalata, come per tutti i santi, da un alto palo in legno sul quale sventola un ciuffo di crini di cavallo ed una vasta khanaka (ricordate cos’è?) composta da una grande sala centrale a cupola dedicata alla meditazione, al canto ed alla danza attorno alla quale si sviluppano le stanze dei dervisci. Proseguiamo poi con il dismesso e decadente Complesso Reale Sitorai-Mokhi-Khosa, residenza degli emiri del 1800-1900 ispirata all’architettura europea e russa, che comprendeva una grande vasca, palazzi, harem ed uno zoo con elefanti e felini; finiamo col Complesso di Chor Bakr costituito da una madrasa, da una khanaka e da una moschea la cui la particolarità è che il muezzin, nonostante la presenza del minareto, chiama i fedeli alla preghiera rivolgendosi verso il portale della khanaka che ne amplifica la voce. Alle 17:00 siamo in albergo, letteralmente disidratati dal caldo. In pochi minuti beviamo tre litri di te al limone e ci infiliamo in doccia. Usciamo di nuovo a piedi alle 19:00. La temperatura si è abbassata ma mica poi di tanto. Passeggiamo trovando la città inaspettatamente molto bella, aldilà degli edifici storici. Raggiungiamo la zona del Poi-Kalyan, splendido complesso formato da due madrase e da una moschea del XVI secolo. Il vicino grande minareto del XII secolo decorato con una mirabile disposizione di mattoni, la cui altezza supera i 45 metri, è stato il simbolo della città; nell’antichità i fuochi accesi sulla sua sommità guidavano le carovane come un faro nella notte. Ceniamo con plov (il piatto nazionale a base di riso con carne, verdura e spezie) e manty (involtini di pasta cotti al vapore ripieni di carne macinata, cipolla e pepe nero) senza farci mancare la buona birra locale per un brindisi a Paola. Dalla piccola terrazza del ristorantino ammiriamo il tramonto che cala sulla piazza dominata dall’imponente presenza del minareto. Mentre il chiarore del giorno si affievolisce, le luci che illuminano il complesso si fanno sempre più presenti, accendendo di caldi colori gli edifici. Già questa scena basterebbe per dare un senso a questo viaggio.

