Uzbekistan, il fascino complesso dell’Oriente reale

Resoconto di dieci giorni di viaggio, muovendosi autonomamente tra Tashkent, Samarcanda, Bukhara e Khiva
Scritto da: mnz86
uzbekistan, il fascino complesso dell’oriente reale
Partenza il: 17/08/2016
Ritorno il: 27/08/2016
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
Ci sono luoghi che, in un certo senso, conosciamo già prima di raggiungere: luoghi immortalati e raccontati milioni di volte, in cui i viaggiatori fanno veloci sopralluoghi con la certezza che le aspettative non saranno deluse e che tutto sarà – come risaputo – “incredibile” e “straordinario”.

E poi ci sono le tante altre grandi macchie di colore sulla cartina, le grandi periferie del villaggio globale che per noi non hanno ancora un senso. Luoghi misteriosi, su cui nemmeno gli stereotipi gettano un po’ di luce: che facce hanno gli abitanti? Come sono fatte le strade, le case? Soprattutto: questi luoghi hanno delle storie da raccontare? E sono in grado di trasmettere qualcosa a noi, cacciatori dell’esotico con una dipendenza per le emozioni forti e chiare?

Mentre ammiriamo il Registan, la grande piazza monumentale di Samarcanda su cui si affacciano maestose le antiche moschee e le antiche madrasse fittamente decorate, si avvicina a noi Mourad, uno studente universitario del posto che sta per trasferirsi in Corea del Sud per terminare gli studi e che ama praticare l’inglese con i viaggiatori.

“Allora – ci chiede dopo i convenevoli iniziali, quasi con una certa ansia patriottica – Samarcanda è meglio o peggio di come ve la immaginavate?”

L’Uzbekistan ci ha molto colpito, Mourad, e la piazza è una delle più grandiose mai viste. Ma la verità è che non sappiamo rispondere, perché prima di arrivarci l’Uzbekistan non eravamo nemmeno in grado di immaginarcelo.

Certo, sapevamo che in Uzbekistan c’è Samarcanda, la celebre città sulla via della Seta che fu casa di Tamerlano e che incantò Marco Polo; ma Samarcanda è per noi un nome che, più che rimandare ad un luogo reale, evoca un mito fuori dallo spazio e dal tempo: come Atlantide, come Marte. Ed avevamo sfogliato la guida, ed avevamo intravisto qualche monumento, e avevamo raccolto qualche informazione qua e là giusto per capire come sopravvivere da soli e senza aiuto… Ma tutto il contesto, il dietro le quinte, la quotidianità, ed anche il passato oscuro eppure straordinariamente ricco, ci erano completamente ignoti.

Ed il bello del viaggio è stato proprio l’affacciarsi su tutto questo.

Dieci giorni, il tempo della nostra permanenza in Uzbekistan, sono giusto il necessario per percepire quanto questi luoghi apparentemente appena popolati siano in realtà carichi di una storia potente e di un groviglio di contraddizioni al di là della nostra comprensione.

Quello che segue vuole quindi essere un semplice racconto in cui le impressioni di viaggio si alternano ad alcuni consigli pratici, utili per orientarsi in un paese difficile ma, allo stesso tempo, inaspettatamente facile e tranquillo da visitare.

“BENVENUTI” IN UZBEKISTAN

Visto da fuori, l’Uzbekistan non è un paese così accogliente e rilassato da visitare. Ma non bisogna farsi spaventare.

Per prima cosa, è necessario richiedere con anticipo il visto all’ambasciata di Roma e la cosa non sembra essere proprio una formalità: l’Uzbekistan è un paese con cui la maggior parte degli stati non è fiera di avere relazioni, e è uno dei paesi in cui le violazioni dei diritti umani sono più profonde e diffuse. Per ottenere il visto turistico, ci siamo quindi rivolti alla filiale italiana di un’agenzia viaggi specializzata che – dopo alcune settimane – ci ha restituito i passaporti con appiccicato un grosso visto, su cui un funzionario aveva corretto a penna le date di ingresso e uscita.

Per il volo di andata da Mosca, tappa precedentemente del nostro viaggio, ci siamo invece “affidati” ad Uzbekistan Airways. Uzbekistan Airways, la compagnia di bandiera, ha una particolarità: non permette infatti ai residenti all’estero di acquistare autonomamente un biglietto online sul sito (e se ci si prova si riceve come risposta un minaccioso messaggio di errore in cirillico). Abbiamo però aggirato il problema acquistando il biglietto su LastMinute.com, e (dopo aver provato in ogni modo a contattare la compagnia per avere rassicurazioni, ma senza successo), ci siamo presentati al check-in dell’aeroporto di Mosca con la banale stampa della pagina di conferma di LastMinute.com in italiano. Anche in questo caso, tuttavia, tutto è comunque andato per il meglio.

Siamo atterrati nel pomeriggio all’aeroporto Internazionale di Tashkent, su un aereo carico di migranti Uzbeki che dalla Russia tornavano in patria. Gli emigranti, cittadini nati e cresciuti in Uzbekistan, sono guardati da queste parti con sospetto quando tornano “a casa”: si teme possano essere venuti in contatto con idee estremiste, o che possano essere foreign fighters o islamisti sotto mentite spoglie, o che siano contrabbandieri o – chissà – possibili agenti del cambiamento. Eppure, in un’economia chiusa e asfittica come questa, l’emigrazione è una valvola di sfogo preziosa che permette di mantenere un’apparenza di pace sociale e di far entrare capitali e merci altrimenti introvabili.

