Perla nera del Tirreno

Le bellezze della Area Marina Protetta e dell’entroterra di Ustica, tra tradizione e innovazione
Patrizio Roversi, 31 Ott 2017
perla nera del tirreno
Il suo nome, da 37 anni a questa parte, è associato a una strage di vittime innocenti, che il 27 giugno 1980 ha fatto 81 morti. Ma Ustica non c’entra nulla con l’aereo Bologna-Palermo abbattuto da un missile della NATO. Era semplicemente il lembo di terra più vicino al pezzo di mare in cui l’aereo è caduto, non è stata nemmeno la base per le ricerche: gli usticesi hanno visto tutto alla televisione, come tutti noi. Ustica, piuttosto, andrebbe ricordata perché, negli anni 70, è stata il luogo della grande sfida fra Jacques Mayol e Enzo Maiorca: stiamo parlando di due grandi apneisti, uno francese e uno italiano. In questo modo renderemmo merito a una grande attrazione di Ustica: il suo fondale marino, ricchissimo di paesaggi acquatici e di pesce. Ustica, non a caso, è stata anche la prima riserva marina italiana, dal 1986. Quindicimila ettari di fondale protetto, che equivale a 15 chilometri di costa, suddivisi in zona A, B e C, in base al grado di protezione: da Punta di Megna alla Torre dello Spalmatore è, appunto, zona di riserva integrale. Prima di tutto l’isola è un paradiso per i sub. Ma Franco Foresta Martin, geo-astro-fisico nato a Ustica, oltre che studiare la natura vulcanica dell’isola, ha contribuito a celebrarla, gemellandola addirittura con un piccolo pianeta, che sta in cielo tra Marte e Giove, e che è stato appunto chiamato Ustica: un’altra isoletta, questa volta persa nello spazio.

COME ARRIVARE

Ustica, la nostra Ustica, è viceversa persa – si fa per dire – nel Tirreno, a 36 miglia a Nord di Palermo, a cui è collegata giornalmente con i traghetti della compagnia Siremar oppure gli aliscafi di Liberty Lines (che permette di arrivarci anche da Napoli, il sabato). Il Porto, molto piccolo, è a Cala Santa Maria, nella parte Nord-Est dell’Isola, ma aperto a Sud-Est. E del resto è logico: come in tutto il Tirreno, i venti dominanti vengono da Ovest-Nordovest. Comunque a Ustica c’è una sorta di “molo di riserva”, il Molo Alto, nella parte a Sud- Ovest. All’arrivo, il porto si presenta con l’anfiteatro dell’abitato del paese principale: molti alberghi, costruzioni piuttosto recenti. Per trovare le casette tradizionali bisogna salire, oltre Largo Armeria e Piazza Umberto I, verso Chiesa Vecchia. Ustica-centro è bella, le granite sono buone, ma ben presto si nota il difetto comune a molte delle nostre isole: il traffico. Ci sono forse troppe macchine, oltre a tanti motorini. Gli abitanti danno la colpa ai palermitani, proprietari delle seconde case, che non vogliono fare a meno dell’auto. In effetti è vero che Ustica dà il meglio di sé nell’interno, ma c’è anche un ottimo servizio pubblico: un paio di pulmini che fanno il giro dell’isola, sfidando a volte le strettoie fra le case.

OSTEODES & USTUM

Ustica è anche la sua storia, e per me francamente la storia è fondamentale. Sarà una fissazione, ma la storia, secondo me, dà spessore e autorevolezza ai paesaggi. Per me il Pacifico è Cook, Ventotene è il Manifesto per l’Europa. E cosa sarebbero le Marchesi senza Gauguin? Ustica da parte sua di storia ne ha tanta: ha rappresentato da sempre un approdo strategico per tutti: Fenici, Greci, Romani, Pirati saraceni. Pare che sia l’Isola di Circe, che si divertiva a trasformare in maiali i compagni di Ulisse. Non a caso i Greci la chiamavano Osteodes, cioè “ossario”, pare per le ossa dei tanti naufraghi… I Romani la chiamavano Ustum, cioè “bruciata”, per la sua natura vulcanica. Prima del 1000 d.C. provano a coltivarla i Benedettini, ma senza successo. I Borboni – che in effetti andrebbero per certi versi molto rivalutati – decisero nel 1759 che Ustica andava colonizzata. Ferdinando IV manda una spedizione di Coloni. Ma solo tre anni dopo arrivano i Pirati saraceni che, con una scorreria, ammazzano, distruggono e deportano i contadini come schiavi. Il Borbone non si arrende: l’anno dopo, nel 1763, rimanda a Ustica un’altra spedizione, che stavolta costruisce anche torri e difese, e da allora l’isola diventa un paradiso agricolo, con i suoi terreni vulcanici fertilissimi. Ma la natura vulcanica di Ustica è particolare: come spiega bene il sopracitato Franco Foresta Martin, “sgorga” direttamente dalle profondità del mare: “È un vulcano hot spot, magma direttamente dal mantello terrestre, diversissima dalle Eolie, simile all’Etna o alle Haway”.