Colazione esagerata per affrontare la lunga giornata a piedi. Al contrario del nostro standard di viaggiatori fai-da-te, abbiamo deciso, con il consiglio e l’aiuto della ragazza della reception, di affidarci ad una guida locale che parla italiano; il costo non è eccessivo e questo ci permetterà di ricevere ottime informazioni sia storiche che contemporanee. Parlare con la gente, dai taxisti alle persone comuni incontrate per strada, è sempre fonte di una conoscenza che arricchisce e completa tutto quello che mai si possa trovare su un libro. Shohsa è una ragazza gracile e molto gentile che parla un ottimo italiano. Un leggero velo le copre la testa, in Uzbekistan, nonostante sia a maggioranza islamica, non si trovano i tipici aspetti distintivi dell’abbigliamento delle donne musulmane. Inoltre nel Paese, come già potuto sperimentare, si produce buon vino e birra, dei quali se ne fa largo consumo unitamente all’immancabile vodka russa. Alle 09:00 siamo già in cammino.
Il giro ci porterà in otto ore a visitare tutta Bukhara. Unici intermezzi lo svenimento di Shohsa dovuto al caldo (un taxista ci dice che il termometro della sua auto segna 52° e anche se si fa fatica a credergli posso dire che fa un caldo terribile…) ed il pranzo ristoratore in una sala climatizzata di un piccolo bar. E così, seguendo Shohsa e bevendo come cammelli, visitiamo dapprima la moschea ed una delle due madrase del Poi-Khalyan, poi la Moschea Magoki Attori, la più antica di Bukhara, che fronteggia la piazza che rappresenta il cuore della città ed il cui impianto originario risale al X secolo. Le successive Madrasa e Khanaka Nadir Divan-Begi sono affacciate su una grande vasca d’acqua detta Labi-Khauz. Vale la pena citare che questa khanaka è particolare in quanto su un frontone spicca un mosaico in cui due uccelli trasportano tra gli artigli un maiale volando verso il sole, rappresentato con volto umano; gli uccelli (detti simurgh) stanno a simboleggiare l’accesso alla vita suprema, il sole la vita eterna e la rinascita mentre il maiale, animale impuro per l’Islam, viene portato via per purificare la terra. Cammina, suda, bevi e cammina, arriviamo alla Cittadella dell’Ark, la fortezza circondata da poderose mura sede nei secoli dei regnanti di Bukhara, in parte ricostruita dopo i bombardamenti russi del 1920. A tutti gli effetti una piccola città nella città, era autosufficiente disponendo al suo interno di ogni struttura civica, politica e militare. Si prosegue verso Chasma-Ayub, una costruzione in mattoni con una tipica cupola a cono risalente al XIV secolo eretta nel luogo dove il Profeta Giobbe battè il suo bastone a terra e fece così sgorgare una sorgente d’acqua il cui potere curativo ha reso il luogo ancor oggi meta di pellegrinaggio. Finiamo al Mausoleo di Ismail, un solitario e splendido edificio cubico in mattoni con cupola semisferica risalente al IX-X secolo, giunto fino a noi per essere stato protetto dall’invasione turca seppellendolo totalmente nella terra fino al 1930 quando venne scoperto da un archeologo. Anche qui il simbolismo è elemento architettonico: il cubo rappresenta l’uomo e le cose terrene, la cupola il sole ed il Divino. Giornata impegnativa vero? Ma non per noi. Rientrati in camera, dopo una doccia abbiamo ancora voglia di raggiungere a piedi la Madrasa Chor-Minar, non lontana dall’albergo. E’ una “passeggiata defaticante” dove ci prendiamo il tempo per osservare la gente impegnata nelle faccende di fine giornata, per sbirciare curiosi all’interno delle case attraverso le porte aperte, per invidiare i giochi dei bambini che si rinfrescano tuffandosi in una vasca d’acqua. E per ammirare quell’ennesima piccola e semplice madrasa in mattoni, così diversa dalle altre, con le quattro torri cilindriche disposte agli angoli e le cupole azzurre che, irrispettosamente, ci ricordano enormi fiammiferi. Ed infine ci lasciamo andare ad una buona cena in un buon ristorante con buona birra, nonostante avessero finito plov e manty.

Khiva, la città museo

Ieri abbiamo trovato un passaggio in auto per coprire i 470 km tra Bukhara e KHIVA, la prossima tappa. La strada corre nel sud-ovest del Paese lungo il vicino confine con il Turkmenistan. Il “taxista” è un uomo sintetico, non perché è di plastica ma perché non dice una parola. Come la maggior parte della gente, non conosce altro che il russo e l’uzbeko e noi sappiamo solo dire rakhmat e sorridere come idioti. Comunque a gesti riusciamo ad imbastire una specie di comprensione reciproca. Fuori dalla periferia sparisce tutto. Basta case, basta ombra. Ma resta un caldo torrido. L’auto è buona, con aria condizionata che facciamo subito spegnere perché non ci va di prenderci un colpo ogni volta che scenderemo. Il primo terzo di strada è su un pessimo asfalto che viene affrontato in due modi diversi: o a manetta o quasi fermandosi. Poche soste, tra cui il macchinoso rifornimento di gas, ci permettono di sgranchire schiena e fondoschiena e di scattare qualche foto non mossa. Verso l’ora di pranzo riusciamo a capire che il tipo ha fame e vorrebbe fermarsi a mangiare. Buona idea. Entriamo così in una stazione di servizio che, come dice la regola, essendoci parcheggiati fuori i camion significa che si mangia bene e si spende poco. Bello sedersi al tavolo e guardarsi attorno, meno bello non avere la minima idea di cosa stiamo ordinando perché il “menu” dei pochi piatti disponibili è scritto in cirillico e senza immagini. Unica cosa certa è che la Coca-Cola non manca. Pranziamo con …boh… ma è buono ed i pomodori in insalata sono ottimi, anche se il taxista pesca dal comune piatto con le mani. La pessima strada si trasforma presto in una bella superstrada a 4 corsie tra panorami desertici ed in breve arriviamo ad Urgench, ad una trentina di km da Khiva e sede dell’aeroporto di zona, che attraversiamo velocemente girando a destra e a sinistra ad incroci privi di segnaletica. Da quando siamo arrivati in Uzbekistan ci viene spontaneo chiederci come avremmo mai potuto orientarci da soli guidando lungo strade senza indicazioni per raggiungere indirizzi senza informazioni. Un po’ restii ad affidarci ai navigatori e sentimentalmente legati alle cartine stradali, lo scoglio della lingua non ci avrebbe certo aiutati.