Scendiamo dall’aereo e saliamo sull’autobus che ci porta all’area arrivi ed al controllo passaporti. Veniamo quindi scaricati in una specie di corridoio affollato, chiuso sul fondo da quattro postazioni per i controlli di cui una per gli stranieri (che, da queste parti, significa soprattutto russi e cittadini delle altre repubbliche ex sovietiche). Fa un gran caldo: la gente si affolla, alcuni provano a superare la fila, altri si innervosiscono. Davanti, alcuni bambini corrono avanti e indietro con la massima spensieratezza, inseguendosi e schiamazzando. E la fila non si muove, ma si ingrossa sui lati mentre la tensione sale fomentata dal gran caldo e dal lungo viaggio. Poi qualcosa “finalmente” si muove. Alle spalle delle cabine dei gendarmi, bighellonano alcuni personaggi dal ruolo indefinito, l’aria tipica dei “faccendieri”. Ad un certo punto, uno di loro solleva un cartello con la bandiera americana stampata gridando qualcosa, ed una persona, uno yankee, risale come se nulla fosse una fila da un’ora abbondante di attesa e si posiziona in pole position per il controllo. Benvenuti nel paese dove tutto ha un prezzo!

Superato finalmente indenni il controllo passaporti, ritiriamo gli zaini che giacciono ormai soli sull’unico nastro trasportatore ormai fermo. Ma non è ancora finita: è infatti necessario passare dalla dogana. Il “niente da dichiarare” qui non è contemplato, ed il motivo è presto chiaro: sul nastro dei raggi X notiamo infatti una lunga serie di scatole di cartone, pacchi di tela e scotch, addirittura copertoni per auto ed altre merci in imballaggi di fortuna che sono state importate dai passeggeri. Tutto viene controllato e verificato, gli scatoloni sigillati aperti, e l’elenco di quanto “importato” – valuta compresa, e la gente prima di noi conta anche le monete – viene dettagliato in duplice copia su un modulo apposito, che anche noi compiliamo, che viene poi analizzato e timbrato da un funzionario.

Superato quest’ultimo check-point, finalmente, usciamo. Ad aspettarci, non la solita area arrivi con agenzie di noleggio, money exchange e ufficio informazioni, ma direttamente il parcheggio del piccolo aeroporto. Qui, i tassisti abusivi negoziano con estrema calma con le guardie all’ingresso la possibilità di rivolgersi per primi ai rarissimi occidentali.

Veniamo quindi approcciati da un tassista anziano ed esperto, che conosce le tre frasi di rito in inglese e mostra di conoscere il posto dove siamo diretti e cioè l’Art Hostel, unico ostello aperto in città (munito anche di confortevoli camere doppie). Ci accordiamo senza tanto discutere sul prezzo del taxi, in linea con le aspettative (5 dollari), e saliamo in macchina. Il tassista non parla bene l’inglese, ma solo il russo (come tutti gli over 30 della città), ma ci tiene a dirci che i suoi figli invece lo parlano già bene. Ci mostra la stazione, il Grand Hotel della città (una doppia costa quasi 700 dollari), il luogo dove fanno il miglior plov (piatto nazionale uzbeco, riso pilaf con pezzi di montone, carote e altri ingredienti a piacere). Passiamo di fronte alla borsa del cotone (monocultura nazionale) e delle materie prime, con le quotazioni aggiornate che scorrono su led illuminandosi di rosso o di verde, e poi davanti a qualche grande ministero, a un paio di grossi Hotel e a un centro commerciale con multisala.

Una volta rotto il ghiaccio, ecco quindi il tassista introdurre il tema valutario. Il cambio ufficiale – ci mostra sul telefono – prevede 2.900 SOM per dollaro. Ma lui ci può dare, per ogni dollaro, 4.500 SOM. E ce li può dare anche utilizzando le rare e preziose banconote di taglio “grosso” da 5.000 SOM, e non con le banconote standard da 1.000 SOM che si trovano al bazar e che obbligano la gente a girare con intere buste della spazzatura piene di contanti. Per dimostrarlo, apre il vano portaoggetti e – con fare da consumato gangster – estrae un mazzo di banconote tenute insieme con un elastico.

Decliniamo, anche se l’offerta sembra allettante. Abbiamo ragione, perché una volta arrivati all’Art Hostel sono sufficienti pochi minuti per cambiare il denaro. Ed è così che, con la massima fluidità, la prima banconota da 100 dollari portati da casa (in Uzbekistan non esistono bancomat e quei pochi sono vuoti e comunque funzionano al cambio ufficiale, quindi è necessario portare una scorta di dollari) ci frutta sul mercato nero 6.200 SOM, oltre il doppio rispetto al cambio governativo ufficiale. Nel tempo necessario per preparare un tè, ci troviamo quindi con il nostro bel mazzo da oltre 130 pezzi da 5.000 stretti da un doppio elastico in mano e cominciamo a familiarizzare con l’idea di girare con un rotolo di banconote in tasca, come da prassi locale.

TASHKENT: BOULEVARD, BAZAR E PARANOIA

Tashkent, la capitale dell’Uzbekistan, è una città moderna di impianto sovietico con grandi viali alberati affiancati da condomini di 5 o 6 piani con le pareti coperte di mosaici sbiaditi e piccoli balconi racchiusi tra fitte grate di ferro. Il centro economico politico e amministrativo ha una sua dimensione monumentale e un’apparenza moderna e pulita: una vetrina per il paese, che ama dipingersi come tranquillo ed in crescita grazie alla guida del grande leader che mantiene l’ordine e l’apparenza di una pace sociale ragionevolmente ambita dalla popolazione, considerando che sul confine sud si agita l’Afghanistan.