LE LENTICCHIE GRAMSCIANE

“Paesaggi amenissimi e visioni di marine, albe e tramonti meravigliosi”. A proposito di storie di Ustica: queste parole le scriveva, nelle sue Lettere, Antonio Gramsci, che qui a Ustica fu confinato dal fascismo, dal 7 dicembre del 1926 al 20 gennaio del 1927, che ricorda quasi con nostalgia il suo soggiorno sull’isola, forse ben conscio che poi lo aspettava ben di peggio. Qui sono stati deportati anche Bordiga, i fratelli Rosselli, Romita e Parri. E comunque Gramsci ha trovato il tempo e il modo di citare, nella sua corrispondenza con moglie e cognata, anche le lenticchie di Ustica. Le lenticchie dell’isola in effetti sono famosissime, si dice siano le più piccole del mondo. Tecnicamente le definiscono “microsperma”, cioè dal seme minuscolo. In confronto le lenticchie di Castelluccio di Norcia sono leggermente più grandi e multicolori, quelle di Ustica sono invece tutte di un color bruno omogeneo. Segno che sono un “ecotipo locale”, cioè sono state selezionate e adattate qui nei decenni. Le isole sono, per definizione… isolate. Quindi un determinato prodotto si riproduce sempre uguale, si adatta, sviluppa proprie caratteristiche. Le lenticchie di Ustica sono un presidio slow food e pare siano particolarmente ricche di proteine, ferro e aminoacidi essenziali. Anche loro (come quelle di Castelluccio) sono famose perché non si deve metterle a bagno prima di cucinarle: sembra un particolare irrilevante, invece è sintomo di una buccia sottile e delicatissima, che hanno soltanto i legumi che non provocano fastidi gastro-intestinali. Naturalmente tutte queste belle caratteristiche derivano dal terreno ricco del vulcano, nonché dal clima mediterraneo.

IL MACCO DI FAVE

A Ustica non si producono solo lenticchie, ma anche le famose fave, assieme a fagioli e ceci. Non è un caso: anche qui la storia si fa interessante. Dopo che nella seconda metà del Settecento Ustica è stata colonizzata e coltivata, è diventata ben presto una specie di orto granaio ricchissimo: si dice che qui venivano caricate intere navi con prodotti agricoli diretti a Napoli e a Palermo. Soprattutto grano. Ma quale è la coltura che si adatta all’alternanza con cereali e graminacee? I legumi, appunto. Da cui l’antica tradizione a coltivare lenticchie, fagioli ecc. Non a caso qui a Ustica una delle ricette tipiche è il macco di fave, con fave secche e finocchietto selvatico. Ma passeggiando per le stradine che dal paese portano a Tramontana è tutto un orto, dove si coltiva di tutto, dalla frutta ai pomodori fino alle zucche. In effetti a me è piaciuta moltissimo l’Ustica dell’interno, l’Ustica agricola. Peraltro il mare è sempre presente, sia col suo colore che col suo profumo. E del resto l’isola è piccola, misura meno di nove ettari e la sua circonferenza è 12 chilometri. A differenza di molte isole ormai del tutto turistiche, Ustica è un posto “vero”, abitato oggi da circa 1.200 persone. Ovviamente, soprattutto durante l’inverno, molte gravitano su Palermo: gli studenti delle superiori prendono la nave al lunedì mattina e tornano a casa il venerdì, ma Ustica è ancora ben presidiata. Nel 1860 gli abitanti erano il doppio, certamente il problema dell’abbandono esiste, ma per ora l’isola resiste, anche per l’indotto del turismo che sostiene l’economia, senza per questo aver azzerato le altre attività tradizionali, cioè pesca e agricoltura.

A PESCA DI TOTANI

Giuseppe l’ho incontrato sul molo, che faceva il pieno alla sua barca. Una barca di plastica, normale, con la quale però lui va a pesca. Mi racconta che ha imparato prima a nuotare e poi a camminare, e pesca da sempre. Andiamo assieme, al tramonto, a pesca di totani. Da non confondere coi calamari. Prima di tutto mi documento e mi faccio un disegnino: i totani hanno la pinna a forma di cuore, i calamari ce l’hanno quadrata. E poi la differenza sta nel colore: i calamari sono più scuri, i totani sono violetti quasi rosa. Giuseppe ferma la barca, un miglio davanti al porto, dove c’è un fondale adatto ai totani, fatto di sabbia, mentre comincia a fare buio. E ci lasciamo trasportare dalla corrente. Meno male che il mare è tranquillo, perché una barca a motore spento, che galleggia sulle onde, per chi soffre il mal di mare è una trappola mortale. Giuseppe manda giù, sul fondo, una lenza. Molto giù, a più di 100 metri. Poi comincia una specie di ginnastica: tira e molla la lenza, la muove, la sposta… Se accendessimo la luce sarebbe più facile attirare i totani, ma è proibito. Dopo un’oretta (nota bene, un’oretta di sballonzolamenti) abbocca il primo totano. Giuseppe dice che è grosso, sarà circa 8 etti. In teoria ci sono anche totani di 15 chili, che immagino siano enormi: spero che non ne abbocchi uno di queste dimensioni, perché mi verrebbe il panico da calamaro-gigante, il mostro dei mari. Appena salpato a bordo il calamaro spruzza-sputa uno sbocco d’acqua che bagna tutto: in questo caso è forse il segno del suo disappunto nei nostri confronti, ma è anche il suo modo di spostarsi, come un aereo a reazione. La sua propulsione funziona appunto in questo modo, e i tentacoli servono a nuotare e a dirigersi dove vuole. Io chiedo pietà e Giuseppe decide di rientrare. E proprio mentre recupera una lenza, abbocca un altro totanino, più piccolo, al volo.

