Etruria: terra di tufo, di vino e di pane

Viaggiare, ogni volta assume significati diversi; ci si può muovere geograficamente o temporalmente. Il nostro viaggio in Etruria rientra di diritto nella seconda categoria
Scritto da: anniaffollati
etruria: terra di tufo, di vino e di pane
Partenza il: 23/03/2016
Ritorno il: 27/03/2016
Viaggiatori: 2
Spesa: 500 €
Arrivando da Mantova, anch’essa terra etrusca ma solo in tarda età, salpiamo verso sud, avendo in mente un percorso spannometrico, ampiamente rimaneggiabile lungo il tragitto.

Primo giorno: il disamore per l’autostrada

Non amandola, ne sfruttiamo la comodità solo per un breve tratto, uscendo già alle porte di Firenze. Da qui, spostandosi dall’industriosa provincia toscana verso quella altrettanto operosa empolese, facciamo tappa a Montelupo Fiorentino, vera e propria patria dell’argilla situata sui primi colli del chianti. Oltre ai manufatti in terra rossa situati in ogni angolo del paese, le botteghe artigiane sono da perder la testa. Noi, filosoficamente ostili al prodotto finito, ci accontentiamo di acquistare un panetto di argilla chiara in zona artigianale e a fare conoscenza coi gestori de “La Galleria” (www.lagalleriaformedarte.it), che ci sentiamo senz’altro di consigliare. La mangiata successiva vicino a Sammontana, località resa celebre dai gelati industriali un tempo qui prodotti, nasce da una loro soffiata. La trattoria “Ritrovino” di Villanuova, è una sorta di fast-food in cui sono serviti solo piatti locali, come le diverse versioni di trippa (dal lampredotto alla trippa alla fiorentina), i crostini toscani ai fegatini, salumi e formaggi. Il vino è buono, senza troppe pretese e a fine pasto ci arrampichiamo sul colle di fronte per cercarne ancora all’agriturismo “La luna”. Dopo un brevissimo excursus in auto per gli stretti vicoli di Empoli, esperienza che mi sento caldamente di sconsigliare, torniamo verso Firenze e attraversando Scandicci ci dirigiamo mediante strade provinciali verso la vicina provincia di Siena. Vorremmo visitare di nuovo Monteriggioni, paese fortificato abbarbicato su una collina verso Siena. Passiamo dunque anche Poggibonsi e infine vi arriviamo, ma non è che l’ennesima fugace riscoperta di un borgo che purtroppo, come spesso succede, si sta trasformando negli anni in un unico grande centro commerciale per turisti. Ciò non toglie che sia interessante, passando di qui, salire sui camminamenti di ronda e passeggiare tra le torri della fortezza duecentesca, scrutando l’orizzonte in cerca di ipotetici nemici. Alla fine, viene comodo sostare almeno una notte a Siena. La bella addormentata sui colli è magica la notte, sia quando si celebra il palio, sia in momenti di quiete in cui è sorprendente sfidare la morfologia delle sue piazze, viuzze e campanili, in una gara a chi perde per primo il senso dell’orientamento. In un diario di viaggio precedente, un paio di anni fa, avevamo tessuto le lodi di Siena e del palio (http://turistipercaso.it/toscana/72359/toscana-on-the-road-tecniche-per-spendere-meno-e-m.html), per questo non mi sembra il caso di dilungarmi, a parte segnalare per chi si trovasse a passare da queste parti, l’economico b&b Villa Cecchi, posto in zona davvero strategica.

Giorno 2: Oggi si beve in Val d’Orcia

(ma neanche troppo, dato che si tratta pur sempre di un viaggio on the road)

Scendiamo ancora, l’obiettivo di oggi è assaggiare sia il Rosso di Montalcino, che il Nobile di Montepulciano. Ma come non fermarsi ad ogni paesino lungo la strada? Qui hanno nomi quasi esotici: più d’uno porta l’appellativo d’Arbia per via della valle. Quando è la volta di Buonconvento, proprio non possiamo esimerci dal fare quattro passi nel trecentesco centro fortificato. Meno celebre di molti altri limitrofi, proprio per questo ha mantenuto le sue attività commerciali senza svendersi solo al triste affare delle gite fuori porta domenicali. Da lì a poco inizia la Val d’Orcia, ma prima giungiamo a Montalcino verso l’ora di pranzo. Per andare sul sicuro decidiamo di concederci un paio di assaggi all’enoteca “La fortezza” aperta all’interno del castello in centro al paese, certamente un’esperienza qualitativamente buona, ma economicamente forse troppo impegnativa. Un consiglio però, ci viene dato in quest’occasione: a quanto pare non possiamo riprendere il viaggio verso la tappa successiva senza prima fermarci almeno un’oretta a Pienza. Patria di uno dei pecorini migliori al mondo, è anche luogo d’eccellenza per chiunque intenda immortalare le dolci colline toscane. A quanto pare molte delle cartoline che si spediscono durante le vacanze, sono create immortalando questi scorci. A noi torna utile sia per fermarci a mettere qualcosa sotto i denti, sia per rilassarci un poco al sole. E in effetti, appena giunti addentiamo un buon pane sciapo e pecorino e ci perdiamo per il belvedere che costeggia il perimetro dell’abitato.