Alle 15:00 eccoci a Khiva. Incredibile. Unica. Questo viaggio è un crescendo di emozioni e di stupore. La fama secolare di Samarcanda ha nascosto luoghi altrettanto magnifici se non di più. E Khiva è uno di questi. La storia pone le sue origini tra il VI e il V secolo A.C. come caravanserraglio fortificato lungo le rotte commerciali tra Oriente ed Occidente; la leggenda o la fede la legano al figlio del Profeta Noè che, fermatosi per la notte nel deserto, ebbe un sogno ed al risveglio decise di costruire in quel luogo una fortezza con un profondo pozzo che potesse dissetare gli abitanti ed i viandanti. L’antico nucleo centrale della città, detto Ichan-Kala, è circondato da due km di possenti mura in argilla alte otto metri, interrotte da enormi bastioni sporgenti semicircolari e da quattro monumentali porte d’accesso turrite dette “darvasa” poste ai quattro punti cardinali. Lungo le pareti inclinate delle mura è molto facile individuare numerose tombe dal tipico aspetto a forma di culla. L’albergo che ci attende è il Meros B&B, direttamente all’interno della cittadella. Ci troviamo in un puro concentrato di storia e i siti da visitare sono decine; quindi da dove cominciare? Cartina in mano si parte. La grande Moschea Jameh è un buon inizio. Risalente al X secolo, ne indica la posizione un imponente minareto in mattoni alto oltre trenta metri con fasce turchesi orizzontali smaltate. L’enorme sala della preghiera (55 x 46 metri) è una foresta di colonne di legno intarsiate a sostegno del soffitto anch’esso in legno. La moschea è un tipico esempio dell’arte e della tecnica costruttiva dell’epoca: la struttura portante esterna dell’edificio poggia su mattoni cotti che sono resistenti e meno attaccabili dalle infiltrazioni provenienti dal terreno, prosegue con massicce tavole di legno che essendo elastiche meglio assorbono le onde sismiche e sale con mattoni crudi. Per lo stesso motivo antisismico i soffitti e le colonne sono in legno, queste ultime isolate dalle basi in pietra su cui poggiano da lembi di pelli di cammello. La luce filtra attraverso due ampi lucernari e l’acustica è garantita da ingegnosi condotti nelle pareti che distribuiscono uniformemente la voce del muezzin in tutta la sala. Dopo questo buon inizio proseguiamo girovagando tra i vicoli. L’Ichan-Kala è anche abitata. Al suo interno vive una comunità che occupa modeste abitazioni e laboratori artigianali posti in particolare a ridosso del perimetro. Utilizzando una rampa saliamo sulle mura e ne seguiamo una buona parte dell’ampio camminamento, un tempo percorribile anche a cavallo. Attraverso i merli delle mura e le feritoie delle torri si gode il panorama esterno, mentre basta gettare lo sguardo verso l’interno per ammirare le meraviglie della cittadella. Lungo il suo sinuoso percorso merlato si possono riconoscere i rivestimenti in terra e paglia dei mattoni ed i resti di piastrelle verdi e bianche delle decorazioni. Arriviamo senza rendercene conto alla torre di guardia della Fortezza Kunya-Ark del XVII secolo che si trova dentro la cittadella lungo le sue mura occidentali e dotata di una propria porta imponente tanto quanto quelle della città. Come tutte le fortezze, era un mondo autosufficiente dove il Khan, il sovrano che vi risiedeva, trovava ogni necessità. A fianco della fortezza si trova la Madrasa Muhammad Rakhim Khan II a creare una piazza dove avvenivano parate militari, manifestazioni ed impiccagioni. Ceniamo dentro le mura in un bel ristorantino e passeggiamo fino a tarda ora tra vicoli deserti rischiarati da una calda luce ambrata e minareti illuminati ad arte.