IL PESCADINO

Ma in realtà il mio appuntamento con Giuseppe prescinde dalla pesca. Giuseppe mi interessa perché è un pescadino, cioè un pescatore-contadino, che sfrutta a 360° le potenzialità di Ustica. Va a pescare per cucinare il pesce per gli ospiti del suo agriturismo, e soprattutto coltiva la terra. È uno dei giovani che per primi hanno deciso, a Ustica, di tornare all’agricoltura. E – come una volta – sa fare un po’ di tutto e campa di turismo/agricoltura e in parte pesca. Ma il suo lavoro è, appunto, l’agricoltore: per questo ha studiato Agraria a Palermo. Ed è naturalmente un imprenditore agricolo molto evoluto, che sa interpretare al meglio le relazioni fra storia e attualità, fra passato e futuro, ambiente-turismo-paesaggio, tradizione e innovazione. Anche lui, come suo padre e suo nonno, in agricoltura, è partito dalla zappa e dall’asino. L’asino c’è ancora, si chiama Serafino e io ho avuto il coraggio di andarci a cavalcioni, perché è un bell’asino grande, meticcio, adatto anche a tirare l’aratro. Ma Giuseppe e altri giovani usticesi come lui, avendo deciso di tornare a sviluppare i prodotti della terra che potevano avere un futuro sul mercato (appunto fave e lenticchie), hanno cercato di alleviare la fatica e si sono dotati di un minimo di mezzi meccanici. Per esempio di una trebbia, che separa le lenticchie dal resto della pianta. Una volta si faceva a mano, buttandole in aria e sfruttando il vento. La raccolta, invece, si fa ancora a mano, perché è cosa delicata, che una macchina non saprebbe fare, e anzi si fa quando le piante sono ancora umide, all’alba, quando appunto la pianta non è secca per evitare che i semi cadano da soli a terra.

LENTICCHIE SPAZIALI

La lenticchia è un esempio di adattamento, che ben esemplifica il concetto di endemismo locale, perché quella di Ustica si semina a dicembre, dopo aver ben lavorato il terreno in modo che accolga tutte le piogge invernali. Poi qui le lenticchie fioriscono ad aprile e si raccolgono a giugno. Lo stesso prodotto, a Castelluccio, in alta collina, si semina in primavera, fiorisce a luglio e si raccoglie a settembre. Le fave si seminano a novembre e si raccolgono a maggio. Giuseppe mi accoglie nel suo agriturismo, con la madre, il padre e la moglie. Ha idee innovative, ma anche lui – come le sue lenticchie – è un bell’esempio di adattamento al proprio contesto naturale, perché il suo è, appunto, prima di tutto un contesto familiare tradizionale. Sua moglie mi cucina totani con le lenticchie e poi totani in una purea di fave, tutto buonissimo. Le lenticchie di Ustica vanno a ruba e spuntano un prezzo molto alto, soprattutto dopo che la NASA le ha introdotte nella dieta degli astronauti, per le loro caratteristiche nutrizionali. Nel 2000 a Ustica si producevano sì e no 20 quintali di lenticchie, oggi tra Giuseppe e gli altri cinque giovani produttori biologici che rispettano il disciplinare, se ne producono 200 quintali all’anno. E anche il paesaggio ne ha beneficiato: sono stati recuperati terreni prima abbandonati, ripristinati muretti a secco ecc. Prima di salutare Giuseppe, Daniele (Carminati, il regista di Linea Blu per cui siamo qui a Ustica e autore anche di altre immagini che vedete) mi fotografa tra le cipolle e le teste d’aglio del suo agriturismo.

TRAMONTO AL FARO

Prima di lasciare Ustica vorrei tanto andare a vedere in barca le sue famose grotte, e soprattutto immergermi nei suoi fondali, famosi nel mondo per la loro bellezza. Ma non faccio in tempo. Fatelo voi, assolutamente, se andate a Ustica. Una barca nell’isola è essenziale per godersi il mare. Non è posto da spiaggette in stile romagnolo, per paletta e secchiello: ci sono poche spiagge rocciose e qualche calata a mare, tra gli scogli. Per stavolta la mia tendenza filo-agricola terrestre ha prevalso: mi sono curato più di terra che di mare. Ma a Ustica si può, ci sono argomenti agro terrestri a bizzeffe. Mi accontento di godermi un ultimo strepitoso tramonto, allo Spalmatore e in particolare al Faro, un locale autogestito da musicisti locali e presumibilmente anche palermitani, che naturalmente è in riva alla scogliera, verso Ovest…

Patrizio