A Montepulciano riserviamo il primo pomeriggio, quando il sole a picco ci guida durante la scalata alla sommità del borgo, partendo dall’enorme Chiesa di San Biagio. Lungo il percorso si possono contate le numerose cantine ipogee presenti, in ognuna si può entrare a curiosare, degustare, al limite comprare; anche se molto spesso dopo qualche assaggio l’acquisto di almeno una bottiglia di vino Nobile è quasi dovuta. A voler dare bada a chiunque inviti ad entrare, si finirebbe in coma etilico: così come sovente accade, è necessario fare delle scelte. La nostra si chiama Cantina Contucci, e a giudicare dalla storica fama che ha nel mondo ci saremmo aspettati ben altro trattamento. E invece, modi cortesi e la massima disponibilità ci sono dimostrate, così ce ne partiamo con una bottiglia per le grandi occasioni. Il vino da queste parti è cultura, piacere e soprattutto reddito per chi gelosamente custodisce i segreti delle dolci colline toscane. Ma come è vero che non ogni giorno si tira il collo a bottiglie dai nomi altisonanti, è anche vero che non sempre è necessario recarsi in cantine di fama per poter bere un buon vino. Il mosto fermentato, per noi, deve essere prima d’ogni cosa sincero. Sulla strada che torna verso Pienza, appena al di là dei confini della DOC, ci fermiamo quasi per caso a riempire i nostri canestri da cinque litri ad un’azienda agricola vecchio stile, semplice, senza alcuna pubblicità sulla strada se non un altrettanto semplice cartello che reca la scritta: “Vino Contadino”. Il Chianti dei colli senesi, sempre di Sangiovese si tratta, solo non certificato attraverso un’etichetta, qui è ottimo e la piccola produzione garantisce una buona qualità e soprattutto un’eccellente rapporto qualità/prezzo. A questo punto, carichi di mercanzia, planiamo attraverso la Val d’Orcia fino a Bagno Vignoni. Immergere i piedi nell’acqua bollente, ad un passo dal precipizio adiacente i vecchi mulini storici, di fronte il monte Amiata, non ha prezzo. L’enorme cinquecentesca vasca centrale in Piazza delle sorgenti, è davvero cinematografica. La sua acqua termale fu utilizzata a scopo terapeutico sin dal tempo degli etruschi e sarà il nostro leitmotiv per le prossime ore.

Giorno 3: viaggiando ristorati lungo la Cassia

Terme da queste parti ce ne sono a bizzeffe. Bagni San Filippo è un’oasi di pace naturale, turisti permettendo. La sera prima abbiamo dormito da queste parti a Campiglia D’Orcia, e ci siamo rifocillati al Ristorante i Tre rioni. Nel tragitto abbiamo evitato l’impatto con un cerbiatto: la natura qui, intorno agli 800 metri sembra farla davvero da padrona. La mattina è d’uopo una rapida risalita alla torre della Campigliola, unico resto del torrione che dal X secolo vigilava sulla sottostante via Francigena, poi tutti a mollo lungo il torrente delle terme San Filippo. L’acqua ferrosa, più che sulfurea in certi tratti, lascia la pelle liscia e l’unico guaio è che non se ne uscirebbe più. Ma dopo il ristoro, è giusto andare. Si scende ancora, dormiremo sulla rupe di Orvieto questa notte. Lungo la via Cassia vi sono diverse deviazioni dovute a frane, è necessario fare attenzione passando da queste parti perché non è impossibile imbattersi in cinghiali e in tassi dalle moli notevoli. Proprio lungo una deviazione si incontra l’antica Radicofani. Visitata anche da Charles Dickens durante un suo viaggio, l’origine del suo nome è incerta, per qualcuno era la Corte di Rackis, per altri è riconducibile ad un tempio delle radici. Ad oggi è presente un’enorme rocca visitabile, e un ristorante tra i più prelibati e genuini che ci sia capitato d’incontrare: La Grotta.

A Orvieto arriviamo al tramonto e scendiamo da subito ad esplorarne le viscere. Il cinquecentesco Pozzo di San Patrizio, antica fonte idrica costruita in previsione di assedi, ancor oggi è un’esperienza unica. Le due rampe elicoidali a senso unico, progettate da Sangallo il Giovane, garantivano la massima fruibilità a chiunque dovesse calarsi ad oltre 50 metri di profondità, persino ai muli carichi in fase di risalita. Alloggiamo proprio accanto al Duomo, nella vecchia casa d’ospitalità Villa Mercede. Tornarci dopo anni fa un certo effetto. Avevo lasciato un’immobile rupe, poggiata sulle proprie lente e marmoree tradizioni, custode del duecentesco duomo gotico che ospita. Anche oggi, a girarla la sera, non ci s’imbatte certo nella folla, ma molte botteghe un tempo aperte, hanno lasciato il posto a griffe, segno dei tempi che cambiano e della necessità di cambiare obiettivo: dalle gite fuori porta alle nuove legioni di turisti russi, giapponesi e cinesi.