Tashkent è un luogo, per chi lo affronta con uno sguardo “europeo”, per nulla “esotico”: l’urbanistica imposta negli ultimi decenni è quella sovietica, con ampi viali sovradimensionati che tagliano la città fin nel cuore ed insediamenti residenziali posti a blocchi perpendicolari. Il traffico è relativamente scarso e ordinato, con rari sfoghi di clacson e un gran numero di semafori con il timer. E gli ampi boulevard, 2-3 corsie per senso di marcia, sono percorsi da automobili compatte simili tra di loro, tutte di marca Daewoo e Chevrolet: sono queste le uniche automobili accessibili per i locali, in quanto prodotte in Uzbekistan grazie a joint venture con il governo locale e quindi risparmiate da problemi valutari e dazi che limitano pesantemente le importazioni.

Cominciamo ad esplorare la città, fin dalla prima sera, provando ad utilizzare la metropolitana. E la metropolitana si rivela a suo modo un’esperienza che ci introduce ancora di più nel clima locale, in quell’atmosfera di paranoia e di tensione latente – quasi impercettibile, ma in fondo sempre presente – che caratterizza soprattutto la capitale. All’imboccatura delle scale, incontriamo la prima guarda che ci chiede di aprire lo zaino e finge di controllarlo. Acquistiamo il gettone da un’addetta, e ci avviciniamo ai tornelli, dove incontriamo altre due guardie con metal detector. Queste ultime, evidentemente annoiate e incuriosite dalla nostra presenza, danno un’occhiata allo zaino e controllano anche i passaporti: si divertono a leggere i nomi, e controllano scrupolosamente le tessere di registrazione compilate dall’ostello (ogni struttura alberghiera rilascia una sorta di “prova di passaggio” che va esibita ad ogni controllo, fino all’uscita del pase: se queste schedine mancano o sono incomplete, si risulta teoricamente illegali sul territorio e si possono avere problemi). Superiamo anche questo controllo, ed arriviamo quindi al binario: un binario quasi deserto, con pareti e soffitto monumentale (che è proibito per ragioni di sicurezza fotografare!), dove però incontriamo l’ennesimo soldato che passeggia avanti ed indietro con fare malinconico. Facendo due conti, ogni fermata è presidiata da almeno cinque poliziotti a cui si aggiungono, in media, due o tre altri inservienti impegnati nella biglietteria, nelle pulizie o nel controllo della scala mobile. La minaccia dell’instabilità e del terrorismo islamico, che qui ha colpito agli inizi degli anni 2000 con alcuni attentati di dubbia matrice cui il governo ha risposto con la dura repressione di ogni forma di dissenso, è d’altra parte il jolly che oggi giustifica ogni tirannia, ogni intrusione ed ogni assurdità, a partire dal mantenimento di un apparato burocratico e militare/poliziesco evidentemente sovradimensionato.

La destinazione del nostro primo viaggio in metropolitana è una zona non lontana dal bazar dove, dando ascolto alla mappa, sembrerebbero esserci una specie di “centro” con addirittura un parco e forse qualche locale: una zona centrale e viva in cui cominciare a fare pratica con il folklore locale, pensiamo noi. E invece no: usciti dalla stazione, ci troviamo sull’orlo di un gigantesco incrocio tra due grandi tangenziali che si infilano una sotto l’altra. Perché Tashkent è una città senza piazza: è una grande pista stradale, fatta perché la gente scorra veloce senza soffermarsi troppo e senza mai sentirsi a casa.

Cerchiamo un luogo preciso sulla guida, un “ristorante” che sulla guida è chiamato “National Food”. Chiediamo indicazioni a un poliziotto, che parla solo a gesti, e che ci indica un luogo imprecisato proseguendo lungo il viale. Camminiamo un po’ abbattuti per un po’ lungo questo largo marciapiede che fiancheggia la tangenziale. In un piccolo slargo, alcuni locali godono dell’aria fresca della sera mangiando gelato monogusto mentre un ragazzo con un vecchio costume da Mickey Mouse balla con i bambini un pezzo di musica dance. Ed alla fine, superato questo slargo, troviamo un grande locale con un’ampia veranda: una sorta di grande mensa con il pavimento lucido affollata di locali che mangiano.

Ci avviciniamo un po’ titubanti all’ingresso di questo luogo senza insegna, tra grandi calderoni a vista in cui ribollono cibi imprecisati, signore che stendono e tagliano noodles e grandi barbecue che arrivano fino in strada su cui sfrigolano spiedini di carne. E mentre siamo ancora in dubbio se provare o fuggire, si avvicina una giovane cameriera con grembiule e cappellino Nestlé. “English menu?”, chiediamo senza troppa convinzione. E lei ci fa capire con poche parole di inglese che un menù non esiste ma che non ci dobbiamo preoccupare, e quindi ci trascina con un’intraprendenza senza tempo, con una maestria da caravanserraglio, noi forestieri smarriti ed affamati, al cospetto dei calderoni.

Qui, in questo posto invaso dalle luci al neon da self service in cui i calderoni ribollono imperscrutabili, il pensiero corre per la prima volta a Marco Polo, che probabilmente ha vissuto una scena simile non molto lontano da qua diversi secoli orsono. E scopriamo, proprio davanti a questi calderoni, il calore della cultura carovaniera che ci rende in un certo senso fratelli, che supera la freddezza del dispositivo poliziesco e delle procedure di frontiera: la comune radice indo-europea, forse; o il risultato di secoli di scambio di idee e di merci, o qualcosa di più profondo ancora. Senza alcuna consapevolezza degli ingredienti, indichiamo un paio di vasetti di coccio in cui sono contenute quelle che sembrano essere delle zuppe, ed un paio di calderoni che contengono pezzi di carne e patate e una specie di poltiglia a base di ceci. Aggiungiamo una bottiglia di acqua presa direttamente dal frigo, ci sediamo ad un tavolo e attendiamo. Anche se niente si rivela in linea con le apparenze (la zuppa è in realtà un brodo in cui navigano enormi pezzi di montone, quelli che sembrano ceci sono in realtà una pappetta gommosa… ma va bene così, perché in fondo il malinteso è la base dell’intercultura), la cena è ottima e abbondante, gustosa come non ce ne capiteranno più, e ci costa in tutto 12 euro in due.