Mamma mia che caldo… Anche oggi 45° e c’è da camminare parecchio dentro e fuori la cittadella. La giornata è segnata dalle tappe nei vari siti alternate a quelle nei chioschi che vendono acqua e bibite; rapide soste nei pochi metri quadri d’ombra ci consentono un attimo di riposo e di idratarci. Il giro tocca molti punti: la Moschea Ak o Moschea Bianca, tanto semplice quanto ricca di significati simbolici e dal patio esterno sorretto da colonne in legno; le piccole Moschee Yar Muhammad-Divan e Bogbonli del XVIII e XIX secolo; il Palazzo Tash Khaul della metà del XIX secolo caratterizzato da un harem e da un cortile interno nel quale il Khan riceveva le delegazioni entro le yurte, le tipiche tende dei nomadi asiatici, montate su piattaforme rialzate; l’imponente Madrasa Mukhammad Amin-Khan, anch’essa della metà del XIX secolo e la più grande di Khiva, con un importante portale di ingresso, quattro torri cilindriche dalle cupole smeraldo ai quattro angoli e collegata tramite un ponte in legno al Minareto Kalta-Minor, splendido, gigantesco, totalmente rivestito in mattoncini turchese e smeraldo, rimasto incompiuto e che, se terminato, con la sua base di 14 metri di diametro sarebbe stato il minareto più alto al mondo; le due grandi ottocentesche Madrase Qutlugh Murad Inaq, con una cisterna per la raccolta dell’acqua nel cortile e Allah Kuli Khan, posta in fronte alla prima e dotata di una ricca biblioteca; il Mausoleo di Pahlavan Makhmud, filosofo, poeta, artista e lottatore, maestro spirituale dei sovrani di Khiva e patrono della città, sepolto all’interno del suo laboratorio di pellame divenuto poi centro di un vasto luogo di culto intorno al quale vi sono numerose tombe; la Madrasa Islam Khodja del 1900 con il suo minareto di 57 metri, il più alto dell’Uzbekistan, dedicata all’uomo che, viaggiatore e filantropo, fece costruire in Khiva un ospedale, una farmacia ed un ufficio postale; il trecentesco piccolo Mausoleo Sayyd Alavuddin dalla doppia cupola, realizzato interamente in mattoni; il Tim (bazar coperto da cupole) e il Caravanserraglio, realizzati a metà del XIX secolo per accogliere i mercanti e le loro merci in un grande edificio su due piani, con oltre cento stanze al piano primo e magazzini al piano terra. Abbiamo anche voglia, tempo e forze per uscire dalla cittadella e dare una sbirciatina alla Moschea Said Niyaz Shalikarbai con l’ennesimo slanciato minareto. Rientriamo al B&B a metà pomeriggio. Abbiamo camminato tanto e nelle ore più calde, quindi siamo un po’ provati. Usciamo presto per cena portandoci all’esterno dell’Ichan-Kala in un ristorantino addocchiato nel pomeriggio, dove brindiamo all’ultima sera in Uzbekistan con buon vino bianco locale, per poi rientrare tra le mura. Cosa ci manca? Ah si, perché non guardarci un film uzbeko in lingua originale sulla vita di Islam Khodja in un cinema all’aperto?

Eccoci all’epilogo di questo viaggio.

Con un simpatico taxista che assomiglia all’attore Jackie Chan andiamo all’aeroporto di Urgench. Un volo interno della Uzbekistan Airways ci porta a Tashkent da dove proseguiamo con Aeroflot per Mosca e poi Milano.

Ringraziamo chi ha resistito fino alla fine della lettura.

Game over.

Ci permettiamo di consigliare, a chi volesse intraprendere un viaggio individuale in Uzbekistan, la guida “BENVENUTI IN UZBEKISTAN” di Stefano Russo.

 
Testo di Marco Ronzoni – foto di Paola Bettineschi e Marco Ronzoni
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