Giorno 4: Capatina nel Lazio

Ma prima lunghissima passeggiata mattutina: entriamo nel Duomo a sbirciare da lontano la cappella di San Brizio decorata dagli affreschi di Luca Signorelli, a completo appannaggio dei turisti disposti a pagare un biglietto anche per entrare in un luogo sacro in cui non dovrebbero esserci veti economici. Passiamo poi accanto alla torre campanaria con la sua figura che batte le ore e giunti alla Torre di Maurizio, raggiungiamo l’antica splendida Chiesa paleocristiana di San Giovenale, dove la sera prima avevamo assistito allo svolgimento di una lunga processione proprio a partire dal portale d’ingresso, poco prima di intrattenerci in una delle migliori vinerie della zona: il vincaffè.

Ripartendo, ci capita di passare proprio di fronte ad una delle cantine segnalateci dall’oste, così ci feriamo a Le Velette per acquistare l’ottimo passito “Il raggio”. Entriamo finalmente nel Lazio, e decidiamo di fare tappa a Civita di Bagnoregio, ove al termine di un percorso piuttosto lungo – e oneroso – si materializza la delusione sui nostri volti per una sorta di parco giochi sfruttato ogni limite morale dai commercianti. Non è il paese che muore, in realtà, ma il buon senso di chi da troppo ne sta sfruttando il lato meramente turistico, stipando ristoranti a bar in gran numero in una parte di borgo che invece sarebbe certamente stata da valorizzare in ben altro modo. Così decidiamo di rifarci con Viterbo, ovvero “l’importanza di avere un gran numero di fontane (e di essere stata città papale)”. Città certamente a misura d’uomo, l’antica Vetus Urbs conserva diversi quartieri medievali conservati alla perfezione. Nota come “Città dei Papi”, nel XIII secolo fu sede pontificia e il Palazzo Papale ospitò diversi Papi. La loggia sulla quale affaccia, in piazza San Lorenzo, offre una notevole veduta. Consigliabile sgranocchiare qualcosa di dolce, per i vicoli scoscesi del centro, andate a botta sicura alla Pasticceria Garibaldi. Il giro continua, la meta di oggi sono le Cascate delle Marmore. Costeggiamo dunque Terni e le sue acciaierie, quindi ci inerpichiamo fino al campeggio dal nome omonimo. Appena posati i bagagli nella roulotte che ci ospiterà per la notte, corriamo a scorgere il tratto superiore della caduta che coi suoi tre salti, e un dislivello complessivo di 165 metri, è tra le più alte d’Europa. Osservarla la notte, appena illuminata dal faro, restando impressionati per il fragore dello schianto dell’acqua, fa venire i brividi.

Giorno 5: ibernati la notte

Campeggiare senza riscaldamento a marzo, per di più a 400 metri d’altezza, non è stata una buona idea. Appena svegli, per scaldarsi è consigliabile affrontare il percorso – comunque sia alla portata di tutti – sia in discesa che in salita. Benché non sia poi così lungo, ci si ferma spesso ad ammirare il paesaggio circostante, sullo sfondo sempre la cascata, in modo da poter osservare a seconda dell’altitudine, i suoi tre salti. In un paio di frangenti è addirittura possibile avvicinarvisi di più, e in questo caso un’impermeabile è d’obbligo. Sulla strada per il ritorno, entrando in provincia di Perugia, è doveroso fermarci a Spoleto, città divisa a piani e scale mobili tra il Castello e l’acquedotto, e riunita da Don Matteo di cui non parlerò. Di notevole impatti sono certamente la rocca Albornoziana, e il ponte delle Torri, che al tempo dei romani fungeva da acquedotto. Ad ora di pranzo sostiamo nel minuscolo centro di Fabbri, sulla strada per Montefalco e consumiamo un frugale pranzo di Pasqua con il chianti delle damigiane e pane e cinghiale acquistato il giorno prima. Qui, veniamo a sapere della festa del Sagrantino, vitigno autoctono molto antico, che ogni anno si tiene proprio a Montefalco intorno al periodo pasquale. Così ci rechiamo a fare un sopralluogo e passiamo le ultime ore del nostro viaggio ad assaggiare sagrantini in purezza – vini tosti, che fino agli anni ’80 erano solo consumati come passiti -, sagrantini addomesticati col sangiovese, passiti meravigliosi, tra gente cordiale innamorata del proprio lavoro e dei propri prodotti. La bellezza salverà il mondo, ha scritto qualcuno. Ma la bellezza è nulla se non c’è dietro la passione.



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