La mattina successiva visitiamo il bazar che, da queste parti, si chiama “Chorsu”. Si tratta di un complesso di strutture moderne in cemento, enorme ed organizzato nei dettagli ma allo stesso tempo vivo, vivace e molto frequentato. Niente a che vedere con i vicoli bui malsani e “pittoreschi” amati dagli Orientalisti; al contrario, un affascinante ed apparentemente sostenibile compromesso tra la modernità e l’ordine della struttura e l’antica pratica del mercato con le sue contrattazioni, le chiacchiere, le decine di venditori che vendono fianco a fianco la loro merce.

Al centro del complesso, una specie di grande auditorium circolare e ben areato ospita sotto l’alto soffitto a volta i macellai, i venditori di latticini (dotati di frigorifero) e quelli di sottaceti. Il piano superiore ospita invece un ballatoio dove stazionano osservando dall’alto il brulicare delle persone e delle trattative decine di venditori di canditi e frutta secca. All’esterno di questa struttura coperta sono ospitati in parte all’aperto ed in parte sotto tettoie o dentro piccoli edifici gli altri venditori, sempre suddivisi in settori contrassegnati da grandi cartelli che ricordano quelli degli ipermercati ed aiutano i clienti ad orientarsi. Ecco quindi susseguirsi un centinaio di banchi di verdura, tutti tra loro apparentemente simili e molto ordinati, con le venditrici con grandi abiti colorati; i fornai, che cuociono i loro prodotti direttamente in un grande forno ospitato in un’ala della struttura; i venditori di cereali con i loro grandi sacchi riciclati pieni di riso, pasta e legumi secchi; i ferramenta con lunghe file di viti e raccordi ben ordinati. In un’altra ala si trovano i venditori di abbigliamento ed accessori, i barbieri, gli orafi, le estetiste, le gastronomie. Ed all’esterno del recinto sorvegliato da guardie si sviluppano le botteghe di falegnami, fabbri, e bazzicano i cambiatori abusivi di valuta con i loro sacchi della spazzatura pieni di banconote.

La seconda tappa della giornata è costituita invece dalla piazza su cui si affacciano i principali edifici religiosi della città, tra cui una grande moschea recentemente inaugurata ed una Madrassa del XVI secolo. Si trova sulla cima di una piccola collina, ancora un po’ più lontana dal baricentro della città moderna, sempre che ve ne sia uno. Ci facciamo accompagnare da tassista abusivo che si propone all’uscita dal bazar: sono decine i ragazzi che si posizionano con l’automobile nei punti strategici o che girano per le strade attendendo che qualcuno alzi la mano per chiamare un’automobile. L’auto attraversa veloce la strada asfaltata che attraversa la “città vecchia” che effettivamente è vecchia, non antica, e che si presenta come un susseguirsi di muri senza finestre e portoni perché tutte le case si sviluppano all’interno, affacciate sui grandi cortili ombreggiati e molto probabilmente accoglienti. Ed arriviamo nel centro religioso della città dove vediamo la prima moschea e la prima madrasa costruite sullo stile delle grandi moschee e delle grandi più antiche e monumentali. Una copia pallida degli “originali” di Samarcanda e Bukhara, con il senno di poi; con l’occhio di chi incontra per la prima volta dal vivo questo genere di estetica sontuosa ed unica, una vista comunque di tutto rispetto.

La terza tappa, è il centro amministrativo e politico della città, nella zona della fermata della metropolitana Amir Timur nei pressi della grande piazza con al centro la statua di Tamerlano. Superata la piazza, in realtà un’enorme rotonda per auto circondata da enormi edifici (tra cui il razionalista Hotel Uzbekistan ed il più recente ed enorme auditorium in stile Uzbeko), ci dirigiamo verso il parlamento, che sorge all’interno di un parco in cui passeggiano pochi turisti uzbechi ben vestiti. Non ci si può avvicinare, guardie armate fermano i passanti ad alcune centinaia di metri. Osserviamo per un po’ il passeggio dei pochi turisti o funzionari locali, in questa specie di centro che più che un centro sembra un fondale per parate e visite di capi di stato, e rientriamo in ostello per prepararci al primo trasferimento interno: il viaggio in treno verso la mitica Samarcanda.

SAMARCANDA: UNA BELLEZZA ASSURDA

Esistono diversi treni per andare da Tashkent a Samarcanda: il mitico Afrosiyob, un treno Alta Velocità di importazione spagnola, che copre la distanza in un paio di ore (e che quaranta giorni prima del nostro viaggio risultava già esaurito), e lo Sharq, un onesto “Intercity” che copre la distanza in circa 3 ore e mezza.

I biglietti non possono essere acquistati all’estero, se non rivolgendosi a dei mediatori, ma la trafila per acquistarli in loco è se possibile ancora più complessa: è necessario presentarsi in stazione con ampio anticipo, preferibilmente giorni prima del viaggio, ed affrontare una breve ma estenuante fila in biglietteria. Bisogna quindi presentare alla scontrosa bigliettaia il passaporto, sperare che non sia necessario alcun tipo di interazione (la barriera linguistica qui è invalicabile) e infine pagare srotolando – per un importo pari a pochi dollari – un discreto rotolo di banconote. Abbiamo quindi scelto la soluzione del mediatore, contattando l’ostello con ampio anticipo che, per un piccolo sovrapprezzo, ha acquistato per noi i biglietti e ce li ha fatti trovare al nostro arrivo a Tashkent.

Arrivati alla stazione con ampio anticipo, superiamo un paio di livelli di controlli di polizia, attraversiamo un ampio atrio deserto e raggiungiamo il treno. Mostriamo il biglietto ad uno degli inservienti, che lo mostra ad altri inservienti, e dopo un breve consulto ci caricano su un vagone dove troviamo i nostri posti, e ci accomodiamo.

Il treno è accogliente, non troppo caldo, spazioso e addobbato con dei bei tappeti. Il viaggio in treno scorre relativamente veloce, mentre i televisori collocati al centro della carrozza alternano video musicali in cui alcuni ragazzi sognano di possedere una Chevrolet all’ultimo grido modificata in stile Gran Turismo (nel paese esisterà anche una sola fabbrica di automobili, ma le strategie per creare status symbol sono infinite) e un film melodrammatico in cui una giovane ricca donna impazzisce a causa del marito diventato improvvisamente distante e anaffettivo (spoiler: il marito ha un’altra!).

Giungiamo quindi a Samarcanda nel primo pomeriggio: usciamo dalla stazione e fendiamo il primo cordone di tassisti cercando di raggiungere la strada, dove le tariffe diventano più realistiche. Camminiamo per un po’ contrattando orgogliosamente sul prezzo e allontanando con aria offesa i primi tassisti che ci propongono un prezzaccio, finché non ci stanchiamo e saliamo su un Taxi che ci porta in pochi minuti al B&B.

Il B&B che abbiamo prenotato si trova sul confine tra la città vecchia ed i boulevard che costituiscono la città nuova. Diversamente da quanto accade normalmente, qui a Samarcanda quello tra città vecchia e nuova non è un confine simbolico o di stile architettonico ma è bensì costituito da un vero e proprio muro costruito in tempi molto recenti dall’attuale governo. Un muro, tanto brusco e arbitrario da interrompere le strade pre-esistenti, che è stato edificato proprio con l’obiettivo di tagliare il più possibile le comunicazioni e di nascondere le parti meno scenografiche della città dalle aree di rappresentanza: dai monumenti e dai grandi viali ordinati costeggiati da marciapiede e aiuole rigogliose di basilico (che qui è la principale pianta ornamentale). Ma anche un muro costruito, questa è l’impressione, per controllare, per separare, per rinchiudere la realtà lontano dallo sguardo e le persone nel loro privato.

Samarcanda, la città senza dubbio più nota dell’Uzbekistan ed antico centro pulsante della via della Seta, è la città maggiormente segnata – almeno nei monumenti – dall’eredità di Tamerlano. Tamerlano, condottiero e generale di etnia turca-mongola vissuto nel 1300, è il personaggio storico su cui il moderno e giovane Uzbekistan (uno stato che esiste soltanto da 25 anni) sta provando a creare gli Uzbeki. Nato proprio nei pressi di Samarcanda, Tamerlano riuscì a creare quasi dal nulla un “impero”, per quanto basato su saccheggi ed accordi di vassallaggio con principi e signori della guerra locali, esteso dalle coste dell’Anatolia fino all’India settentrionale dove il nipote fondò la dinastia Moghul (famosa per aver regalato al mondo il Taj Mahal). Richiamandosi all’affascinante mix che caratterizza l’Asia Centrale, un mix in cui si sovrappongono l’eredità etnica e culturale dei Khanati mongoli, dell’islam turco e del mondo persiano, Amir Timur ha edificato le meraviglie di Samarcanda ed ha anche regalato all’odierno Uzbekistan un passato glorioso, un breve e fluido ma enorme impero temuto da tutti anche e soprattutto per la crudeltà.

L’eredità urbanistica e monumentale del tempo di Tamerlano è andata del tutto persa, con l’eccezione dei grandi monumenti ed in particolare del Registan che sorgono, con la loro bellezza assurda, nel cuore di una città per il resto del tutto insipida. Il mitico Registan, la grande piazza storica di Samarcanda, patrimonio Unesco immortalato nelle poche cartoline e nei depliant turistici, sorge a poche decine di metri dal muro, dopo un parcheggio affollato e una strada trafficata interrotta da un semaforo pedonale. Un luogo veramente magnifico e spettacolare, maestoso come solo le meraviglie mondiali possono essere, in cui siamo tornati molte volte per cogliere ad ogni occasione nuove sfumature, nuovi dettagli, nuovi riflessi di luce sulle facciate delle moschee e delle madrasse. Un luogo quasi alieno, nella sua incredibile bellezza, assurdamente diverso e distante rispetto alla città tutto sommato anonima che la circonda.

Un luogo alieno, dove però la realtà dell’Uzbekistan di oggi si affaccia comunque, e nei modi più impensati. E’ la prima sera, e prima di rientrare in stanza torniamo ad ammirare lo spiazzo del Registan illuminato dalle luci notturne. Ci sediamo a terra, appena dietro il cordone che separa l’area ad accesso gratuito allo spiazzo vero e proprio a cui si accede pagando un biglietto, tra gli uzbeki in abito da cerimonia (in stile tutt’altro che sobrio, con colori sgargianti e eccessi di formalismo, ma mai volgare) che vengono qui per fare le fotografie. Ci stiamo godendo in pace e per l’ennesima volta lo spettacolo, quando uno dei soldati che controlla il cordone mi chiama e mi fa cenno di avvicinarmi un poco. Chiede da dove vengo, e – senza mai muoversi dalla sua postazione di guardia – mi propone, sorridendo con fare rassicurante e in un discreto italiano, la possibilità di salire sul grande minareto chiuso al pubblico. Lui ha la chiave, mi spiega, e mi può far salire: non ora, ovviamente, ma all’alba, l’indomani, quando non vede nessuno – alle 5 del mattino, e senza dare nell’occhio. Il tutto in cambio di una tangente di 10 dollari: preziosa valuta estera, che probabilmente corrisponde a svariati giorni di paga per un povero soldato. Evito, perché in questo paese non si può mai sapere, perché preferisco non trovarmi da solo all’alba in un cunicolo con un soldato di un paese che ha una concezione troppo fluida dello “stato di diritto”, e perché non mi piace la corruzione. Su internet si trova comunque il panorama a 360 gradi fatto da qualche viaggiatore che invece ha accettato: non è un granché, in effetti, anche perché la cosa bella sono le facciate dei monumenti e le facciate dalla cima del minareto non sono visibili. Peccato, soprattutto che un patrimonio simile sia lasciato in queste mani.

Samarcanda non è solo il Registan: ci sono il mausoleo di Tamerlano, con l’interno più spettacolare visto in tutto il viaggio; il cimitero monumentale di Shah i Zinda con le splendide tombe decorate con ceramiche e mosaici, ed altre grandi moschee e madrasse (tra cui una con colonne e tetto di legno dipinto, in stile cinese). Rimaniamo a Samarcanda due giorni, due giorni in cui quasi veniamo assuefatti dalla maestosità e dallo sfarzo di questo stile. Ma c’è ancora altro da vedere: prossima tappa, dopo un altro viaggio in treno, la quasi altrettanto mitica Bukhara.

BUKHARA: UNA MINIERA DI STORIE CHE NESSUNO HA INTERESSE A RACCONTARE

Arriviamo alla stazione ferroviaria con ampio anticipo, su un taxi guidato da un ragazzo in evidente stato di agitazione che sgomma per la città senza apparente motivo prendendo gli incroci a tutta velocità e passando i semafori col rosso, come nei videogiochi. Felici per aver raggiunto sani e salvi la meta, ci avviciniamo con i nostri zaini e con la stampata del biglietto ferroviario consegnataci dall’ostello di Tashkent al primo controllo di polizia. Ma l’agente, dopo aver dato un’occhiata al nostro foglio (che scopriamo poi essere un “avveniristico” e-ticket, novità assoluta da queste parti che solo l’ostello di Tashkent sembra ad oggi utilizzare), fa un cenno di diniego e ci indica la biglietteria senza lasciare spazio a contestazioni. Perché?

Raggiungiamo quindi la biglietteria, un po’ perplessi e preoccupati, felici del fatto che – grazie alla guida da gangster movie del tassista – siamo ancora più in anticipo del previsto. Chissà, forse questa prenotazione va in qualche modo “registrata” in biglietteria? Ci mettiamo quindi in coda, abbiamo solo un paio di persone davanti a noi e manca un’ora.

La sala d’aspetto è piccola e piena di pensionati e faccendieri del posto. Riconosciamo anche il tassista che, due giorni prima, avevamo mandato a quel paese perché ci aveva proposto un prezzo assurdo per portarci al B&B di Samarcanda. Che sia l’ora della sua rivincita? Infatti, la fila non si muove, o meglio si muove lentissimamente ma non nella direzione desiderata: ogni tanto qualcuno si infila di lato, scambia delle carte con la bigliettaia, srotola e conta enormi mazzi di banconote.

Noi, al contrario, veniamo ignorati. Finché, nel disinteresse generale e nell’immobilismo generale, un ragazzo dai tratti mongolici (che scopriremo poi essere un turista) che parla russo e inglese ci fa notare che in venti minuti lo sportello chiuderà per la pausa pranzo. Visto che il nostro treno è invece ormai in partenza, conviene quindi che anche noi cominciamo ad industriarci per scavalcare la fila ed ottenere finalmente udienza presso l’impiegata. Ci facciamo così spazio, piazziamo i gomiti sul banco della biglietteria, e mettiamo le nostre carte nelle mani della bigliettaia. Lei ci guarda perplessa, chiede i passaporti, e comincia a battere sulla tastiera del suo PC. Ma ecco che qualcosa non funziona, e l’impiegata si innervosisce. Chiama la collega. Agita i passaporti, da cui volano varie carte tra cui le preziose tesserine della registrazione. Continua a inserire i dati a terminale, ma continua a uscire un errore misterioso. Prova a inserire il nome preso da un passaporto e il numero dell’altro passaporto. Finché si spazientisce, ci restituisce le nostre carte, e si rivolge al cliente successivo.

Mancano 10 minuti alla partenza del treno. Il turista dai tratti mongoli ci suggerisce quindi di tentare l’extrema ratio: tornare dalla guardia, e dire una frase in russo che significa “voglio parlare con il capostazione”. Fatevi portare da lui, dategli una mazzetta, insomma esiste un modo per risolvere ogni problema. E’ l’Uzbekistan, bellezza!

Usciamo, e torniamo correndo disperatamente al check-point ripetendo mentalmente ma con scarsa convinzione l’apriti sesamo: “voglio parlare con il capostazione”. Ma non facciamo in tempo a raggiungere la guardiola, che il soldato di guardia (che ha sostituito quello che un’ora prima ci aveva rimandato indietro) vedendoci trafelati ci chiede: “Bukhara?”. “Yes, Bukhara!”, mancano meno di 10 minuti alla partenza del treno, ed ecco che improvvisamente il soldato si rianima, ci strappa i biglietti di mano, dà un’occhiata veloce e superficiale e ci fa segno di correre verso il prossimo check-point. “Bukhara! Bukhara!” gridano i poliziotti al secondo controllo, e di bocca in bocca la voce si propaga e ci ritroviamo così a correre a perdifiato per la stazione deserta mentre soldati, pulitori e controllori ci incoraggiano, come alle Olimpiadi: superiamo il metal detector senza quasi fermarci, attraversiamo un atrio, scendiamo una scala, “Bukhara! Bukhara!” grida il pubblico; corriamo per il sottopassaggio, saliamo al binario, allunghiamo ai tre controllori presenti i nostri biglietti. “Nessun problema, prego, i vostri posti sono il 17 e il 18 e questa è la carrozza”. Imbecille il primo soldato, che non aveva capito che il nostro biglietto era già validato!

Diversamente da Samarcanda, Bukhara è una città con un piccolo centro storico sostanzialmente pedonale che conserva, pur nella museificazione, parte dell’antica atmosfera carovaniera. Antichissima città giardino sulla rotta della via della seta, oggi Bukhara conserva alcune moschee, madrasse e mercati coperti, visitati dai pochi turisti presenti che affrontano il caldo di agosto (molto secco e tutto sommato sostenibile). L’atmosfera è rilassata, e la città appare a tratti quasi deserta: cercando fotografie su internet, si rimane colpiti da come in queste fotografie non compaiano quasi mai passanti. I venditori non sono per nulla insistenti, i ristoranti sono pochi e senza pretese, è possibile visitare monumenti enormi in completa solitudine anche perché le moschee non sono più utilizzate per il culto e gli spazi del mercato non ospitano un vero bazar, ma solo pochi negozietti di “artigianato” per turisti. Questo nonostante l’artigianato sia stato eradicato ai tempi dell’URSS, che lo vedeva come residuo della cultura arcaica e di sfruttamento e lo sostituì con l’industria: da generazioni ad esempio gli Uzbechi acquistano tappeti prodotti in fabbrica, e per questo motivo oggi quasi nessuno è in grado di fare un tappeto a mano… ma ai turisti bisogna pur trovare qualcosa da vendere!

L’attrazione principale della città è costituita da una piazza su cui si affaccia una moschea, una scuola coranica che non può invece essere visitata perché è ancora attiva, gestita dallo stato che ne ha fatto un istituto tecnico in cui si insegna Teologia su un programma ministeriale e con docenti appuntati dal governo, e l’enorme minareto annesso. Il minareto Kalon, costruito nel lontano 1127 ed alto 47 metri, era all’epoca l’edificio più alto dell’intera Asia Centrale e fu l’unico monumento risparmiato da Gengis Khan che rase al suolo il resto della città, ma risparmiò questo minareto colpito come fu dalla sua magnificenza. Fino a pochi anni fa, ai turisti era concesso di salire sul minareto Kalon, per osservare il panorama (la città vecchia e le molte moschee) dall’alto: finché, racconta tuttavia la leggenda, una turista francese in visita cadde lungo le scale rompendosi una gamba… e da allora, per evitare seccature, il governo ha deciso di interdire l’accesso a tutti.

In due giorni visitiamo la città, compresa la fortezza di fango e paglia dalle imponenti mura difensive che sorge appena fuori la città vecchia che oggi ospita un polveroso e dilettantesco museo della città. Da qui il leader del “Khanato” e poi dell’Emirato di Bukhara governava il suo piccolo regno feudale impenetrabile ed oscuro: un regno dimenticato alla periferia del mondo, conquistato dagli emissari dello Zar solo nel 1873 dopo decenni di guerre e di soldati russi catturati e rivenduti come servi ai signori della guerra del posto nei locali mercati degli schiavi, ed infine confluito negli anni ’20 nella Repubblica Sovietica Popolare di Bukhara e quindi direttamente nell’URSS.

L’ultima sera, arriviamo anche nei pressi del luogo dove – secondo la guida – sorgevano le fondamenta di un tempio zoroastriano. Ci arriviamo quando il sito è già chiuso, ma solo l’idea di essere nel luogo in cui sorgeva un tempio zoroastriano è sufficiente a dare i brividi. E’ solo un altro dei tesori trascurati, dimenticati: luoghi carichi di storie, che al momento sopravvivono (dopo anni di abbandono) nell’attesa che a qualcuno venga concesso l’onore di riscoprirli, di svilupparli, di trovare la giusta chiave di storytelling.

Ci sono paesi che sono stati in grado di creare grandi fortune turistiche e artistiche dal nulla o quasi, costruendo e sfruttando le poche risorse possibili: “promozione turistic”, la chiamano. L’Uzbekistan, all’opposto, è una miniera di storie non raccontate: un paese anestetizzato, imprigionato, inibito, quasi un po’ autistico. Un paese che fu in tempi di cui si è quasi persa la memoria un crocevia di culture e una terra di transito, per diventare poi una periferia abitata da disperati schiacciati tra un regno feudale ed il successivo in un crescendo di crudeltà, dalle piramidi di teschi che Tamerlano lasciava come monito alle porte delle città conquistate fino ai dissidenti politici (letteralmente) bolliti vivi dal regime di Islam Karimov.

Un paese che oggi si limita a ostentare disinteresse nei confronti del viaggiatore e dell’esterno quasi sperasse, mostrandosi impenetrabile ed oscuro, di essere semplicemente lasciato in pace.

KHIVA: LA YURTA, L’HAREM E LA STUFA DI MAIOLICA

L’unico modo per raggiungere Khiva da Bukhara è affittare un taxi e attraversare un deserto dei tartari, una distesa assolata di ghiaia e pietrisco di oltre 400 chilometri, seguendo l’autostrada che un consorzio Coreano-Tedesco sta costruendo e che oggi è interamente carrozzabile.

Partiamo in Taxi la mattina presto, dopo aver pagato i 55 dollari pattuiti. L’autista, un uzbeko con una faccia da attore non professionista – un Franco Citti con la pelle bruciata dal sole e profonde rughe di espressione – non parla inglese, e si ferma nei pressi della stazione per caricare un amico che condividere con noi il viaggio. Grazie alla nuova strada, che uomini indistinti stanno a tratta ancora asfaltando (di tanto in tanto, in mezzo al deserto, compare un piccolo “cantiere” popolato da uomini integralmente velati che stendono l’asfalto caldo sotto il sole cocente di mezzogiorno), il viaggio non è particolarmente disagevole; e nel primo pomeriggio siamo già a Khiva, antica città-stato di mercanti di schiavi alle porte del deserto lungo un braccio dell’antica via della seta.

La città di Khiva sorge all’interno di un perimetro di mura ben conservate, su cui è possibile – per larghi tratti – camminare osservando la città vecchia dall’alto. L’intero centro storico è ben conservato, con un’atmosfera rilassata e misteriosa ed un gran silenzio nonostante sia in parte abitato. Le vecchie moschee e i principali palazzi sono in gran parte visitabili: l’intera città è di fatto una città museo per cui sarebbe necessario pagare un biglietto d’entrata unico che dà il diritto a visitare tutti i piccoli “musei” (dal folklore locale alla musica all’artigianato) ospitato all’interno di moschee e palazzi – musei che si risolvono spesso in un paio di stanze in cui sono raccolti reperti per lo più imperscrutabili ma a loro modo affascinanti, tra cui i feti di due gemelli siamesi conservati in una specie di boccia trasparente in memoria del lavoro di antichi anatomisti locali.

L’attrazione principale è l’antico palazzo del Khan, il leader della città. Un palazzo composto da alcuni cortili aperti – in uno dei quali è visibile lo spiazzo dove il Khan, di origine e cultura nomadica, faceva montare la jurta reale (la tradizionale tenda mongola a pianta circolare) – e da diversi ambienti, tra cui l’area dell’harem (non visitabile). Ed è possibile, momento probabilmente più bello dell’intero viaggio in Uzbekistan, salire su una specie di torre di avvistamento da cui è possibile osservare tutto il centro storico e, in lontananza, la foschia che si solleva e confonde – verso l’orizzonte – la terra e il cielo.

All’interno della città (3 o 4 chilometri quadrati in tutto) ci sono alcuni bed and breakfast, e non più di una decina di “ristoranti” con poche pretese che si rivolgono ai pochi turisti che gironzolano per la città. La sera la cittadina, già sonnacchiosa di giorno, si svuota ulteriormente. Dalle case escono i bambini del posto, che giocano a rincorrersi. Riemergono anche gli appassionati di fotografia, che passano ore a fotografare il cielo stellato ed il riflesso delle stelle sulle cupole delle moschee, sugli archi e sui tetti bui della città. Camminando, incrociamo gli stessi pochi viaggiatori già incrociati in precedenza – a Samarkanda, a Bukhara – che si aggirano con fare rilassato in questa città dove ogni angolo è magico.

Passiamo a Khiva quasi tre giorni, visitando ogni singolo palazzo e fermandoci in più occasioni ad osservare la popolazione locale: il venditore di strada di cappelli di pelo che saluta con ossequio il militare di guardia; le donne che camminano zoppicando nelle loro ciabatte troppo corte; le riprese di un film in costume con gli attori che entrano attorniati dai musici dalla porta principale; i ragazzi della scuola che fanno le prove del saggio cantando canzoni patriottiche in cui una parola su cinque è “Uzbekistan”; i bambini che giocano utilizzando sassi come bocce; la capra che, all’interno di un cortile, bela disperata perché sospetta che forse sia arrivata la sua ora; le venditrici del mercato e le loro Samosa ripiene di frattaglie che pure non ci faranno star male. Ci spingiamo anche fuori dalle mura, per visitare l’antica residenza estiva dell’ultimo emiro: un palazzo costruito a inizio ‘900 dai grandi saloni in stile viennese ricoperti di carta da parati dove troneggiano grandi stufe di ceramica ed enormi lampadari dorati. Una piccola Vienna fuori le mura, che l’ultimo erede delle dinastie regnanti volle costruire – stanco della jurta e degli spazi angusti del piccolo mondo antico sopravvissuto indenne alla storia fino al 1920 – prima di essere destituito dai Bolscevichi del Turkestan.

Lasciamo Khiva con un volo interno che parte dal minuscolo aeroporto che si trova poco fuori città, da cui partono forse quattro voli al giorno. Arriviamo a Tashkent, dove ci fermiamo una notte in un hotel nei pressi dell’aeroporto, per partire l’indomani mattina presto alla volta dell’Europa.

Rimane l’idea di una terra antica e violenta, misteriosa e sfuggente, contraddittoria e paralizzata. Una terra travolta tante, forse troppe volte, alla ricerca di un suo posto nel mondo ma senza fretta: senza sbilanciarsi, senza compromettersi, senza perdere il controllo. Come se, mantenendosi ai margini della scena, fosse possibile evitare di essere trascinati – un’altra volta – nel grande frullatore della storia.



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